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CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

La Divina Commedia

di: Dante Alighieri

INFERNO

[Canto XVII] [Canto XVIII] [Canto XIX] [Canto XX]

 [Canto XXI] [Canto XXII] [Canto XXIII] [Canto XXIV]

Canto XVII

 "Ecco la fiera con la coda aguzza,

che passa i monti, e rompe i muri e l'armi!

Ecco colei che tutto 'l mondo appuzza!".

Sì cominciò lo mio duca a parlarmi;

e accennolle che venisse a proda

vicino al fin d'i passeggiati marmi.

E quella sozza imagine di froda

sen venne, e arrivò la testa e 'l busto,

ma 'n su la riva non trasse la coda.

La faccia sua era faccia d'uom giusto,

tanto benigna avea di fuor la pelle,

e d'un serpente tutto l'altro fusto;

due branche avea pilose insin l'ascelle;

lo dosso e 'l petto e ambedue le coste

dipinti avea di nodi e di rotelle.

Con più color, sommesse e sovraposte

non fer mai drappi Tartari né Turchi,

né fuor tai tele per Aragne imposte.

Come tal volta stanno a riva i burchi,

che parte sono in acqua e parte in terra,

e come là tra li Tedeschi lurchi

lo bivero s'assetta a far sua guerra,

così la fiera pessima si stava

su l'orlo ch'è di pietra e 'l sabbion serra.

Nel vano tutta sua coda guizzava,

torcendo in sù la venenosa forca

ch'a guisa di scorpion la punta armava.

Lo duca disse: "Or convien che si torca

la nostra via un poco insino a quella

bestia malvagia che colà si corca".

Però scendemmo a la destra mammella,

e diece passi femmo in su lo stremo,

per ben cessar la rena e la fiammella.

E quando noi a lei venuti semo,

poco più oltre veggio in su la rena

gente seder propinqua al loco scemo.

Quivi 'l maestro "Acciò che tutta piena

esperienza d'esto giron porti",

mi disse, "va, e vedi la lor mena.

Li tuoi ragionamenti sian là corti:

mentre che torni, parlerò con questa,

che ne conceda i suoi omeri forti".

Così ancor su per la strema testa

di quel settimo cerchio tutto solo

andai, dove sedea la gente mesta.

Per li occhi fora scoppiava lor duolo;

è di qua, di là soccorrien con le mani

quando a' vapori, e quando al caldo suolo:

non altrimenti fan di state i cani

or col ceffo, or col piè, quando son morsi

o da pulci o da mosche o da tafani.

Poi che nel viso a certi li occhi porsi,

ne' quali 'l doloroso foco casca,

non ne conobbi alcun; ma io m'accorsi

che dal collo a ciascun pendea una tasca

ch'avea certo colore e certo segno,

e quindi par che 'l loro occhio si pasca.

E com'io riguardando tra lor vegno,

in una borsa gialla vidi azzurro

che d'un leone avea faccia e contegno.

Poi, procedendo di mio sguardo il curro,

vidine un'altra come sangue rossa,

mostrando un'oca bianca più che burro.

E un che d'una scrofa azzurra e grossa

segnato avea lo suo sacchetto bianco,

mi disse: "Che fai tu in questa fossa?

Or te ne va; e perché se' vivo anco,

sappi che 'l mio vicin Vitaliano

sederà qui dal mio sinistro fianco.

Con questi Fiorentin son padoano:

spesse fiate mi 'ntronan li orecchi

gridando: "Vegna 'l cavalier sovrano,

che recherà la tasca con tre becchi!"".

Qui distorse la bocca e di fuor trasse

la lingua, come bue che 'l naso lecchi.

E io, temendo no 'l più star crucciasse

lui che di poco star m'avea 'mmonito,

torna'mi in dietro da l'anime lasse.

Trova' il duca mio ch'era salito

già su la groppa del fiero animale,

e disse a me: "Or sie forte e ardito.

Omai si scende per sì fatte scale:

monta dinanzi, ch'i' voglio esser mezzo,

sì che la coda non possa far male".

Qual è colui che sì presso ha 'l riprezzo

de la quartana, c'ha già l'unghie smorte,

e triema tutto pur guardando 'l rezzo,

tal divenn'io a le parole porte;

ma vergogna mi fé le sue minacce,

che innanzi a buon segnor fa servo forte.

I' m'assettai in su quelle spallacce;

sì volli dir, ma la voce non venne

com'io credetti: 'Fa che tu m'abbracce'.

Ma esso, ch'altra volta mi sovvenne

ad altro forse, tosto ch'i' montai

con le braccia m'avvinse e mi sostenne;

e disse: "Gerion, moviti omai:

le rote larghe e lo scender sia poco:

pensa la nova soma che tu hai".

Come la navicella esce di loco

in dietro in dietro, sì quindi si tolse;

e poi ch'al tutto si sentì a gioco,

là 'v'era 'l petto, la coda rivolse,

e quella tesa, come anguilla, mosse,

e con le branche l'aere a sé raccolse.

Maggior paura non credo che fosse

quando Fetonte abbandonò li freni,

per che 'l ciel, come pare ancor, si cosse;

né quando Icaro misero le reni

sentì spennar per la scaldata cera,

gridando il padre a lui "Mala via tieni!",

che fu la mia, quando vidi ch'i' era

ne l'aere d'ogni parte, e vidi spenta

ogni veduta fuor che de la fera.

Ella sen va notando lenta lenta:

rota e discende, ma non me n'accorgo

se non che al viso e di sotto mi venta.

Io sentia già da la man destra il gorgo

far sotto noi un orribile scroscio,

per che con li occhi 'n giù la testa sporgo.

Allor fu' io più timido a lo stoscio,

però ch'i' vidi fuochi e senti' pianti;

ond'io tremando tutto mi raccoscio.

E vidi poi, ché nol vedea davanti,

lo scendere e 'l girar per li gran mali

che s'appressavan da diversi canti.

Come 'l falcon ch'è stato assai su l'ali,

che sanza veder logoro o uccello

fa dire al falconiere "Omè, tu cali!",

discende lasso onde si move isnello,

per cento rote, e da lunge si pone

dal suo maestro, disdegnoso e fello;

così ne puose al fondo Gerione

al piè al piè de la stagliata rocca

e, discarcate le nostre persone,

si dileguò come da corda cocca.

  

 Canto XVIII

 Luogo è in inferno detto Malebolge,

tutto di pietra di color ferrigno,

come la cerchia che dintorno il volge.

Nel dritto mezzo del campo maligno

vaneggia un pozzo assai largo e profondo,

di cui suo loco dicerò l'ordigno.

Quel cinghio che rimane adunque è tondo

tra 'l pozzo e 'l piè de l'alta ripa dura,

e ha distinto in dieci valli il fondo.

Quale, dove per guardia de le mura

più e più fossi cingon li castelli,

la parte dove son rende figura,

tale imagine quivi facean quelli;

e come a tai fortezze da' lor sogli

a la ripa di fuor son ponticelli,

così da imo de la roccia scogli

movien che ricidien li argini e ' fossi

infino al pozzo che i tronca e raccogli.

In questo luogo, de la schiena scossi

di Gerion, trovammoci; e 'l poeta

tenne a sinistra, e io dietro mi mossi.

A la man destra vidi nova pieta,

novo tormento e novi frustatori,

di che la prima bolgia era repleta.

Nel fondo erano ignudi i peccatori;

dal mezzo in qua ci venien verso 'l volto,

di là con noi, ma con passi maggiori,

come i Roman per l'essercito molto,

l'anno del giubileo, su per lo ponte

hanno a passar la gente modo colto,

che da l'un lato tutti hanno la fronte

verso 'l castello e vanno a Santo Pietro;

da l'altra sponda vanno verso 'l monte.

Di qua, di là, su per lo sasso tetro

vidi demon cornuti con gran ferze,

che li battien crudelmente di retro.

Ahi come facean lor levar le berze

a le prime percosse! già nessuno

le seconde aspettava né le terze.

Mentr'io andava, li occhi miei in uno

furo scontrati; e io sì tosto dissi:

"Già di veder costui non son digiuno".

Per ch'io a figurarlo i piedi affissi;

e 'l dolce duca meco si ristette,

e assentio ch'alquanto in dietro gissi.

E quel frustato celar si credette

bassando 'l viso; ma poco li valse,

ch'io dissi: "O tu che l'occhio a terra gette,

se le fazion che porti non son false,

Venedico se' tu Caccianemico.

Ma che ti mena a sì pungenti salse?".

Ed elli a me: "Mal volentier lo dico;

ma sforzami la tua chiara favella,

che mi fa sovvenir del mondo antico.

I' fui colui che la Ghisolabella

condussi a far la voglia del marchese,

come che suoni la sconcia novella.

E non pur io qui piango bolognese;

anzi n'è questo luogo tanto pieno,

che tante lingue non son ora apprese

a dicer 'sipa' tra Sàvena e Reno;

e se di ciò vuoi fede o testimonio,

rècati a mente il nostro avaro seno".

Così parlando il percosse un demonio

de la sua scuriada, e disse: "Via,

ruffian! qui non son femmine da conio".

I' mi raggiunsi con la scorta mia;

poscia con pochi passi divenimmo

là 'v'uno scoglio de la ripa uscia.

Assai leggeramente quel salimmo;

e vòlti a destra su per la sua scheggia,

da quelle cerchie etterne ci partimmo.

Quando noi fummo là dov'el vaneggia

di sotto per dar passo a li sferzati,

lo duca disse: "Attienti, e fa che feggia

lo viso in te di quest'altri mal nati,

ai quali ancor non vedesti la faccia

però che son con noi insieme andati".

Del vecchio ponte guardavam la traccia

che venìa verso noi da l'altra banda,

e che la ferza similmente scaccia.

E 'l buon maestro, sanza mia dimanda,

mi disse: "Guarda quel grande che vene,

e per dolor non par lagrime spanda:

quanto aspetto reale ancor ritene!

Quelli è Iasón, che per cuore e per senno

li Colchi del monton privati féne.

Ello passò per l'isola di Lenno,

poi che l'ardite femmine spietate

tutti li maschi loro a morte dienno.

Ivi con segni e con parole ornate

Isifile ingannò, la giovinetta

che prima avea tutte l'altre ingannate.

Lasciolla quivi, gravida, soletta;

tal colpa a tal martiro lui condanna;

e anche di Medea si fa vendetta.

Con lui sen va chi da tal parte inganna:

e questo basti de la prima valle

sapere e di color che 'n sé assanna".

Già eravam là 've lo stretto calle

con l'argine secondo s'incrocicchia,

e fa di quello ad un altr'arco spalle.

Quindi sentimmo gente che si nicchia

ne l'altra bolgia e che col muso scuffa,

e sé medesma con le palme picchia.

Le ripe eran grommate d'una muffa,

per l'alito di giù che vi s'appasta,

che con li occhi e col naso facea zuffa.

Lo fondo è cupo sì, che non ci basta

loco a veder sanza montare al dosso

de l'arco, ove lo scoglio più sovrasta.

Quivi venimmo; e quindi giù nel fosso

vidi gente attuffata in uno sterco

che da li uman privadi parea mosso.

E mentre ch'io là giù con l'occhio cerco,

vidi un col capo sì di merda lordo,

che non parea s'era laico o cherco.

Quei mi sgridò: "Perché se' tu sì gordo

di riguardar più me che li altri brutti?".

E io a lui: "Perché, se ben ricordo,

già t'ho veduto coi capelli asciutti,

e se' Alessio Interminei da Lucca:

però t'adocchio più che li altri tutti".

Ed elli allor, battendosi la zucca:

"Qua giù m'hanno sommerso le lusinghe

ond'io non ebbi mai la lingua stucca".

Appresso ciò lo duca "Fa che pinghe",

mi disse "il viso un poco più avante,

sì che la faccia ben con l'occhio attinghe

di quella sozza e scapigliata fante

che là si graffia con l'unghie merdose,

e or s'accoscia e ora è in piedi stante.

Taide è, la puttana che rispuose

al drudo suo quando disse "Ho io grazie

grandi apo te?": "Anzi maravigliose!".

E quinci sien le nostre viste sazie".

  

 Canto XIX

 O Simon mago, o miseri seguaci

che le cose di Dio, che di bontate

deon essere spose, e voi rapaci

per oro e per argento avolterate,

or convien che per voi suoni la tromba,

però che ne la terza bolgia state.

Già eravamo, a la seguente tomba,

montati de lo scoglio in quella parte

ch'a punto sovra mezzo 'l fosso piomba.

O somma sapienza, quanta è l'arte

che mostri in cielo, in terra e nel mal mondo,

e quanto giusto tua virtù comparte!

Io vidi per le coste e per lo fondo

piena la pietra livida di fóri,

d'un largo tutti e ciascun era tondo.

Non mi parean men ampi né maggiori

che que' che son nel mio bel San Giovanni,

fatti per loco d'i battezzatori;

l'un de li quali, ancor non è molt'anni,

rupp'io per un che dentro v'annegava:

e questo sia suggel ch'ogn'omo sganni.

Fuor de la bocca a ciascun soperchiava

d'un peccator li piedi e de le gambe

infino al grosso, e l'altro dentro stava.

Le piante erano a tutti accese intrambe;

per che sì forte guizzavan le giunte,

che spezzate averien ritorte e strambe.

Qual suole il fiammeggiar de le cose unte

muoversi pur su per la strema buccia,

tal era lì dai calcagni a le punte.

"Chi è colui, maestro, che si cruccia

guizzando più che li altri suoi consorti",

diss'io, "e cui più roggia fiamma succia?".

Ed elli a me: "Se tu vuo' ch'i' ti porti

là giù per quella ripa che più giace,

da lui saprai di sé e de' suoi torti".

E io: "Tanto m'è bel, quanto a te piace:

tu se' segnore, e sai ch'i' non mi parto

dal tuo volere, e sai quel che si tace".

Allor venimmo in su l'argine quarto:

volgemmo e discendemmo a mano stanca

là giù nel fondo foracchiato e arto.

Lo buon maestro ancor de la sua anca

non mi dipuose, sì mi giunse al rotto

di quel che si piangeva con la zanca.

"O qual che se' che 'l di sù tien di sotto,

anima trista come pal commessa",

comincia' io a dir, "se puoi, fa motto".

Io stava come 'l frate che confessa

lo perfido assessin, che, poi ch'è fitto,

richiama lui, per che la morte cessa.

Ed el gridò: "Se' tu già costì ritto,

se' tu già costì ritto, Bonifazio?

Di parecchi anni mi mentì lo scritto.

Se' tu sì tosto di quell'aver sazio

per lo qual non temesti tòrre a 'nganno

la bella donna, e poi di farne strazio?".

Tal mi fec'io, quai son color che stanno,

per non intender ciò ch'è lor risposto,

quasi scornati, e risponder non sanno.

Allor Virgilio disse: "Dilli tosto:

"Non son colui, non son colui che credi"";

e io rispuosi come a me fu imposto.

Per che lo spirto tutti storse i piedi;

poi, sospirando e con voce di pianto,

mi disse: "Dunque che a me richiedi?

Se di saper ch'i' sia ti cal cotanto,

che tu abbi però la ripa corsa,

sappi ch'i' fui vestito del gran manto;

e veramente fui figliuol de l'orsa,

cupido sì per avanzar li orsatti,

che sù l'avere e qui me misi in borsa.

Di sotto al capo mio son li altri tratti

che precedetter me simoneggiando,

per le fessure de la pietra piatti.

Là giù cascherò io altresì quando

verrà colui ch'i' credea che tu fossi

allor ch'i' feci 'l sùbito dimando.

Ma più è 'l tempo già che i piè mi cossi

e ch'i' son stato così sottosopra,

ch'el non starà piantato coi piè rossi:

ché dopo lui verrà di più laida opra

di ver' ponente, un pastor sanza legge,

tal che convien che lui e me ricuopra.

Novo Iasón sarà, di cui si legge

ne' Maccabei; e come a quel fu molle

suo re, così fia lui chi Francia regge".

Io non so s'i' mi fui qui troppo folle,

ch'i' pur rispuosi lui a questo metro:

"Deh, or mi dì: quanto tesoro volle

Nostro Segnore in prima da san Pietro

ch'ei ponesse le chiavi in sua balìa?

Certo non chiese se non "Viemmi retro".

Né Pier né li altri tolsero a Matia

oro od argento, quando fu sortito

al loco che perdé l'anima ria.

Però ti sta, ché tu se' ben punito;

e guarda ben la mal tolta moneta

ch'esser ti fece contra Carlo ardito.

E se non fosse ch'ancor lo mi vieta

la reverenza delle somme chiavi

che tu tenesti ne la vita lieta,

io userei parole ancor più gravi;

ché la vostra avarizia il mondo attrista,

calcando i buoni e sollevando i pravi.

Di voi pastor s'accorse il Vangelista,

quando colei che siede sopra l'acque

puttaneggiar coi regi a lui fu vista;

quella che con le sette teste nacque,

e da le diece corna ebbe argomento,

fin che virtute al suo marito piacque.

Fatto v'avete Dio d'oro e d'argento;

e che altro è da voi a l'idolatre,

se non ch'elli uno, e voi ne orate cento?

Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre,

non la tua conversion, ma quella dote

che da te prese il primo ricco patre!".

E mentr'io li cantava cotai note,

o ira o coscienza che 'l mordesse,

forte spingava con ambo le piote.

I' credo ben ch'al mio duca piacesse,

con sì contenta labbia sempre attese

lo suon de le parole vere espresse.

Però con ambo le braccia mi prese;

e poi che tutto su mi s'ebbe al petto,

rimontò per la via onde discese.

Né si stancò d'avermi a sé distretto,

sì men portò sovra 'l colmo de l'arco

che dal quarto al quinto argine è tragetto.

Quivi soavemente spuose il carco,

soave per lo scoglio sconcio ed erto

che sarebbe a le capre duro varco.

Indi un altro vallon mi fu scoperto.

  

 Canto XX

 Di nova pena mi conven far versi

e dar matera al ventesimo canto

de la prima canzon ch'è d'i sommersi.

Io era già disposto tutto quanto

a riguardar ne lo scoperto fondo,

che si bagnava d'angoscioso pianto;

e vidi gente per lo vallon tondo

venir, tacendo e lagrimando, al passo

che fanno le letane in questo mondo.

Come 'l viso mi scese in lor più basso,

mirabilmente apparve esser travolto

ciascun tra 'l mento e 'l principio del casso;

ché da le reni era tornato 'l volto,

e in dietro venir li convenia,

perché 'l veder dinanzi era lor tolto.

Forse per forza già di parlasia

si travolse così alcun del tutto;

ma io nol vidi, né credo che sia.

Se Dio ti lasci, lettor, prender frutto

di tua lezione, or pensa per te stesso

com'io potea tener lo viso asciutto,

quando la nostra imagine di presso

vidi sì torta, che 'l pianto de li occhi

le natiche bagnava per lo fesso.

Certo io piangea, poggiato a un de' rocchi

del duro scoglio, sì che la mia scorta

mi disse: "Ancor se' tu de li altri sciocchi?

Qui vive la pietà quand'è ben morta;

chi è più scellerato che colui

che al giudicio divin passion comporta?

Drizza la testa, drizza, e vedi a cui

s'aperse a li occhi d'i Teban la terra;

per ch'ei gridavan tutti: "Dove rui,

Anfiarao? perché lasci la guerra?".

E non restò di ruinare a valle

fino a Minòs che ciascheduno afferra.

Mira c'ha fatto petto de le spalle:

perché volle veder troppo davante,

di retro guarda e fa retroso calle.

Vedi Tiresia, che mutò sembiante

quando di maschio femmina divenne

cangiandosi le membra tutte quante;

e prima, poi, ribatter li convenne

li duo serpenti avvolti, con la verga,

che riavesse le maschili penne.

Aronta è quel ch'al ventre li s'atterga,

che ne' monti di Luni, dove ronca

lo Carrarese che di sotto alberga,

ebbe tra ' bianchi marmi la spelonca

per sua dimora; onde a guardar le stelle

e 'l mar no li era la veduta tronca.

E quella che ricuopre le mammelle,

che tu non vedi, con le trecce sciolte,

e ha di là ogni pilosa pelle,

Manto fu, che cercò per terre molte;

poscia si puose là dove nacqu'io;

onde un poco mi piace che m'ascolte.

Poscia che 'l padre suo di vita uscìo,

e venne serva la città di Baco,

questa gran tempo per lo mondo gio.

Suso in Italia bella giace un laco,

a piè de l'Alpe che serra Lamagna

sovra Tiralli, c'ha nome Benaco.

Per mille fonti, credo, e più si bagna

tra Garda e Val Camonica e Pennino

de l'acqua che nel detto laco stagna.

Loco è nel mezzo là dove 'l trentino

pastore e quel di Brescia e 'l veronese

segnar poria, s'e' fesse quel cammino.

Siede Peschiera, bello e forte arnese

da fronteggiar Bresciani e Bergamaschi,

ove la riva 'ntorno più discese.

Ivi convien che tutto quanto caschi

ciò che 'n grembo a Benaco star non può,

e fassi fiume giù per verdi paschi.

Tosto che l'acqua a correr mette co,

non più Benaco, ma Mencio si chiama

fino a Governol, dove cade in Po.

Non molto ha corso, ch'el trova una lama,

ne la qual si distende e la 'mpaluda;

e suol di state talor essere grama.

Quindi passando la vergine cruda

vide terra, nel mezzo del pantano,

sanza coltura e d'abitanti nuda.

Lì, per fuggire ogni consorzio umano,

ristette con suoi servi a far sue arti,

e visse, e vi lasciò suo corpo vano.

Li uomini poi che 'ntorno erano sparti

s'accolsero a quel loco, ch'era forte

per lo pantan ch'avea da tutte parti.

Fer la città sovra quell'ossa morte;

e per colei che 'l loco prima elesse,

Mantua l'appellar sanz'altra sorte.

Già fuor le genti sue dentro più spesse,

prima che la mattia da Casalodi

da Pinamonte inganno ricevesse.

Però t'assenno che, se tu mai odi

originar la mia terra altrimenti,

la verità nulla menzogna frodi".

E io: "Maestro, i tuoi ragionamenti

mi son sì certi e prendon sì mia fede,

che li altri mi sarien carboni spenti.

Ma dimmi, de la gente che procede,

se tu ne vedi alcun degno di nota;

ché solo a ciò la mia mente rifiede".

Allor mi disse: "Quel che da la gota

porge la barba in su le spalle brune,

fu - quando Grecia fu di maschi vòta,

sì ch'a pena rimaser per le cune -

augure, e diede 'l punto con Calcanta

in Aulide a tagliar la prima fune.

Euripilo ebbe nome, e così 'l canta

l'alta mia tragedìa in alcun loco:

ben lo sai tu che la sai tutta quanta.

Quell'altro che ne' fianchi è così poco,

Michele Scotto fu, che veramente

de le magiche frode seppe 'l gioco.

Vedi Guido Bonatti; vedi Asdente,

ch'avere inteso al cuoio e a lo spago

ora vorrebbe, ma tardi si pente.

Vedi le triste che lasciaron l'ago,

la spuola e 'l fuso, e fecersi 'ndivine;

fecer malie con erbe e con imago.

Ma vienne omai, ché già tiene 'l confine

d'amendue li emisperi e tocca l'onda

sotto Sobilia Caino e le spine;

e già iernotte fu la luna tonda:

ben ten de' ricordar, ché non ti nocque

alcuna volta per la selva fonda".

Sì mi parlava, e andavamo introcque.

  

 Canto XXI

 Così di ponte in ponte, altro parlando

che la mia comedìa cantar non cura,

venimmo; e tenavamo il colmo, quando

restammo per veder l'altra fessura

di Malebolge e li altri pianti vani;

e vidila mirabilmente oscura.

Quale ne l'arzanà de' Viniziani

bolle l'inverno la tenace pece

a rimpalmare i legni lor non sani,

ché navicar non ponno - in quella vece

chi fa suo legno novo e chi ristoppa

le coste a quel che più viaggi fece;

chi ribatte da proda e chi da poppa;

altri fa remi e altri volge sarte;

chi terzeruolo e artimon rintoppa -;

tal, non per foco, ma per divin'arte,

bollia là giuso una pegola spessa,

che 'nviscava la ripa d'ogni parte.

I' vedea lei, ma non vedea in essa

mai che le bolle che 'l bollor levava,

e gonfiar tutta, e riseder compressa.

Mentr'io là giù fisamente mirava,

lo duca mio, dicendo "Guarda, guarda!",

mi trasse a sé del loco dov'io stava.

Allor mi volsi come l'uom cui tarda

di veder quel che li convien fuggire

e cui paura sùbita sgagliarda,

che, per veder, non indugia 'l partire:

e vidi dietro a noi un diavol nero

correndo su per lo scoglio venire.

Ahi quant'elli era ne l'aspetto fero!

e quanto mi parea ne l'atto acerbo,

con l'ali aperte e sovra i piè leggero!

L'omero suo, ch'era aguto e superbo,

carcava un peccator con ambo l'anche,

e quei tenea de' piè ghermito 'l nerbo.

Del nostro ponte disse: "O Malebranche,

ecco un de li anzian di Santa Zita!

Mettetel sotto, ch'i' torno per anche

a quella terra che n'è ben fornita:

ogn'uom v'è barattier, fuor che Bonturo;

del no, per li denar vi si fa ita".

Là giù 'l buttò, e per lo scoglio duro

si volse; e mai non fu mastino sciolto

con tanta fretta a seguitar lo furo.

Quel s'attuffò, e tornò sù convolto;

ma i demon che del ponte avean coperchio,

gridar: "Qui non ha loco il Santo Volto:

qui si nuota altrimenti che nel Serchio!

Però, se tu non vuo' di nostri graffi,

non far sopra la pegola soverchio".

Poi l'addentar con più di cento raffi,

disser: "Coverto convien che qui balli,

sì che, se puoi, nascosamente accaffi".

Non altrimenti i cuoci a' lor vassalli

fanno attuffare in mezzo la caldaia

la carne con li uncin, perché non galli.

Lo buon maestro "Acciò che non si paia

che tu ci sia", mi disse, "giù t'acquatta

dopo uno scheggio, ch'alcun schermo t'aia;

e per nulla offension che mi sia fatta,

non temer tu, ch'i' ho le cose conte,

perch'altra volta fui a tal baratta".

Poscia passò di là dal co del ponte;

e com'el giunse in su la ripa sesta,

mestier li fu d'aver sicura fronte.

Con quel furore e con quella tempesta

ch'escono i cani a dosso al poverello

che di sùbito chiede ove s'arresta,

usciron quei di sotto al ponticello,

e volser contra lui tutt'i runcigli;

ma el gridò: "Nessun di voi sia fello!

Innanzi che l'uncin vostro mi pigli,

traggasi avante l'un di voi che m'oda,

e poi d'arruncigliarmi si consigli".

Tutti gridaron: "Vada Malacoda!";

per ch'un si mosse - e li altri stetter fermi -,

e venne a lui dicendo: "Che li approda?".

"Credi tu, Malacoda, qui vedermi

esser venuto", disse 'l mio maestro,

"sicuro già da tutti vostri schermi,

sanza voler divino e fato destro?

Lascian'andar, ché nel cielo è voluto

ch'i' mostri altrui questo cammin silvestro".

Allor li fu l'orgoglio sì caduto,

ch'e' si lasciò cascar l'uncino a' piedi,

e disse a li altri: "Omai non sia feruto".

E 'l duca mio a me: "O tu che siedi

tra li scheggion del ponte quatto quatto,

sicuramente omai a me ti riedi".

Per ch'io mi mossi, e a lui venni ratto;

e i diavoli si fecer tutti avanti,

sì ch'io temetti ch'ei tenesser patto;

così vid'io già temer li fanti

ch'uscivan patteggiati di Caprona,

veggendo sé tra nemici cotanti.

I' m'accostai con tutta la persona

lungo 'l mio duca, e non torceva li occhi

da la sembianza lor ch'era non buona.

Ei chinavan li raffi e "Vuo' che 'l tocchi",

diceva l'un con l'altro, "in sul groppone?".

E rispondien: "Sì, fa che gliel'accocchi!".

Ma quel demonio che tenea sermone

col duca mio, si volse tutto presto,

e disse: "Posa, posa, Scarmiglione!".

Poi disse a noi: "Più oltre andar per questo

iscoglio non si può, però che giace

tutto spezzato al fondo l'arco sesto.

E se l'andare avante pur vi piace,

andatevene su per questa grotta;

presso è un altro scoglio che via face.

Ier, più oltre cinqu'ore che quest'otta,

mille dugento con sessanta sei

anni compié che qui la via fu rotta.

Io mando verso là di questi miei

a riguardar s'alcun se ne sciorina;

gite con lor, che non saranno rei".

"Tra'ti avante, Alichino, e Calcabrina",

cominciò elli a dire, "e tu, Cagnazzo;

e Barbariccia guidi la decina.

Libicocco vegn'oltre e Draghignazzo,

Ciriatto sannuto e Graffiacane

e Farfarello e Rubicante pazzo.

Cercate 'ntorno le boglienti pane;

costor sian salvi infino a l'altro scheggio

che tutto intero va sovra le tane".

"Omè, maestro, che è quel ch'i' veggio?",

diss'io, "deh, sanza scorta andianci soli,

se tu sa' ir; ch'i' per me non la cheggio.

Se tu se' sì accorto come suoli,

non vedi tu ch'e' digrignan li denti,

e con le ciglia ne minaccian duoli?".

Ed elli a me: "Non vo' che tu paventi;

lasciali digrignar pur a lor senno,

ch'e' fanno ciò per li lessi dolenti".

Per l'argine sinistro volta dienno;

ma prima avea ciascun la lingua stretta

coi denti, verso lor duca, per cenno;

ed elli avea del cul fatto trombetta.

  

 Canto XXII

 Io vidi già cavalier muover campo,

e cominciare stormo e far lor mostra,

e talvolta partir per loro scampo;

corridor vidi per la terra vostra,

o Aretini, e vidi gir gualdane,

fedir torneamenti e correr giostra;

quando con trombe, e quando con campane,

con tamburi e con cenni di castella,

e con cose nostrali e con istrane;

né già con sì diversa cennamella

cavalier vidi muover né pedoni,

né nave a segno di terra o di stella.

Noi andavam con li diece demoni.

Ahi fiera compagnia! ma ne la chiesa

coi santi, e in taverna coi ghiottoni.

Pur a la pegola era la mia 'ntesa,

per veder de la bolgia ogni contegno

e de la gente ch'entro v'era incesa.

Come i dalfini, quando fanno segno

a' marinar con l'arco de la schiena,

che s'argomentin di campar lor legno,

talor così, ad alleggiar la pena,

mostrav'alcun de' peccatori il dosso

e nascondea in men che non balena.

E come a l'orlo de l'acqua d'un fosso

stanno i ranocchi pur col muso fuori,

sì che celano i piedi e l'altro grosso,

sì stavan d'ogni parte i peccatori;

ma come s'appressava Barbariccia,

così si ritraén sotto i bollori.

I' vidi, e anco il cor me n'accapriccia,

uno aspettar così, com'elli 'ncontra

ch'una rana rimane e l'altra spiccia;

e Graffiacan, che li era più di contra,

li arruncigliò le 'mpegolate chiome

e trassel sù, che mi parve una lontra.

I' sapea già di tutti quanti 'l nome,

sì li notai quando fuorono eletti,

e poi ch'e' si chiamaro, attesi come.

"O Rubicante, fa che tu li metti

li unghioni a dosso, sì che tu lo scuoi!",

gridavan tutti insieme i maladetti.

E io: "Maestro mio, fa, se tu puoi,

che tu sappi chi è lo sciagurato

venuto a man de li avversari suoi".

Lo duca mio li s'accostò allato;

domandollo ond'ei fosse, e quei rispuose:

"I' fui del regno di Navarra nato.

Mia madre a servo d'un segnor mi puose,

che m'avea generato d'un ribaldo,

distruggitor di sé e di sue cose.

Poi fui famiglia del buon re Tebaldo:

quivi mi misi a far baratteria;

di ch'io rendo ragione in questo caldo".

E Ciriatto, a cui di bocca uscia

d'ogni parte una sanna come a porco,

li fé sentir come l'una sdruscia.

Tra male gatte era venuto 'l sorco;

ma Barbariccia il chiuse con le braccia,

e disse: "State in là, mentr'io lo 'nforco".

E al maestro mio volse la faccia:

"Domanda", disse, "ancor, se più disii

saper da lui, prima ch'altri 'l disfaccia".

Lo duca dunque: "Or dì: de li altri rii

conosci tu alcun che sia latino

sotto la pece?". E quelli: "I' mi partii,

poco è, da un che fu di là vicino.

Così foss'io ancor con lui coperto,

ch'i' non temerei unghia né uncino!".

E Libicocco "Troppo avem sofferto",

disse; e preseli 'l braccio col runciglio,

sì che, stracciando, ne portò un lacerto.

Draghignazzo anco i volle dar di piglio

giuso a le gambe; onde 'l decurio loro

si volse intorno intorno con mal piglio.

Quand'elli un poco rappaciati fuoro,

a lui, ch'ancor mirava sua ferita,

domandò 'l duca mio sanza dimoro:

"Chi fu colui da cui mala partita

di' che facesti per venire a proda?".

Ed ei rispuose: "Fu frate Gomita,

quel di Gallura, vasel d'ogni froda,

ch'ebbe i nemici di suo donno in mano,

e fé sì lor, che ciascun se ne loda.

Danar si tolse, e lasciolli di piano,

sì com'e' dice; e ne li altri offici anche

barattier fu non picciol, ma sovrano.

Usa con esso donno Michel Zanche

di Logodoro; e a dir di Sardigna

le lingue lor non si sentono stanche.

Omè, vedete l'altro che digrigna:

i' direi anche, ma i' temo ch'ello

non s'apparecchi a grattarmi la tigna".

E 'l gran proposto, vòlto a Farfarello

che stralunava li occhi per fedire,

disse: "Fatti 'n costà, malvagio uccello!".

"Se voi volete vedere o udire",

ricominciò lo spaurato appresso

"Toschi o Lombardi, io ne farò venire;

ma stieno i Malebranche un poco in cesso,

sì ch'ei non teman de le lor vendette;

e io, seggendo in questo loco stesso,

per un ch'io son, ne farò venir sette

quand'io suffolerò, com'è nostro uso

di fare allor che fori alcun si mette".

Cagnazzo a cotal motto levò 'l muso,

crollando 'l capo, e disse: "Odi malizia

ch'elli ha pensata per gittarsi giuso!".

Ond'ei, ch'avea lacciuoli a gran divizia,

rispuose: "Malizioso son io troppo,

quand'io procuro a' mia maggior trestizia".

Alichin non si tenne e, di rintoppo

a li altri, disse a lui: "Se tu ti cali,

io non ti verrò dietro di gualoppo,

ma batterò sovra la pece l'ali.

Lascisi 'l collo, e sia la ripa scudo,

a veder se tu sol più di noi vali".

O tu che leggi, udirai nuovo ludo:

ciascun da l'altra costa li occhi volse;

quel prima, ch'a ciò fare era più crudo.

Lo Navarrese ben suo tempo colse;

fermò le piante a terra, e in un punto

saltò e dal proposto lor si sciolse.

Di che ciascun di colpa fu compunto,

ma quei più che cagion fu del difetto;

però si mosse e gridò: "Tu se' giunto!".

Ma poco i valse: ché l'ali al sospetto

non potero avanzar: quelli andò sotto,

e quei drizzò volando suso il petto:

non altrimenti l'anitra di botto,

quando 'l falcon s'appressa, giù s'attuffa,

ed ei ritorna sù crucciato e rotto.

Irato Calcabrina de la buffa,

volando dietro li tenne, invaghito

che quei campasse per aver la zuffa;

e come 'l barattier fu disparito,

così volse li artigli al suo compagno,

e fu con lui sopra 'l fosso ghermito.

Ma l'altro fu bene sparvier grifagno

ad artigliar ben lui, e amendue

cadder nel mezzo del bogliente stagno.

Lo caldo sghermitor sùbito fue;

ma però di levarsi era neente,

sì avieno inviscate l'ali sue.

Barbariccia, con li altri suoi dolente,

quattro ne fé volar da l'altra costa

con tutt'i raffi, e assai prestamente

di qua, di là discesero a la posta;

porser li uncini verso li 'mpaniati,

ch'eran già cotti dentro da la crosta;

e noi lasciammo lor così 'mpacciati.

  

 Canto XXIII

 Taciti, soli, sanza compagnia

n'andavam l'un dinanzi e l'altro dopo,

come frati minor vanno per via.

Vòlt'era in su la favola d'Isopo

lo mio pensier per la presente rissa,

dov'el parlò de la rana e del topo;

ché più non si pareggia 'mo' e 'issa'

che l'un con l'altro fa, se ben s'accoppia

principio e fine con la mente fissa.

E come l'un pensier de l'altro scoppia,

così nacque di quello un altro poi,

che la prima paura mi fé doppia.

Io pensava così: 'Questi per noi

sono scherniti con danno e con beffa

sì fatta, ch'assai credo che lor nòi.

Se l'ira sovra 'l mal voler s'aggueffa,

ei ne verranno dietro più crudeli

che 'l cane a quella lievre ch'elli acceffa'.

Già mi sentia tutti arricciar li peli

de la paura e stava in dietro intento,

quand'io dissi: "Maestro, se non celi

te e me tostamente, i' ho pavento

d'i Malebranche. Noi li avem già dietro;

io li 'magino sì, che già li sento".

E quei: "S'i' fossi di piombato vetro,

l'imagine di fuor tua non trarrei

più tosto a me, che quella dentro 'mpetro.

Pur mo venieno i tuo' pensier tra ' miei,

con simile atto e con simile faccia,

sì che d'intrambi un sol consiglio fei.

S'elli è che sì la destra costa giaccia,

che noi possiam ne l'altra bolgia scendere,

noi fuggirem l'imaginata caccia".

Già non compié di tal consiglio rendere,

ch'io li vidi venir con l'ali tese

non molto lungi, per volerne prendere.

Lo duca mio di sùbito mi prese,

come la madre ch'al romore è desta

e vede presso a sé le fiamme accese,

che prende il figlio e fugge e non s'arresta,

avendo più di lui che di sé cura,

tanto che solo una camiscia vesta;

e giù dal collo de la ripa dura

supin si diede a la pendente roccia,

che l'un de' lati a l'altra bolgia tura.

Non corse mai sì tosto acqua per doccia

a volger ruota di molin terragno,

quand'ella più verso le pale approccia,

come 'l maestro mio per quel vivagno,

portandosene me sovra 'l suo petto,

come suo figlio, non come compagno.

A pena fuoro i piè suoi giunti al letto

del fondo giù, ch'e' furon in sul colle

sovresso noi; ma non lì era sospetto;

ché l'alta provedenza che lor volle

porre ministri de la fossa quinta,

poder di partirs'indi a tutti tolle.

Là giù trovammo una gente dipinta

che giva intorno assai con lenti passi,

piangendo e nel sembiante stanca e vinta.

Elli avean cappe con cappucci bassi

dinanzi a li occhi, fatte de la taglia

che in Clugnì per li monaci fassi.

Di fuor dorate son, sì ch'elli abbaglia;

ma dentro tutte piombo, e gravi tanto,

che Federigo le mettea di paglia.

Oh in etterno faticoso manto!

Noi ci volgemmo ancor pur a man manca

con loro insieme, intenti al tristo pianto;

ma per lo peso quella gente stanca

venìa sì pian, che noi eravam nuovi

di compagnia ad ogni mover d'anca.

Per ch'io al duca mio: "Fa che tu trovi

alcun ch'al fatto o al nome si conosca,

e li occhi, sì andando, intorno movi".

E un che 'ntese la parola tosca,

di retro a noi gridò: "Tenete i piedi,

voi che correte sì per l'aura fosca!

Forse ch'avrai da me quel che tu chiedi".

Onde 'l duca si volse e disse: "Aspetta

e poi secondo il suo passo procedi".

Ristetti, e vidi due mostrar gran fretta

de l'animo, col viso, d'esser meco;

ma tardavali 'l carco e la via stretta.

Quando fuor giunti, assai con l'occhio bieco

mi rimiraron sanza far parola;

poi si volsero in sé, e dicean seco:

"Costui par vivo a l'atto de la gola;

e s'e' son morti, per qual privilegio

vanno scoperti de la grave stola?".

Poi disser me: "O Tosco, ch'al collegio

de l'ipocriti tristi se' venuto,

dir chi tu se' non avere in dispregio".

E io a loro: "I' fui nato e cresciuto

sovra 'l bel fiume d'Arno a la gran villa,

e son col corpo ch'i' ho sempre avuto.

Ma voi chi siete, a cui tanto distilla

quant'i' veggio dolor giù per le guance?

e che pena è in voi che sì sfavilla?".

E l'un rispuose a me: "Le cappe rance

son di piombo sì grosse, che li pesi

fan così cigolar le lor bilance.

Frati godenti fummo, e bolognesi;

io Catalano e questi Loderingo

nomati, e da tua terra insieme presi,

come suole esser tolto un uom solingo,

per conservar sua pace; e fummo tali,

ch'ancor si pare intorno dal Gardingo".

Io cominciai: "O frati, i vostri mali...";

ma più non dissi, ch'a l'occhio mi corse

un, crucifisso in terra con tre pali.

Quando mi vide, tutto si distorse,

soffiando ne la barba con sospiri;

e 'l frate Catalan, ch'a ciò s'accorse,

mi disse: "Quel confitto che tu miri,

consigliò i Farisei che convenia

porre un uom per lo popolo a' martìri.

Attraversato è, nudo, ne la via,

come tu vedi, ed è mestier ch'el senta

qualunque passa, come pesa, pria.

E a tal modo il socero si stenta

in questa fossa, e li altri dal concilio

che fu per li Giudei mala sementa".

Allor vid'io maravigliar Virgilio

sovra colui ch'era disteso in croce

tanto vilmente ne l'etterno essilio.

Poscia drizzò al frate cotal voce:

"Non vi dispiaccia, se vi lece, dirci

s'a la man destra giace alcuna foce

onde noi amendue possiamo uscirci,

sanza costrigner de li angeli neri

che vegnan d'esto fondo a dipartirci".

Rispuose adunque: "Più che tu non speri

s'appressa un sasso che de la gran cerchia

si move e varca tutt'i vallon feri,

salvo che 'n questo è rotto e nol coperchia:

montar potrete su per la ruina,

che giace in costa e nel fondo soperchia".

Lo duca stette un poco a testa china;

poi disse: "Mal contava la bisogna

colui che i peccator di qua uncina".

E 'l frate: "Io udi' già dire a Bologna

del diavol vizi assai, tra ' quali udi'

ch'elli è bugiardo, e padre di menzogna".

Appresso il duca a gran passi sen gì,

turbato un poco d'ira nel sembiante;

ond'io da li 'ncarcati mi parti'

dietro a le poste de le care piante.

  

 Canto XXIV

 In quella parte del giovanetto anno

che 'l sole i crin sotto l'Aquario tempra

e già le notti al mezzo dì sen vanno,

quando la brina in su la terra assempra

l'imagine di sua sorella bianca,

ma poco dura a la sua penna tempra,

lo villanello a cui la roba manca,

si leva, e guarda, e vede la campagna

biancheggiar tutta; ond'ei si batte l'anca,

ritorna in casa, e qua e là si lagna,

come 'l tapin che non sa che si faccia;

poi riede, e la speranza ringavagna,

veggendo 'l mondo aver cangiata faccia

in poco d'ora, e prende suo vincastro,

e fuor le pecorelle a pascer caccia.

Così mi fece sbigottir lo mastro

quand'io li vidi sì turbar la fronte,

e così tosto al mal giunse lo 'mpiastro;

ché, come noi venimmo al guasto ponte,

lo duca a me si volse con quel piglio

dolce ch'io vidi prima a piè del monte.

Le braccia aperse, dopo alcun consiglio

eletto seco riguardando prima

ben la ruina, e diedemi di piglio.

E come quei ch'adopera ed estima,

che sempre par che 'nnanzi si proveggia,

così, levando me sù ver la cima

d'un ronchione, avvisava un'altra scheggia

dicendo: "Sovra quella poi t'aggrappa;

ma tenta pria s'è tal ch'ella ti reggia".

Non era via da vestito di cappa,

ché noi a pena, ei lieve e io sospinto,

potavam sù montar di chiappa in chiappa.

E se non fosse che da quel precinto

più che da l'altro era la costa corta,

non so di lui, ma io sarei ben vinto.

Ma perché Malebolge inver' la porta

del bassissimo pozzo tutta pende,

lo sito di ciascuna valle porta

che l'una costa surge e l'altra scende;

noi pur venimmo al fine in su la punta

onde l'ultima pietra si scoscende.

La lena m'era del polmon sì munta

quand'io fui sù, ch'i' non potea più oltre,

anzi m'assisi ne la prima giunta.

"Omai convien che tu così ti spoltre",

disse 'l maestro; "ché, seggendo in piuma,

in fama non si vien, né sotto coltre;

sanza la qual chi sua vita consuma,

cotal vestigio in terra di sé lascia,

qual fummo in aere e in acqua la schiuma.

E però leva sù: vinci l'ambascia

con l'animo che vince ogni battaglia,

se col suo grave corpo non s'accascia.

Più lunga scala convien che si saglia;

non basta da costoro esser partito.

Se tu mi 'ntendi, or fa sì che ti vaglia".

Leva'mi allor, mostrandomi fornito

meglio di lena ch'i' non mi sentìa;

e dissi: "Va, ch'i' son forte e ardito".

Su per lo scoglio prendemmo la via,

ch'era ronchioso, stretto e malagevole,

ed erto più assai che quel di pria.

Parlando andava per non parer fievole;

onde una voce uscì de l'altro fosso,

a parole formar disconvenevole.

Non so che disse, ancor che sovra 'l dosso

fossi de l'arco già che varca quivi;

ma chi parlava ad ire parea mosso.

Io era vòlto in giù, ma li occhi vivi

non poteano ire al fondo per lo scuro;

per ch'io: "Maestro, fa che tu arrivi

da l'altro cinghio e dismontiam lo muro;

ché, com'i' odo quinci e non intendo,

così giù veggio e neente affiguro".

"Altra risposta", disse, "non ti rendo

se non lo far; ché la dimanda onesta

si de' seguir con l'opera tacendo".

Noi discendemmo il ponte da la testa

dove s'aggiugne con l'ottava ripa,

e poi mi fu la bolgia manifesta:

e vidivi entro terribile stipa

di serpenti, e di sì diversa mena

che la memoria il sangue ancor mi scipa.

Più non si vanti Libia con sua rena;

ché se chelidri, iaculi e faree

produce, e cencri con anfisibena,

né tante pestilenzie né sì ree

mostrò già mai con tutta l'Etiopia

né con ciò che di sopra al Mar Rosso èe.

Tra questa cruda e tristissima copia

correan genti nude e spaventate,

sanza sperar pertugio o elitropia:

con serpi le man dietro avean legate;

quelle ficcavan per le ren la coda

e 'l capo, ed eran dinanzi aggroppate.

Ed ecco a un ch'era da nostra proda,

s'avventò un serpente che 'l trafisse

là dove 'l collo a le spalle s'annoda.

Né O sì tosto mai né I si scrisse,

com'el s'accese e arse, e cener tutto

convenne che cascando divenisse;

e poi che fu a terra sì distrutto,

la polver si raccolse per sé stessa,

e 'n quel medesmo ritornò di butto.

Così per li gran savi si confessa

che la fenice more e poi rinasce,

quando al cinquecentesimo anno appressa;

erba né biado in sua vita non pasce,

ma sol d'incenso lagrime e d'amomo,

e nardo e mirra son l'ultime fasce.

E qual è quel che cade, e non sa como,

per forza di demon ch'a terra il tira,

o d'altra oppilazion che lega l'omo,

quando si leva, che 'ntorno si mira

tutto smarrito de la grande angoscia

ch'elli ha sofferta, e guardando sospira:

tal era il peccator levato poscia.

Oh potenza di Dio, quant'è severa,

che cotai colpi per vendetta croscia!

Lo duca il domandò poi chi ello era;

per ch'ei rispuose: "Io piovvi di Toscana,

poco tempo è, in questa gola fiera.

Vita bestial mi piacque e non umana,

sì come a mul ch'i' fui; son Vanni Fucci

bestia, e Pistoia mi fu degna tana".

E io al duca: "Dilli che non mucci,

e domanda che colpa qua giù 'l pinse;

ch'io 'l vidi uomo di sangue e di crucci".

E 'l peccator, che 'ntese, non s'infinse,

ma drizzò verso me l'animo e 'l volto,

e di trista vergogna si dipinse;

poi disse: "Più mi duol che tu m'hai colto

ne la miseria dove tu mi vedi,

che quando fui de l'altra vita tolto.

Io non posso negar quel che tu chiedi;

in giù son messo tanto perch'io fui

ladro a la sagrestia d'i belli arredi,

e falsamente già fu apposto altrui.

Ma perché di tal vista tu non godi,

se mai sarai di fuor da' luoghi bui,

apri li orecchi al mio annunzio, e odi:

Pistoia in pria d'i Neri si dimagra;

poi Fiorenza rinova gente e modi.

Tragge Marte vapor di Val di Magra

ch'è di torbidi nuvoli involuto;

e con tempesta impetuosa e agra

sovra Campo Picen fia combattuto;

ond'ei repente spezzerà la nebbia,

sì ch'ogni Bianco ne sarà feruto.

E detto l'ho perché doler ti debbia!".

 Edizione HTML a cura di: mail@debibliotheca.com Ultimo Aggiornamento: 10/07/05 17.02