I
cinque canti
Canto
I, ott. A
Oltre
che già Rinaldo e
Orlando ucciso
molti
in più volte
avean de’ lor
malvagi,
ben
che l’ingiurie
fur con saggio
aviso
dal
re acchetate, e li
comun disagi,
e
che in quei giorni
avea lor tolto il
riso
l’ucciso
Pinabello e
Bertolagi;
nova
invidia e
nov’odio anco
successe,
che
Franza e Carlo in
gran periglio
messe.
Canto
I, ott. B
Ma
prima che di
questo altro vi
dica,
siate,
signor, contento
ch’io vi mene
(che
ben vi menerò
senza fatica)
là
dove il Gange ha
le dorate arene;
e
veder faccia una
montagna aprica
che
quasi il ciel
sopra le spalle
tiene,
col
gran tempio nel
quale ogni
quint’anno
l’immortal
Fate a far
consiglio vanno.
Canto
primo
(1-28)
1
Sorge
tra il duro Scita
e l’Indo molle
un
monte che col ciel
quasi confina,
e
tanto sopra gli
altri il giogo
estolle,
ch’alla
sua nulla altezza
s’avicina:
quivi,
sul più solingo e
fiero colle,
cinto
d’orrende balze
e di ruina,
siede
un tempio, il più
bello e meglio
adorno
che
vegga il Sol, fra
quanto gira
intorno.
2
Cento
braccia è
d’altezza, da la
prima
cornice
misurando insin in
terra;
altre
cento di là verso
la cima
de
la cupula d’or
ch’in alto il
serra:
di
giro è dieci
tanto, se
l’estima
di
chi a grand’agio
il misurò, non
erra:
e
un bel cristallo
intiero, chiaro e
puro,
tutto
lo cinge, e gli fa
sponda e muro.
3
Ha
cento facce, ha
cento canti, e
quelli
hanno
tra l’uno e
l’altro uguale
ampiezza;
due
colonne ogni
spigolo, puntelli
de
l’alta fronte, e
tutte una
grossezza;
di
cui sono le basi e
i capitelli
di
quel ricco metal
che più
s’apprezza;
et
esse di smeraldo e
di zafiro,
di
diamante e rubin
splendono in giro.
4
Gli
altri ornamenti,
chi m’ascolta o
legge
può
imaginar senza
ch’io ‘l canti
o scriva.
Quivi
Demogorgon, che
frena e regge
le
Fate, e dà lor
forza e le ne
priva,
per
osservata usanza e
antica legge,
sempre
ch’al lustro
ogni quint’anno
arriva,
tutte
chiama a
consiglio, e da
l’estreme
parti
del mondo le
raguna insieme.
5
Quivi
s’intende, si
ragiona e tratta
di
ciò che ben o mal
sia loro occorso:
a
cui sia danno od
altra ingiuria
fatta,
non
vien consiglio
manco né
soccorso:
se
contesa è tra lor,
tosto s’adatta,
e
tornar fassi
adietro ogni
trascorso;
sì
che si trovan
sempre tutte unite
contra
ogn’altro di
fuor, con ch’abbian
lite.
6
Venuto
l’anno e ‘l
giorno che
raccorre
si
denno insieme al
quinquennal
consiglio,
chi
da l’Ibero e chi
da l’Indo corre,
chi
da l’Ircano e
chi dal Mar
Vermiglio;
senza
frenar cavallo e
senza porre
giovenchi
al giogo, e senza
oprar naviglio,
dispregiando
venian per
l’aria oscura
ogni
uso umano, ogni
opra di natura.
7
Portate
alcune in gran
navi di vetro,
dai
fier demoni cento
volte e cento
con
mantici soffiar si
facean dietro,
che
mai non fu per
l’aria il
maggior vento.
Altre,
come al contrasto
di san Pietro
tentò
in suo danno il
Mago, onde fu
spento,
veniano
in collo alli
angeli infernali:
alcune,
come Dedalo, avean
l’ali.
8
Chi
d’oro, e chi
d’argento, e chi
si fece
di
varie gemme una
lettica adorna;
portàvane
alcuna otto,
alcuna diece
de
lo stuol che
sparir suol quando
aggiorna,
ch’erano
tutti più neri
che pece,
con
piedi strani, e
lunghe code, e
corna;
pegasi,
griffi et altri
uccei bizarri
molte
traean sopra
volanti carri.
9
Queste,
ch’or Fate, e da
li antichi fòro
già
dette Ninfe e Dee
con più bel nome,
di
preciose gemme e
di molto oro
ornate
per le vesti e per
le chiome,
s’appresentar
all’alto
Concistoro,
con
bella compagnia,
con ricche some,
studiando
ognuna ch’altra
non l’avanzi
di
più ornamenti o
d’esser giunta
innanzi.
10
Sola
Morgana, come
l’altre volte,
né
ben ornata
v’arrivò né in
fretta;
ma
quando tutte
l’altre eran
raccolte,
e
già più d’una
cosa aveano detta,
mesta,
con chiome
rabuffate e
sciolte,
alfin
comparve squalida
e negletta,
nel
medesmo vestir
ch’ella avea
quando
le
diè la caccia, e
poi la prese,
Orlando.
11
Con
atti mesti il gran
Collegio inchina,
e
si ripon nel luogo
più di sotto;
e,
come fissa in
pensier alto,
china
la
fronte e gli occhi
a terra, e non fa
motto.
Tacendo
l’altre di
stupor, fu Alcina
prima
a parlar, ma non
così di botto;
ch’una
o due volte gli
occhi intorno
volse,
e
poi la lingua a
tai parole
sciolse:
12
Poi
che da forza
temeraria
astretta,
non
può senza pergiur
costei dolerse,
né
dimandar né
procacciar
vendetta
de
l’onta ria che
già più dì
sofferse;
quel
ch’ella non può
far, far a noi
spetta,
ché
le occorrenze
prospere e
l’avverse
convien
ch’abbiam
communi; e si
proveggia
di
vendicarla, ancor
ch’ella nol
chieggia.
13
Non
accade ch’io
narri e come e
quando
(perché
la cosa a tutto il
mondo è piana)
e
quante volte e in
quanti modi
Orlando,
con
commune onta,
offeso abbia
Morgana;
da
la prima fiata
incominciando
che
‘l drago e i
tori uccise alla
fontana,
fin
che le tolse poi
Gigliante il
biondo,
ch’amava
più di ciò
ch’ella avea al
mondo.
14
Dico
di quel che non
sapete forse;
e
s’alcuna lo sa,
tutte nol sanno:
più
che l’altre
soll’io, perché
m’occorse
gire
al suo lago quel
medesimo anno:
alcune
sue (ma ben non se
n’accorse
Morgana)
raccontato il
tutto m’hanno.
A
me ch’a punto il
so, sta ben
ch’io ‘l dica,
tanto
più che le son
sorella e amica.
15
A
me convien meglio
chiarirvi quella
parte,
che dianzi io vi
dicea confusa.
Poi
che Orlando ebbe
preso mia sorella,
rubbata,
afflitta e in ogni
via delusa,
di
tormentarla non
cessò, fin
ch’ella
non
gli fe’ il
giuramento il qual
non s’usa
tra
noi mai violar; né
ci soccorre
il
dir che forza
altrui cel faccia
tòrre.
16
Non
è particolare e
non è sola
di
lei l’ingiuria,
anzi appartien a
tutte;
e
quando fosse
ancora di lei
sola,
debbiamo
unirsi a
vendicarla tutte,
e
non lasciarla
ingiuriata sola;
ché
siam compagne e
siam sorelle
tutte;
e
quando anco ella
il nieghi con la
bocca,
quel
che ‘l cor vuol
considerar ci
tocca.
17
Se
toleriam
l’ingiuria,
oltra che segno
mostriam
di debolezza o di
viltade,
et
oltra che si
tronca al nostro
regno
il
nervo principal,
la maiestade,
facciam
ch’osin di
nuovo, e che
disegno
di
farci peggio in
altri animo cade:
ma
chi fa sua
vendetta, oltra
che offende
chi
offeso l’ha, da
molti si difende.
18
E
seguitò parlando,
e disponendo
le
Fate a vendicar il
commun scorno:
che
s’io volessi il
tutto ir
raccogliendo,
non
avrei da far altro
tutto un giorno.
Che
non facesse
questo, non
contendo,
per
Morgana e per
l’altre ch’avea
intorno;
ma
ben dirò che più
il proprio
interesse,
che
di Morgana o
d’altre, la
movesse.
19
Levarsi
Alcina non potea
dal core
che
le fosse Ruggier
così fuggito:
né
so se da più
sdegno o da più
amore
le
fosse il cor la
notte e ‘l dì
assalito;
e
tanto era più
grave il suo
dolore,
quanto
men lo potea dir
espedito,
perché
del danno che
patito avea
era
la fata Logistilla
rea.
20
Né
potuto ella avria,
senza accusarla,
del
ricevuto oltraggio
far doglianza;
ma
perch’ivi di
liti non si parla
che
sia tra lor, né
se n’ha
ricordanza,
parlò
de l’onta di
Morgana, e farla
vendicar
procacciò con
ogn’instanza;
che
senza dir di sé,
ben vede ch’ella
fa
per sé ancor, se
fa per la sorella.
21
Ella
dicea che, come
universale
biasmo
di lor son di
Morgana l’onte,
far
se ne debbe ancor
vendetta tale
che
sol non abbia da
patirne il Conte,
ma
che n’abbassi
ognun che sotto
l’ale
de
l’aquila superba
alzi la fronte:
propone
ella così, così
disegna,
perché
Ruggier di nuovo
in sua man vegna.
22
Sapeva
ben che fatto era
cristiano,
fatto
baron e paladin di
Carlo;
ché
se fosse, qual
dianzi era,
pagano,
miglior
speranza avria di
ricovrarlo;
ma
poi che armato era
di fede, in vano
senza
l’aiuto altrui
potria tentarlo;
ché
se sola da sé
vuol farli offesa,
gli
vede appresso
troppo gran
difesa.
23
Per
questo avea fier
odio, acerbo
isdegno,
inimicizia
dura e rabbia
ardente
contra
re Carlo e ogni
baron del regno,
contra
i populi tutti di
Ponente;
parendo
lei che troppo al
suo disegno
lor
bontà fosse
avversa e
renitente;
né
sperar può che
mai Ruggier
s’opprima,
se
non distrugge
Carlo o insieme o
prima.
24
Odia
l’imperator,
odia il nipote,
ch’era
l’altra colonna
a tener ritto,
sì
che tra lor
Ruggier cader non
puote,
né
da forza
d’incanto esser
afflitto.
Parlato
ch’ebbe Alcina,
né ancor vòte
restar
d’udir
l’orecchie altro
delitto:
ché
Fallerina pianse
il drago morto
e
la distruzion del
suo bell’orto.
25
Poi
ch’ebbe
acconciamente
Fallerina
detto
il suo danno e
chiestone
vendetta,
entrò
l’aringo e tenel
Dragontina,
fin
che tutt’ebbe la
sua causa detta;
e
quivi raccontò
l’alta rapina
ch’Astolfo
et alcun altro di
sua setta
fatto
le avea dentro
alle proprie case
de’
suoi prigion, sì
ch’un non vi
rimase.
26
Poi
l’Aquilina e poi
la Silvanella,
poi
la Montana e poi
quella dal Corso;
la
fata Bianca, e la
Bruna sorella,
et
una a cui tese le
reti Borso;
poi
Griffonetta, e poi
questa e poi
quella
(ché
far di tutte io
non potrei
discorso)
dolendosi
venian, chi
d’Oliviero,
chi
del figlio d’Amon
e chi d’Uggiero;
27
chi
di Dudone e chi di
Brandimarte,
quand’era
vivo, e chi di
Carlo istesso.
Tutti
chi in una e chi
in un’altra
parte
avean
lor fatto danno e
oltraggio
espresso,
rotti
gli incanti e
disprezzata
l’arte
a
cui natura e il
ciel talora ha
cesso:
a
pena d’ogni
cento trovavi una
che
non avesse avuto
ingiuria alcuna.
28
Quelle
che da dolersi per
se stesse
non
hanno, sì de
l’altre il mal
lor pesa,
che
non men che sia
suo proprio
interesse
si
duol ciascuna e se
ne chiama offesa:
non
eran per patir che
si dicesse
che
l’arte lor non
possa far difesa
contra
le forze e gli
animi arroganti
de’
paladini e
cavallieri erranti

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