ATTO PRIMO SCENA PRIMA
Dafne, Silvia
[ DAFNE] Vorrai dunque pur, Silvia, dai piaceri di Venere lontana menarne tu questa tua giovinezza? Né 'l dolce nome di madre udirai, 5 né intorno ti vedrai vezzosamente scherzar i figli pargoletti? Ah, cangia, cangia, prego, consiglio, pazzarella che sei. [SILVIA] Altri segua i diletti de l'amore, 10 se pur v'è ne l'amor alcun diletto: me questa vita giova, e 'l mio trastullo è la cura de l'arco e de gli strali; seguir le fere fugaci, e le forti atterrar combattendo; e, se non mancano 15 saette a la faretra, o fere al bosco, non tem'io che a me manchino diporti. [DAFNE] Insipidi diporti veramente, ed insipida vita: e, s'a te piace, è sol perché non hai provata l'altra. 20 Così la gente prima, che già visse nel mondo ancora semplice ed infante, stimò dolce bevanda e dolce cibo l'acqua e le ghiande, ed or l'acqua e le ghiande sono cibo e bevanda d'animali, 25 poi che s'è posto in uso il grano e l'uva. Forse, se tu gustassi anco una volta la millesima parte de le gioie che gusta un cor amato riamando, diresti, ripentita, sospirando: 30 «Perduto è tutto il tempo, che in amar non si spende». O mia fuggita etate, quante vedove notti, quanti dì solitari 35 ho consumati indarno, che si poteano impiegar in quest'uso, il qual più replicato è più soave! Cangia, cangia consiglio, pazzarella che sei, 40 ché 'l pentirsi da sezzo nulla giova. [SILVIA] Quando io dirò, pentita, sospirando, queste parole che tu fingi ed orni come a te piace, torneranno i fiumi, a le lor fonti, e i lupi fuggiranno 45 da gli agni, e 'l veltro le timide lepri, amerà l'orso il mare, e 'l delfin l'alpi. [DAFNE] Conosco la ritrosa fanciullezza: qual tu sei, tal io fui: così portava la vita e 'l volto, e così biondo il crine, 50 e così vermigliuzza avea la bocca, e così mista col candor la rosa ne le guancie pienotte e delicate. Era il mio sommo gusto (or me n'avveggio, gusto di sciocca) sol tender le reti, 55 ed invescar le panie, ed aguzzare il dardo ad una cote, e spiar l'orme e 'l covil de le fere: e, se talora vedea guatarmi da cupido amante, chinava gli occhi rustica e selvaggia, 60 piena di sdegno e di vergogna, e m'era mal grata la mia grazia, e dispiacente quanto di me piaceva altrui: pur come fosse mia colpa e mia onta e mio scorno l'esser guardata, amata e desiata. 65 Ma che non puote il tempo? e che non puote, servendo, meritando, supplicando, fare un fedele ed importuno amante? Fui vinta, io te 'l confesso, e furon l'armi del vincitore umiltà, sofferenza, 70 pianti, sospiri, e dimandar mercede. Mostrommi l'ombra d'una breve notte allora quel che 'l lungo corso e 'l lume di mille giorni non m'avea mostrato; ripresi allor me stessa e la mia cieca 75 simplicitate, e dissi sospirando: «Eccoti, Cinzia, il corno, eccoti l'arco, ch'io rinunzio i tuoi strali e la tua vita». Così spero veder ch'anco il tuo Aminta pur un giorno domestichi la tua 80 rozza salvatichezza, ed ammollisca questo tuo cor di ferro e di macigno. Forse ch'ei non è bello? o ch'ei non t'ama? o ch'altri lui non ama? o ch'ei si cambia per l'amor d'altri? over per l'odio tuo? 85 forse ch'in gentilezza egli ti cede? Se tu sei figlia di Cidippe, a cui fu padre il Dio di questo nobil fiume, ed egli è figlio di Silvano, a cui Pane fu padre, il gran Dio de' pastori. 90 Non è men di te bella, se ti guardi dentro lo specchio mai d'alcuna fonte, la candida Amarilli; e pur ei sprezza le sue dolci lusinghe, e segue i tuoi dispettosi fastidi. Or fingi (e voglia 95 pur Dio che questo fingere sia vano) ch'egli, teco sdegnato, al fin procuri ch'a lui piaccia colei cui tanto ei piace: qual animo fia il tuo? o con quali occhi il vedrai fatto altrui? fatto felice 100 ne l'altrui braccia, e te schernir ridendo? [SILVIA] Faccia Aminta di sé e de' suoi amori quel ch'a lui piace: a me nulla ne cale; e, pur che non sia mio, sia di chi vuole; ma esser non può mio, s'io lui non voglio; 105 né, s'anco egli mio fosse, io sarei sua. [DAFNE] Onde nasce il tuo odio? [SILVIA] Dal suo amore. [DAFNE] Piacevol padre di figlio crudele. Ma quando mai dai mansueti agnelli nacquer le tigri? o dai bei cigni i corvi? 110 O me inganni, o te stessa. [SILVIA] Odio il suo amore, ch'odia la mia onestate, ed amai lui, mentr'ei volse di me quel ch'io voleva. [DAFNE] Tu volevi il tuo peggio: egli a te brama quel ch'a sé brama. [SILVIA] Dafne, o taci, o parla 115 d'altro, se vuoi risposta. [DAFNE] Or guata modi! guata che dispettosa giovinetta! Or rispondimi almen: s'altri t'amasse, gradiresti il suo amore in questa guisa? [SILVIA] In questa guisa gradirei ciascuno 120 insidiator di mia virginitate, che tu dimandi amante, ed io nimico. [DAFNE] Stimi dunque nemico il monton de l'agnella? de la giovenca il toro? 125 Stimi dunque nemico il tortore a la fida tortorella? Stimi dunque stagione di nimicizia e d'ira la dolce primavera, 130 ch'or allegra e ridente riconsiglia ad amare il mondo e gli animali e gli uomini e le donne? e non t'accorgi come tutte le cose 135 or sono innamorate d'un amor pien di gioia e di salute? Mira là quel colombo con che dolce susurro lusingando bacia la sua compagna. 140 Odi quell'usignuolo che va di ramo in ramo cantando: «Io amo, io amo»; e, se no 'l sai, la biscia lascia il suo veleno e corre cupida al suo amatore; 145 van le tigri in amore; ama il leon superbo; e tu sol, fiera più che tutte le fere, albergo gli dineghi nel tuo petto. Ma che dico leoni e tigri e serpi, 150 che pur han sentimento? amano ancora gli alberi. Veder puoi con quanto affetto e con quanti iterati abbracciamenti la vite s'avviticchia al suo marito; l'abete ama l'abete, il pino il pino, 155 l'orno per l'orno e per la salce il salce e l'un per l'altro faggio arde e sospira. Quella quercia, che pare sì ruvida e selvaggia, sent'anch'ella il potere 160 de l'amoroso foco; e, se tu avessi spirto e senso d'amore, intenderesti i suoi muti sospiri. Or tu da meno esser vuoi de le piante, per non esser amante? 165 Cangia, cangia consiglio, pazzarella che sei. [SILVIA] Or su, quando i sospiri udirò de le piante, io son contenta allor d'esser amante. 170 [DAFNE] Tu prendi a gabbo i miei fidi consigli e burli mie ragioni? O in amore sorda non men che sciocca! Ma va pure, ché verrà tempo che ti pentirai non averli seguiti. E già non dico 175 allor che fuggirai le fonti, ov'ora spesso ti specchi e forse ti vagheggi, allor che fuggirai le fonti, solo per tema di vederti crespa e brutta; questo averratti ben; ma non t'annuncio 180 già questo solo, ché, bench'è gran male, è però mal commune. Or non rammenti ciò che l'altr'ieri Elpino raccontava, il saggio Elpino a la bella Licori, Licori ch'in Elpin puote con gli occhi 185 quel ch'ei potere in lei dovria col canto, se 'l dovere in amor si ritrovasse? E 'l raccontava udendo Batto e Tirsi gran maestri d'amore, e 'l raccontava ne l'antro de l'Aurora, ove su l'uscio 190 è scritto: «Lungi, ah lungi ite, profani». Diceva egli, e diceva che glie 'l disse quel grande che cantò l'armi e gli amori, ch'a lui lasciò la fistola morendo, che là giù ne lo 'nferno è un nero speco, 195 là dove essala un fumo pien di puzza da le triste fornaci d'Acheronte; e che quivi punite eternamente in tormenti di tenebre e di pianto son le femine ingrate e sconoscenti. 200 Quivi aspetta ch'albergo s'apparecchi a la tua feritate; e dritto è ben ch'il fumo tragga mai sempre il pianto da quegli occhi, onde trarlo giamai 205 non poté la pietate. Segui, segui tuo stile, ostinata che sei. [SILVIA] Ma che fe' allor Licori? e com' rispose a queste cose? [DAFNE] Tu de' fatti propri 210 nulla ti curi, e vuoi saper gli altrui. Con gli occhi gli rispose. [SILVIA] Come risponder sol poté con gli occhi? [DAFNE] Risposer questi con dolce sorriso, volti ad Elpino: «Il core e noi siam tuoi; 215 tu bramar più non déi: costei non puote più darti». E tanto solo basterebbe per intiera mercede al casto amante, se stimasse veraci come belli quegli occhi, e lor prestasse intera fede. 220 [SILVIA] E perché
lor non crede? [DAFNE]
Or tu non sai ciò che Tirsi ne scrisse, allor ch'ardendo forsennato egli errò per le foreste, sì ch'insieme movea pietate e riso ne le vezzose ninfe e ne' pastori? 225 Né già cose scrivea degne di riso, se ben cose facea degne di riso. Lo scrisse in mille piante, e con le piante crebbero i versi; e così lessi in una: «Specchi del cor, fallaci infidi lumi, 230 ben riconosco in voi gli inganni vostri: ma che pro', se schivarli Amor mi toglie?» [SILVIA] Io qui trapasso il tempo ragionando, né mi sovviene ch'oggi è 'l dì prescritto ch'andar si deve a la caccia ordinata 235 ne l'Eliceto. Or, se ti pare, aspetta ch'io pria deponga nel solito fonte il sudore e la polve, ond'ier mi sparsi seguendo in caccia una damma veloce, ch'al fin giunsi ed ancisi. [DAFNE] Aspetterotti, 240 e forse anch'io mi bagnerò nel fonte. Ma sino a le mie case ir prima voglio, ché l'ora non è tarda, come pare. Tu ne le tue m'aspetta ch'a te
venga, e pensa in tanto pur quel che più importa 245 de la caccia e del fonte; e, se non sai, credi di non saper, e credi a' savi.
SCENA SECONDA
Aminta, Tirsi
[AMINTA] Ho visto al pianto mio risponder per pietate i sassi e l'onde, e sospirar le fronde ho visto al pianto mio; 5 ma non ho visto mai, né spero di vedere, compassion ne la crudele e bella, che non so s'io mi chiami o donna o fera: ma niega d'esser donna, 10 poiché nega pietate a chi non la negaro le cose inanimate. [TIRSI] Pasce l'agna l'erbette, il lupo l'agne, ma il crudo Amor di lagrime si pasce, 15 né se ne mostra mai satollo. [AMINTA] Ahi, lasso, ch'Amor satollo è del mio pianto omai, e solo ha sete del mio sangue; e tosto voglio ch'egli e quest'empia il sangue mio bevan con gli occhi. [TIRSI] Ahi, Aminta, ahi, Aminta, 20 che parli? o che vaneggi? Or ti conforta, ch'un'altra troverai, se ti disprezza questa crudele. [AMINTA] Ohimè, come poss'io altri trovar, se me trovar non posso? Se perduto ho me stesso, quale acquisto 25 farò mai che mi piaccia? [TIRSI] O miserello, non disperar, ch'acquisterai costei. La lunga etate insegna a l'uom di porre freno ai leoni ed a le tigri ircane. [AMINTA] Ma il misero non puote a la sua morte 30 indugio sostener di lungo tempo. [TIRSI] Sarà corto l'indugio: in breve spazio s'adira e in breve spazio anco si placa femina, cosa mobil per natura più che fraschetta al vento e più che cima 35 di pieghevole spica. Ma, ti prego, fa ch'io sappia più a dentro de la tua dura condizione e de l'amore; ché, se ben confessato m'hai più volte d'amare, mi tacesti però dove 40 fosse posto l'amore. Ed è ben degna la fedele amicizia ed il commune studio de le Muse ch'a me scuopra ciò ch'agli altri si cela. [AMINTA] Io son contento, Tirsi, a te dir ciò che le selve e i monti 45 e i fiumi sanno, e gli uomini non sanno. Ch'io sono omai sì prossimo a la morte, ch'è ben ragion ch'io lasci chi ridica la cagion del morire, e che l'incida ne la scorza d'un faggio, presso il luogo 50 dove sarà sepolto il corpo essangue; sì che talor passandovi quell'empia si goda di calcar l'ossa infelici co 'l piè superbo, e tra sé dica: «È questo pur mio trionfo»; e goda di vedere 55 che nota sia la sua vittoria a tutti li pastori paesani e pellegrini che quivi il caso guidi; e forse (ahi, spero troppo alte cose) un giorno esser potrebbe ch'ella, commossa da tarda pietate, 60 piangesse morto chi già vivo uccise, dicendo: «Oh pur qui fosse, e fosse mio!» Or odi. [TIRSI] Segui pur, ch'io ben t'ascolto, e forse a miglior fin che tu non pensi. [AMINTA] Essendo io fanciulletto, sì che a pena 65 giunger potea con la man pargoletta a côrre i frutti dai piegati rami degli arboscelli, intrinseco divenni de la più vaga e cara verginella che mai spiegasse al vento chioma d'oro. 70 La figliuola conosci di Cidippe e di Montan, ricchissimo d'armenti, Silvia, onor de le selve, ardor de
l'alme? Di questa parlo, ahi lasso; vissi a questa così unito alcun tempo, che fra due 75 tortorelle più fida compagnia non sarà mai, né fue. Congiunti eran gli alberghi, ma più congiunti i cori; conforme era l'etate, 80 ma 'l pensier più conforme; seco tendeva insidie con le reti ai pesci ed agli augelli, e seguitava i cervi seco e le veloci damme: e 'l diletto e la preda era commune. 85 Ma, mentre io fea rapina d'animali, fui non so come a me stesso rapito. A poco a poco nacque nel mio petto, non so da qual radice, com'erba suol che per se stessa germini, 90 un incognito affetto, che mi fea desiare d'esser sempre presente a la mia bella Silvia; e bevea da' suoi lumi 95 un'estranea dolcezza, che lasciava nel fine un non so che d'amaro; sospirava sovente, e non sapeva la cagion de' sospiri. 100 Così fui prima amante ch'intendessi che cosa fosse Amore. Ben me n'accorsi al fin: ed in qual modo, ora m'ascolta, e nota. [TIRSI] È da notare. [AMINTA] A l'ombra d'un bel faggio Silvia e Filli 105 sedean un giorno, ed io con loro insieme, quando un'ape ingegnosa, che, cogliendo sen' giva il mel per que' prati fioriti, a le guancie di Fillide volando, a le guancie vermiglie come rosa, 110 le morse e le rimorse avidamente: ch'a la similitudine ingannata forse un fior le credette. Allora Filli cominciò lamentarsi, impaziente de l'acuta puntura: 115 ma la mia bella Silvia disse: «Taci, taci, non ti lagnar, Filli, perch'io con parole d'incanti leverotti il dolor de la picciola ferita. A me insegnò già questo secreto 120 la saggia Aresia, e n'ebbe per mercede quel mio corno d'avolio ornato d'oro». Così dicendo, avvicinò le labra de la sua bella e dolcissima bocca a la guancia rimorsa, e con soave 125 susurro mormorò non so che versi. Oh mirabili effetti! Sentì tosto cessar la doglia, o fosse la virtute di que' magici detti, o, com'io credo, la virtù de la bocca, 130 che sana ciò che tocca. Io, che sino a quel punto altro non volsi che 'l soave splendor degli occhi belli, e le dolci parole, assai più dolci che 'l mormorar d'un lento fiumicello 135 che rompa il corso fra minuti sassi, o che 'l garrir de l'aura infra le frondi, allor sentii nel cor novo desire d'appressare a la sua questa mia bocca; e fatto non so come astuto e scaltro 140 più de l'usato (guarda quanto Amore aguzza l'intelletto!) mi sovvenne d'un inganno gentile, co 'l qual io recar potessi a fine il mio talento: ché, fingendo ch'un'ape avesse morso 145 il mio labro di sotto, incominciai a lamentarmi di cotal maniera, che quella medicina, che la lingua non richiedeva, il volto richiedeva. La semplicetta Silvia, 150 pietosa del mio male, s'offrì di dar aita a la finta ferita, ahi lasso, e fece più cupa e più mortale la mia piaga verace, 155 quando le labra sue giunse a le labra mie. Né l'api d'alcun fiore coglion sì dolce il mel ch'allora io colsi da quelle fresche rose, 160 se ben gli ardenti baci, che spingeva il desire a inumidirsi, raffrenò la temenza e la vergogna, o felli più lenti e meno audaci. 165 Ma mentre al cor scendeva quella dolcezza mista d'un secreto veleno, tal diletto n'avea che, fingendo ch'ancor non mi passasse 170 il dolor di quel morso, fei sì ch'ella più volte vi replicò l'incanto. Da indi in qua andò in guisa crescendo il desire e l'affanno impaziente 175 che, non potendo più capir nel petto, fu forza che scoppiasse; ed una volta che in cerchio sedevam ninfe e pastori, e facevamo alcuni nostri giuochi, ché ciascun ne l'orecchio del vicino 180 mormorando diceva un suo secreto, «Silvia,» le dissi «io per te ardo, e certo morrò, se non m'aiti.» A quel parlare chinò ella il bel volto, e fuor le venne un improviso, insolito rossore 185 che diede segno di vergogna e d'ira; né ebbi altra risposta che un silenzio, un silenzio turbato e pien di dure minaccie. Indi si tolse, e più non volle né vedermi né udirmi. E già tre volte 190 ha il nudo mietitor tronche le spighe, ed altretante il verno ha scossi i boschi de le lor verdi chiome; ed ogni cosa tentata ho per placarla, fuor che morte. Mi resta sol che per placarla io mora; 195 e morrò volontier, pur ch'io sia certo ch'ella o se ne compiaccia, o se ne doglia: né so di tai due cose qual più brami. Ben fora la pietà premio maggiore a la mia fede, e maggior ricompensa 200 a la mia morte; ma bramar non deggio cosa che turbi il bel lume sereno agli occhi cari, e affanni quel bel petto. [TIRSI] È possibil però che, s'ella un giorno udisse tai parole, non t'amasse? 205 [AMINTA] Non so, né 'l credo; ma fugge i miei detti come l'aspe l'incanto. [TIRSI] Or ti confida, ch'a me dà il cuor di far ch'ella t'ascolti. [AMINTA] O nulla impetrerai, o, se tu impetri ch'io parli, io nulla impetrerò parlando. 210 [TIRSI] Perché disperi sì? [AMINTA] Giusta cagione ho del mio disperar, che il saggio Mopso mi predisse la mia cruda ventura, Mopso ch'intende il parlar degli augelli e la virtù de l'erbe e de le fonti. 215 [TIRSI] Di qual Mopso tu dici? di quel Mopso c'ha ne la lingua melate parole, e ne le labra un amichevol ghigno, e la fraude nel seno, ed il rasoio tien sotto il manto? Or su, sta di bon core, 220 ché i sciaurati pronostichi infelici, ch'ei vende a' mal accorti con quel grave suo supercilio, non han mai effetto: e per prova so io ciò che ti dico; anzi da questo sol ch'ei t'ha predetto 225 mi giova di sperar felice fine a l'amor tuo. [AMINTA] Se sai cosa per prova, che conforti mia speme, non tacerla. [TIRSI] Dirolla volontieri. Allor che prima mia sorte mi condusse in queste selve, 230 costui conobbi, e lo stimava io tale qual tu lo stimi; in tanto un dì mi venne e bisogno e talento d'irne dove siede la gran cittade in ripa al fiume, ed a costui ne feci motto; ed egli 235 così mi disse: «Andrai ne la gran terra, ove gli astuti e scaltri cittadini e i cortigian malvagi molte volte prendonsi a gabbo, e fanno brutti scherni di noi rustici incauti; però, figlio, 240 va su l'avviso, e non t'appressar troppo ove sian drappi colorati e d'oro, e pennacchi e divise e foggie nove; ma sopra tutto guarda che mal fato o giovenil vaghezza non ti meni 245 al magazzino de le ciancie: ah fuggi, fuggi quell'incantato alloggiamento». «Che luogo è questo?» io chiesi; ed ei soggiunse: «Quivi abitan le maghe, che incantando fan traveder e traudir ciascuno. 250 Ciò che diamante sembra ed oro fino, è vetro e rame; e quelle arche d'argento, che stimeresti piene di tesoro, sporte son piene di vesciche bugge. Quivi le mura son fatte con arte, 255 che parlano e rispondono ai parlanti; né già rispondon la parola mozza, com'Eco suole ne le nostre selve, ma la replican tutta intiera intiera: con giunta anco di quel ch'altri non disse. 260 I trespidi, le tavole e le panche, le scranne, le lettiere, le cortine, e gli arnesi di camera e di sala han tutti lingua e voce: e gridan sempre. Quivi le ciancie in forma di bambine 265 vanno trescando, e se un muto v'entrasse, un muto ciancerebbe a suo dispetto. Ma questo è 'l minor mal che ti potesse incontrar: tu potresti indi restarne converso in selce, in fera, in acqua, o in foco: 270 acqua di pianto, e foco di sospiri». Così diss'egli; ed io n'andai con questo fallace antiveder ne la cittade; e, come volse il Ciel benigno, a caso passai per là dov'è 'l felice albergo. 275 Quindi uscian fuor voci canore e dolci e di cigni e di ninfe e di sirene, di sirene celesti; e n'uscian suoni soavi e chiari; e tanto altro diletto, ch'attonito godendo ed ammirando, 280 mi fermai buona pezza. Era su l'uscio, quasi per guardia de le cose belle, uom d'aspetto magnanimo e robusto, di cui, per quanto intesi, in dubbio stassi s'egli sia miglior duce o cavaliero; 285 che, con fronte benigna insieme e grave, con regal cortesia invitò dentro, ei grande e 'n pregio, me negletto e basso. Oh che sentii? che vidi allora? I' vidi celesti dee, ninfe leggiadre e belle, 290 novi Lini ed Orfei; ed oltre ancora, senza vel, senza nube, e quale e quanta a gl'immortali appar, vergine Aurora sparger d'argento e d'or rugiade e raggi; e fecondando illuminar d'intorno 295 vidi Febo, e le Muse, e fra le Muse Elpin seder accolto; ed in quel punto sentii me far di me stesso maggiore, pien di nova virtù, pieno di nova deitade, e cantai guerre ed eroi, 300 sdegnando pastoral ruvido carme. E se ben poi (come altrui piacque) feci ritorno a queste selve, io pur ritenni parte di quello spirto; né già suona la mia sampogna umil come soleva, 305 ma di voce più altera e più sonora emula de le trombe, empie le selve. Udimmi Mopso poscia, e con maligno guardo mirando, affascinommi; ond'io roco divenni, e poi gran tempo tacqui: 310 quando i pastor credean ch'io fossi stato visto dal lupo, e 'l lupo era costui. Questo t'ho detto, acciò che sappi quanto il parlar di costui di fede è degno; e déi bene sperar, sol perché ei vuole 315 che nulla speri. [AMINTA] Piacemi d'udire quanto mi narri. A te dunque rimetto la cura di mia vita. [TIRSI] Io n'avrò cura. Tu fra mezz'ora qui trovar ti lassa. [CORO] O bella età de l'oro, 320 non già perché di latte sen' corse il fiume e stillò mele il bosco; non perché i frutti loro dier da l'aratro intatte le terre, e gli angui errar senz'ira o tosco; 325 non perché nuvol fosco non spiegò allor suo velo, ma in primavera eterna, ch'ora s'accende e verna, rise di luce e di sereno il cielo; 330 né portò peregrino o guerra o merce agli altrui lidi il pino; ma sol perché quel vano nome senza soggetto, quell'idolo d'errori, idol d'inganno, 335 quel che dal volgo insano onor poscia fu detto, che di nostra natura 'l feo tiranno, non mischiava il suo affanno fra le liete dolcezze 340 de l'amoroso gregge; né fu sua dura legge nota a quell'alme in libertate avvezze, ma legge aurea e felice che natura scolpì: «S'ei piace, ei lice». 345 Allor tra fiori e linfe traen dolci carole gli Amoretti senz'archi e senza faci; sedean pastori e ninfe meschiando a le parole 350 vezzi e susurri, ed ai susurri i baci strettamente tenaci; la verginella ignude scopria sue fresche rose, ch'or tien nel velo ascose, 355 e le poma del seno acerbe e crude; e spesso in fonte o in lago scherzar si vide con l'amata il vago. Tu prima, Onor, velasti la fonte dei diletti, 360 negando l'onde a l'amorosa sete; tu a' begli occhi insegnasti di starne in sé ristretti, e tener lor bellezze altrui secrete; tu raccogliesti in rete 365 le chiome a l'aura sparte; tu i dolci atti lascivi festi ritrosi e schivi; ai detti il fren ponesti, ai passi l'arte; opra è tua sola, o Onore, 370 che furto sia quel che fu don d'Amore. E son tuoi fatti egregi le pene e i pianti nostri. Ma tu, d'Amore e di Natura donno, tu domator de' Regi, 375 che fai tra questi chiostri, che la grandezza tua capir non ponno? Vattene, e turba il sonno agl'illustri e potenti: noi qui, negletta e bassa 380 turba, senza te lassa viver ne l'uso de l'antiche genti. Amiam, ché non ha tregua con gli anni umana vita, e si dilegua. Amiam, ché 'l Sol si muore e poi rinasce: 385 a noi sua breve luce s'asconde, e 'l sonno eterna notte adduce.
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Edizione HTML a cura di: mail@debibliotheca.com Ultimo Aggiornamento:18/07/2005 01.30 |
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