TRE CROCI
di Federigo Tozzi
..
CAPITOLO V Modesta era una
paciona che viveva soltanto per la famiglia: non sapeva fare altro e non capiva di più.
Energica e robusta, passava le giornate in casa; e lavorava più lei che la donna di
servizio. Per farsi portare qualche ora a spasso, le sue nipoti dovevano tentare tutti gli
espedienti. Alta quanto Niccolò, non era meno massiccia e meno grassa. Il marito e i
cognati le empivano la casa di provviste da mangiare; ed ella doveva soltanto preoccuparsi
di cucinarle. Ma aveva subodorato che le nascondevano qualche cosa; e non era più
tranquilla e contenta come una volta. Mentre Niccolò
finiva di asciugarsi il viso e le mani, ella gli chiese: - Perché ti
lamenti sempre che la libreria non guadagna, e in vece facciamo i signori; come se i
denari ci fossero a palate? Niccolò
temette di lei, ma rispose con disinvoltura: - Tu stai al
tuo posto. Queste domande, la mia moglie non le deve fare. Ella voleva
tenergli testa, ma le venne da ridere. Egli, allora, seguitò con il suo solito brio: - Le donne
devono pensare alla calza! Ella si perse
di franchezza; ma non volle stare più zitta. - Sono sicura
che non mi dici la verità. Niccolò rise
più forte. - Troppe volte
ti ho visto preoccupato, e troppe volte hai detto che noi ci possiamo trovare nella
miseria! - Non farmi
andare in collera di mattinata! Mi ero alzato così di buonumore, e tu me lo vuoi
guastare. - Non fare il
buffo! - E tu le
bizze. - Non faccio
bizze: sono stizzita da vero. - Come ti devo
ragionare io? Ti devo guarire io? T'ho detto di lasciarmi vestire in pace. Te lo chiedo
per favore. Ella, allora,
andò in cucina; a preparargli la cioccolata. Egli s'affrettò a mettersi la giubba, prima
che tornasse. Modesta non si
sarebbe arrischiata ad insistere, ma la sua ansia le dette forza. E, portatagli la
cioccolata in camera, senza farlo andare in salotto, per esser soli, gli disse ancora: - Io andrò,
oggi, dal cavaliere Nicchioli. - Vai da chi ti
pare! Niccolò era
ancora disposto ad essere mite, credendo che la moglie la facesse finita. Ma non si
sarebbe sentito sicuro, se non avesse pensato ai fratelli. Egli aveva il viso afflitto; e,
pure di potersene andare, non gli importava che la cioccolata gli bruciasse la lingua. - Tu,
nonostante il bene che ti voglio e gli anni del nostro matrimonio, tenti di nascondermi
quello che fai capire anche a guardarti. Bada che non è una celia! - Mi minacci?
Ora non potrai dire più d'essere una buona moglie come credevo. E come ti vantavi. Ella restò
senza fiato, ma senza sentirsi avvilita. Il marito non le poteva mentire, ed ella era
stata una sciocca. Ma, nondimeno, il suo istinto non la persuadeva. Come quando aveva
creduto di sognare un terno sicuro, e tornava a rigiocare i numeri; con quel suo fanatismo
testardo e assurdo. Ella, allora,
aspettando che Enrico entrasse in salotto a bevere il caffè, mentre gli preparava le
fette imburrate, decise di parlarne con lui. Con Giulio non ancora, perché lo avrebbe
ridetto al marito. Enrico era con
lei sornione, e qualche volta cupo. Le parlava a distanza, sempre da sgarbato. Vedendolo
entrare più burbero del solito, temette che le rispondesse troppo male. Ma gli chiese: - Come vanno
gli interessi della libreria? - Non c'è il
tuo marito? Perché non lo domandi a lui? Perché lo domandi a me? Questo latte non è
più buono, come prima! - Niccolò non
ha voluto dirmi niente! - E, perciò,
ti rivolgi a me? - Ma lo saprò
lo stesso. - Le donne
riescono a tutto. - Non mi sarà
difficile, allora! - Senti:
lasciami far colazione in pace! Piuttosto, hai messo poco burro su le fette! Bisognerà
che ce lo stenda da me. Meno che io voglio parlare con te, e più tu mi vieni attorno. Ella non sapeva
se s'ingannava o se aveva ragione di sospettare. Egli la guardava con disprezzo,
accigliato e con una serietà ostile; come se l'avesse odiata. Qualche volta egli le era
restato antipatico, ma s'era subito rimproverata; come di una sconvenienza. Non poteva
prendersela con un cognato! Pensò, allora, di supplicarlo; ma a pena egli se ne accorse,
le disse: - Ti prego di
smettere e di andartene! Ella obbedì,
pentita d'aver creduto ch'egli l'avrebbe ascoltata. Enrico, invece
di fare la passeggiata di tutte le mattine, andò difilato a bottega e disse a Niccolò: - Mi pare che
la tua moglie metta su presunzione! - Che t'ha
detto? - Suppongo che
prima abbia chiesto a te quel che chiedeva a me. Niccolò, per
non passare da debole dinanzi al fratello, rispose: - Con me, se
n'è guardata bene. - Mi credi un
idiota? Mettiamoci, invece, d'accordo. E, quando viene Giulio, domandiamolo anche a lui. - Veramente,
non credo che possiamo rimproverarla. - Ed io ti dico
di sì. Non fare il sentimentale. - Oggi, le
parleremo tutti e tre insieme. Perché non dovete supporre che io mi sia lasciato scappare
né meno un ette! - Ti saresti
fatto pigliare proprio alla tagliola. - Non c'è
pericolo! Sono abbastanza furbo, benché lei sia una donna. - Appunto
perché è una donna ci vuole doppio giudizio. E bisogna metterla subito al posto. - Io non le
permetto né meno di fiatare! - Pare di sì:
altrimenti, non avrebbe osato, mentre facevo colazione, di mettersi lì ad affrontarmi. Io
non me l'aspettavo. - Stai
tranquillo che non sa niente. Piuttosto, la strozzo. - Io le ho
portato sempre rispetto, da buon cognato, ma ora glie lo farei scontare. - Con la mia
moglie ci penso da me. Basto io! Giulio, quando
gli raccontarono tutto, disse: - Siamo
rovinati! Non c'è più scampo! Le donne son più astute del diavolo. Chi avrebbe
immaginato che quella sciocca... Scommetto che ha sentito qualche nostro discorso.
Ierisera parlammo sottovoce, al buio. Può darsi che sia stata ad ascoltare. Ma Niccolò
disse: - Oggi, prima
di metterci a tavola, la facciamo pentire. - Senza tanti
riguardi! Giulio propose: - È meglio con
le buone! Enrico
ribatté: - Allora, io
non me ne occupo. Farete da voi. Giulio chiese,
come se riflettesse da sé, a voce alta: - È meglio con
le buone o con le cattive? Enrico rispose: - Io ho sempre
sentito dire... Ma Niccolò
gridò: - Ci penso io!
Basta! Voi starete lì soltanto; e, se ce ne sarà bisogno, mi aiuterete. Enrico scosse
la testa, ed escì. Ma Giulio era anche spiacente di obbligare la cognata a non
immischiarsi nelle faccende degli interessi. - O chi glie lo
avrà messo in mente? Mi pare impossibile che nessuno l'abbia messa su. Sempre così
quieta come una pecora! Non c'è stato mai una mezza questione! - Sono ubbie
del suo cervello. Ti garantisco che non sa niente! - Lo spero. A mezzogiomo,
Niccolò, la fece chiamare in salotto; e mandò le nipoti in cucina, chiuse insieme con la
donna di servizio. E le disse: - Siamo tutti e
tre sorpresi dei discorsi che hai cominciato stamani. Diteglielo anche voi: non è così? Modesta si
sentì addirittura incapace di difendersi. Era il suo istinto che le dava ragione, ma
avrebbe voluto piuttosto essere rovinata da vero che trovarsi lì a quel modo. Non
s'aspettava né meno che il marito le avrebbe fatto sopportare quella parte! Se fosse
stata sola con lui, si sarebbe buttata in ginocchio; e invece si sentiva venire meno, come
se le si piegassero le gambe, ed ella non avesse più forza di tenersi ritta. Era
sbigottita; e, nello stesso tempo, meravigliata. Ben lontana da indovinare che Giulio le
avrebbe chiesto perdono, e che Enrico sarebbe stato pronto, più degli altri, per viltà,
a dirle tutto. Niccolò sentiva per lei un affetto che durante qualche attimo rasentava
l'adorazione. Ella li credeva indignati, e pieni d'ira. E se, invece, avesse detto una
mezza parola, tutti e tre non avrebbero più osato di apparirle dinanzi. Ma ella, a pena
si fu un poco rimessa, bisbigliò: - Non dovete
badare a me! Enrico rispose: - Non voglio
sapere altro: mi basta. Niccolò
aggiunse: - Un'altra
volta sarai più prudente. Giulio non le
disse nulla, perché si vergognava. Allora, ella,
piena di gioia quasi delirante, andò in cucina a dire alle nipoti che potevano portare la
minestra. Durante il
pranzo, incitava gli altri a ridere e a essere allegri; sentendo una felicità non provata
mai. Le pareva perfino troppa; e di essersi ubriacata, benché non avesse bevuto più del
solito. Niccolò l'approvava, e burlava Giulio quando stava serio. Egli presentiva che
presto non avrebbero più riso; e, allora, con la sua ilarità avrebbe voluto insultare
tutti. Se l'avessero sentito sghignazzare il cassiere e il direttore della banca, sarebbe
stato disposto a dare da vero dieci anni della sua vita. Erano risate sorde, ma spumose;
risate piene di impazienza; che, ad ascoltarle bene, parevano brividi; lente e comode,
larghe e insolenti. Egli rideva anche con la voce; i suoi occhi luccicavano, destando la
malcreanza di Enrico, e la timidità corrotta di Giulio. Ma, a un certo punto, pareva che
dovessero ridere anche i piatti; battendo su la tavola. Tutto doventava ridicolo e
piacevole. Giulio disse: - Ora, è
troppo! Chiarina e Lola
gridarono: - No, no! Non
dovete smettere! Soltanto Enrico
riescì a farli tornare in sé, dicendo: - Questa
baldoria non mi piace! Quantunque
Niccolò gli rispondesse pronto con una sguaiataggine tutt'altro che pulita, risero meno,
tra i denti. Enrico disse ancora: - Che tu sei il
più sboccato, lo sapevo. Ma le sudicerie le devi serbare per la bottega. In presenza
delle bambine, no. Metti il grifo dentro ai piatti e taci. - Se non vuoi
ascoltare... Giulio disse: - Non prendiamo
le inezie troppo sul serio! Cionchiamoci sopra un bicchiere di vino; e vi passerà la
voglia di fare un bisticcio. È meglio divertirsi che altercare! Niccolò faceva
il pentito, con un'aria che rimetteva la voglia di ridere. Le due nipoti lo guardavano con
una ammirazione ingenua; quasi rapite. Modesta si
alzò, andò dietro alla sua sedia; e, prendendogli la testa, lo baciò. Egli si strofinò
con il tovagliolo dov'era stato baciato; e, allontanandola con una spinta, disse: - Queste
confidenze non le devi prendere. O che non puoi ritenerti? |
Edizione HTML a cura di: mail@debibliotheca.com
Ultimo Aggiornamento: 17/07/2005 14.03