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CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

I Cinque canti

Di: Luodovico Ariosto


Canto terzo  

(1-28)

1

D’ogni desir che tolga nostra mente

dal dritto corso et a traverso mande,

non credo che si trovi il più possente

né il più commun di quel de l’esser grande:

brama ognun d’esser primo, e molta gente

aver dietro e da lato, a cui commande;

né mai gli par che tanto gli altri avanzi,

che non disegni ancor salir più inanzi.

2

Se questa voglia in buona mente cade

(ch’in buona mente ha forza anco il desire),

l’uom studia che virtù gli apra le strade,

che sia guida e compagna al suo salire:

ma se cade in ria mente (ché son rade

che dir buone possiam senza mentire),

indi aspettar calunnie, insidie e morte,

et ogni mal si può di piggior sorte.

3

Gano, non gli bastando che maggiore

non avea alcuno in corte, eccetto Carlo,

era tanto insolente, che minore

lui vorria ancora, e avea disio di farlo;

et or che sopranatural favore

si sentia da colei che potea darlo,

oltra il desir avea speme e disegno

fra pochi giorni d’occupargli il regno.

4

E pur che fosse il suo desir successo,

non saria dal fellon, senza rispetto

che tra gli primi suoi baroni messo

Carlo l’avea di luogo infimo e abietto,

stato ferro né tòsco pretermesso,

né scelerato alcun fatto né detto;

e mille al giorno, non che un tradimento,

ordito avria per conseguir suo intento.

5

Carlo tutto il successo de la guerra

narrò senza sospetto al Maganzese,

e gli mostrò ch’avria in poter la terra

prima ch’a mezo ancor fosse quel mese.

Questo nel petto il traditor non serra,

ma tosto a Cardoran lo fa palese;

e per un suo gli manda a dar consiglio

come possa schifar tanto periglio.

6

Da quella volpe il re boeme instrutto,

mandò un araldo in campo l’altro giorno,

che così disse a Carlo, essendo tutto

corso ad udir il populo d’intorno:

 Il mio signor, da la tua fama indutto,

o imperador d’ogni virtute adorno,

per crudeltà non pensa né avarizia

ch’abbi raccolto qui tanta milizia;

7

né che tu metta il fin di tua vittoria

in averli la vita o il stato tolto,

ma solo in aver vinto; ché tal gloria

più che sua morte o che ‘l suo aver val molto

acciò che il nome tuo ne la memoria

del mondo viva e mai non sia sepolto:

ché contra ogni ragion saresti degno,

come tu sei, se fessi altro disegno.

8

Ma tu non guardi fosse che l’effetto

tutto contrario appar a quel che brami:

tu brami d’esser glorioso detto,

e con l’effetto tuttavia t’infami.

Che tu sia entrato nel nostro distretto

con cento mille armati, gloria chiami;

ma quanto ella sia grande estimar déi,

che noi siamo a fatica un contra sei.

9

Milziade e Temistocle converse

a parlar in suo onor tutte le genti,

perché con pochi armati, questi erse,

quel vinse Dario, in terra e in mar possenti.

Vincer pochi con molti, mai tenerse

non sentisti fra l’opere eccellenti.

S’in te è valor, pon giù il vantaggio, e poi

vien alla prova, e vincine, se puoi.

10

Da sol a sol la pugna t’offerisce,

da dieci a dieci, o voi da cento a cento,

il mio signor; e accresce e minuisce,

secondo che accettar tu sei contento:

con patto che se Dio lui favorisce,

sì che tu resti vinto o preso o spento,

che tu gli abbi a rifar e danni e spese,

e tornar col tuo campo in tuo paese;

11

né chi la Francia e chi l’Imperio regge

fino a cento anni lo guerreggi mai:

ma se tu vinci lui, torrà ogni legge

ch’imporre a senno tuo tu gli vorrai.

Il buon pastor pon l’anima pel gregge:

essendo tu quel re di che fama hai,

la tua persona o di pochi altri arrisca,

acciò così gran popul non perisca.

12

Così disse lo araldo, né risposta

lo imperador gli diede allora alcuna;

ma da la moltitudine si scosta

e i consiglieri suoi seco raguna,

ché lor sentenzie sopra la proposta

de l’araldo udir vuol ad una ad una.

Il primo fu Turpin che consigliasse

che l’invito del Barbaro accettasse,

13

non già da sol a sol, ma in compagnia

di quattro o sei de’ suoi guerrier più forti;

dei quali egli esser uno si offeria.

Così Namo et Uggier par che conforti;

e che fra dieci dì la pugna sia,

o quanto può che ‘l termine più scorti:

perché, successo che lor sia ben questo,

possano volger poi l’animo al resto.

14

Era in quei cavallier tanta arroganza

pei fortunati antichi lor successi,

che tutti in quella impresa, con baldanza

di restar vincitor, si sarian messi.

Poi disse il suo parer quel di Maganza,

che la pugna accettar pur si dovessi;

ma non però venir a farla inante

che Rinaldo ci fosse o quel d’Anglante;

15

che ci fosse Olivier con ambi i figli,

Ruggier et alcun altro dei famosi:

ché quando senza questi ella si pigli,

fòran di Carlo i casi perigliosi.

 Tenete voi sì privi di consigli

gli inimici,  dicea  che fosser osi

di domandar a par a par battaglia,

se non han gente ch’al contrasto vaglia?

16

Se non ci intervenisse la corona

di Francia, non avrei tanti riguardi;

benché, né senza ancor, di scelta buona

si de’ mancar in tòrre i più gagliardi:

ma dovendo venirci il re in persona,

come a bastanza potremo esser tardi

a darli, con consiglio ben maturo,

compagnia con la qual sia più sicuro?

17

Io non vi contradico che valenti

cavallier qui non sian come coloro

che nominati v’ho per eccellenti;

ma non sappiàn così le prove loro.

Questo luogo non è da esperimenti

di chi sia, al paragon, di rame o d’oro:

vogliàn di quei che cento volte esperti,

de la virtute lor n’han fatti certi.

18

E seguitò mostrando, con ragioni

di più efficacia ch’io non so ridire,

che non doveano senza i dui campioni,

lumi di Francia, a tal pruova venire;

e la sua vinse l’altre opinioni,

che la pugna si avesse a diferire

fin che venisse a così gran bisogna

l’uno d’Italia e l’altro di Guascogna.

19

Queste parole et altre dicea Gano

per carità non già del suo signore;

ma di vietar che non gli andasse in mano

quella città studiava il traditore,

e tanto prolungar, che Cardorano

l’aiuto avesse che attendea di fuore:

in somma, il suo parer parve perfetto,

e fu per lo miglior di tutto eletto.

20

Che dieci guerrier fossero, si prese

conclusion, pur come Gano volse;

e da’ dieci di maggio al fin del mese

di giugno un lungo termine si tolse.

In questo mezo si levar le offese,

e quello assedio tanto si disciolse,

che Praga potea aver di molte cose

che fossino alla vita bisognose.

21

Nuove intanto venian de l’apparecchio

che l’Ungaro facea d’armata grossa;

ma sempre Gano a Carlo era all’orecchio,

che dicea:  Non temer che faccia mossa.

Io lessi già in un libro molto vecchio,

né l’auttor par che sovvenir mi possa,

ch’Alcina a Gano un’erba al partir diede,

che chi ne mangia fa ch’ognun gli crede.

22

Quella mostrò nel monte Sina Dio

a Moise suo, sì che con essa poi

il popul duro fece umile e pio,

e ubidiente alli precetti suoi.

Poi la mostrò il demonio a Macon rio,

a perdizion degli Afri e degli Eoi:

la tenea in bocca predicando, e valse

ritrar chi udiva alle sue leggi false.

23

Gano, avendo già in ordine l’orsoio,

di sì gran tela apparecchiò la trama;

e quel demon che d’uno in altro coio

si sa mutar, a sé da l’anel chiama.

 Vertunno,  disse  di disir mi moio

di fornir quel che da me Alcina brama;

e pensando la via, veggio esser forza

che d’alcun ch’io dirò tu pigli scorza.

24

E le parole seguitò, mostrando

che tramutar s’avea prima in Terigi:

Terigi che scudiero era d’Orlando,

venuto da fanciul ai suo’ servigi;

e dopo in altre facce, e seminando

dovea gir sempre scandali e litigi.

Presa che di Terigi ebbe la forma,

di quanto avesse a far tolse la norma.

25

Di sua mano le lettere si scrisse

credenzial, come dettolli Gano;

che, con stupor vedendole, poi disse

Orlando, e Carlo, ch’eran di sua mano.

Postole il sigil sopra, dipartisse

Vertunno, e col signor di Mont’Albano,

ch’era a campo a Morlante, ritrovosse

prima che giunto al fin quel giorno fosse.

26

Presso a Morlante avea Rinaldo, e sotto

il vicin monte, avuto aspra battaglia;

et in essa lo esercito avea rotto

de li nimici, e morto e messo a taglia.

Unuldo ne la terra era ridotto,

e Rinaldo gli avea fatto serraglia,

pien di speranza, in uno assalto o dui,

d’aver in suo poter la terra e lui.

27

Veduto il viso et il parlar udito,

che di Terigi avean chiara sembianza,

Rinaldo fa carezze in infinito

al messaggier del conte di Maganza:

che sia d’Orlando, e quello avea sentito

per fama, gli dimanda con instanza;

come abbia a piè de l’Alpi, et indi appresso

Vercelli, in fuga il Longobardo messo.

28

Come presente alle battaglie stato

fosse il demonio, gli facea risposta;

e la lettera intanto, che portato

di credenza gli avea, gli ebbe in man posta.

Quel l’apre e legge; e lui per man pigliato,

da chi lo possa udir seco discosta.

Vertunno, prima ch’altro incominciasse,

di petto un’altra lettera si trasse.

 

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Ultimo Aggiornamento:
13/07/2005 23.46