ATTO QUARTO
SCENA PRIMA
Cassio, Cimbro.
CIMBRO |
Quant'io ti dico, è certo: uscir fu visto
Bruto or dianzi di qui; turbato in volto,
pregni di pianto gli occhi, ei si avviava
ver le sue case. Oh! potrebbe egli mai
cangiarsi?... |
CASSIO |
Ah! no. Bruto ama
Roma; ed ama
la gloria, e il retto. A noi verrá tra
breve,
come il promise. In lui, piú che in me
stesso,
credo, e mi affido. Ogni suo detto, ed
opra,
d'alto cor nasce; ei della patria sola
l'util pondera, e vede. |
CIMBRO |
Eccolo appunto. |
CASSIO |
Non tel diss'io? |
SCENA SECONDA
Bruto, Cassio, Cimbro.
BRUTO |
Che fia? voi soli
trovo? |
CASSIO |
E siam noi pochi, ove tu a noi ti aggiungi? |
BRUTO |
Tullio manca... |
CIMBRO |
Nol sai?
precipitoso
ei con molti altri senatori usciva
di Roma or dianzi. |
CASSIO |
Il gel degli
anni in lui
l'ardir suo prisco, e la virtude
agghiaccia... |
BRUTO |
Ma non l'estingue. Ah! niun Romano ardisca
il gran Tullio spregiar. Per esso io 'l
giuro,
che a miglior uopo, a pro di Roma, ei
serba
e libertade e vita. |
CASSIO |
Oh noi felici!
Noi certi almen, siam certi, o di venirne
a onorata laudevole vecchiezza,
liberi; o certi, di perir con Roma,
nel fior degli anni. |
BRUTO |
Ah! sí; felici
voi!...
Nol son io, no; cui riman scelta orrenda
fra il morir snaturato, o il viver servo. |
CASSIO |
Che dir vuoi tu? |
CIMBRO |
Dal favellar tuo
lungo
col dittator, che ne traesti? |
BRUTO |
Io?... nulla
per Roma; orrore e dolor smisurato
per me; stupor per voi, misto fors'anco
di un giusto sprezzo. |
CIMBRO |
E per chi mai? |
BRUTO |
Per Bruto. |
CIMBRO |
Spregiarti noi? |
CASSIO |
Tu, che di Roma
sei,
e di noi, l'alma?... |
BRUTO |
Io son,... chi 'l
crederia?...
Misero me!... Finor tenuto io m'era
del divin Cato il genero, e il nipote;...
e del tiranno Cesare io son figlio. |
CIMBRO |
Che ascolto? Esser potrebbe?... |
CASSIO |
E sia: non
toglie,
che il piú fero nemico del tiranno
non sia Bruto pur sempre: ah! Cassio il
giura. |
BRUTO |
Orribil macchia inaspettata io trovo
nel mio sangue; a lavarla, io tutto il
deggio
versar per Roma. |
CASSIO |
O Bruto, di te
stesso
figlio esser dei. |
CIMBRO |
Ma pur, quai
prove addusse
Cesare a te? Come a lui fede?... |
BRUTO |
Ah! prove,
certe pur troppo, ei mi adducea. Qual
padre
ei da pria mi parlava: a parte pormi
dell'esecrabil suo poter volea
per ora, e farmen poscia infame erede.
Dal tirannico ciglio umano pianto
scendea pur anco; e del suo guasto cuore,
senza arrossir, le piú riposte falde,
come a figlio, ei mi apriva. A farmi
appieno
convinto in fine, un fatal foglio (oh
cielo!)
legger mi fea. Servilia a lui vergollo
di proprio pugno. In quel funesto foglio,
scritto pria che si alzasse il crudel
suono
della tromba farsalica, tremante
Servilia svela, e afferma, ch'io son
frutto
dei loro amori; e in brevi e caldi detti,
ella scongiura Cesare a non farsi
trucidator del proprio figlio. |
CIMBRO |
Oh fero,
funesto arcano! entro all'eterna notte
che non restasti?... |
CASSIO |
E se qual figlio
ei t'ama,
nel veder tanta in te virtú verace,
nell'ascoltar gli alti tuoi forti sensi,
come resister mai di un vero padre
potea pur l'alma? Indubitabil prova
ne riportasti omai, che nulla al mondo
Cesare può dal vil suo fango trarre. |
BRUTO |
Talvolta ancora il ver traluce all'ebbra
mente sua, ma traluce in debil raggio.
Uso in campo a regnar or giá molti anni,
fero un error lo invesca; ei gloria somma
stima il sommo poter; quindi ei s'ostina
a voler regno, o morte. |
CIMBRO |
E morte egli
abbia
tal mostro dunque. |
CASSIO |
Incorreggibil,
fermo
tiranno egli è. Pensa omai dunque, o
Bruto,
che un cittadin di Roma non ha padre... |
CIMBRO |
E che un tiranno non ha figli mai... |
BRUTO |
E che in cor mai non avrá Bruto pace. -Sí,
generosi amici, al nobil vostro
cospetto io 'l dico: a voi, che in cor
sentite
sublimi e sacri di natura i moti;
a voi, che impulso da natura, e norma,
pigliate all'alta necessaria impresa,
ch'or per compiere stiamo; a voi, che
solo
per far securi in grembo al padre i
figli,
meco anelate or di troncar per sempre
la tirannia che parte e rompe e annulla
ogni vincol piú santo; a voi non temo
tutto mostrare il dolore, e l'orrore,
che a brani a brani il cuor squarciano a
gara
di me figlio di Cesare e di Roma.
Nemico aspro, implacabil, del tiranno
io mi mostrava in faccia a lui; né un
detto,
né un moto, né una lagrima appariva
di debolezza in me; ma, lunge io appena
dagli occhi suoi, di mille furie in preda
cadeami l'alma. Ai lari miei men corro:
ivi, sicuro sfogo, alto consiglio,
cor piú sublime assai del mio, mi è
dato
di ritrovar: fra' lari miei la illustre
Porzia di Cato figlia, a Cato pari,
moglie alberga di Bruto... |
CASSIO |
E d'ambo degna
è la gran donna. |
CIMBRO |
Ah! cosí stata
il fosse
anco Servilia! |
BRUTO |
Ella, in sereno e
forte
volto, bench'egra giaccia or da piú
giorni,
me turbato raccoglie. Anzi ch'io parli,
dice ella a me: «Bruto, gran cose in
petto
da lungo tempo ascondi; ardir non ebbi
di domandarten mai, fin che a feroce
prova, ma certa, il mio coraggio appieno
non ebbi io stessa conosciuto. Or, mira;
donna non sono». E in cosí dir, cadersi
lascia del manto il lembo, e a me
discuopre
larga orribile piaga a sommo il fianco.
Quindi soggiunge: «Questa immensa piaga,
con questo stil, da questa mano, è
fatta,
or son piú giorni: a te taciuta sempre,
e imperturbabilmente sopportata
dal mio cor, benché infermo il corpo
giaccia;
degna al fin, s'io non erro, questa piaga
fammi e d'udire, e di tacer, gli arcani
di Bruto mio». |
CIMBRO |
Qual donna! |
CASSIO |
A lei qual
puossi
uom pareggiare? |
BRUTO |
A lei davante io
quindi,
quasi a mio tutelar Genio sublime,
prostrato caddi, a una tal vista; e muto,
piangente, immoto, attonito, mi stava. -
Ripresa poscia la favella, io tutte
l'aspre tempeste del mio cor le narro.
Piange al mio pianger ella; ma il suo
pianto
non è di donna, è di Romano. Il solo
fato avverso ella incolpa: e in darmi
forse
lo abbraccio estremo, osa membrarmi
ancora,
ch'io di Roma son figlio, a Porzia sposo,
e ch'io Bruto mi appello. - Ah! né un
istante
mai non diedi all'oblio tai nomi, mai:
e a giurarvelo, vengo. - Altro non volli,
che del mio stato orribile accennarvi
la minor parte; e d'amistá fu sfogo
quant'io finora dissi. - Or, so; voi
primi
convincer deggio, che da Roma tormi,
né il può natura stessa... Ma, il
dolore,
il disperato dolor mio torrammi
poscia, pur troppo! e per sempre, a me
stesso. |
CIMBRO |
Romani siamo, è ver; ma siamo a un tempo
uomini; il non sentirne affetto alcuno,
ferocia in noi stupida fora... Oh
Bruto!...
Il tuo parlar strappa a me pure il
pianto. |
CASSIO |
Sentir dobbiam tutti gli umani affetti;
ma, innanzi a quello della patria
oppressa,
straziata, e morente, taccion tutti:
o, se pur parlan, l'ascoltargli a ogni
uomo,
fuor che a Bruto, si dona. |
BRUTO |
In reputarmi
piú forte e grande ch'io nol son, me
grande
e forte fai, piú ch'io per me nol fora.
-
Cassio,ecco omai rasciutto ho il ciglio
appieno. -
Giá si appressan le tenebre: il gran
giorno
doman sará. Tutto di nuovo io giuro,
quanto è fra noi giá risoluto. Io poso
del tutto in voi; posate in me:
null'altro
chieggo da voi, fuor che aspettiate il
cenno
da me soltanto. |
CASSIO |
Ah! dei Romani il
primo
davver sei tu. - Ma, chi mai vien?... |
CIMBRO |
Che veggio?
Antonio! |
BRUTO |
A me Cesare or
certo il manda.
State; e ci udite. |
SCENA TERZA
Antonio, Cassio, Bruto, Cimbro.
ANTONIO |
In traccia, o
Bruto, io vengo
di te: parlar teco degg'io. |
BRUTO |
Favella:
io t'ascolto. |
ANTONIO |
Ma, dato emmi
l'incarco
dal dittatore... |
BRUTO |
E sia ciò pure. |
ANTONIO |
Io debbo
favellare a te solo. |
BRUTO |
Io qui son solo.
Cassio, di Giunia a me germana è sposo;
del gran Caton mio suocero, l'amico
era Cimbro, e il piú fido: amor di Roma,
sangue, amistá, fan che in tre corpi
un'alma
sola siam noi. Nulla può dire a Bruto
Cesare mai, che nol ridica ei tosto
a Cassio, e a Cimbro. |
ANTONIO |
Hai tu comun
con essi
anco il padre? |
BRUTO |
Diviso han meco
anch'essi
l'onta e il dolor del tristo nascer mio:
tutto ei sanno. Favella. - Io son ben
certo,
che in sé tornato Cesare, ei t'invia,
generoso, per tormi or la vergogna
d'esser io stato d'un tiranno il figlio.
Tutto esponi, su dunque: aver non puoi
del cangiarsi di Cesare sublime,
da re ch'egli era in cittadin, piú
accetti
testimon mai, di questi. - Or via, ci
svela
il suo novello amore alto per Roma;
le sue per me vere paterne mire;
ch'io benedica il dí, che di lui nacqui. |
ANTONIO |
- Di parlare a te solo m'imponeva
il dittatore. Ei, vero padre, e cieco
quanto infelice, lusingarsi ancora
pur vuol, che arrender ti potresti al
grido
possente e sacro di natura. |
BRUTO |
E in quale
guisa arrendermi debbo? a che
piegarmi?... |
ANTONIO |
A rispettare e amar chi a te diè vita:
ovver, se amar tuo ferreo cuor non puote,
a non tradire il tuo dover piú sacro;
a non mostrarti immemore ed indegno
dei ricevuti benefizj; in somma,
a mertar quei, ch'egli a te nuovi
appresta. -
Troppo esser temi uman, se a ciò ti
pieghi? |
BRUTO |
Queste, ch'or vuote ad arte a me tu dai,
parole son; stringi, e rispondi. È
presto
Cesare, al dí novello, in pien senato,
a rinunziar la dittatura? è presto
senza esercito a starsi? a scior dal rio
comun terror tutti i Romani? a sciorne
e gli amici, e i nemici, e in un se
stesso?
a render vita alle da lui sprezzate
battute e spente leggi sacrosante?
a sottoporsi ad esse sole ei primo? -
Questi son, questi, i benefizj espressi,
cui far può a Bruto il genitor suo vero. |
ANTONIO |
Sta bene. - Altro hai che dirmi? |
BRUTO |
Altro non dico
a chi udirmi non merta. - Al signor tuo
riedi tu dunque, e digli; che ancor
spero,
anzi, ch'io credo, e certo son, che al
nuovo
sole in senato utili cose ed alte,
per la salvezza e libertá di Roma,
ei proporrá: digli, che Bruto allora,
di Roma tutta in faccia, a' piedi suoi
cadrá primier, qual cittadino e figlio;
dove pur padre e cittadino ei sia.
E digli in fin, ch'ardo in mio core al
paro
di far riviver per noi tutti Roma,
come di far rivivere per essa
Cesare... |
ANTONIO |
Intendo. - A lui
dirò quant'io,
(pur troppo invan!) gran tempo è giá,
gli dissi. |
BRUTO |
Maligno messo, ed infedel, ti estimo,
infra Cesare e Bruto: ma, s'ei pure
a ciò te scelse, a te risposta io diedi. |
ANTONIO |
Se a me credesse, e all'utile di Roma.
Cesare omai, messo ei non altro a Bruto
dovria mandar, che coi littor le scuri. |
SCENA QUARTA
Bruto, Cassio, Cimbro.
CIMBRO |
Udiste?... |
CASSIO |
Oh Bruto!... il
Dio tu sei di Roma. |
CIMBRO |
Questo arrogante iniquo schiavo, anch'egli
punir si debbe... |
BRUTO |
Ei di nostr'ira,
parmi,
degno non fora. - Amici, ultima prova
domane io fo: se vana ell'è, promisi
io di dar cenno, e di aspettarlo voi:
v'affiderete in me? |
CASSIO |
Tu a noi sei
tutto. -
Usciam di qui: tempo è d'andarne ai
pochi
che noi scegliemmo; e che a morir per
Roma
doman con noi si apprestano. |
BRUTO |
Si vada. |
|