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CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

I Cinque canti

Di: Luodovico Ariosto


I cinque canti

Canto I, ott. A

Oltre che già Rinaldo e Orlando ucciso

molti in più volte avean de’ lor malvagi,

ben che l’ingiurie fur con saggio aviso

dal re acchetate, e li comun disagi,

e che in quei giorni avea lor tolto il riso

l’ucciso Pinabello e Bertolagi;

nova invidia e nov’odio anco successe,

che Franza e Carlo in gran periglio messe.

Canto I, ott. B

Ma prima che di questo altro vi dica,

siate, signor, contento ch’io vi mene

(che ben vi menerò senza fatica)

là dove il Gange ha le dorate arene;

e veder faccia una montagna aprica

che quasi il ciel sopra le spalle tiene,

col gran tempio nel quale ogni quint’anno

l’immortal Fate a far consiglio vanno.

 

Canto primo  

(1-28)

1

Sorge tra il duro Scita e l’Indo molle

un monte che col ciel quasi confina,

e tanto sopra gli altri il giogo estolle,

ch’alla sua nulla altezza s’avicina:

quivi, sul più solingo e fiero colle,

cinto d’orrende balze e di ruina,

siede un tempio, il più bello e meglio adorno

che vegga il Sol, fra quanto gira intorno.

2

Cento braccia è d’altezza, da la prima

cornice misurando insin in terra;

altre cento di là verso la cima

de la cupula d’or ch’in alto il serra:

di giro è dieci tanto, se l’estima

di chi a grand’agio il misurò, non erra:

e un bel cristallo intiero, chiaro e puro,

tutto lo cinge, e gli fa sponda e muro.

3

Ha cento facce, ha cento canti, e quelli

hanno tra l’uno e l’altro uguale ampiezza;

due colonne ogni spigolo, puntelli

de l’alta fronte, e tutte una grossezza;

di cui sono le basi e i capitelli

di quel ricco metal che più s’apprezza;

et esse di smeraldo e di zafiro,

di diamante e rubin splendono in giro.

4

Gli altri ornamenti, chi m’ascolta o legge

può imaginar senza ch’io ‘l canti o scriva.

Quivi Demogorgon, che frena e regge

le Fate, e dà lor forza e le ne priva,

per osservata usanza e antica legge,

sempre ch’al lustro ogni quint’anno arriva,

tutte chiama a consiglio, e da l’estreme

parti del mondo le raguna insieme.

5

Quivi s’intende, si ragiona e tratta

di ciò che ben o mal sia loro occorso:

a cui sia danno od altra ingiuria fatta,

non vien consiglio manco né soccorso:

se contesa è tra lor, tosto s’adatta,

e tornar fassi adietro ogni trascorso;

sì che si trovan sempre tutte unite

contra ogn’altro di fuor, con ch’abbian lite.

6

Venuto l’anno e ‘l giorno che raccorre

si denno insieme al quinquennal consiglio,

chi da l’Ibero e chi da l’Indo corre,

chi da l’Ircano e chi dal Mar Vermiglio;

senza frenar cavallo e senza porre

giovenchi al giogo, e senza oprar naviglio,

dispregiando venian per l’aria oscura

ogni uso umano, ogni opra di natura.

7

Portate alcune in gran navi di vetro,

dai fier demoni cento volte e cento

con mantici soffiar si facean dietro,

che mai non fu per l’aria il maggior vento.

Altre, come al contrasto di san Pietro

tentò in suo danno il Mago, onde fu spento,

veniano in collo alli angeli infernali:

alcune, come Dedalo, avean l’ali.

8

Chi d’oro, e chi d’argento, e chi si fece

di varie gemme una lettica adorna;

portàvane alcuna otto, alcuna diece

de lo stuol che sparir suol quando aggiorna,

ch’erano tutti più neri che pece,

con piedi strani, e lunghe code, e corna;

pegasi, griffi et altri uccei bizarri

molte traean sopra volanti carri.

9

Queste, ch’or Fate, e da li antichi fòro

già dette Ninfe e Dee con più bel nome,

di preciose gemme e di molto oro

ornate per le vesti e per le chiome,

s’appresentar all’alto Concistoro,

con bella compagnia, con ricche some,

studiando ognuna ch’altra non l’avanzi

di più ornamenti o d’esser giunta innanzi.

10

Sola Morgana, come l’altre volte,

né ben ornata v’arrivò né in fretta;

ma quando tutte l’altre eran raccolte,

e già più d’una cosa aveano detta,

mesta, con chiome rabuffate e sciolte,

alfin comparve squalida e negletta,

nel medesmo vestir ch’ella avea quando

le diè la caccia, e poi la prese, Orlando.

11

Con atti mesti il gran Collegio inchina,

e si ripon nel luogo più di sotto;

e, come fissa in pensier alto, china

la fronte e gli occhi a terra, e non fa motto.

Tacendo l’altre di stupor, fu Alcina

prima a parlar, ma non così di botto;

ch’una o due volte gli occhi intorno volse,

e poi la lingua a tai parole sciolse:

12

 Poi che da forza temeraria astretta,

non può senza pergiur costei dolerse,

né dimandar né procacciar vendetta

de l’onta ria che già più dì sofferse;

quel ch’ella non può far, far a noi spetta,

ché le occorrenze prospere e l’avverse

convien ch’abbiam communi; e si proveggia

di vendicarla, ancor ch’ella nol chieggia.

13

Non accade ch’io narri e come e quando

(perché la cosa a tutto il mondo è piana)

e quante volte e in quanti modi Orlando,

con commune onta, offeso abbia Morgana;

da la prima fiata incominciando

che ‘l drago e i tori uccise alla fontana,

fin che le tolse poi Gigliante il biondo,

ch’amava più di ciò ch’ella avea al mondo.

14

Dico di quel che non sapete forse;

e s’alcuna lo sa, tutte nol sanno:

più che l’altre soll’io, perché m’occorse

gire al suo lago quel medesimo anno:

alcune sue (ma ben non se n’accorse

Morgana) raccontato il tutto m’hanno.

A me ch’a punto il so, sta ben ch’io ‘l dica,

tanto più che le son sorella e amica.

15

A me convien meglio chiarirvi quella

parte, che dianzi io vi dicea confusa.

Poi che Orlando ebbe preso mia sorella,

rubbata, afflitta e in ogni via delusa,

di tormentarla non cessò, fin ch’ella

non gli fe’ il giuramento il qual non s’usa

tra noi mai violar; né ci soccorre

il dir che forza altrui cel faccia tòrre.

16

Non è particolare e non è sola

di lei l’ingiuria, anzi appartien a tutte;

e quando fosse ancora di lei sola,

debbiamo unirsi a vendicarla tutte,

e non lasciarla ingiuriata sola;

ché siam compagne e siam sorelle tutte;

e quando anco ella il nieghi con la bocca,

quel che ‘l cor vuol considerar ci tocca.

17

Se toleriam l’ingiuria, oltra che segno

mostriam di debolezza o di viltade,

et oltra che si tronca al nostro regno

il nervo principal, la maiestade,

facciam ch’osin di nuovo, e che disegno

di farci peggio in altri animo cade:

ma chi fa sua vendetta, oltra che offende

chi offeso l’ha, da molti si difende.

18

E seguitò parlando, e disponendo

le Fate a vendicar il commun scorno:

che s’io volessi il tutto ir raccogliendo,

non avrei da far altro tutto un giorno.

Che non facesse questo, non contendo,

per Morgana e per l’altre ch’avea intorno;

ma ben dirò che più il proprio interesse,

che di Morgana o d’altre, la movesse.

19

Levarsi Alcina non potea dal core

che le fosse Ruggier così fuggito:

né so se da più sdegno o da più amore

le fosse il cor la notte e ‘l dì assalito;

e tanto era più grave il suo dolore,

quanto men lo potea dir espedito,

perché del danno che patito avea

era la fata Logistilla rea.

20

Né potuto ella avria, senza accusarla,

del ricevuto oltraggio far doglianza;

ma perch’ivi di liti non si parla

che sia tra lor, né se n’ha ricordanza,

parlò de l’onta di Morgana, e farla

vendicar procacciò con ogn’instanza;

che senza dir di sé, ben vede ch’ella

fa per sé ancor, se fa per la sorella.

21

Ella dicea che, come universale

biasmo di lor son di Morgana l’onte,

far se ne debbe ancor vendetta tale

che sol non abbia da patirne il Conte,

ma che n’abbassi ognun che sotto l’ale

de l’aquila superba alzi la fronte:

propone ella così, così disegna,

perché Ruggier di nuovo in sua man vegna.

22

Sapeva ben che fatto era cristiano,

fatto baron e paladin di Carlo;

ché se fosse, qual dianzi era, pagano,

miglior speranza avria di ricovrarlo;

ma poi che armato era di fede, in vano

senza l’aiuto altrui potria tentarlo;

ché se sola da sé vuol farli offesa,

gli vede appresso troppo gran difesa.

23

Per questo avea fier odio, acerbo isdegno,

inimicizia dura e rabbia ardente

contra re Carlo e ogni baron del regno,

contra i populi tutti di Ponente;

parendo lei che troppo al suo disegno

lor bontà fosse avversa e renitente;

né sperar può che mai Ruggier s’opprima,

se non distrugge Carlo o insieme o prima.

24

Odia l’imperator, odia il nipote,

ch’era l’altra colonna a tener ritto,

sì che tra lor Ruggier cader non puote,

né da forza d’incanto esser afflitto.

Parlato ch’ebbe Alcina, né ancor vòte

restar d’udir l’orecchie altro delitto:

ché Fallerina pianse il drago morto

e la distruzion del suo bell’orto.

25

Poi ch’ebbe acconciamente Fallerina

detto il suo danno e chiestone vendetta,

entrò l’aringo e tenel Dragontina,

fin che tutt’ebbe la sua causa detta;

e quivi raccontò l’alta rapina

ch’Astolfo et alcun altro di sua setta

fatto le avea dentro alle proprie case

de’ suoi prigion, sì ch’un non vi rimase.

26

Poi l’Aquilina e poi la Silvanella,

poi la Montana e poi quella dal Corso;

la fata Bianca, e la Bruna sorella,

et una a cui tese le reti Borso;

poi Griffonetta, e poi questa e poi quella

(ché far di tutte io non potrei discorso)

dolendosi venian, chi d’Oliviero,

chi del figlio d’Amon e chi d’Uggiero;

27

chi di Dudone e chi di Brandimarte,

quand’era vivo, e chi di Carlo istesso.

Tutti chi in una e chi in un’altra parte

avean lor fatto danno e oltraggio espresso,

rotti gli incanti e disprezzata l’arte

a cui natura e il ciel talora ha cesso:

a pena d’ogni cento trovavi una

che non avesse avuto ingiuria alcuna.

28

Quelle che da dolersi per se stesse

non hanno, sì de l’altre il mal lor pesa,

che non men che sia suo proprio interesse

si duol ciascuna e se ne chiama offesa:

non eran per patir che si dicesse

che l’arte lor non possa far difesa

contra le forze e gli animi arroganti

de’ paladini e cavallieri erranti

 

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Ultimo Aggiornamento:
13/07/2005 22.45