Canto
secondo
(109-135)
109
Cagion
de la sua pena
l’era aviso
che
fosse, com’avea
visto l’effetto,
il
tener l’occhio
tuttavia pur fiso,
e
l’animo ostinato
in uno oggetto;
ma
quando avesse
l’amor suo
diviso
fra
molti e molti,
arderia manco il
petto:
se
l’un fosse per
trarla in pena e
in noia,
cento
serian per
ritornarla in
gioia.
110
Di
quel paese poi
fatta regina,
che
venne a lungo
andar pieno e
frequente,
perché
ammirando ognun
l’alta dottrina
le
facea omaggio
volontariamente;
nuova
religione e
disciplina
instituì,
da ogn’altra
diferente:
che,
senza nominar
marito o moglie,
tutti
empìano sossopra
le sue voglie.
111
E
de li dieci giorni
aveva usanza
di
ragunarsi il
populo gli sei,
femine
e maschi, tutti in
una stanza,
confusamente
i nobili e i
plebei:
in
questa dimandavan
perdonanza
d’ogni
gaudio intermesso
agli lor Dei,
ch’era
a guisa d’un
tempio fabricata
di
vari marmi, e di
molt’oro ornata.
112
Finita
l’orazion,
facean due stuoli,
da
un lato l’un, da
l’altro
l’altro sesso;
indi
levati i lumi, a
corsi e a voli
venian
al nefandissimo
complesso;
e
meschiarsi le
madri coi
figliuoli,
con
le sorelle i frati
accadea spesso:
e
quella usanza,
ch’ebbe inizio
allora,
tra
gli Boemi par che
duri ancora.
113
Deh!
perché quando, o
figlia del re Oeta,
o
d’Atene o di
Media tu fuggisti,
deh!
perché a far
l’Italia nostra
lieta
con
sì gioconda
usanza non
venisti?
Ogni
mente per te seria
quieta,
senza
cordoglio e senza
pensier tristi;
e
quella gelosia che
sì tormenta
gli
nostri cor, serìa
cacciata e spenta.
114
Oh
come, donne,
miglior parte
avreste
d’un
dolce, almo
piacer, che non
avete!
Dove
voi digiunate, e
senza feste
fate
vigilie in molta
fame e sete,
tal
satolle e sì
fatte prendereste,
che
grasse vi vedrei
più che non sete.
Ma
bene io stolto a
porre in voi
desire
da
farvi, per gir
là, da noi
fuggire!
115
Visse
più d’una età
leggiadra e bella,
regina
di quei populi,
Medea;
ch’ad
ogni suo piacer si
rinovella,
e
da sé caccia ogni
vecchiezza rea;
e
questo per virtù
d’un bagno
ch’ella
per
incanto nel bosco
fatto avea;
al
qual, perché
nissun altro
s’accosti,
avea
mille demoni a
guardia posti.
116
Questa
fata del populo
boemme
ebbe
per tanti secoli
governo,
che
‘l tempo si
potria segnar con
l’emme,
e
quasi credea ognun
che fosse eterno:
ma
poi che a partorir
in Bettelemme
Maria
venne il figliuol
del Re superno;
quivi
regnare non poté,
o non volse,
e
di vista degli
uomini si tolse.
117
E
ne l’antiqua
selva, fra la
torma
de
li demoni suoi
tornò a celarsi,
dove
ogni ottavo dì
sua bella forma
in
bruttissima serpe
avea a mutarsi.
Per
questa opinion,
vestigio et orma
di
piede uman nissun
potea trovarsi
inanzi
a questo dì di
ch’io vi parlo,
che
l’aurea fiamma
alzò in Boemia
Carlo.
118
L’imperador
commanda che dal
piede
taglin
le piante a lor
bisogno et uso:
l’esercito
non osa, perché
crede,
da
lunga fama e vano
error deluso,
che
chi ferro alza
incontra il bosco,
fiede
sé
stesso e more, e
ne l’inferno
giuso
visibilmente
in carne e in ossa
è tratto,
o
resta cieco o
spiritato o
attratto.
119
Carlo,
fatta cantar una
solenne
messa
da l’arcivescovo
Turpino,
entra
nel bosco, et alza
una bipenne,
e
ne percuote un
olmo più vicino:
l’arbor,
che tanta forza
non sostenne,
ché
Carlo un colpo
fe’ da paladino,
cadde
in duo tronchi,
come fu percosso;
e
sette palmi era
d’intorno
grosso!
120
Chi
si ricorda il dì
di san Giovanni,
che
sotto Ercole o
Borso era sì
allegro?
che
poi veduto non
abbian
molt’anni,
come
né ancora altro
piacere integro,
di
poi che cominciar
gli assidui
affanni
dei
quali è in tutta
Italia ogni core
egro:
parlo
del dì che si
facea contesa
di
saettar dinanzi
alla sua chiesa.
121
Quel
dì inanzi alla
chiesa del
Battista
si
ponean tutti i
sagittari in
schiera;
né
colpo uscia fin
ch’al bersaglio
vista
la
saetta del
principe non era;
poi
con la nobiltà la
plebe mista
l’aria
di frecce a gara
facea nera:
così
ferito ch’ebbe
il bosco Carlo,
fu
presto tutto il
campo a
seguitarlo.
122
Sotto
il continuo suon
di mille accette
trema
la terra, e par
che ‘l ciel
ribombi;
or
quella pianta or
questa in terra
mette
il
capo, e rompe
all’altre
braccia e lombi.
Fuggon
da’ nidi lor
guffi e civette,
che
vi son più che
tortore o colombi;
e,
con le code fra le
gambe, i lupi
lascian
l’antiche
insidie e i lochi
cupi.
123
Per
la molta bontà
ch’era in
effetto
e
vera in Carlo, non
mendace e fata,
fu
sì la forza al
diavol maledetto
da
l’aiuto di Dio
quivi rispinta,
ch’a
lui non nocque,
né, per suo
rispetto,
a
chi s’avea per
lui la spada
cinta:
sì
che mal grado de
l’inferno tutto
alli
demoni il nido era
distrutto.
124
Un
fremito, qual suol
da l’irate onde
del
tempestoso mar
venir a’ lidi,
cotal
si udì fra le
turbate fronde,
meschio
di pianti e
spaventosi gridi;
indi
un vento per
l’aria si
difonde
che
ben appar che
Belzebù lo guidi:
ma
né per questo
avvien ch’al
saldo e fermo
valor
di Carlo abbia la
selva schermo.
125
Cade
l’eccelso pin,
cade il funebre
cipresso,
cade il venenoso
tasso,
cade
l’olmo atto a
riparar che
l’ebre
viti
non giaccian
sempre a capo
basso;
cadono,
e fan cadendo le
latebre
cedere
agli occhi et alle
gambe il passo:
piangon
sopra le mura i
Pagan stolti,
vedendo
alli lor Dei gli
seggi tolti.
126
Alcun
dentro ne gode,
ché n’aspetta
di
veder sopra a
Carlo e tutti i
Franchi
scender
dal ciel così
dura vendetta
ch’a
sepelirli il
populo si stanchi.
Com’è
troncato un arbore,
si getta
nel
fiume ch’alla
selva bagna i
fianchi;
e
quello, ubidiente,
ai corni sopra
lo
porta al loco
ov’è poi messo
in opra.
127
In
questo tempo avea
l’iniquo Gano,
per
dar a Carlo in
ogni parte briga,
composto
il re d’Arabia e
il Soriano
col
Calife d’Egitto
in una liga;
e
dopo il colpo, per
celar la mano,
in
guisa d’uom che
conscienza instiga,
per
voto a cui già
s’obligasse
inanti,
era
andato al
Sepolcro, ai
Luoghi santi.
128
Quivi
da Sansonetto
ricevuto,
che
da Carlo in
governo avea la
terra,
era
stato alcun
giorno, e poi
venuto
verso
Costantinopoli per
terra;
dove
certa notizia
avendo avuto
di
Carlo che in
Boemia facea
guerra,
s’era
voltato, per la
dritta via
di
Servia e di
Belgrado, in
Ungheria.
129
Ritrovò,
essendo già
Filippo morto,
aver
il regno un figlio
d’Otacchiero,
che
come l’avol
dritto, così ei
torto
ebbe
l’animo sempre
da lo Impero.
Gano
gli venne in tempo
a dar conforto,
ch’era
pel re di Francia
in gran pensiero,
del
qual nimico
discoperto s’era
per
la causa del duca
di Baviera:
130
e
molto si dolea di
Tassillone
ch’avesse
senza lui fatta la
pace,
di
che il Boemme e
l’Ungaro e il
Sassone
restava
in preda alla
francesca face.
Avea
d’aiutar Praga
intenzione,
ma
de lo assunto si
vedea incapace:
impossibil
gli par che in
così breve
tempo
far possa quel
ch’in ciò far
deve.
131
Ma
se lo assedio si
potea produrre,
se
potea andar in
lungo ancora un
mese,
tanta
gente era certo di
condurre,
oltre
il soccorso che
daria il paese,
che
i gigli d’or ne
le bandiere
azzurre
quivi
restar faria con
l’altro arnese:
ma
s’ora andasse,
non farebbe
effetto
se
non d’attizzar
Carlo a più
dispetto.
132
Gano
promesse che
farebbe ogn’opra
che
Praga ancor un
mese si terrebbe;
e
poi che molto han
ragionato sopra
quanto
far ciascun
d’essi in questo
debbe,
parte
Gano da Buda, e
tra via adopra
lo
‘ngegno che
molt’atto a
tradire ebbe:
va
da Strigonia in
Austria, indi si
tiene
a
destra mano et in
Boemia viene.
133
Il
peregrino di
Gerusalemme,
con
quanti avea
condotti a’ suoi
servigi,
umilmente,
senza oro e senza
gemme
ma
di panni vestiti
grossi e bigi,
nel
campo tolto al
popolo boemme
baciò
la mano al buon re
di Parigi,
ch’avendolo
raccolto ne le
braccia,
di
qua e di là gli
ribaciò la
faccia.
134
Era
inclinato di
natura molto
a
Gano Carlo, e ne
facea gran stima,
e
poche cose fatte
avria, che tolto
il
suo consiglio non
avesse prima;
com’ogni
signor quasi in
questo è stolto,
che
lascia il buono et
il piggior
sublima;
né,
se non fuor del
stato, o dato in
preda
degli
inimici, par che
‘l suo error
veda.
135
Per
non saper dal
finto il vero
amico
scernere,
in tal error
misero incorre.
Di
questo vi potrei,
ch’ora vi dico,
più
d’un esempio
inanzi agli occhi
porre;
e
senza ritornar al
tempo antico,
n’avrei
più d’uno a
nostra età da
tòrre:
ma
se più verso a
questo Canto
giungo,
temo
vi offenda il suo
troppo esser
lungo.

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