C. Ditemi dunque, per lo primo quesito, che cosa
Lingua sia.
Che cosa sia lingua
Quesito primo
V. Lingua, ovvero Linguaggio, non è altro che un favellare
d'uno, o più popoli, il quale, o i quali usano, nello sprìmere
i loro concetti, i medesimi vocaboli nelle medesime
significazioni, e co' medesimi accidenti.
C. Perché dite voi d'un popolo?
V. Perché, se parecchi amici, o una compagnia, quantunche
grande, ordinassero un modo di favellare tra loro,
il quale non fosse inteso, né usato, se non da sé medesimi,
questo non si chiamerebbe lingua, ma gergo, o in alcuno
altro modo, come le cifere non sono propriamente
scritture, ma scritture in cifera.
C. Perché dite di più popoli?
V. Perché egli è possibile, che più popoli usino una
medesima lingua, se non naturalmente, almeno per accidente,
come avvenne già della Latina, e oggi avviene
della Schiavona, e di molte altre.
C. Perché v'aggiugnete voi nello sprimere i concetti
loro?
V. Per ricordarvi, che il fine del favellare è sprimere i
suoi concetti mediante le parole.
C. Perché dite voi i medesimi vocaboli, senza eccezione
alcuna, e non quasi, o comunemente i medesimi vocaboli?
Se un Fiorentino, verbigrazia, usasse nel suo favellare
una, o due, o ancora più parole, le quali non fossino
Fiorentine, ma straniere, resterebbe per questo ch'egli
non favellasse in Fiorentino?
V. Resterebbe, e non resterebbe; resterebbe, perché
in quella una, o due, o più parole, le quali non fossono
Fiorentine, egli sarebbe barbaro, e barbaramente, non
Fiorentinamente favellerebbe; non resterebbe, perché in
tutte l'altre parole, da quelle in fuori, sarebbe Fiorentino,
e Fiorentinamente favellerebbe.
C. Dunque un povero forestiero il quale con lungo studio,
e fatica avesse apparato la lingua Fiorentina, o quale
si voglia altra, se poi nel favellare gli venisse uscita di
bocca una parola sola, la quale Fiorentina non fosse, egli
sarebbe barbaro, e non favellerebbe Fiorentinamente?
V. Sarebbe senza dubbio in quella parola sola, ma
non per questo si direbbe che egli in tutto il restante
Fiorentinamente non favellasse: e Cicerone medesimo,
che fu non eloquente, ma l'eloquenza stessa, se avesse
usato una parola sola, la quale Latina stata non fosse,
sarebbe stato barbaro in quella lingua, infinattantoché
quella cotal parola non fosse stata ricevuta dall'uso, o
altra cagione non l'avesse fatta tollerabile, e bene spesso
laudabile.
C. Se il fine del favellare è manifestare i suoi concetti,
io crederrei che dovesse bastare a chi favella essere inteso,
e a chi ascolta, intendere, senza andarla tanto sottilizzando.
V. Quanto al fine del favellare non ha dubbio, che
basta l'intendere, e l'essere inteso, ma non basta già
quanto al favellare correttamente, e leggiadramente in
una lingua, che è quello che ora si cerca, per non dir
nulla, che quella, o quelle parole potrebbono esser tali,
che voi non l'intendereste, come se fossero Turche, o
d'altra lingua non conosciuta da voi, onde così il parlare,
come l'ascoltare, verrebbero a essere indarno.
C. Io non intendeva di coteste, ma di quelle parole
che si favellano comunemente per l'Italia, e sono intese
ordinariamente da ognuno, e nondimeno chi l'usa, è
ripreso, o biasimato da i professori della lingua, i quali
dicono, che elle non sono Toscane, o Fiorentine.
V. Quando, come, dove, perché, e da chi si possano,
o si debbano usare, non solamente quelle parole, che
s'intendono, ma eziandio quelle le quali non s'intendono,
si farà manifesto nel luogo suo, perché voglio, che procediamo,
per non ci confondere, distintamente, e con ordine. Bastivi per ora sapere, che coloro in tutte le lingue
meritano maggior lode, i quali più agevolmente si fanno
intendere.
C. Io non disidero altro, se non che si proceda (come
solete dir voi) metodicamente, cioè con modo, e con
ragione, ovvero con ordine, e regola, e però tornando
alla diffinizione della lingua, perché vi poneste voi quelle
parole, nelle medesime significazioni?
V. Perché molti sono quei vocaboli, i quali significano
in una lingua una cosa, e in un'altra un'altra tutta da
quella diversa; intantoché io per me non credo, che si
ritruovi voce nessuna in verun luogo, la quale in alcuna
lingua non significhi qualche cosa.
C. Che vogliono importare quelle parole, e co' medesimi
accidenti? e quali sono questi accidenti?
V. Molte cose si disiderano così ne' nomi, come ne'
verbi, e nell'altre parti dell'orazione, ovvero del favellare,
le quali da' gramatici si chiamano Accidenti, come sono
ne i nomi le declinazioni, e i generi, e ne' verbi le congiugazioni,
e le persone, e in amenduni i numeri, e altre
così fatte cose.
C. In coteste parole, e in altre così fatte cose, comprendetevi
voi gli accenti?
V. Comprendo, sebbene gli accenti non sono propriamente
passioni de' nomi, o de' verbi, ma di ciascuna sillaba
indifferentemente.
C. Io intendo per accenti non tanto il tuono delle voci,
il quale ora l'alza, e ora l'abbassa, secondo che è o acuto,
o grave, ma ancora il tuono, cioè il modo, e la voce colla
quale si profferiscono, e brevemente la pronunzia stessa;
la quale vorrei sapere se si dee considerare nelle lingue
per mostrarle o simili, o diverse l'una dall'altra.
V. La pronunzia è di tanto momento nella differenza
delle lingue, che Teofrasto, il quale (come ne dimostra il
suo nome) favellava divinamente nella lingua Attica, fu
conosciuto da una donnicciuola che vendeva l'insalata in
Atene, per non Ateniese, la quale, dimandata da lui del
pregio di non so che cosa, gli rispose: Forestiero, io non
posso darla per manco; e ardirei di dire, che non pure tutte
le città hanno diversa pronunzia l'una dall'altra, ma
ancora tutte le castella, anzi chi volesse sottilmente considerare,
come tutti gli uomini hanno nello scrivere differente
mano l'uno dall'altro, così hanno ancora differente
pronunzia nel favellare; onde non so come si possa
salvare il Trissino, quando dice nel principio della sua
Epistola a Papa Clemente: Considerando io la pronunzia
Italiana; favellando non altramente, che se tutta Italia
dall'un capo all'altro avesse una pronunzia medesima, o
se le lettere che egli voleva aggiugnerle, fossero insieme
coll'altre state bastanti a sprimere, e mostrare la diversità
delle pronunzie delle lingue d'Italia, cosa non solo impossibile,
ma ridicola, come se (lasciamo stare la Cicilia)
ma Genova non fosse in Italia, la cui pronunzia è tanto
da tutte l'altre diversa, che ella scrivere, e dimostrare
con lettere non si può; né perciò vorrei che voi credeste,
che tutte le diversità delle pronunzie dimostrassero necessariamente,
e arguissono diversità di lingua, ma quelle
sole che sono tanto varie da alcuna altra, che ciascuno
che l'ode, conosce manifestamente la diversità; delle
quali cose certe, e stabili regole dare non si possono, ma
bisogna lasciarle in gran parte alla discrezione de' giudiziosi,
nella quale elle consistono per lo più.
|