Canto
primo
(29-56)
29
Tutte
per questo
(eccettuando solo
Morgana,
ch’avea fatto il
giuramento
che
mai né a viso
aperto né con
dolo
procacceria
ad Orlando
nocumento),
quante
ne son fra l’uno
e l’altro polo,
fra
quanto il sol
riscalda e
affredda il vento,
tutte
approvar quel
ch’avea Alcina
detto,
e
tutte instar che
se gli desse
effetto.
30
Poi
che Demogorgon,
principe saggio,
del
gran Consiglio udì
tutto il lamento,
disse:
Se
dunque è general
l’oltraggio,
alla
vendetta general
consento;
che
sia Orlando, sia
Carlo, sia il
lignaggio
di
Francia, sia tutto
l’Imperio
spento;
e
non rimanga segno
né vestigi,
né
pur si sappia dir:
“Qui fu
Parigi”.
31
Come
nei casi
perigliosi spesso
Roma
e l’altre
republiche fatt’hanno,
c’hanno
il poter di molti
a un solo cesso,
che
faccia sì che non
patiscan danno;
così
quivi ad Alcina fu
commesso
che
pensasse qual
forza o qual
inganno
si
avesse a usar;
ch’ognuna
d’esse presta
avria
in aiuto ad ogni
sua richiesta.
32
Come
chi tardi i suo’
denar dispensa,
né
d’ogni compra
tosto si compiace;
cerca
tre volte e più
tutta la Sensa,
e
va mirando in ogni
lato, e tace;
si
ferma alfin dove
ritrova immensa
copia
di quel ch’al
suo bisogno face,
e
quivi or questa or
quella cosa volve,
cento
ne piglia, e ancor
non si risolve:
33
questa
mette da parte e
quella lassa,
e
quella che lasciò
di nuovo piglia;
poi
la rifiuta et ad
un’altra passa;
muta
e rimuta, e ad una
alfin
s’appiglia:
così
d’alti pensieri
una gran massa
rivolge
Alcina, e lenta si
consiglia;
per
cento strade col
pensier discorre,
né
sa veder ancor
dove si porre.
34
Dopo
molto girar, si
ferma alfine,
e
le par che
l’Invidia esser
dea quella
che
l’alto Impero
occidental ruine;
faccia
ch’a punto sia
come s’appella;
ma
di chi dar più
tosto
l’intestine
a
roder debba a
questa peste fella,
non
sa veder, ne che
piaccia più al
gusto
creda
di lei, che ‘l
cor di Gano
ingiusto.
35
Stato
era grande
appresso a Carlo
Gano
un
tempo sì, che
alcun non gli iva
al paro;
poi
con Astolfo quel
di Mont’Albano,
Orlando
e gli altri che
virtù mostraro
contra
Marsiglio e contra
il re africano,
fér
sì che tanta
altezza gli levaro;
onde
il meschin, che di
fumo e di vento
tutto
era gonfio, vivea
mal contento.
36
Gano
superbo, livido e
maligno
tutti
i grandi appo
Carlo odiava a
morte;
non
potea alcun veder,
che senza ordigno,
senza
opra sua si fosse
acconcio in corte:
sì
ben con umil voce
e falso ghigno
sapea
finger bontade, et
ogni sorte
usar
d’ippocrisia,
che chi i costumi
suoi
non sapea, gli
porria a’ piedi
i lumi.
37
Poi,
quando si trovava
appresso a Carlo
(ché
tempo fu ch’era
ogni giorno seco),
rodea
nascosamente come
tarlo,
dava
mazzate a questo e
a quel da cieco:
sì
raro dicea il
vero, e sì
offuscarlo
sapea,
che da lui vinto
era ogni Greco.
Giudicò
Alcina, com’io
dissi, degno
cibo
all’Invidia il
cor di vizi
pregno.
38
Fra
i monti
inaccessibili d’Imavo,
che
‘l ciel sembran
tener sopra le
spalle,
fra
le perpetue nevi e
‘l ghiaccio
ignavo
discende
una profonda e
oscura valle
donde
da un antro
orribilmente cavo
all’Inferno
si va per dritto
calle:
e
questa è l’una
de le sette porte
che
conducono al regno
de la Morte.
39
Le
vie, l’entrate
principal son
sette,
per
cui l’anime van
dritto
all’Inferno;
altre
ne son, ma tòrte,
lunghe e strette,
come
quella di Tenaro e
d’Averno:
questa
de le più usate
una si mette,
di
che la infame
Invidia have il
governo:
a
questo fondo
orribile si cala
sùbito
Alcina, e non vi
adopra scala.
40
S’accosta
alla spelunca
spaventosa,
e
percuote a gran
colpo con
un’asta
quella
ferrata porta,
mezzo rósa
da’
tarli e da la
rugine più
guasta.
L’Invidia,
che di carne
venenosa
allora
si pascea d’una
cerasta,
levò
la bocca alla
percossa grande
da
le amare e
pestifere vivande.
41
E
di cento ministri
ch’avea intorno,
mandò
senza tardar uno
alla porta;
che,
conosciuta Alcina,
fa ritorno
e
di lei nuova
indietro le
rapporta.
Quella
pigra si leva, e
contra il giorno
le
vien incontra, e
lascia l’aria
morta;
ché
‘l nome de le
Fate sin al fondo
si
fa temer del
tenebroso mondo.
42
Tosto
che vide Alcina
così ornata
d’oro
e di seta e di
ricami gai
(ché
riccamente era
vestir usata,
né
si lasciò non
culta veder mai),
con
guardatura oscura
e avenenata
gli
lividi occhi alzò,
piena di guai;
e
féro il cor
dolente manifesto
i
sospiri ch’uscian
dal petto mesto.
43
Pallido
più che bosso, e
magro e afflitto,
arido
e secco ha il
dispiacevol viso;
l’occhio,
che mirar mai non
può diritto;
la
bocca, dove mai
non entra riso,
se
non quando alcun
sente esser
proscritto,
del
stato espulso,
tormentato e
ucciso
(altrimenti
non par ch’unqua
s’allegri);
ha
lunghi i denti,
rugginosi e negri.
44
O
delli imperatori
imperatrice,
cominciò
Alcina o
de li re regina,
o
de’ principi
invitti domitrice,
o
de’ Persi e
Macedoni ruina,
o
del romano e greco
orgoglio ultrice,
o
gloria a cui
null’altra s’avicina,
né
serà mai per
appressarsi s’anco
il
fasto levi
all’alto Impero
franco;
45
una
vil gente che fuggì
da Troia
sin
all’alte paludi
de la Tana,
dove
ai vicini così
venne a noia
che
la spinser da sé
tosto lontana;
e
quindi ancora in
ripa alla Danoia
cacciata
fu da l’aquila
romana;
et
indi al Reno, ove
in discorso
d’anni
entrò
con arte in
Francia e con
inganni:
46
dove
aiutando or questo
or quel vicino
incontra
agli altri, e poi,
con altro aiuto,
questi
ch’ora gli avea
dato il domino
scacciando,
a parte a parte ha
il tutto avuto,
finché
il nome regal levò
Pipino
al
suo signor, poco
all’incontro
astuto.
Or
Carlo suo figliuol
l’Imperio regge,
e
dà all’Europa e
a tutto il mondo
legge.
47
Puoi
tu patir che la già
tante volte
di
terra in terra
discacciata gente,
a
cui le sedie or
questi or quelli
han tolte,
né
lasciato in riposo
lungamente;
puoi
tu patir ch’or
signoreggi molte
provincie,
e freni omai tutto
‘l Ponente,
e
che da l’Indo
all’onde maure
estreme
la
terra e il mar al
suo gran nome
treme?
48
Alle
mortal grandezze
un certo fine
ha
Dio prescritto, a
cui si può
salire;
che,
passandol, serian
come divine,
il
che natura o il
ciel non può
patire;
ma
vuol che giunto a
quel, poi si
decline.
A
quello è giunto
Carlo, se tu mire.
Or
questa ogni tua
gloria antiqua
passa,
se
tanta altezza per
tua man
s’abbassa.
49
E
seguitò mostrando
altra cagione
ch’avea
di farlo, e mostrò
insieme il modo;
però
ch’avria un gran
mezo, Ganelone,
d’ogni
inganno capace e
d’ogni frodo:
poi
le soggiunse che
d’obligazione,
facendol,
le porrebbe al cor
un nodo
in
suoi servigi sì
tenace e forte,
che
non lo potria sciòrre
altro che morte.
50
Al
detto de la fata,
brevemente
diè
l’Invidia
risposta, che
farebbe.
Gli
suoi ministri ha
separatamente,
che
ciascun sa per sé
quel che far debbe:
tutti
hanno impresa di
tentar la gente;
ognun
guadagnar anime
vorrebbe:
stimula
altri i signori,
altri i plebei;
chi
fa gli vecchi e
chi i fanciulli
rei.
51
E
chi gli cortigiani
e chi gli amanti,
e
chi gli monachetti
e i loro abbati:
quei
che le donne
tentano son tanti,
che
seriano a fatica
noverati.
Ella
venir se li fe’
tutti innanti,
e
poi che ad un ad
un gli ebbe
mirati,
stimò
sé sola a sì
importante effetto
sufficiente,
e ciascun altro
inetto.
52
E
de’ suoi brutti
serpi venenosi
fatto
una scelta, in
Francia corre in
fretta,
e
giunger mira in
tempo ch’ai
focosi
destrieri
il fren la bionda
Aurora metta,
allor
ch’i sogni men
son fabulosi,
e
nascer veritade se
n’aspetta:
con
nuovo abito quivi
e nuove larve
al
conte di Maganza
in sogno apparve.
53
Le
fantastiche forme
seco tolto
l’Invidia
avendo, apparve in
sogno a Gano;
e
gli fece veder
tutto raccolto
in
larga piazza il
gran popul
cristiano,
che
gli occhi lieti
avea fissi nel
volto
d’Orlando
e del signor di
Mont’Albano,
ch’in
veste trionfal,
cinti d’alloro,
sopra
un carro venian di
gemme e d’oro.
54
Tutta
la nobiltà di
Chiaramonte
sopra
bianchi destrier
lor venìa
intorno:
ognun
di lauro coronar
la fronte,
ognun
vedea di spoglie
ostili adorno;
e
la turba con voci
a lodar pronte
gli
parea udir, che
benediva il giorno
che,
per far Carlo a
null’altro
secondo,
la
valorosa stirpe
venne al mondo.
55
Poi
di veder il populo
gli è aviso,
che
si rivolga a lui
con
grand’oltraggio,
e
dir si senta molta
ingiuria in viso,
e
codardo nomar,
senza coraggio;
e
con batter di man,
sibilo e riso,
s’oda
beffar con tutto
il suo lignaggio;
né
quei di
Chiaramonte aver
più loda,
che
gli suoi biasmo,
par che vegga et
oda.
56
In
questa vision
l’Invidia il
core
con
man gli tocca più
fredda che neve;
e
tanto spira in lui
del suo furore,
che
‘l petto più
capir non può, né
deve.
Al
cor pon delle
serpi la piggiore,
un’altra
onde l’udita si
riceve,
la
terza agli occhi;
onde di ciò che
pensa,
di
ciò che vede et
ode ha doglia
immensa.

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