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CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

DIDONE ABBANDONATA

Pietro Metastasio

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[scena quattordicesima]

 

ATTO SECONDO

SCENA PRIMA

Appartamenti reali con tavolino e sedia.

SEL. Chi fu che all'inumano
disciolse le catene?
ARA. A me, bella Selene, il chiedi in vano.
Io prigioniero e reo,
libero ed innocente in un momento,
sciolto mi vedo, e sento
fra' lacci il mio signor: il passo muovo
a suo prò nella reggia, e vel ritrovo.
SEL. Ah contro Enea v'è qualche frode ordita.
Difendi la sua vita.
ARA. E` mio nemico:
pur se brami che Araspe
dall'insidie il difenda,
tel prometto: sin qui
l'onor mio nol contrasta:
ma ti basti così.
SEL. Così mi basta.
ARA. Ah non toglier sì tosto
il piacer di mirarti agli occhi miei.
SEL. Perché?
ARA. Tacer dovrei ch'io sono amante:
ma reo del mio delitto è il tuo sembiante.
SEL. Araspe, il tuo valore,
il volto tuo, la tua virtù mi piace;
ma già pena il mio cor per altra face.
ARA. Quanto son sventurato!
SEL. E` più Selene.
Se t'accende il mio volto,
narri almen le tue pene, ed io le ascolto.
Io l'incendio nascoso
tacer non posso, e palesar non oso.
ARA. Soffri almen la mia fede.
SEL. Sì, ma da me non aspettar mercede.
Se può la tua virtude
amarmi a questa legge, io tel concedo:
ma non chieder di più.
ARA. Di più non chiedo.
SEL. Ardi per me fedele,
serba nel cor lo strale,
ma non mi dir crudele,
se non avrai mercé.
Hanno sventura eguale
la tua, la mia costanza:
per te non v'è speranza,
non v'è pietà per me.

SCENA II

ARA. Tu dici ch'io non speri,
ma nol dici abbastanza;
l'ultima, che si perde, è la speranza.

SCENA III

DID. Già so che si nasconde
de' Mori il re sotto il mentito Arbace.
Ma, sia qual più gli piace, egli m'offese:
e senz'altra dimora,
o suddito o sovrano, io vuo' che mora.
OSM. Sempre in me de' tuoi cenni
il più fedele esecutor vedrai.
DID. Premio avrà la tua fede.
OSM. E qual premio, o regina? Adopro in vano
per te fede e valore:
occupa solo Enea tutto il tuo core.
DID. Taci, non rammentar quel nome odiato.
E` un perfido, è un ingrato,
è un'alma senza legge e senza fede.
Contro me stessa ho sdegno,
perché finor l'amai.
OSM. Se lo torni a mirar, ti placherai.
DID. Ritornarlo a mirar! Per fin ch'io viva
mai più non mi vedrà quell'alma rea.
SEL. Teco vorrebbe Enea
parlar, se gliel concedi.
DID. Enea! Dov'è?
SEL. Qui presso
che sospira il piacer di rimirarti.
DID. Temerario! Che venga. Osmida, parti.
OSM. Io non tel dissi? Enea
tutta del cor la libertà t'invola.
DID. Non tormentarmi più; lasciami sola.

SCENA IV

DID. Come! Ancor non partisti? Adorna ancora
questi barbari lidi il grande Enea?
E pure io mi credea
che, già varcato il mar, d'Italia in seno
in trionfo traessi
popoli debellati e regi oppressi.
ENEA Quest'amara favella
mal conviene al tuo cor, bella regina.
Del tuo, dell'onor mio
sollecito ne vengo. Io so che vuoi
del moro il fiero orgoglio
con la morte punir.
DID. E questo è il foglio.
ENEA La gloria non consente
ch'io vendichi in tal guisa i torti miei:
se per me lo condanni...
DID. Condannarlo per te! Troppo t'inganni.
Passò quel tempo, Enea,
che Dido a te pensò. Spenta è la face,
è sciolta la catena,
e del tuo nome or mi rammento appena.
ENEA Pensa che il re de' Mori
è l'orator fallace.
DID. Io non so qual ei sia, lo credo Arbace.
ENEA Oh Dio! Con la sua morte
tutta contro di te l'Africa irrìti.
DID. Consigli or non desio:
tu provvedi a' tuoi regni, io penso al mio.
Senza di te finor leggi dettai;
sorger senza di te Cartago io vidi.
Felice me, se mai
tu non giungevi, ingrato, a questi lidi!
ENEA Se sprezzi il tuo periglio,
donalo a me: grazia per lui ti chieggio.
DID. Sì, veramente io deggio
il mio regno e me stessa al tuo gran merto.
A sì fedele amante,
ad eroe sì pietoso, a' giusti prieghi
di tanto intercessor nulla si nieghi.
Inumano! tiranno! E` forse questo
l'ultimo dì che rimirar mi dèi:
vieni su gli occhi miei;
sol d'Arbace mi parli, e me non curi!
T'avessi pur veduto
d'una lagrima sola umido il ciglio!
Uno sguardo, un sospiro,
un segno di pietade in te non trovo:
e poi grazie mi chiedi?
Per tanti oltraggi ho da premiarti ancora?
Perché tu lo vuoi salvo, io vuo' che mora.
ENEA Idol mio, che pur sei
ad onta del destin l'idolo mio,
che posso dir? Che giova
rinnovar co' sospiri il tuo dolore?
Ah! se per me nel core
qualche tenero affetto avesti mai,
placa il tuo sdegno e rasserena i rai.
Quell'Enea tel domanda,
che tuo cor, che tuo bene un dì chiamasti;
quel che sinora amasti
più della vita tua, più del tuo soglio;
quello...
DID. Basta; vincesti: eccoti il foglio.
Vedi quanto t'adoro ancora, ingrato!
Con un tuo sguardo solo
mi togli ogni difesa e mi disarmi.
Ed hai cor di tradirmi? E puoi lasciarmi?
Ah! non lasciarmi, no,
bell'idol mio:
di chi mi fiderò,
se tu m'inganni?
Di vita mancherei
nel dirti addio;
che viver non potrei
fra tanti affanni.

SCENA V

ENEA Io sento vacillar la mia costanza
a tanto amore appresso;
e mentre salvo altrui, perdo me stesso.
IARBA Che fa l'invitto Enea? Gli veggo ancora
del passato timore i segni in volto.
ENEA Iarba da' lacci è sciolto!
Chi ti diè libertà?
IARBA Permette Osmida
che per entro la reggia io mi raggiri:
ma vuol ch'io vada errando
per sicurezza tua senza il mio brando.
ENEA Così tradisce Osmida
il comando real?
IARBA Dimmi, che temi?
Ch'io fuggendo m'involi a queste mura?
Troppo vi resterò per tua sventura.
ENEA La tua sorte presente
fa pietà, non timore.
IARBA Risparmia al tuo gran core
questa pietà. D'una regina amante
tenta pure a mio danno,
cerca pur d'irritar gli sdegni insani.
Con altr'armi non sanno
le offese vendicar gli eroi troiani.
ENEA Leggi. La regal donna in questo foglio
la tua morte segnò di propria mano.
Se Enea fosse africano,
Iarba estinto saria. Prendi ed impara,
barbaro, discortese,
come vendica Enea le proprie offese.

SCENA VI

IARBA Così strane venture io non intendo.
Pietà nel mio nemico,
infedeltà nel mio seguace io trovo.
Ah forse a danno mio
l'uno e l'altro congiura.
Ma di lor non ho cura.
Pietà finga il rivale,
sia l'amico fallace,
non sarà di timor Iarba capace.
Fosca nube il sol ricopra,
o si scopra il ciel sereno,
non si cangia il cor nel seno,
non si turba il mio pensier.
Le vicende della sorte
imparai con alma forte
dalle fasce a non temer.

SCENA VII

ENEA Fra il dovere e l'affetto
ancor dubbioso in petto ondeggia il core.
Pur troppo il mio valore
all'impero servì d'un bel sembiante.
Ah una volta l'eroe vinca l'amante.
ARA. Di te finora in traccia
scorsi la reggia.
ENEA Amico,
vieni fra queste braccia.
ARA. Allontanati, Enea; son tuo nemico.
Snuda, snuda quel ferro:
guerra con te, non amicizia io voglio.
ENEA Tu di Iarba all'orgoglio
prima m'involi, e poi
guerra mi chiedi, ed amistà non vuoi?
ARA. T'inganni. Allor difesi
la gloria del mio re, non la tua vita.
Con più nobil ferita
rendergli a me s'aspetta
quella, che tolsi a lui, giusta vendetta.
ENEA Enea stringer l'acciaro
contro il suo difensore!
ARA. Olà! che tardi?
ENEA La mia vita è tuo dono,
prendila pur se vuoi; contento io sono.
Ma ch'io debba a tuo danno armar la mano,
generoso guerrier, lo speri in vano.
ARA. Se non impugni il brando
a ragion ti dirò codardo e vile.
ENEA Questa ad un cor virile
vergognosa minaccia Enea non soffre.
Ecco per soddisfarti io snudo il ferro.
Ma prima i sensi miei
odan gli uomini tutti, odan gli dei.
Io son d'Araspe amico:
io debbo la mia vita al suo valore.
Ad onta del mio core
discendo al gran cimento,
di codardia tacciato;
e per non esser vil, mi rendo ingrato.

SCENA VIII

SEL. Tanto ardir nella reggia? Olà, fermate.
Così mi serbi fé? Così difendi,
Araspe traditor, d'Enea la vita?
ENEA No, principessa, Araspe
non ha di tradimenti il cor capace.
SEL. Chi di Iarba è seguace,
esser fido non può.
ARA. Bella Selene,
puoi tu sola avanzarti
a tacciarmi così.
SEL. T'accheta, e parti.
ARA. Tacerò, se tu lo brami;
ma fai torto alla mia fede,
se mi chiami traditor.
Porterò lontano il piede;
ma di questi sdegni tuoi
so che poi tu avrai rossor.

SCENA IX

ENEA Allorché Araspe a provocar mi venne,
del suo signor sostenne
le ragioni con me. La sua virtude
se condannar pretendi,
troppo quel core ingiustamente offendi.
SEL. Sia qual ei vuole Araspe, or non è tempo
di favellar di lui. Brama Didone
teco parlar.
ENEA Poc'anzi
dal suo real soggiorno io trassi il piede.
Se di nuovo mi chiede
ch'io resti in questa arena,
in van s'accrescerà la nostra pena.
SEL. Come fra tanti affanni,
cor mio, chi t'ama abbandonar potrai?
ENEA Selene, a me "cor mio"?
SEL. E` Didone che parla, e non son io.
ENEA Se per la tua germana
così pietosa sei,
non curar più di me, ritorna a lei.
Dille che si consoli,
che ceda al fato e rassereni il ciglio.
SEL. Ah no! Cangia, mio ben, cangia consiglio.
ENEA Tu mi chiami tuo bene?
SEL. E` Didone che parla, e non Selene.
Vieni e l'ascolta. E` l'unico conforto,
ch'ella implora da te.
ENEA D'un core amante
quest'è il solito inganno:
va cercando conforto, e trova affanno.
Tormento il più crudele
d'ogni crudel tormento
è il barbaro momento,
che in due divide un cor.
E` affanno sì tiranno,
che un'alma nol sostiene.
Ah! nol provar, Selene,
se nol provasti ancor.

SCENA X

SEL. Stolta! per chi sospiro? Io senza speme
perdo la pace mia. Ma chi mi sforza
in vano a sospirar? Scelgasi un core
più grato a' voti miei. Scelgasi un volto
degno d'amor. Scelgasi... Oh Dio! la scelta
nostro arbitrio non è. Non è bellezza,
non è senno o valore,
che in noi risvegli amore: anzi talora
il men vago, il più stolto è che s'adora.
Bella ciascuna poi finge al pensiero
la fiamma sua, ma poche volte è vero.
Ogni amator suppone
che della sua ferita
sia la beltà cagione,
ma la beltà non è.
E` un bel desio, che nasce
allor che men s'aspetta;
si sente che diletta,
ma non si sa perché.

SCENA XI

DID. Incerta del mio fato
io più viver non voglio. E` tempo ormai
che per l'ultima volta Enea si tenti.
Se dirgli i miei tormenti,
se la pietà non giova,
faccia la gelosia l'ultima prova.
ENEA Ad ascoltar di nuovo
i rimproveri tuoi vengo, o regina.
So che vuoi dirmi ingrato,
perfido, mancator, spergiuro, indegno:
chiamami come vuoi: sfoga il tuo sdegno.
DID. No, sdegnata io non sono. Infido, ingrato,
perfido, mancator più non ti chiamo;
rammentarti non bramo i nostri ardori:
da te chiedo consigli, e non amori.
Siedi.
ENEA (Che mai dirà?)
DID. Già vedi, Enea,
che fra nemici è il mio nascente impero.
Sprezzai fin ora, è vero,
le minacce e 'l furor; ma Iarba offeso,
quando priva sarò del tuo sostegno,
mi torrà per vendetta e vita e regno.
In così dubbia sorte
ogni rimedio è vano:
deggio incontrar la morte,
o al superbo african porger la mano.
L'uno e l'altro mi spiace, e son confusa.
Al fin femmina, e sola,
lungi dal patrio ciel, perdo il coraggio:
e non è meraviglia
s'io risolver non so: tu mi consiglia.
ENEA Dunque fuor che la morte,
o il funesto imeneo,
trovar non si potria scampo migliore?
DID. V'era pur troppo.
ENEA E quale?
DID. Se non sdegnava Enea d'esser mio sposo,
l'Africa avrei veduta
dall'Arabico seno al mar d'Atlante
in Cartago adorar la sua regnante:
e di Troia e di Tiro
rinnovar si potea... Ma che ragiono?
L'impossibil mi fingo, e folle io sono.
Dimmi, che far degg'io? Con alma forte
come vuoi, sceglierò Iarba, o la morte.
ENEA Iarba, o la morte! E consigliarti io deggio?
Colei, che tanto adoro,
all'odiato rival vedere in braccio!
Colei...
DID. Se tanta pena
trovi nelle mie nozze, io le ricuso:
ma, per tormi agl'insulti,
necessario è il morir. Stringi quel brando;
svena la tua fedele:
è pietà con Didone esser crudele.
ENEA Ch'io ti sveni? Ah! più tosto
cada sopra di me del Ciel lo sdegno:
prima scemin gli dei,
per accrescer tuoi giorni, i giorni miei.
DID. Dunque a Iarba mi dona. Olà.
ENEA Deh ferma.
Troppo, oh Dio! per mia pena
sollecita tu sei.
DID. Dunque mi svena.
ENEA No, si ceda al destino: a Iarba stendi
la tua destra real. Di pace priva
resti l'alma d'Enea, purché tu viva.
DID. Giacché d'altri mi brami,
appagarti saprò. Iarba si chiami.
Vedi quanto son io
ubbidiente a te.
ENEA Regina, addio.
DID. Dove, dove? T'arresta.
Del felice imeneo
ti voglio spettatore.
(Resister non potrà).
ENEA (Costanza, o core).

SCENA XII

IARBA Didone, a che mi chiedi?
Sei folle, se mi credi
dall'ira tua, da tue minacce oppresso.
Non si cangia il mio cor; sempre è l'istesso.
ENEA (Che arroganza!)
DID. Deh placa
il tuo sdegno, o signor. Tu, col tacermi
il tuo grado e il tuo nome,
a gran rischio esponesti il tuo decoro.
Ed io... Ma qui t'assidi,
e con placido volto
ascolta i sensi miei.
IARBA Parla, t'ascolto.
ENEA Permettimi che ormai...
DID. Fermati e siedi.
Troppo lunghe non fian le tue dimore.
(Resister non potrà).
ENEA (Costanza, o core).
IARBA Eh vada. Allor che teco
Iarba soggiorna, ha da partir costui.
ENEA (Ed io lo soffro?)
DID. In lui
in vece d'un rival trovi un amico.
Ei sempre a tuo favore
meco parlò: per suo consiglio io t'amo.
Se credi menzognero
il labbro mio, dillo tu stesso.
ENEA E` vero.
IARBA Dunque nel re de' Mori
altro merto non v'è che un suo consiglio?
DID. No, Iarba; in te mi piace
quel regio ardir, che ti conosco in volto:
amo quel cor sì forte,
sprezzator de' perigli e della morte.
E se il Ciel mi destina
tua compagna e tua sposa...
ENEA Addio, regina.
Basta che fin ad ora
t'abbia ubbidito Enea.
DID. Non basta ancora.
Siedi per un momento.
(Comincia a vacillar).
ENEA (Questo è tormento!)
IARBA Troppo tardi, o Didone,
conosci il tuo dover. Ma pure io voglio
donar gli oltraggi miei
tutti alla tua beltà.
ENEA (Che pena, o dei!)
IARBA In pegno di tua fede
dammi dunque la destra.
DID. Io son contenta.
A più gradito laccio Amor pietoso
stringer non mi potea.
ENEA Più soffrir non si può.
DID. Qual ira, Enea?
ENEA E che vuoi? Non ti basta
quanto fin or soffrì la mia costanza?
DID. Eh taci.
ENEA Che tacer? Tacqui abbastanza.
Vuoi darti al mio rivale,
brami ch'io tel consigli;
tutto faccio per te; che più vorresti?
Ch'io ti vedessi ancor fra le sue braccia?
Dimmi che mi vuoi morto, e non ch'io taccia.
DID. Odi. A torto ti sdegni.
Sai che per ubbidirti...
ENEA Intendo, intendo;
io sono il traditor, son io l'ingrato;
tu sei quella fedele,
che per me perderebbe e vita e soglio:
ma tanta fedeltà veder non voglio.

SCENA XIII

DID. Senti.
IARBA Lascia che parta.
DID. I suoi trasporti
a me giova calmar.
IARBA Di che paventi?
Dammi la destra, e mia
di vendicarti poi la cura sia.
DID. D'imenei non è tempo.
IARBA Perché?
DID. Più non cercar.
IARBA Saperlo io bramo.
DID. Giacché vuoi, tel dirò: perché non t'amo:
perché mai non piacesti agli occhi miei;
perché odioso mi sei; perché mi piace,
più che Iarba fedele, Enea fallace.
IARBA Dunque, perfida, io sono
un oggetto di riso agli occhi tuoi!
Ma sai chi Iarba sia?
Sai con chi ti cimenti?
DID. So che un barbaro sei, né mi spaventi.
IARBA Chiamami pur così.
Forse pentita un dì
pietà mi chiederai,
ma non l'avrai da me.
Quel barbaro, che sprezzi,
non placheranno i vezzi:
né soffrirà l'inganno
quel barbaro da te.

SCENA XIV

DID. E pure in mezzo all'ire
trova pace il mio cor. Iarba non temo;
mi piace Enea sdegnato, ed amo in lui,
come effetti d'amor, gli sdegni sui.
Chi sa. Pietosi numi,
rammentatevi almeno
che foste amanti un dì, come son io;
ed abbia il vostro cor pietà del mio.
Va lusingando Amore
il credulo mio core:
gli dice, "sei felice";
ma non sarà così.
Per poco mi consolo;
ma più crudele io sento
poi ritornar quel duolo,
che sol per un momento
dall'alma si partì.

 

Edizione HTML a cura di: mail@debibliotheca.com

Ultimo Aggiornamento: 18/07/05 01.28.07