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CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

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Bruto Secondo

Di: Vittorio Alfieri

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ATTO SECONDO

 

 

SCENA PRIMA

 

Cicerone, Cimbro.

 

 

CICERONE

Securo asilo, ove di Roma i casi

trattar, non resta, altro che questo...

CIMBRO

Ah! poco

ne resta a dir; solo ad oprar ne avanza.

In tuo nome invitati ho Cassio e Bruto

a qui venirne; e qui saranno in breve.

Nulla indugiar, fia il meglio; al sol novello

corre (ahi pur troppo!) il suo periglio estremo

la patria nostra.

CICERONE

È ver, che indugio nullo

piú non ponendo egli al disegno iniquo,

la baldanza di Cesare secura

ogni indugio a noi toglie. Altro ei non vuole,

che un esercito in armi; or, che convinto

per prova egli è, che della compra plebe

può men l'amore in suo favor, che il fero

terror di tutti. Ei degli oltraggi nostri

ride in suo cor; gridar noi lascia a vuoto:

pur che l'esercito abbia: e n'ha certezza

dalle piú voci, che in senato ei merca.

Di libertá le nostre ultime grida

scontar faranne al suo ritorno ei poscia

I romani guerrieri ai Parti incontro

guida ei, per dar l'ultimo crollo a Roma,

come a lei diè, del Reno in riva, i primi.

Tropp'oltre, troppo, è omai trascorso: or tempo,

anch'io il confesso, all'indugiar non havvi.

Ma, come il de' buon cittadino, io tremo:

rabbrividisco, in sol pensar, che forse

da quanto stiam noi per risolver, pende

il destino di Roma.

CIMBRO

Ecco venirne

Cassio ver noi.

 

SCENA SECONDA

 

Cassio, Cicerone, Cimbro.

 

CASSIO

Tardo venn'io? Ma pure,

non v'è per anco Bruto.

CIMBRO

In breve, ei giunge.

CASSIO

Me qui seguir volean molti de' nostri:

ma i delatori, in queste triste mura,

tanti son piú che i cittadini omai,

che a tormi appieno ogni sospetto, io volli

solo affatto venirne. Alla severa

virtú di Cimbro, e del gran Tullio al senno,

e all'implacabil ira mia, sol basti

aggiunger ora la sublime altezza

dello sdegno di Bruto. Altro consiglio

puossi unir mai, meglio temprato, ed atto

quindi a meglio adoprarsi a pro di Roma?

CICERONE

Deh, pur cosí voglian di Roma i Numi!

Io, quant'è in me, presto a giovar di tutto

sono alla patria mia: duolmi, che solo

debile un fiato di non verde etade

mi resti a dar per essa. Omai, con mano

poco oprar può la consunta mia forza;

ma, se con lingua mai liberi audaci

sensi, o nel foro, o nel senato, io porsi;

piú che il mai fossi, intrepid'oggi udrammi

Roma tuonar liberi accenti: Roma,

a cui, se estinta infra suoi ceppi or cade,

né sopravviver pur d'un giorno, io giuro.

 

CASSIO

Vero orator di libertá tu sempre

eri, e sublime il tuo parlar, fea forza

a Roma spesso: ma, chi omai rimane

degno di udirti? Od atterriti, o compri

son tutti omai; né intenderebber pure

sublimi tuoi sensi...

CICERONE

Il popol nostro,

benché non piú romano, è popol sempre:

e sia ogni uomo per sé, quanto piú il puote,

corrotto e vile, i piú si cangian, tosto

che si adunano i molti: io direi quasi,

che in comun puossi a lor prestar nel foro

alma tutt'altra, appien diversa in tutto,

da quella c'ha fra i lari suoi ciascuno.

Il vero, il falso, ira, pietá, dolore,

ragion, giustizia, onor, gloria per anco;

affetti son, che in cor si ponno

destar d'uomini molti (quai ch'ei sieno)

dall'uom che in cor, come fra' labri, gli abbia

tutti davvero. Ove pur vaglian detti

forti, liberi, ardenti, io non indarno

oggi salir spero in ringhiera; e voglio

ivi morir, s'è d'uopo. - Al poter rio

di quel Cesare stesso, onde or si trema,

quale origine base ei stesso dava?

La opinion dei piú. Col brando ei doma,

le Gallie, è ver; ma con la lingua ei doma,

coi lusinghieri artificiosi accenti,

le sue legion da prima, e in parte poscia

il popol anco: ei sol, né spegner tutti,

né comprar tutti allor potea: far servi

ben tutti or può quei che ingannati ha pria.

E noi del par con lingua non potremmo

disingannare, illuminar, far sani,

e gl'intelletti e i cuori? Infra il mio dire,

e il favellar del dittator tiranno,

sta la forza per lui, per me sta il vero:

se mi si presta orecchio, ancor pur tanto

mi affido io, sí, nel mio sublime tema,

ch'armi non curo. A orecchi e cor, giá stati

romani un dí, giunger può voce ancora,

che romani per breve almen li torni.

Svelato appien, Cesare vinto è appieno.

CIMBRO

Dubbio non v'ha: se ti ascoltasse Roma,

potria il maschio tuo dir tornarla in vita:

ma, s'anco tu scegliessi, generoso,

di ascender solo, e di morir su i rostri,

ch'or son morte a chi il nome osa portarvi

di libertá; s'anco tu sol ciò ardissi;

tolto pur sempre dalle infami grida

di prezzolata vil genía ti fora,

l'esser udito. Ella omai sola tiene

del foro il campo, e ogni dritt'uom sbandisce.

Non è piú al Tebro Roma: armi, e virtudi,

e cittadini, or ricercar si denno

nelle estreme provincie. A guerra aperta

duro assai troppo è il ritornar; ma pace

pur non è questa. I pravi umor, che tanti

tra viva e morta opprimon Roma, è forza

(pur troppo!) ancor col sangue ripurgarli.

Romano al certo era Catone; e il sangue

dei cittadini spargere abborriva;

pur, quel giusto de' giusti anco il dicea:

«Dall'armi nata, e omai dall'armi spenta,

non può riviver che dall'armi, Roma».

Ch'altro a far ne rimane? O Roma è vinta,

e con lei tutti i cittadin veraci

cadono; o vince, e annichiliti spersi

sono, o cangiati, i rei. Cesare forse

la vittoria allacciò? sconfitto ei venga

solo una volta; e la sua stessa plebe,

convinta che invincibile ei non era,

conoscerallo allora; a un grido allora

tutti ardiran tiranno empio nomarlo,

e come tal proscriverlo.

CASSIO

Proscritto

perché non pria da noi? Da un popol vile

tal sentenza aspettiam, qualor noi darla,

quando eseguirla il possiam noi primieri?

Fin che ad arbitrio nostro, a Roma in mezzo,

entro a sue case, infra il senato istesso,

possiam combatter Cesare, e compiuta

noi riportarne palma; in campo, a costo

di tante vite della sua men empie,

a pugna iniqua ei provocar dovrassi,

e forse per non vincerlo? Ove un brando,

questo mio solo, e la indomabil ira

che snudar mel fará, bastano, e troppo

fiano, a troncar quella sprezzabil vita,

che Roma or tutta indegnamente in pianto

tiene allacciata e serva; ove non altro

a trucidar qual sia il tiranno vuolsi,

che solo un brando, ed un Roman che il tratti;

perché, perché, tanti adoprarne? - Ah! segga

altri a consiglio, e ponderi, e discúta,

e ondeggi, e indugi, infin che manchi il tempo:

io tra i mezzi il miglior stimo il piú breve:

or piú, di tanto, che il piú breve a un tratto

fia 'l piú ardito, il piú nobile, il piú certo.

Degno è di Roma il trucidar quest'uno

apertamente; e di morir pur merta,

di man di Cassio, Cesare. All'altrui

giusto furor lascio il punir l'infame

servo-console Antonio. - Ecco, vien Bruto:

udiam, udiam, s'ei dal mio dir dissenta.

 

SCENA TERZA

 

Bruto, Cicerone, Cassio, Cimbro.

 

CICERONE

Sí tardo giunge a cotant'alto affare

Bruto?...

BRUTO

Ah! primiero io vi giungea, se tolto

finor non m'era...

CIMBRO

E da chi mai?

BRUTO

Pensarlo,

nullo il potria di voi. Parlarmi a lungo

volle Antonio finora.

CICERONE

Antonio?

CASSIO

E il vile

satellite di Cesare otteneva

udienza da Bruto?

BRUTO

Ebbela, e in nome

del suo Cesare stesso. Egli abboccarsi

vuol meco, ad ogni patto: a lui venirne

m'offre, s'io il voglio; o ch'egli a me...

CIMBRO

Certo, ebbe

da te ripulsa...

BRUTO

No. Cesare amico,

al cor mio schietto or piú terror non reca,

che Cesare nemico. Udirlo io quindi

voglio, e fra breve, e in questo tempio stesso.

BRUTO

Ma, che mai vuol da te?

CASSIO

Comprarmi; forse.

Ma in Bruto ancor, voi vi affidate, io spero.

CASSIO

Piú che in noi stessi.

CIMBRO

Affidan tutti in Bruto;

anco i piú vili.

BRUTO

E a risvegliarmi, in fatti,

(quasi io dormissi) infra' miei passi io trovo

disseminati incitatori avvisi:

brevi, forti, romani; a me di laude

e biasmo in un, come se lento io fossi

a ciò che vuol Roma da me. Nol sono;

ed ogni spron mi è vano.

CASSIO

Ma, che speri

dal favellar con Cesare?...

CICERONE

Cangiarlo

tu speri forse...

BRUTO

E piacemi, che il senno

del magnanimo Tullio, al mio disegno

si apponga in parte.

CASSIO

Oh! che di' tu? Noi tutti,

lungamente aspettandoti, qui esposto

abbiamo a lungo il parer nostro: un solo

fummo in Cesare odiar, nell'amar Roma,

e nel voler morir per lei: ma fummo

tre diversi nel modo. Infra il tornarne

alla civile guerra; o il popol trarre

d'inganno, e all'armi; o col privato ferro

svenar Cesare in Roma; or di', qual fora

il partito di Bruto?

BRUTO

Il mio? - Nessuno,

per or, di questi. Ove fia vano poscia

il mio, scerrò pur sempre il terzo.

CASSIO

Il tuo?

E qual altro ne resta?

BRUTO

A voi son noto:

parlar non soglio invan: piacciavi udirmi. -

Per sanarsi in un giorno, inferma troppo

è Roma ormai. Puossi infiammar la plebe,

ma per breve, a virtú; che mai coll'oro

non si tragge al ben far, come coll'oro

altri a viltá la tragge. Esser può compra

la virtú vera, mai? Fallace base

a libertá novella il popol guasto

sarebbe adunque. Ma, il senato è forse

piú sano? annoverar si pon gli schietti;

odian Cesare in core i rei pur anco,

non perch'ei toglie libertade a tutti

ma perché a lor, tiranno unico, ei toglie

d'esser tiranni. A lui succeder vonno;

lo abborriscon perciò.

CICERONE

Cosí non fosse

come vero è, pur troppo!

BRUTO

 

Ir cauto il buono

cittadin debbe, infra bruttura tanta,

per non far peggio. Cesare è tiranno;

ma non sempre lo è stato. Il vil desio

d'esser pieno signore, in cor gli sorge

da non gran tempo: e il vile Antonio, ad arte,

inspirando gliel va, per trarlo forse

a sua rovina, e innalzar sé sovr'esso.

Tali amici ha il tiranno.

CASSIO

Innata in petto

la iniqua brama di regnar sempr'ebbe

Cesare...

BRUTO

No; non di regnar: mai tanto

non osava ei bramare. Or tu l'estimi

piú grande, e ardito, che nol fosse ei mai.

Necessitá di gloria, animo ardente,

anco il desir non alto di vendetta

dei privati nemici, e in fin piú ch'altro,

l'occasion felice, ivi l'han spinto,

dove giunge ora attonito egli stesso

del suo salire. Entro il suo cuor può ancora

desio d'onor, piú che desio di regno.

Provar vel deggio? Or, non disegna ei forse

d'ir contra i Parti, e abbandonar pur Roma,

ove tanti ha nemici?

CIMBRO

Ei mercar spera

con l'alloro dei Parti il regio serto.

BRUTO

Dunque a virtú, piú assai che a forza, ei vuole

del regio serto esser tenuto: ei dunque

ambizioso è piú che reo...

CASSIO

Sue laudi

a noi tu intessi?...

BRUTO

Udite il fine. - Ondeggia

Cesare ancora infra se stesso; ei brama

la gloria ancor; non è dunqu'egli in core

perfetto ancor tiranno: ma, ei comincia

a tremar pure, e finor non tremava;

vero tiranno ei sta per esser dunque.

Timor lo invase, ha pochi dí, nel punto

che il venduto suo popolo ei vedea

la corona negargli. Ma, qual sia,

non è sprezzabil Cesare, né indegno

ch'altri a lui schiuda al ravvedersi strada.

Io per me deggio, o dispregiar me stesso,

o lui stimar; poiché pur volli a lui

esser tenuto io della vita, il giorno

ch'io ne' campi farsalici in sue mani

vinto cadeva. Io vivo; e assai gran macchia

è il mio vivere a Bruto; ma saprolla

io scancellar, senza esser vil, né ingrato.

CICERONE

Dell'armi è tal spesso la sorte: avresti

tu, se il vincevi, la vittoria seco

pure usata cosí. Non ebbe in dono

Cesare stesso anch'ei sua vita, a Roma

or sí fatale? in don la vita anch'egli,

per grazia espressa, e vieppiú espresso errore,

non ricevea da Silla?

BRUTO

È vero; eppure

mai non mi scordo i beneficj altrui:

ma il mio dover, e la mia patria a un tempo,

in cor ben fitti io porto. A Bruto, in somma,

Cesare è tal, che dittator tiranno,

(qual è, qual fassi ogni dí piú) nol vuole

Bruto lasciare a patto nullo in vita;

e vuol svenarlo, o esser svenato ei stesso...

Ma, tale in un Cesare a Bruto appare,

che libertade, e impero, e nerbo, e vita

render, per ora, ei solo il puote a Roma,

s'ei cittadin ritorna. È della plebe

l'idolo giá; norma divenga ai buoni;

faccia de' rei terrore esser le leggi:

e, finché torni al prisco stato il tutto,

dal disfar leggi al custodirle sia

il suo poter converso. Ei d'alti sensi

nacque; ei fu cittadino: ancor di fama

egli arde: è cieco, sí; ma tal lo han fatto

sol la prospera sorte, e gli empj amici,

che fatto gli hanno della gloria vera

l'orme smarrire. O che il mio dire è un nulla;

o ch'io parole sí incalzanti e calde

trar dal mio petto, e sí veraci e forti

ragion tremende addur saprogli, e tante,

ch'io sí, sforzar Cesare spero; e farlo

grande davvero, e di virtú sí pura,

ch'ei sia d'ogni uom, d'ogni Romano, il primo;

senza esser piú che un cittadin di Roma.

Sol che sua gloria a Roma giovi, innanzi

io la pongo alla mia: ben salda prova

questo disegno mio, parmi, saranne. -

Ma, se a Cesare or parla indarno Bruto,

tu il vedi, o Cassio con me sempre io 'l reco;

ecco il pugnal, ch'a uccider lui fia ratto,

piú che il tuo brando...

CICERONE

Oh cittadin verace!

Grande sei troppo tu; mal da te stesso

tu puoi conoscer Cesare tiranno.

CASSIO

Sublime Bruto, una impossibil cosa,

ma di te degna, in mente volgi; e solo

tentarla puoi. Non io mi oppongo: ah! trarti

d'inganno appien, Cesare solo il puote.

CIMBRO

Far d'un tiranno un cittadino? O Bruto,

questa tua speme generosa, è prova

ch'esser tu mai tiranno non potresti.

BRUTO

Chiaro in breve fia ciò: d'ogni oprar mio

qui poi darovvi pieno conto io stesso. -

Ov'io vano orator perdente n'esca,

tanto piú acerbo feritor gagliardo

a' cenni tuoi, Cassio, mi avrai; tel giuro.

 


 


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Edizione HTML a cura di: mail@debibliotheca.com
Ultimo Aggiornamento:
14/07/2005 22.26

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