C. A me non sovviene che dimandarvi più oltra in questa
diffinizione, laonde passeremo al secondo quesito.
A che si conoscano le lingue
Quesito secondo
V. Le lingue si conoscono da due cose, dal favellarle, e
dall'intenderle.
C. Dichiaratevi alquanto meglio.
V. Delle lingue alcune sono, le quali noi intendiamo, e
favelliamo; alcune, per lo contrario, le quali noi né favelliamo,
né intendiamo; e alcune, le quali noi intendiamo
bene, se non tutte, la maggior parte, ma non già le favelliamo:
perché trovare una lingua la quale noi favelliamo,
e non intendiamo, non si può.
C. Tutto mi piace, ma voi non fate menzione de'
caratteri, cioè delle lettere, ovvero figure, chiamate da
alcuni note, colle quali lingue si scrivono? Non sono
anco queste lettere necessarie, e fanno differenza tra una
lingua, e un'altra?
V. Messer no.
C. Come, Messer no? se una lingua si scrive con
diversi caratteri da quelli d'un'altra lingua, non è ella
differente da quella?
V. Signor no.
C. Se voi non dite altro che, Messer no, e, Signor no,
io mi rimarrò nella mia credenza di prima.
V. Lo scrivere non è della sostanza delle lingue, ma cosa
accidentale, perché la propria, e vera natura delle lingue
è, che si favellino, e non che si scrivano, e qualunche
lingua si favellasse, ancoraché non si scrivesse, sarebbe
lingua a ogni modo, e, se fosse altramente, lingue inarticolate
non sarebbono lingue, come elle sono. Lo scrivere
fu trovato non dalla natura, ma dall'arte, non per
necessità, ma per comodità, conciossiacosaché favellare
non si può, se non a coloro, che sono presenti, e nel tempo
presente solamente, dove lo scrivere si distende e a'
lontani, e nel tempo avvenire, e anco a un sordo si può
utilmente scrivere, ma non già favellare, dico de' sordi
non da natura, ma per accidente; e se le lettere fossero
necessarie, la diffinizione della lingua approvata di sopra
da voi, sarebbe manchevole, e imperfetta, e conseguentemente
non buona, e ne seguirebbe, che così lo scrivere
fosse naturale all'uomo, come è il parlare; la qual cosa è
falsissima.
C. Il Castelvetro dice pure nella divisione, che egli fa
delle lingue, che le maniere di lingua straniera sono due,
una naturale, e l'altra artifiziale, e che la naturale è di due
maniere, una delle quali ha i corpi insieme, e gli accidenti
de' vocaboli della favella propria, e usitata d'un popolo
differente da quei della nostra, ma l'altra ha gli accidenti
soli. E poco di sotto dichiarando sé medesimo, intende
per corpi le vocali, e le consonanti; ma di che ridete voi?
forse perché questa divisione è di sua testa?
V. Cotesto mi darebbe poca noja, anzi maggiormente
ne 'l loderei, né io mi vergognerò di confessarvi
l'ignoranza mia: sappiate, ch'io con tutte quelle sue dichiarazioni
durai delle fatiche a poterla intendere, e anco
non son ben chiaro, se io l'intendo, anzi son chiarissimo
di non intenderla, perché le cose false non sono, e le
cose che non sono, non si possono intendere.
C. Perché?
V. Perché quello, che è nulla, non è niente, e quello,
che è niente non potendo produrre immagine alcuna di
sé, non può capirsi.
C. Dunque voi tenete quella divisione falsa?
V. Non meno che confusa, e sofistica, e fatta solo
(intendete sempre con quella protestazione che io vi feci
di sopra) per aggirare il cervello altrui, e massimamente
a coloro, i quali non sanno più là, come per avventura
sono io, e per potere schifare le ragioni, e l'autorità
allegategli incontra da Messer Annibale; perché, oltra
l'altre cose fuori d'ogni ragione, e verità che al suo luogo
si mostrerranno, egli vuole che la maggior differenza
che possa essere tra una lingua, e un'altra, sia quella
de' corpi, cioè delle lettere, come se le lettere, cioè gli
alfabeti, fossero della natura, e sostanza delle lingue; la
qual cosa è tanto lontana dal vero, quanto quelle che
ne sono lontanissime: e sappiate che io ho molte volte
dubitato che la risposta fatta da lui contra l'Apologia del
Caro, non sia fatta da burla, e per vedere quello che gli
uomini ne dicevano; e se io non dico da vero, pensate voi
di me quello che io penso di lui. Ditemi (vi prego), se
un Fiorentino, o di qualunche altra nazione si vestisse
da Turco, o alla Franzese, sarebbe egli per questo o
Franzese, o Turco?
C. No, ma si rimarrebbe Fiorentino.
V. Così una lingua scritta con quali caratteri, o alfabeti
si voglia, si rimane nella sua natura propria: e chi non sa,
che come ciascuna lingua si può scrivere ordinariamente
con tutti gli alfabeti di tutte le lingue, così con uno alfabeto
solo di qualsivoglia lingua si possono scrivere tutte
l'altre? Ho detto ordinariamente, perché non tutte le
lingue hanno tutti i suoni; chiamo suoni quelli, che i Latini
chiamavano propriamente elementi, perché come la
lingua Latina oltra alcuni altri, non aveva questi suoni,
ovvero elementi, che avemo noi gua, gue, gui, guo, guu,
così la Greca, oltra alcuni altri, mancava di questi, qua,
que, qui, quo, quu; onde erano costretti, volendogli sprimere,
o servirsi delle lettere dell'altrui lingue, o volendogli
pure scrivere con quelle della loro, ridurgli, il meglio
che potevano, e adattargli i Latini alla Latina, e i Greci
alla Greca, e naturale pronunzia loro.
C. Non si conoscono ancora le lingue agli accenti, cioè
al suono della voce, e al modo del profferirle?
V. Io vi dissi pur testé, allegandovi l'esempio di Teofrasto,
che le pronunzie mostrano la differenza, che è
tra coloro, che favellano naturalmente le lor lingue natie,
e coloro, che favellano l'altrui accidentalmente; ma
per questo non è, che una medesima lingua eziandio da
coloro che vi sono nati dentro, non si possa diversamente
profferire; come avverrebbe a chi fosse stato lungo tempo
dalla sua patria lontano, delle quali cose (come vi dissi)
non si posson dar regole stabili, e ferme.
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