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CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

La Divina Commedia

di: Dante Alighieri

INFERNO

[Canto XXV] [Canto XXVI] [Canto XXVII] [Canto XXVIII]  [Canto XXIX]

[Canto XXX] [Canto XXXI] [Canto XXXII] [Canto XXXIII] [Canto XXXIV]

Canto XXV

 Al fine de le sue parole il ladro

le mani alzò con amendue le fiche,

gridando: "Togli, Dio, ch'a te le squadro!".

Da indi in qua mi fuor le serpi amiche,

perch'una li s'avvolse allora al collo,

come dicesse 'Non vo' che più diche';

e un'altra a le braccia, e rilegollo,

ribadendo sé stessa sì dinanzi,

che non potea con esse dare un crollo.

Ahi Pistoia, Pistoia, ché non stanzi

d'incenerarti sì che più non duri,

poi che 'n mal fare il seme tuo avanzi?

Per tutt'i cerchi de lo 'nferno scuri

non vidi spirto in Dio tanto superbo,

non quel che cadde a Tebe giù da' muri.

El si fuggì che non parlò più verbo;

e io vidi un centauro pien di rabbia

venir chiamando: "Ov'è, ov'è l'acerbo?".

Maremma non cred'io che tante n'abbia,

quante bisce elli avea su per la groppa

infin ove comincia nostra labbia.

Sovra le spalle, dietro da la coppa,

con l'ali aperte li giacea un draco;

e quello affuoca qualunque s'intoppa.

Lo mio maestro disse: "Questi è Caco,

che sotto 'l sasso di monte Aventino

di sangue fece spesse volte laco.

Non va co' suoi fratei per un cammino,

per lo furto che frodolente fece

del grande armento ch'elli ebbe a vicino;

onde cessar le sue opere biece

sotto la mazza d'Ercule, che forse

gliene diè cento, e non sentì le diece".

Mentre che sì parlava, ed el trascorse

e tre spiriti venner sotto noi,

de' quali né io né 'l duca mio s'accorse,

se non quando gridar: "Chi siete voi?";

per che nostra novella si ristette,

e intendemmo pur ad essi poi.

Io non li conoscea; ma ei seguette,

come suol seguitar per alcun caso,

che l'un nomar un altro convenette,

dicendo: "Cianfa dove fia rimaso?";

per ch'io, acciò che 'l duca stesse attento,

mi puosi 'l dito su dal mento al naso.

Se tu se' or, lettore, a creder lento

ciò ch'io dirò, non sarà maraviglia,

ché io che 'l vidi, a pena il mi consento.

Com'io tenea levate in lor le ciglia,

e un serpente con sei piè si lancia

dinanzi a l'uno, e tutto a lui s'appiglia.

Co' piè di mezzo li avvinse la pancia,

e con li anterior le braccia prese;

poi li addentò e l'una e l'altra guancia;

li diretani a le cosce distese,

e miseli la coda tra 'mbedue,

e dietro per le ren sù la ritese.

Ellera abbarbicata mai non fue

ad alber sì, come l'orribil fiera

per l'altrui membra avviticchiò le sue.

Poi s'appiccar, come di calda cera

fossero stati, e mischiar lor colore,

né l'un né l'altro già parea quel ch'era:

come procede innanzi da l'ardore,

per lo papiro suso, un color bruno

che non è nero ancora e 'l bianco more.

Li altri due 'l riguardavano, e ciascuno

gridava: "Omè, Agnel, come ti muti!

Vedi che già non se' né due né uno".

Già eran li due capi un divenuti,

quando n'apparver due figure miste

in una faccia, ov'eran due perduti.

Fersi le braccia due di quattro liste;

le cosce con le gambe e 'l ventre e 'l casso

divenner membra che non fuor mai viste.

Ogni primaio aspetto ivi era casso:

due e nessun l'imagine perversa

parea; e tal sen gio con lento passo.

Come 'l ramarro sotto la gran fersa

dei dì canicular, cangiando sepe,

folgore par se la via attraversa,

sì pareva, venendo verso l'epe

de li altri due, un serpentello acceso,

livido e nero come gran di pepe;

e quella parte onde prima è preso

nostro alimento, a l'un di lor trafisse;

poi cadde giuso innanzi lui disteso.

Lo trafitto 'l mirò, ma nulla disse;

anzi, co' piè fermati, sbadigliava

pur come sonno o febbre l'assalisse.

Elli 'l serpente, e quei lui riguardava;

l'un per la piaga, e l'altro per la bocca

fummavan forte, e 'l fummo si scontrava.

Taccia Lucano ormai là dove tocca

del misero Sabello e di Nasidio,

e attenda a udir quel ch'or si scocca.

Taccia di Cadmo e d'Aretusa Ovidio;

ché se quello in serpente e quella in fonte

converte poetando, io non lo 'nvidio;

ché due nature mai a fronte a fronte

non trasmutò sì ch'amendue le forme

a cambiar lor matera fosser pronte.

Insieme si rispuosero a tai norme,

che 'l serpente la coda in forca fesse,

e il feruto ristrinse insieme l'orme.

Le gambe con le cosce seco stesse

s'appiccar sì, che 'n poco la giuntura

non facea segno alcun che si paresse.

Togliea la coda fessa la figura

che si perdeva là, e la sua pelle

si facea molle, e quella di là dura.

Io vidi intrar le braccia per l'ascelle,

e i due piè de la fiera, ch'eran corti,

tanto allungar quanto accorciavan quelle.

Poscia li piè di retro, insieme attorti,

diventaron lo membro che l'uom cela,

e 'l misero del suo n'avea due porti.

Mentre che 'l fummo l'uno e l'altro vela

di color novo, e genera 'l pel suso

per l'una parte e da l'altra il dipela,

l'un si levò e l'altro cadde giuso,

non torcendo però le lucerne empie,

sotto le quai ciascun cambiava muso.

Quel ch'era dritto, il trasse ver' le tempie,

e di troppa matera ch'in là venne

uscir li orecchi de le gote scempie;

ciò che non corse in dietro e si ritenne

di quel soverchio, fé naso a la faccia

e le labbra ingrossò quanto convenne.

Quel che giacea, il muso innanzi caccia,

e li orecchi ritira per la testa

come face le corna la lumaccia;

e la lingua, ch'avea unita e presta

prima a parlar, si fende, e la forcuta

ne l'altro si richiude; e 'l fummo resta.

L'anima ch'era fiera divenuta,

suffolando si fugge per la valle,

e l'altro dietro a lui parlando sputa.

Poscia li volse le novelle spalle,

e disse a l'altro: "I' vo' che Buoso corra,

com'ho fatt'io, carpon per questo calle".

Così vid'io la settima zavorra

mutare e trasmutare; e qui mi scusi

la novità se fior la penna abborra.

E avvegna che li occhi miei confusi

fossero alquanto e l'animo smagato,

non poter quei fuggirsi tanto chiusi,

ch'i' non scorgessi ben Puccio Sciancato;

ed era quel che sol, di tre compagni

che venner prima, non era mutato;

l'altr'era quel che tu, Gaville, piagni.

 

 Canto XXVI

 Godi, Fiorenza, poi che se' sì grande,

che per mare e per terra batti l'ali,

e per lo 'nferno tuo nome si spande!

Tra li ladron trovai cinque cotali

tuoi cittadini onde mi ven vergogna,

e tu in grande orranza non ne sali.

Ma se presso al mattin del ver si sogna,

tu sentirai di qua da picciol tempo

di quel che Prato, non ch'altri, t'agogna.

E se già fosse, non saria per tempo.

Così foss'ei, da che pur esser dee!

ché più mi graverà, com'più m'attempo.

Noi ci partimmo, e su per le scalee

che n'avea fatto iborni a scender pria,

rimontò 'l duca mio e trasse mee;

e proseguendo la solinga via,

tra le schegge e tra ' rocchi de lo scoglio

lo piè sanza la man non si spedia.

Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio

quando drizzo la mente a ciò ch'io vidi,

e più lo 'ngegno affreno ch'i' non soglio,

perché non corra che virtù nol guidi;

sì che, se stella bona o miglior cosa

m'ha dato 'l ben, ch'io stessi nol m'invidi.

Quante 'l villan ch'al poggio si riposa,

nel tempo che colui che 'l mondo schiara

la faccia sua a noi tien meno ascosa,

come la mosca cede alla zanzara,

vede lucciole giù per la vallea,

forse colà dov'e' vendemmia e ara:

di tante fiamme tutta risplendea

l'ottava bolgia, sì com'io m'accorsi

tosto che fui là 've 'l fondo parea.

E qual colui che si vengiò con li orsi

vide 'l carro d'Elia al dipartire,

quando i cavalli al cielo erti levorsi,

che nol potea sì con li occhi seguire,

ch'el vedesse altro che la fiamma sola,

sì come nuvoletta, in sù salire:

tal si move ciascuna per la gola

del fosso, ché nessuna mostra 'l furto,

e ogni fiamma un peccatore invola.

Io stava sovra 'l ponte a veder surto,

sì che s'io non avessi un ronchion preso,

caduto sarei giù sanz'esser urto.

E 'l duca che mi vide tanto atteso,

disse: "Dentro dai fuochi son li spirti;

catun si fascia di quel ch'elli è inceso".

"Maestro mio", rispuos'io, "per udirti

son io più certo; ma già m'era avviso

che così fosse, e già voleva dirti:

chi è 'n quel foco che vien sì diviso

di sopra, che par surger de la pira

dov'Eteòcle col fratel fu miso?".

Rispuose a me: "Là dentro si martira

Ulisse e Diomede, e così insieme

a la vendetta vanno come a l'ira;

e dentro da la lor fiamma si geme

l'agguato del caval che fé la porta

onde uscì de' Romani il gentil seme.

Piangevisi entro l'arte per che, morta,

Deidamìa ancor si duol d'Achille,

e del Palladio pena vi si porta".

"S'ei posson dentro da quelle faville

parlar", diss'io, "maestro, assai ten priego

e ripriego, che 'l priego vaglia mille,

che non mi facci de l'attender niego

fin che la fiamma cornuta qua vegna;

vedi che del disio ver' lei mi piego!".

Ed elli a me: "La tua preghiera è degna

di molta loda, e io però l'accetto;

ma fa che la tua lingua si sostegna.

Lascia parlare a me, ch'i' ho concetto

ciò che tu vuoi; ch'ei sarebbero schivi,

perch'e' fuor greci, forse del tuo detto".

Poi che la fiamma fu venuta quivi

dove parve al mio duca tempo e loco,

in questa forma lui parlare audivi:

"O voi che siete due dentro ad un foco,

s'io meritai di voi mentre ch'io vissi,

s'io meritai di voi assai o poco

quando nel mondo li alti versi scrissi,

non vi movete; ma l'un di voi dica

dove, per lui, perduto a morir gissi".

Lo maggior corno de la fiamma antica

cominciò a crollarsi mormorando

pur come quella cui vento affatica;

indi la cima qua e là menando,

come fosse la lingua che parlasse,

gittò voce di fuori, e disse: "Quando

mi diparti' da Circe, che sottrasse

me più d'un anno là presso a Gaeta,

prima che sì Enea la nomasse,

né dolcezza di figlio, né la pieta

del vecchio padre, né 'l debito amore

lo qual dovea Penelopé far lieta,

vincer potero dentro a me l'ardore

ch'i' ebbi a divenir del mondo esperto,

e de li vizi umani e del valore;

ma misi me per l'alto mare aperto

sol con un legno e con quella compagna

picciola da la qual non fui diserto.

L'un lito e l'altro vidi infin la Spagna,

fin nel Morrocco, e l'isola d'i Sardi,

e l'altre che quel mare intorno bagna.

Io e ' compagni eravam vecchi e tardi

quando venimmo a quella foce stretta

dov'Ercule segnò li suoi riguardi,

acciò che l'uom più oltre non si metta:

da la man destra mi lasciai Sibilia,

da l'altra già m'avea lasciata Setta.

"O frati", dissi "che per cento milia

perigli siete giunti a l'occidente,

a questa tanto picciola vigilia

d'i nostri sensi ch'è del rimanente,

non vogliate negar l'esperienza,

di retro al sol, del mondo sanza gente.

Considerate la vostra semenza:

fatti non foste a viver come bruti,

ma per seguir virtute e canoscenza".

Li miei compagni fec'io sì aguti,

con questa orazion picciola, al cammino,

che a pena poscia li avrei ritenuti;

e volta nostra poppa nel mattino,

de' remi facemmo ali al folle volo,

sempre acquistando dal lato mancino.

Tutte le stelle già de l'altro polo

vedea la notte e 'l nostro tanto basso,

che non surgea fuor del marin suolo.

Cinque volte racceso e tante casso

lo lume era di sotto da la luna,

poi che 'ntrati eravam ne l'alto passo,

quando n'apparve una montagna, bruna

per la distanza, e parvemi alta tanto

quanto veduta non avea alcuna.

Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto,

ché de la nova terra un turbo nacque,

e percosse del legno il primo canto.

Tre volte il fé girar con tutte l'acque;

a la quarta levar la poppa in suso

e la prora ire in giù, com'altrui piacque,

infin che 'l mar fu sovra noi richiuso".

 

 Canto XXVII

 Già era dritta in sù la fiamma e queta

per non dir più, e già da noi sen gia

con la licenza del dolce poeta,

quand'un'altra, che dietro a lei venia,

ne fece volger li occhi a la sua cima

per un confuso suon che fuor n'uscia.

Come 'l bue cicilian che mugghiò prima

col pianto di colui, e ciò fu dritto,

che l'avea temperato con sua lima,

mugghiava con la voce de l'afflitto,

sì che, con tutto che fosse di rame,

pur el pareva dal dolor trafitto;

così, per non aver via né forame

dal principio nel foco, in suo linguaggio

si convertian le parole grame.

Ma poscia ch'ebber colto lor viaggio

su per la punta, dandole quel guizzo

che dato avea la lingua in lor passaggio,

udimmo dire: "O tu a cu' io drizzo

la voce e che parlavi mo lombardo,

dicendo "Istra ten va, più non t'adizzo",

perch'io sia giunto forse alquanto tardo,

non t'incresca restare a parlar meco;

vedi che non incresce a me, e ardo!

Se tu pur mo in questo mondo cieco

caduto se' di quella dolce terra

latina ond'io mia colpa tutta reco,

dimmi se Romagnuoli han pace o guerra;

ch'io fui d'i monti là intra Orbino

e 'l giogo di che Tever si diserra".

Io era in giuso ancora attento e chino,

quando il mio duca mi tentò di costa,

dicendo: "Parla tu; questi è latino".

E io, ch'avea già pronta la risposta,

sanza indugio a parlare incominciai:

"O anima che se' là giù nascosta,

Romagna tua non è, e non fu mai,

sanza guerra ne' cuor de' suoi tiranni;

ma 'n palese nessuna or vi lasciai.

Ravenna sta come stata è molt'anni:

l'aguglia da Polenta la si cova,

sì che Cervia ricuopre co' suoi vanni.

La terra che fé già la lunga prova

e di Franceschi sanguinoso mucchio,

sotto le branche verdi si ritrova.

E 'l mastin vecchio e 'l nuovo da Verrucchio,

che fecer di Montagna il mal governo,

là dove soglion fan d'i denti succhio.

Le città di Lamone e di Santerno

conduce il lioncel dal nido bianco,

che muta parte da la state al verno.

E quella cu' il Savio bagna il fianco,

così com'ella sie' tra 'l piano e 'l monte

tra tirannia si vive e stato franco.

Ora chi se', ti priego che ne conte;

non esser duro più ch'altri sia stato,

se 'l nome tuo nel mondo tegna fronte".

Poscia che 'l foco alquanto ebbe rugghiato

al modo suo, l'aguta punta mosse

di qua, di là, e poi diè cotal fiato:

"S'i' credesse che mia risposta fosse

a persona che mai tornasse al mondo,

questa fiamma staria sanza più scosse;

ma però che già mai di questo fondo

non tornò vivo alcun, s'i' odo il vero,

sanza tema d'infamia ti rispondo.

Io fui uom d'arme, e poi fui cordigliero,

credendomi, sì cinto, fare ammenda;

e certo il creder mio venìa intero,

se non fosse il gran prete, a cui mal prenda!,

che mi rimise ne le prime colpe;

e come e quare, voglio che m'intenda.

Mentre ch'io forma fui d'ossa e di polpe

che la madre mi diè, l'opere mie

non furon leonine, ma di volpe.

Li accorgimenti e le coperte vie

io seppi tutte, e sì menai lor arte,

ch'al fine de la terra il suono uscie.

Quando mi vidi giunto in quella parte

di mia etade ove ciascun dovrebbe

calar le vele e raccoglier le sarte,

ciò che pria mi piacea, allor m'increbbe,

e pentuto e confesso mi rendei;

ahi miser lasso! e giovato sarebbe.

Lo principe d'i novi Farisei,

avendo guerra presso a Laterano,

e non con Saracin né con Giudei,

ché ciascun suo nimico era cristiano,

e nessun era stato a vincer Acri

né mercatante in terra di Soldano;

né sommo officio né ordini sacri

guardò in sé, né in me quel capestro

che solea fare i suoi cinti più macri.

Ma come Costantin chiese Silvestro

d'entro Siratti a guerir de la lebbre;

così mi chiese questi per maestro

a guerir de la sua superba febbre:

domandommi consiglio, e io tacetti

perché le sue parole parver ebbre.

E' poi ridisse: "Tuo cuor non sospetti;

finor t'assolvo, e tu m'insegna fare

sì come Penestrino in terra getti.

Lo ciel poss'io serrare e diserrare,

come tu sai; però son due le chiavi

che 'l mio antecessor non ebbe care".

Allor mi pinser li argomenti gravi

là 've 'l tacer mi fu avviso 'l peggio,

e dissi: "Padre, da che tu mi lavi

di quel peccato ov'io mo cader deggio,

lunga promessa con l'attender corto

ti farà triunfar ne l'alto seggio".

Francesco venne poi com'io fu' morto,

per me; ma un d'i neri cherubini

li disse: "Non portar: non mi far torto.

Venir se ne dee giù tra ' miei meschini

perché diede 'l consiglio frodolente,

dal quale in qua stato li sono a' crini;

ch'assolver non si può chi non si pente,

né pentere e volere insieme puossi

per la contradizion che nol consente".

Oh me dolente! come mi riscossi

quando mi prese dicendomi: "Forse

tu non pensavi ch'io loico fossi!".

A Minòs mi portò; e quelli attorse

otto volte la coda al dosso duro;

e poi che per gran rabbia la si morse,

disse: "Questi è d'i rei del foco furo";

per ch'io là dove vedi son perduto,

e sì vestito, andando, mi rancuro".

Quand'elli ebbe 'l suo dir così compiuto,

la fiamma dolorando si partio,

torcendo e dibattendo 'l corno aguto.

Noi passamm'oltre, e io e 'l duca mio,

su per lo scoglio infino in su l'altr'arco

che cuopre 'l fosso in che si paga il fio

a quei che scommettendo acquistan carco.

 

 Canto XXVIII

 Chi poria mai pur con parole sciolte

dicer del sangue e de le piaghe a pieno

ch'i' ora vidi, per narrar più volte?

Ogni lingua per certo verria meno

per lo nostro sermone e per la mente

c'hanno a tanto comprender poco seno.

S'el s'aunasse ancor tutta la gente

che già in su la fortunata terra

di Puglia, fu del suo sangue dolente

per li Troiani e per la lunga guerra

che de l'anella fé sì alte spoglie,

come Livio scrive, che non erra,

con quella che sentio di colpi doglie

per contastare a Ruberto Guiscardo;

e l'altra il cui ossame ancor s'accoglie

a Ceperan, là dove fu bugiardo

ciascun Pugliese, e là da Tagliacozzo,

dove sanz'arme vinse il vecchio Alardo;

e qual forato suo membro e qual mozzo

mostrasse, d'aequar sarebbe nulla

il modo de la nona bolgia sozzo.

Già veggia, per mezzul perdere o lulla,

com'io vidi un, così non si pertugia,

rotto dal mento infin dove si trulla.

Tra le gambe pendevan le minugia;

la corata pareva e 'l tristo sacco

che merda fa di quel che si trangugia.

Mentre che tutto in lui veder m'attacco,

guardommi, e con le man s'aperse il petto,

dicendo: "Or vedi com'io mi dilacco!

vedi come storpiato è Maometto!

Dinanzi a me sen va piangendo Alì,

fesso nel volto dal mento al ciuffetto.

E tutti li altri che tu vedi qui,

seminator di scandalo e di scisma

fuor vivi, e però son fessi così.

Un diavolo è qua dietro che n'accisma

sì crudelmente, al taglio de la spada

rimettendo ciascun di questa risma,

quand'avem volta la dolente strada;

però che le ferite son richiuse

prima ch'altri dinanzi li rivada.

Ma tu chi se' che 'n su lo scoglio muse,

forse per indugiar d'ire a la pena

ch'è giudicata in su le tue accuse?".

"Né morte 'l giunse ancor, né colpa 'l mena",

rispuose 'l mio maestro "a tormentarlo;

ma per dar lui esperienza piena,

a me, che morto son, convien menarlo

per lo 'nferno qua giù di giro in giro;

e quest'è ver così com'io ti parlo".

Più fuor di cento che, quando l'udiro,

s'arrestaron nel fosso a riguardarmi

per maraviglia obliando il martiro.

"Or dì a fra Dolcin dunque che s'armi,

tu che forse vedra' il sole in breve,

s'ello non vuol qui tosto seguitarmi,

sì di vivanda, che stretta di neve

non rechi la vittoria al Noarese,

ch'altrimenti acquistar non sarìa leve".

Poi che l'un piè per girsene sospese,

Maometto mi disse esta parola;

indi a partirsi in terra lo distese.

Un altro, che forata avea la gola

e tronco 'l naso infin sotto le ciglia,

e non avea mai ch'una orecchia sola,

ristato a riguardar per maraviglia

con li altri, innanzi a li altri aprì la canna,

ch'era di fuor d'ogni parte vermiglia,

e disse: "O tu cui colpa non condanna

e cu' io vidi su in terra latina,

se troppa simiglianza non m'inganna,

rimembriti di Pier da Medicina,

se mai torni a veder lo dolce piano

che da Vercelli a Marcabò dichina.

E fa saper a' due miglior da Fano,

a messer Guido e anco ad Angiolello,

che, se l'antiveder qui non è vano,

gittati saran fuor di lor vasello

e mazzerati presso a la Cattolica

per tradimento d'un tiranno fello.

Tra l'isola di Cipri e di Maiolica

non vide mai sì gran fallo Nettuno,

non da pirate, non da gente argolica.

Quel traditor che vede pur con l'uno,

e tien la terra che tale qui meco

vorrebbe di vedere esser digiuno,

farà venirli a parlamento seco;

poi farà sì, ch'al vento di Focara

non sarà lor mestier voto né preco".

E io a lui: "Dimostrami e dichiara,

se vuo' ch'i' porti sù di te novella,

chi è colui da la veduta amara".

Allor puose la mano a la mascella

d'un suo compagno e la bocca li aperse,

gridando: "Questi è desso, e non favella.

Questi, scacciato, il dubitar sommerse

in Cesare, affermando che 'l fornito

sempre con danno l'attender sofferse".

Oh quanto mi pareva sbigottito

con la lingua tagliata ne la strozza

Curio, ch'a dir fu così ardito!

E un ch'avea l'una e l'altra man mozza,

levando i moncherin per l'aura fosca,

sì che 'l sangue facea la faccia sozza,

gridò: "Ricordera'ti anche del Mosca,

che disse, lasso!, "Capo ha cosa fatta",

che fu mal seme per la gente tosca".

E io li aggiunsi: "E morte di tua schiatta";

per ch'elli, accumulando duol con duolo,

sen gio come persona trista e matta.

Ma io rimasi a riguardar lo stuolo,

e vidi cosa, ch'io avrei paura,

sanza più prova, di contarla solo;

se non che coscienza m'assicura,

la buona compagnia che l'uom francheggia

sotto l'asbergo del sentirsi pura.

Io vidi certo, e ancor par ch'io 'l veggia,

un busto sanza capo andar sì come

andavan li altri de la trista greggia;

e 'l capo tronco tenea per le chiome,

pesol con mano a guisa di lanterna;

e quel mirava noi e dicea: "Oh me!".

Di sé facea a sé stesso lucerna,

ed eran due in uno e uno in due:

com'esser può, quei sa che sì governa.

Quando diritto al piè del ponte fue,

levò 'l braccio alto con tutta la testa,

per appressarne le parole sue,

che fuoro: "Or vedi la pena molesta

tu che, spirando, vai veggendo i morti:

vedi s'alcuna è grande come questa.

E perché tu di me novella porti,

sappi ch'i' son Bertram dal Bornio, quelli

che diedi al re giovane i ma' conforti.

Io feci il padre e 'l figlio in sé ribelli:

Achitofèl non fé più d'Absalone

e di Davìd coi malvagi punzelli.

Perch'io parti' così giunte persone,

partito porto il mio cerebro, lasso!,

dal suo principio ch'è in questo troncone.

Così s'osserva in me lo contrapasso".

 

Canto XXIX

 La molta gente e le diverse piaghe

avean le luci mie sì inebriate,

che de lo stare a piangere eran vaghe.

Ma Virgilio mi disse: "Che pur guate?

perché la vista tua pur si soffolge

là giù tra l'ombre triste smozzicate?

Tu non hai fatto sì a l'altre bolge;

pensa, se tu annoverar le credi,

che miglia ventidue la valle volge.

E già la luna è sotto i nostri piedi:

lo tempo è poco omai che n'è concesso,

e altro è da veder che tu non vedi".

"Se tu avessi", rispuos'io appresso,

"atteso a la cagion perch'io guardava,

forse m'avresti ancor lo star dimesso".

Parte sen giva, e io retro li andava,

lo duca, già faccendo la risposta,

e soggiugnendo: "Dentro a quella cava

dov'io tenea or li occhi sì a posta,

credo ch'un spirto del mio sangue pianga

la colpa che là giù cotanto costa".

Allor disse 'l maestro: "Non si franga

lo tuo pensier da qui innanzi sovr'ello.

Attendi ad altro, ed ei là si rimanga;

ch'io vidi lui a piè del ponticello

mostrarti, e minacciar forte, col dito,

e udi' 'l nominar Geri del Bello.

Tu eri allor sì del tutto impedito

sovra colui che già tenne Altaforte,

che non guardasti in là, sì fu partito".

"O duca mio, la violenta morte

che non li è vendicata ancor", diss'io,

"per alcun che de l'onta sia consorte,

fece lui disdegnoso; ond'el sen gio

sanza parlarmi, sì com'io estimo:

e in ciò m'ha el fatto a sé più pio".

Così parlammo infino al loco primo

che de lo scoglio l'altra valle mostra,

se più lume vi fosse, tutto ad imo.

Quando noi fummo sor l'ultima chiostra

di Malebolge, sì che i suoi conversi

potean parere a la veduta nostra,

lamenti saettaron me diversi,

che di pietà ferrati avean li strali;

ond'io li orecchi con le man copersi.

Qual dolor fora, se de li spedali,

di Valdichiana tra 'l luglio e 'l settembre

e di Maremma e di Sardigna i mali

fossero in una fossa tutti 'nsembre,

tal era quivi, e tal puzzo n'usciva

qual suol venir de le marcite membre.

Noi discendemmo in su l'ultima riva

del lungo scoglio, pur da man sinistra;

e allor fu la mia vista più viva

giù ver lo fondo, la 've la ministra

de l'alto Sire infallibil giustizia

punisce i falsador che qui registra.

Non credo ch'a veder maggior tristizia

fosse in Egina il popol tutto infermo,

quando fu l'aere sì pien di malizia,

che li animali, infino al picciol vermo,

cascaron tutti, e poi le genti antiche,

secondo che i poeti hanno per fermo,

si ristorar di seme di formiche;

ch'era a veder per quella oscura valle

languir li spirti per diverse biche.

Qual sovra 'l ventre, e qual sovra le spalle

l'un de l'altro giacea, e qual carpone

si trasmutava per lo tristo calle.

Passo passo andavam sanza sermone,

guardando e ascoltando li ammalati,

che non potean levar le lor persone.

Io vidi due sedere a sé poggiati,

com'a scaldar si poggia tegghia a tegghia,

dal capo al piè di schianze macolati;

e non vidi già mai menare stregghia

a ragazzo aspettato dal segnorso,

né a colui che mal volontier vegghia,

come ciascun menava spesso il morso

de l'unghie sopra sé per la gran rabbia

del pizzicor, che non ha più soccorso;

e sì traevan giù l'unghie la scabbia,

come coltel di scardova le scaglie

o d'altro pesce che più larghe l'abbia.

"O tu che con le dita ti dismaglie",

cominciò 'l duca mio a l'un di loro,

"e che fai d'esse talvolta tanaglie,

dinne s'alcun Latino è tra costoro

che son quinc'entro, se l'unghia ti basti

etternalmente a cotesto lavoro".

"Latin siam noi, che tu vedi sì guasti

qui ambedue", rispuose l'un piangendo;

"ma tu chi se' che di noi dimandasti?".

E 'l duca disse: "I' son un che discendo

con questo vivo giù di balzo in balzo,

e di mostrar lo 'nferno a lui intendo".

Allor si ruppe lo comun rincalzo;

e tremando ciascuno a me si volse

con altri che l'udiron di rimbalzo.

Lo buon maestro a me tutto s'accolse,

dicendo: "Dì a lor ciò che tu vuoli";

e io incominciai, poscia ch'ei volse:

"Se la vostra memoria non s'imboli

nel primo mondo da l'umane menti,

ma s'ella viva sotto molti soli,

ditemi chi voi siete e di che genti;

la vostra sconcia e fastidiosa pena

di palesarvi a me non vi spaventi".

"Io fui d'Arezzo, e Albero da Siena",

rispuose l'un, "mi fé mettere al foco;

ma quel per ch'io mori' qui non mi mena.

Vero è ch'i' dissi lui, parlando a gioco:

"I' mi saprei levar per l'aere a volo";

e quei, ch'avea vaghezza e senno poco,

volle ch'i' li mostrassi l'arte; e solo

perch'io nol feci Dedalo, mi fece

ardere a tal che l'avea per figliuolo.

Ma nell 'ultima bolgia de le diece

me per l'alchìmia che nel mondo usai

dannò Minòs, a cui fallar non lece".

E io dissi al poeta: "Or fu già mai

gente sì vana come la sanese?

Certo non la francesca sì d'assai!".

Onde l'altro lebbroso, che m'intese,

rispuose al detto mio: "Tra'mene Stricca

che seppe far le temperate spese,

e Niccolò che la costuma ricca

del garofano prima discoverse

ne l'orto dove tal seme s'appicca;

e tra'ne la brigata in che disperse

Caccia d'Ascian la vigna e la gran fonda,

e l'Abbagliato suo senno proferse.

Ma perché sappi chi sì ti seconda

contra i Sanesi, aguzza ver me l'occhio,

sì che la faccia mia ben ti risponda:

sì vedrai ch'io son l'ombra di Capocchio,

che falsai li metalli con l'alchìmia;

e te dee ricordar, se ben t'adocchio,

com'io fui di natura buona scimia".

 

 Canto XXX

 Nel tempo che Iunone era crucciata

per Semelè contra 'l sangue tebano,

come mostrò una e altra fiata,

Atamante divenne tanto insano,

che veggendo la moglie con due figli

andar carcata da ciascuna mano,

gridò: "Tendiam le reti, sì ch'io pigli

la leonessa e ' leoncini al varco";

e poi distese i dispietati artigli,

prendendo l'un ch'avea nome Learco,

e rotollo e percosselo ad un sasso;

e quella s'annegò con l'altro carco.

E quando la fortuna volse in basso

l'altezza de' Troian che tutto ardiva,

sì che 'nsieme col regno il re fu casso,

Ecuba trista, misera e cattiva,

poscia che vide Polissena morta,

e del suo Polidoro in su la riva

del mar si fu la dolorosa accorta,

forsennata latrò sì come cane;

tanto il dolor le fé la mente torta.

Ma né di Tebe furie né troiane

si vider mai in alcun tanto crude,

non punger bestie, nonché membra umane,

quant'io vidi in due ombre smorte e nude,

che mordendo correvan di quel modo

che 'l porco quando del porcil si schiude.

L'una giunse a Capocchio, e in sul nodo

del collo l'assannò, sì che, tirando,

grattar li fece il ventre al fondo sodo.

E l'Aretin che rimase, tremando

mi disse: "Quel folletto è Gianni Schicchi,

e va rabbioso altrui così conciando".

"Oh!", diss'io lui, "se l'altro non ti ficchi

li denti a dosso, non ti sia fatica

a dir chi è, pria che di qui si spicchi".

Ed elli a me: "Quell'è l'anima antica

di Mirra scellerata, che divenne

al padre fuor del dritto amore amica.

Questa a peccar con esso così venne,

falsificando sé in altrui forma,

come l'altro che là sen va, sostenne,

per guadagnar la donna de la torma,

falsificare in sé Buoso Donati,

testando e dando al testamento norma".

E poi che i due rabbiosi fuor passati

sovra cu' io avea l'occhio tenuto,

rivolsilo a guardar li altri mal nati.

Io vidi un, fatto a guisa di leuto,

pur ch'elli avesse avuta l'anguinaia

tronca da l'altro che l'uomo ha forcuto.

La grave idropesì, che sì dispaia

le membra con l'omor che mal converte,

che 'l viso non risponde a la ventraia,

facea lui tener le labbra aperte

come l'etico fa, che per la sete

l'un verso 'l mento e l'altro in sù rinverte.

"O voi che sanz'alcuna pena siete,

e non so io perché, nel mondo gramo",

diss'elli a noi, "guardate e attendete

a la miseria del maestro Adamo:

io ebbi vivo assai di quel ch'i' volli,

e ora, lasso!, un gocciol d'acqua bramo.

Li ruscelletti che d'i verdi colli

del Casentin discendon giuso in Arno,

faccendo i lor canali freddi e molli,

sempre mi stanno innanzi, e non indarno,

ché l'imagine lor vie più m'asciuga

che 'l male ond'io nel volto mi discarno.

La rigida giustizia che mi fruga

tragge cagion del loco ov'io peccai

a metter più li miei sospiri in fuga.

Ivi è Romena, là dov'io falsai

la lega suggellata del Batista;

per ch'io il corpo sù arso lasciai.

Ma s'io vedessi qui l'anima trista

di Guido o d'Alessandro o di lor frate,

per Fonte Branda non darei la vista.

Dentro c'è l'una già, se l'arrabbiate

ombre che vanno intorno dicon vero;

ma che mi val, c'ho le membra legate?

S'io fossi pur di tanto ancor leggero

ch'i' potessi in cent'anni andare un'oncia,

io sarei messo già per lo sentiero,

cercando lui tra questa gente sconcia,

con tutto ch'ella volge undici miglia,

e men d'un mezzo di traverso non ci ha.

Io son per lor tra sì fatta famiglia:

e' m'indussero a batter li fiorini

ch'avevan tre carati di mondiglia".

E io a lui: "Chi son li due tapini

che fumman come man bagnate 'l verno,

giacendo stretti a' tuoi destri confini?".

"Qui li trovai - e poi volta non dierno - ",

rispuose, "quando piovvi in questo greppo,

e non credo che dieno in sempiterno.

L'una è la falsa ch'accusò Gioseppo;

l'altr'è 'l falso Sinon greco di Troia:

per febbre aguta gittan tanto leppo".

E l'un di lor, che si recò a noia

forse d'esser nomato sì oscuro,

col pugno li percosse l'epa croia.

Quella sonò come fosse un tamburo;

e mastro Adamo li percosse il volto

col braccio suo, che non parve men duro,

dicendo a lui: "Ancor che mi sia tolto

lo muover per le membra che son gravi,

ho io il braccio a tal mestiere sciolto".

Ond'ei rispuose: "Quando tu andavi

al fuoco, non l'avei tu così presto;

ma sì e più l'avei quando coniavi".

E l'idropico: "Tu di' ver di questo:

ma tu non fosti sì ver testimonio

là 've del ver fosti a Troia richesto".

"S'io dissi falso, e tu falsasti il conio",

disse Sinon; "e son qui per un fallo,

e tu per più ch'alcun altro demonio!".

"Ricorditi, spergiuro, del cavallo",

rispuose quel ch'avea infiata l'epa;

"e sieti reo che tutto il mondo sallo!".

"E te sia rea la sete onde ti crepa",

disse 'l Greco, "la lingua, e l'acqua marcia

che 'l ventre innanzi a li occhi sì t'assiepa!".

Allora il monetier: "Così si squarcia

la bocca tua per tuo mal come suole;

ché s'i' ho sete e omor mi rinfarcia,

tu hai l'arsura e 'l capo che ti duole,

e per leccar lo specchio di Narcisso,

non vorresti a 'nvitar molte parole".

Ad ascoltarli er'io del tutto fisso,

quando 'l maestro mi disse: "Or pur mira,

che per poco che teco non mi risso!".

Quand'io 'l senti' a me parlar con ira,

volsimi verso lui con tal vergogna,

ch'ancor per la memoria mi si gira.

Qual è colui che suo dannaggio sogna,

che sognando desidera sognare,

sì che quel ch'è, come non fosse, agogna,

tal mi fec'io, non possendo parlare,

che disiava scusarmi, e scusava

me tuttavia, e nol mi credea fare.

"Maggior difetto men vergogna lava",

disse 'l maestro, "che 'l tuo non è stato;

però d'ogni trestizia ti disgrava.

E fa ragion ch'io ti sia sempre allato,

se più avvien che fortuna t'accoglia

dove sien genti in simigliante piato:

ché voler ciò udire è bassa voglia".

 

Canto XXXI

 Una medesma lingua pria mi morse,

sì che mi tinse l'una e l'altra guancia,

e poi la medicina mi riporse;

così od'io che solea far la lancia

d'Achille e del suo padre esser cagione

prima di trista e poi di buona mancia.

Noi demmo il dosso al misero vallone

su per la ripa che 'l cinge dintorno,

attraversando sanza alcun sermone.

Quiv'era men che notte e men che giorno,

sì che 'l viso m'andava innanzi poco;

ma io senti' sonare un alto corno,

tanto ch'avrebbe ogni tuon fatto fioco,

che, contra sé la sua via seguitando,

dirizzò li occhi miei tutti ad un loco.

Dopo la dolorosa rotta, quando

Carlo Magno perdé la santa gesta,

non sonò sì terribilmente Orlando.

Poco portai in là volta la testa,

che me parve veder molte alte torri;

ond'io: "Maestro, di', che terra è questa?".

Ed elli a me: "Però che tu trascorri

per le tenebre troppo da la lungi,

avvien che poi nel maginare abborri.

Tu vedrai ben, se tu là ti congiungi,

quanto 'l senso s'inganna di lontano;

però alquanto più te stesso pungi".

Poi caramente mi prese per mano,

e disse: "Pria che noi siamo più avanti,

acciò che 'l fatto men ti paia strano,

sappi che non son torri, ma giganti,

e son nel pozzo intorno da la ripa

da l'umbilico in giuso tutti quanti".

Come quando la nebbia si dissipa,

lo sguardo a poco a poco raffigura

ciò che cela 'l vapor che l'aere stipa,

così forando l'aura grossa e scura,

più e più appressando ver' la sponda,

fuggiemi errore e cresciemi paura;

però che come su la cerchia tonda

Montereggion di torri si corona,

così la proda che 'l pozzo circonda

torreggiavan di mezza la persona

li orribili giganti, cui minaccia

Giove del cielo ancora quando tuona.

E io scorgeva già d'alcun la faccia,

le spalle e 'l petto e del ventre gran parte,

e per le coste giù ambo le braccia.

Natura certo, quando lasciò l'arte

di sì fatti animali, assai fé bene

per tòrre tali essecutori a Marte.

E s'ella d'elefanti e di balene

non si pente, chi guarda sottilmente,

più giusta e più discreta la ne tene;

ché dove l'argomento de la mente

s'aggiugne al mal volere e a la possa,

nessun riparo vi può far la gente.

La faccia sua mi parea lunga e grossa

come la pina di San Pietro a Roma,

e a sua proporzione eran l'altre ossa;

sì che la ripa, ch'era perizoma

dal mezzo in giù, ne mostrava ben tanto

di sovra, che di giugnere a la chioma

tre Frison s'averien dato mal vanto;

però ch'i' ne vedea trenta gran palmi

dal loco in giù dov'omo affibbia 'l manto.

"Raphél maì amèche zabì almi",

cominciò a gridar la fiera bocca,

cui non si convenia più dolci salmi.

E 'l duca mio ver lui: "Anima sciocca,

tienti col corno, e con quel ti disfoga

quand'ira o altra passion ti tocca!

Cércati al collo, e troverai la soga

che 'l tien legato, o anima confusa,

e vedi lui che 'l gran petto ti doga".

Poi disse a me: "Elli stessi s'accusa;

questi è Nembrotto per lo cui mal coto

pur un linguaggio nel mondo non s'usa.

Lasciànlo stare e non parliamo a vòto;

ché così è a lui ciascun linguaggio

come 'l suo ad altrui, ch'a nullo è noto".

Facemmo adunque più lungo viaggio,

vòlti a sinistra; e al trar d'un balestro,

trovammo l'altro assai più fero e maggio.

A cigner lui qual che fosse 'l maestro,

non so io dir, ma el tenea soccinto

dinanzi l'altro e dietro il braccio destro

d'una catena che 'l tenea avvinto

dal collo in giù, sì che 'n su lo scoperto

si ravvolgea infino al giro quinto.

"Questo superbo volle esser esperto

di sua potenza contra 'l sommo Giove",

disse 'l mio duca, "ond'elli ha cotal merto.

Fialte ha nome, e fece le gran prove

quando i giganti fer paura a' dèi;

le braccia ch'el menò, già mai non move".

E io a lui: "S'esser puote, io vorrei

che de lo smisurato Briareo

esperienza avesser li occhi miei".

Ond'ei rispuose: "Tu vedrai Anteo

presso di qui che parla ed è disciolto,

che ne porrà nel fondo d'ogni reo.

Quel che tu vuo' veder, più là è molto,

ed è legato e fatto come questo,

salvo che più feroce par nel volto".

Non fu tremoto già tanto rubesto,

che scotesse una torre così forte,

come Fialte a scuotersi fu presto.

Allor temett'io più che mai la morte,

e non v'era mestier più che la dotta,

s'io non avessi viste le ritorte.

Noi procedemmo più avante allotta,

e venimmo ad Anteo, che ben cinque alle,

sanza la testa, uscia fuor de la grotta.

"O tu che ne la fortunata valle

che fece Scipion di gloria reda,

quand'Anibàl co' suoi diede le spalle,

recasti già mille leon per preda,

e che, se fossi stato a l'alta guerra

de'tuoi fratelli, ancor par che si creda

ch'avrebber vinto i figli de la terra;

mettine giù, e non ten vegna schifo,

dove Cocito la freddura serra.

Non ci fare ire a Tizio né a Tifo:

questi può dar di quel che qui si brama;

però ti china, e non torcer lo grifo.

Ancor ti può nel mondo render fama,

ch'el vive, e lunga vita ancor aspetta

se 'nnanzi tempo grazia a sé nol chiama".

Così disse 'l maestro; e quelli in fretta

le man distese, e prese 'l duca mio,

ond'Ercule sentì già grande stretta.

Virgilio, quando prender si sentio,

disse a me: "Fatti qua, sì ch'io ti prenda";

poi fece sì ch'un fascio era elli e io.

Qual pare a riguardar la Carisenda

sotto 'l chinato, quando un nuvol vada

sovr'essa sì, ched ella incontro penda;

tal parve Anteo a me che stava a bada

di vederlo chinare, e fu tal ora

ch'i' avrei voluto ir per altra strada.

Ma lievemente al fondo che divora

Lucifero con Giuda, ci sposò;

né sì chinato, lì fece dimora,

e come albero in nave si levò.

 

 Canto XXXII

S'io avessi le rime aspre e chiocce,

come si converrebbe al tristo buco

sovra 'l qual pontan tutte l'altre rocce,

io premerei di mio concetto il suco

più pienamente; ma perch'io non l'abbo,

non sanza tema a dicer mi conduco;

ché non è impresa da pigliare a gabbo

discriver fondo a tutto l'universo,

né da lingua che chiami mamma o babbo.

Ma quelle donne aiutino il mio verso

ch'aiutaro Anfione a chiuder Tebe,

sì che dal fatto il dir non sia diverso.

Oh sovra tutte mal creata plebe

che stai nel loco onde parlare è duro,

mei foste state qui pecore o zebe!

Come noi fummo giù nel pozzo scuro

sotto i piè del gigante assai più bassi,

e io mirava ancora a l'alto muro,

dicere udi'mi: "Guarda come passi:

va sì, che tu non calchi con le piante

le teste de' fratei miseri lassi".

Per ch'io mi volsi, e vidimi davante

e sotto i piedi un lago che per gelo

avea di vetro e non d'acqua sembiante.

Non fece al corso suo sì grosso velo

di verno la Danoia in Osterlicchi,

né Tanai là sotto 'l freddo cielo,

com'era quivi; che se Tambernicchi

vi fosse sù caduto, o Pietrapana,

non avria pur da l'orlo fatto cricchi.

E come a gracidar si sta la rana

col muso fuor de l'acqua, quando sogna

di spigolar sovente la villana;

livide, insin là dove appar vergogna

eran l'ombre dolenti ne la ghiaccia,

mettendo i denti in nota di cicogna.

Ognuna in giù tenea volta la faccia;

da bocca il freddo, e da li occhi il cor tristo

tra lor testimonianza si procaccia.

Quand'io m'ebbi dintorno alquanto visto,

volsimi a' piedi, e vidi due sì stretti,

che 'l pel del capo avieno insieme misto.

"Ditemi, voi che sì strignete i petti",

diss'io, "chi siete?". E quei piegaro i colli;

e poi ch'ebber li visi a me eretti,

li occhi lor, ch'eran pria pur dentro molli,

gocciar su per le labbra, e 'l gelo strinse

le lagrime tra essi e riserrolli.

Con legno legno spranga mai non cinse

forte così; ond'ei come due becchi

cozzaro insieme, tanta ira li vinse.

E un ch'avea perduti ambo li orecchi

per la freddura, pur col viso in giùe,

disse: "Perché cotanto in noi ti specchi?

Se vuoi saper chi son cotesti due,

la valle onde Bisenzo si dichina

del padre loro Alberto e di lor fue.

D'un corpo usciro; e tutta la Caina

potrai cercare, e non troverai ombra

degna più d'esser fitta in gelatina;

non quelli a cui fu rotto il petto e l'ombra

con esso un colpo per la man d'Artù;

non Focaccia; non questi che m'ingombra

col capo sì, ch'i' non veggio oltre più,

e fu nomato Sassol Mascheroni;

se tosco se', ben sai omai chi fu.

E perché non mi metti in più sermoni,

sappi ch'i' fu' il Camiscion de' Pazzi;

e aspetto Carlin che mi scagioni".

Poscia vid'io mille visi cagnazzi

fatti per freddo; onde mi vien riprezzo,

e verrà sempre, de' gelati guazzi.

E mentre ch'andavamo inver' lo mezzo

al quale ogni gravezza si rauna,

e io tremava ne l'etterno rezzo;

se voler fu o destino o fortuna,

non so; ma, passeggiando tra le teste,

forte percossi 'l piè nel viso ad una.

Piangendo mi sgridò: "Perché mi peste?

se tu non vieni a crescer la vendetta

di Montaperti, perché mi moleste?".

E io: "Maestro mio, or qui m'aspetta,

si ch'io esca d'un dubbio per costui;

poi mi farai, quantunque vorrai, fretta".

Lo duca stette, e io dissi a colui

che bestemmiava duramente ancora:

"Qual se' tu che così rampogni altrui?".

"Or tu chi se' che vai per l'Antenora,

percotendo", rispuose, "altrui le gote,

sì che, se fossi vivo, troppo fora?".

"Vivo son io, e caro esser ti puote",

fu mia risposta, "se dimandi fama,

ch'io metta il nome tuo tra l'altre note".

Ed elli a me: "Del contrario ho io brama.

Lèvati quinci e non mi dar più lagna,

ché mal sai lusingar per questa lama!".

Allor lo presi per la cuticagna,

e dissi: "El converrà che tu ti nomi,

o che capel qui sù non ti rimagna".

Ond'elli a me: "Perché tu mi dischiomi,

né ti dirò ch'io sia, né mosterrolti,

se mille fiate in sul capo mi tomi".

Io avea già i capelli in mano avvolti,

e tratto glien'avea più d'una ciocca,

latrando lui con li occhi in giù raccolti,

quando un altro gridò: "Che hai tu, Bocca?

non ti basta sonar con le mascelle,

se tu non latri? qual diavol ti tocca?".

"Omai", diss'io, "non vo' che più favelle,

malvagio traditor; ch'a la tua onta

io porterò di te vere novelle".

"Va via", rispuose, "e ciò che tu vuoi conta;

ma non tacer, se tu di qua entro eschi,

di quel ch'ebbe or così la lingua pronta.

El piange qui l'argento de' Franceschi:

"Io vidi", potrai dir, "quel da Duera

là dove i peccatori stanno freschi".

Se fossi domandato "Altri chi v'era?",

tu hai dallato quel di Beccheria

di cui segò Fiorenza la gorgiera.

Gianni de' Soldanier credo che sia

più là con Ganellone e Tebaldello,

ch'aprì Faenza quando si dormia".

Noi eravam partiti già da ello,

ch'io vidi due ghiacciati in una buca,

sì che l'un capo a l'altro era cappello;

e come 'l pan per fame si manduca,

così 'l sovran li denti a l'altro pose

là 've 'l cervel s'aggiugne con la nuca:

non altrimenti Tideo si rose

le tempie a Menalippo per disdegno,

che quei faceva il teschio e l'altre cose.

"O tu che mostri per sì bestial segno

odio sovra colui che tu ti mangi,

dimmi 'l perché", diss'io, "per tal convegno,

che se tu a ragion di lui ti piangi,

sappiendo chi voi siete e la sua pecca,

nel mondo suso ancora io te ne cangi,

se quella con ch'io parlo non si secca".

 

 Canto XXXIII

 La bocca sollevò dal fiero pasto

quel peccator, forbendola a'capelli

del capo ch'elli avea di retro guasto.

Poi cominciò: "Tu vuo' ch'io rinovelli

disperato dolor che 'l cor mi preme

già pur pensando, pria ch'io ne favelli.

Ma se le mie parole esser dien seme

che frutti infamia al traditor ch'i' rodo,

parlar e lagrimar vedrai insieme.

Io non so chi tu se' né per che modo

venuto se' qua giù; ma fiorentino

mi sembri veramente quand'io t'odo.

Tu dei saper ch'i' fui conte Ugolino,

e questi è l'arcivescovo Ruggieri:

or ti dirò perché i son tal vicino.

Che per l'effetto de' suo' mai pensieri,

fidandomi di lui, io fossi preso

e poscia morto, dir non è mestieri;

però quel che non puoi avere inteso,

cioè come la morte mia fu cruda,

udirai, e saprai s'e' m'ha offeso.

Breve pertugio dentro da la Muda

la qual per me ha 'l titol de la fame,

e che conviene ancor ch'altrui si chiuda,

m'avea mostrato per lo suo forame

più lune già, quand'io feci 'l mal sonno

che del futuro mi squarciò 'l velame.

Questi pareva a me maestro e donno,

cacciando il lupo e ' lupicini al monte

per che i Pisan veder Lucca non ponno.

Con cagne magre, studiose e conte

Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi

s'avea messi dinanzi da la fronte.

In picciol corso mi parieno stanchi

lo padre e ' figli, e con l'agute scane

mi parea lor veder fender li fianchi.

Quando fui desto innanzi la dimane,

pianger senti' fra 'l sonno i miei figliuoli

ch'eran con meco, e dimandar del pane.

Ben se' crudel, se tu già non ti duoli

pensando ciò che 'l mio cor s'annunziava;

e se non piangi, di che pianger suoli?

Già eran desti, e l'ora s'appressava

che 'l cibo ne solea essere addotto,

e per suo sogno ciascun dubitava;

e io senti' chiavar l'uscio di sotto

a l'orribile torre; ond'io guardai

nel viso a' mie' figliuoi sanza far motto.

Io non piangea, sì dentro impetrai:

piangevan elli; e Anselmuccio mio

disse: "Tu guardi sì, padre! che hai?".

Perciò non lacrimai né rispuos'io

tutto quel giorno né la notte appresso,

infin che l'altro sol nel mondo uscìo.

Come un poco di raggio si fu messo

nel doloroso carcere, e io scorsi

per quattro visi il mio aspetto stesso,

ambo le man per lo dolor mi morsi;

ed ei, pensando ch'io 'l fessi per voglia

di manicar, di subito levorsi

e disser: "Padre, assai ci fia men doglia

se tu mangi di noi: tu ne vestisti

queste misere carni, e tu le spoglia".

Queta'mi allor per non farli più tristi;

lo dì e l'altro stemmo tutti muti;

ahi dura terra, perché non t'apristi?

Poscia che fummo al quarto dì venuti,

Gaddo mi si gittò disteso a' piedi,

dicendo: "Padre mio, ché non mi aiuti?".

Quivi morì; e come tu mi vedi,

vid'io cascar li tre ad uno ad uno

tra 'l quinto dì e 'l sesto; ond'io mi diedi,

già cieco, a brancolar sovra ciascuno,

e due dì li chiamai, poi che fur morti.

Poscia, più che 'l dolor, poté 'l digiuno".

Quand'ebbe detto ciò, con li occhi torti

riprese 'l teschio misero co'denti,

che furo a l'osso, come d'un can, forti.

Ahi Pisa, vituperio de le genti

del bel paese là dove 'l sì suona,

poi che i vicini a te punir son lenti,

muovasi la Capraia e la Gorgona,

e faccian siepe ad Arno in su la foce,

sì ch'elli annieghi in te ogni persona!

Ché se 'l conte Ugolino aveva voce

d'aver tradita te de le castella,

non dovei tu i figliuoi porre a tal croce.

Innocenti facea l'età novella,

novella Tebe, Uguiccione e 'l Brigata

e li altri due che 'l canto suso appella.

Noi passammo oltre, là 've la gelata

ruvidamente un'altra gente fascia,

non volta in giù, ma tutta riversata.

Lo pianto stesso lì pianger non lascia,

e 'l duol che truova in su li occhi rintoppo,

si volge in entro a far crescer l'ambascia;

ché le lagrime prime fanno groppo,

e sì come visiere di cristallo,

riempion sotto 'l ciglio tutto il coppo.

E avvegna che, sì come d'un callo,

per la freddura ciascun sentimento

cessato avesse del mio viso stallo,

già mi parea sentire alquanto vento:

per ch'io: "Maestro mio, questo chi move?

non è qua giù ogni vapore spento?".

Ond'elli a me: "Avaccio sarai dove

di ciò ti farà l'occhio la risposta,

veggendo la cagion che 'l fiato piove".

E un de' tristi de la fredda crosta

gridò a noi: "O anime crudeli,

tanto che data v'è l'ultima posta,

levatemi dal viso i duri veli,

sì ch'io sfoghi 'l duol che 'l cor m'impregna,

un poco, pria che 'l pianto si raggeli".

Per ch'io a lui: "Se vuo' ch'i' ti sovvegna,

dimmi chi se', e s'io non ti disbrigo,

al fondo de la ghiaccia ir mi convegna".

Rispuose adunque: "I' son frate Alberigo;

i' son quel da le frutta del mal orto,

che qui riprendo dattero per figo".

"Oh!", diss'io lui, "or se' tu ancor morto?".

Ed elli a me: "Come 'l mio corpo stea

nel mondo sù, nulla scienza porto.

Cotal vantaggio ha questa Tolomea,

che spesse volte l'anima ci cade

innanzi ch'Atropòs mossa le dea.

E perché tu più volentier mi rade

le 'nvetriate lagrime dal volto,

sappie che, tosto che l'anima trade

come fec'io, il corpo suo l'è tolto

da un demonio, che poscia il governa

mentre che 'l tempo suo tutto sia vòlto.

Ella ruina in sì fatta cisterna;

e forse pare ancor lo corpo suso

de l'ombra che di qua dietro mi verna.

Tu 'l dei saper, se tu vien pur mo giuso:

elli è ser Branca Doria, e son più anni

poscia passati ch'el fu sì racchiuso".

"Io credo", diss'io lui, "che tu m'inganni;

ché Branca Doria non morì unquanche,

e mangia e bee e dorme e veste panni".

"Nel fosso sù", diss'el, "de' Malebranche,

là dove bolle la tenace pece,

non era ancor giunto Michel Zanche,

che questi lasciò il diavolo in sua vece

nel corpo suo, ed un suo prossimano

che 'l tradimento insieme con lui fece.

Ma distendi oggimai in qua la mano;

aprimi li occhi". E io non gliel'apersi;

e cortesia fu lui esser villano.

Ahi Genovesi, uomini diversi

d'ogni costume e pien d'ogni magagna,

perché non siete voi del mondo spersi?

Ché col peggiore spirto di Romagna

trovai di voi un tal, che per sua opra

in anima in Cocito già si bagna,

e in corpo par vivo ancor di sopra.

Canto XXXIV

 "Vexilla regis prodeunt inferni

verso di noi; però dinanzi mira",

disse 'l maestro mio "se tu 'l discerni".

Come quando una grossa nebbia spira,

o quando l'emisperio nostro annotta,

par di lungi un molin che 'l vento gira,

veder mi parve un tal dificio allotta;

poi per lo vento mi ristrinsi retro

al duca mio; ché non lì era altra grotta.

Già era, e con paura il metto in metro,

là dove l'ombre tutte eran coperte,

e trasparien come festuca in vetro.

Altre sono a giacere; altre stanno erte,

quella col capo e quella con le piante;

altra, com'arco, il volto a' piè rinverte.

Quando noi fummo fatti tanto avante,

ch'al mio maestro piacque di mostrarmi

la creatura ch'ebbe il bel sembiante,

d'innanzi mi si tolse e fé restarmi,

"Ecco Dite", dicendo, "ed ecco il loco

ove convien che di fortezza t'armi".

Com'io divenni allor gelato e fioco,

nol dimandar, lettor, ch'i' non lo scrivo,

però ch'ogni parlar sarebbe poco.

Io non mori' e non rimasi vivo:

pensa oggimai per te, s'hai fior d'ingegno,

qual io divenni, d'uno e d'altro privo.

Lo 'mperador del doloroso regno

da mezzo 'l petto uscìa fuor de la ghiaccia;

e più con un gigante io mi convegno,

che i giganti non fan con le sue braccia:

vedi oggimai quant'esser dee quel tutto

ch'a così fatta parte si confaccia.

S'el fu sì bel com'elli è ora brutto,

e contra 'l suo fattore alzò le ciglia,

ben dee da lui proceder ogni lutto.

Oh quanto parve a me gran maraviglia

quand'io vidi tre facce a la sua testa!

L'una dinanzi, e quella era vermiglia;

l'altr'eran due, che s'aggiugnieno a questa

sovresso 'l mezzo di ciascuna spalla,

e sé giugnieno al loco de la cresta:

e la destra parea tra bianca e gialla;

la sinistra a vedere era tal, quali

vegnon di là onde 'l Nilo s'avvalla.

Sotto ciascuna uscivan due grand'ali,

quanto si convenia a tanto uccello:

vele di mar non vid'io mai cotali.

Non avean penne, ma di vispistrello

era lor modo; e quelle svolazzava,

sì che tre venti si movean da ello:

quindi Cocito tutto s'aggelava.

Con sei occhi piangea, e per tre menti

gocciava 'l pianto e sanguinosa bava.

Da ogni bocca dirompea co' denti

un peccatore, a guisa di maciulla,

sì che tre ne facea così dolenti.

A quel dinanzi il mordere era nulla

verso 'l graffiar, che talvolta la schiena

rimanea de la pelle tutta brulla.

"Quell'anima là sù c'ha maggior pena",

disse 'l maestro, "è Giuda Scariotto,

che 'l capo ha dentro e fuor le gambe mena.

De li altri due c'hanno il capo di sotto,

quel che pende dal nero ceffo è Bruto:

vedi come si storce, e non fa motto!;

e l'altro è Cassio che par sì membruto.

Ma la notte risurge, e oramai

è da partir, ché tutto avem veduto".

Com'a lui piacque, il collo li avvinghiai;

ed el prese di tempo e loco poste,

e quando l'ali fuoro aperte assai,

appigliò sé a le vellute coste;

di vello in vello giù discese poscia

tra 'l folto pelo e le gelate croste.

Quando noi fummo là dove la coscia

si volge, a punto in sul grosso de l'anche,

lo duca, con fatica e con angoscia,

volse la testa ov'elli avea le zanche,

e aggrappossi al pel com'om che sale,

sì che 'n inferno i' credea tornar anche.

"Attienti ben, ché per cotali scale",

disse 'l maestro, ansando com'uom lasso,

"conviensi dipartir da tanto male".

Poi uscì fuor per lo fóro d'un sasso,

e puose me in su l'orlo a sedere;

appresso porse a me l'accorto passo.

Io levai li occhi e credetti vedere

Lucifero com'io l'avea lasciato,

e vidili le gambe in sù tenere;

e s'io divenni allora travagliato,

la gente grossa il pensi, che non vede

qual è quel punto ch'io avea passato.

"Lèvati sù", disse 'l maestro, "in piede:

la via è lunga e 'l cammino è malvagio,

e già il sole a mezza terza riede".

Non era camminata di palagio

là 'v'eravam, ma natural burella

ch'avea mal suolo e di lume disagio.

"Prima ch'io de l'abisso mi divella,

maestro mio", diss'io quando fui dritto,

"a trarmi d'erro un poco mi favella:

ov'è la ghiaccia? e questi com'è fitto

sì sottosopra? e come, in sì poc'ora,

da sera a mane ha fatto il sol tragitto?".

Ed elli a me: "Tu imagini ancora

d'esser di là dal centro, ov'io mi presi

al pel del vermo reo che 'l mondo fóra.

Di là fosti cotanto quant'io scesi;

quand'io mi volsi, tu passasti 'l punto

al qual si traggon d'ogni parte i pesi.

E se' or sotto l'emisperio giunto

ch'è contraposto a quel che la gran secca

coverchia, e sotto 'l cui colmo consunto

fu l'uom che nacque e visse sanza pecca:

tu hai i piedi in su picciola spera

che l'altra faccia fa de la Giudecca.

Qui è da man, quando di là è sera;

e questi, che ne fé scala col pelo,

fitto è ancora sì come prim'era.

Da questa parte cadde giù dal cielo;

e la terra, che pria di qua si sporse,

per paura di lui fé del mar velo,

e venne a l'emisperio nostro; e forse

per fuggir lui lasciò qui loco vòto

quella ch'appar di qua, e sù ricorse".

Luogo è là giù da Belzebù remoto

tanto quanto la tomba si distende,

che non per vista, ma per suono è noto

d'un ruscelletto che quivi discende

per la buca d'un sasso, ch'elli ha roso,

col corso ch'elli avvolge, e poco pende.

Lo duca e io per quel cammino ascoso

intrammo a ritornar nel chiaro mondo;

e sanza cura aver d'alcun riposo,

salimmo sù, el primo e io secondo,

tanto ch'i' vidi de le cose belle

che porta 'l ciel, per un pertugio tondo.

E quindi uscimmo a riveder le stelle.

 

 Edizione HTML a cura di: mail@debibliotheca.com Ultimo Aggiornamento: 10/07/05 17.02