TRE CROCI
di Federigo Tozzi
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CAPITOLO X La domenica,
Giulio e il cavaliere Nicchioli fecero un'altra passeggiata. Niccolò era andato a
Firenze; e perché non lo dissuadessero, aveva evitato di parlare a solo con i fratelli. Quando prendeva
di queste decisioni, doventava intrattabile; rifiutando di darne qualunque
giustificazione. Non riescivano né meno a trovarlo. Il cavaliere
chiese a Giulio: - Vogliamo
andare da Ovile a Pispini? Il libraio era
distratto, e rispose: - Dove vuole
lei. Per me, è lo stesso. Nell'aria c'era
una dolcezza pungente; e le campagne parevano gli avanzi della primavera. Quasi tutti i
contadini avevano vendemmiato; e perciò i cancelli su le strade erano aperti; ma
portavano ancora le spine. Siena è come
tante strisce dritte di tetti e di facciate, della stessa altezza; che si alzano invece
all'improvviso dove le case vengono più in fuori, pigliando un poco di poggetto. Ma San
Francesco e Provenzano, con spicchi di case in mezzo, da un'altra parte della città,
taglierebbero quelle strisce quasi ad angolo retto se in quel punto la pendenza non fosse
più ripida. E le mura della cinta, trattenute dalle loro torrette smozzicate e vuote,
lasciano un gran spazio libero; venendo fin giù alla strada; come una corda allentata.
Poi, la strada gira troppo sotto la cinta; e Siena non si vede più. Ma dopo un poco
ritorna; con le case ammucchiate alla ridossa. E la Torre del Mangia pare che si spenzoli,
su alta nel cielo, dalle mura. Il cavaliere
disse: - Si volti a
vedere com'è bella la nostra Siena! Ma Giulio non
aveva voglia di guardare. Aspettando l'ora dell'appuntamento s'era sempre più persuaso
che a chiedere al Nicchioli un'altra firma si sarebbe compromesso; o, per lo meno, gli
avrebbe suggerito un sospetto troppo forte. E, poi, si sentiva con lui di una timidità
molle. L'averlo ingannato gli metteva nell'animo il desiderio di compensarlo con una
devozione intima e profonda. Ma, standoci insieme, fu tentato; e gli parve possibile che
il cavaliere avrebbe annuito a firmare un'altra volta. Era, del resto, il mezzo di
salvarsi soltanto per altre poche settimane e basta! Ma quando sentì che gli parlava con
quella sua tenerezza vanitosa e saccente, gli disse: - Domani avrei
bisogno da lei di una gentilezza che m'ha fatto un'altra volta. - Se posso,
volentieri! Giulio ebbe un
gran rivoltolone dentro, e continuò come se fosse fatale non potersi trattenere più: - Ci fanno
comodo altri denari... Il cavaliere
impallidì, e chiese: - Quanti? - Un diecimila
lire! - E perché? - Siamo restati
al secco. Il cavaliere
trasecolava e allibiva; e Giulio si accorse che, parlando, aveva dato il tracollo a tutto.
Ma gli pareva già da un tempo incalcolabile e che fosse possibile rimediare. Stava per
dire che non era vero, quando s'accorse che il cavaliere non aveva più nessuna stima di
lui. Allora si raccomandò come un ragazzo, cercando di fargli credere che si trattasse
quasi di un capriccio, di una necessità non indispensabile; quasi di un lusso. Gli
premeva che il Nicchioli non sospettasse, e sorrise. Ma il cavaliere, addirittura di un
altro umore, non dette retta a quel sorriso. Che gli era avvenuto? Non alzava più gli
occhi e non aveva più voglia di parlare. Questo cambiamento sembrava pieno di conseguenze
cattive. Camminava più lesto, come se non potesse stare più con lui. Era adirato? Era
finita la loro amicizia? O sarebbe andato a informarsi alla banca? Ma non
indovinò nulla, benché il cavaliere, lasciandolo, gli desse la mano in un modo come per
rimproverarlo. In casa, Giulio
trovò Enrico che insegnava a giocare a dama alle nipoti; mentre stava su una poltrona con
un piede dentro un senapismo caldo, perché durante la notte aveva avuto un altro attacco
di gotta. Modesta vicino alla finestra, cuciva. Egli entrò in
camera, e ci si chiuse. Sentì che per lui vivere era doventata una cosa del tutto
involontaria. Non gli importava più di niente, e le voci di quelli che parlavano nella
stanza accanto gli sembrava che si fermassero a una specie d'ostacolo; che le lasciava
passare oltre. Egli, a un certo momento, si voltò perfino per vedere se quell'ostacolo
era visibile! Non riesciva né meno ad essere triste e a preoccuparsi: una chiarezza
fatale ed inalterata gli faceva conoscere, con un gran guazzabuglio di ricordi e di
pensieri, ch'egli non avrebbe potuto cambiare nulla. Sentiva dissolversi ogni cosa e non
riusciva più a prendere una decisione. Anzi, gli pareva proibito per sempre che egli
potesse trovare una ragione qualunque di quel silenzio cosciente. Se uno avesse parlato di
cose allegre, gli avrebbe fatto piacere; e gli sarebbe parso naturale. Pensava volentieri
che Niccolò era andato a Firenze per divertirsi; ed egli stesso non credeva più che il
giorno dopo c'era la scadenza d'una cambiale. S'allontanava agevolmente dalla realtà; e
gli pareva che avrebbe potuto fare a meno di riavvicinarcisi. S'accorse che
non parlavano più; ed Enrico, sporgendo la testa dall'uscio, dopo un bel pezzo, gli
chiese: - Sei stato con
il cavaliere? - Sì: quasi
due ore. C'è qualche motivo perché tu me lo domandi? - Volevo sapere
quel che ne pensi, e se gli hai detto niente. Non te ne fidare: è doppio come le cipolle. - Ma ti pare
che io volessi entrare con lui in certi gineprai? Egli aveva tutt'altro per la testa. Non
sarebbe stato né meno educazione! - Allora, hai
agito bene. - Sono venuto
al mondo stamattina? - Lo so. Ma te
l'ho chiesto tanto per potermi regolare nel caso che lo incontrassi io. - Tu farai
sempre conto di cadere dalle nuvole, qualunque cosa ti domandi. - Siamo
d'accordo. O perché te ne stai costì solo? Vieni di qua anche tu. Le bambine escono con
Modesta. Giulio rispose
come se il fratello cercasse di fargli commettere qualche errore: - Perché devo
muovermi di qui? Ci sto così bene! - Allora, se
credi, fai il tuo comodo. E, ritirata la
testa, chiuse l'uscio. Ma, istantaneamente, Giulio si sentì invadere come da un delirio
senza scampo. Chi lo avrebbe trattenuto perché non andasse in mezzo alla cognata e alle
nipoti gridando? Come avrebbe potuto fare a non buttarsi a capofitto contro il muro? Chi
lo poteva tenere, nella strada, che non corresse per tutta Siena? Bisognava, dunque, che
egli si preparasse a commettere chi sa quale stravaganza, che avrebbe fatto effetto a
tutti. «Ecco, egli pensava, come un uomo può cambiarsi! È lo stesso di una malattia,
che viene quando non ci si pensa né meno!» Ma egli restava a sedere; e nessuno,
vedendolo, avrebbe potuto sospettare di niente. Gli seccò che le nipoti andassero a
salutarlo e a baciarlo. Pensava: «C'è bisogno di queste smancerie?» E non si rendeva
conto che esse avevano fatto sempre così. Poi, pensava: «Tutta la nostra regola di
vivere dev'essere intesa in un altro modo. Altrimenti, vuol dire che io, in quarant'anni
che ho, non sono mai riescito ad imbastire attorno a me una cosa che mi possa fare
veramente piacere e che risponda ai miei sentimenti. Perché gli altri mi credono eguale a
loro? Perché gliel'ho fatto credere io. E perché se io dicessi a loro quel che penso, è
certo che ne proverebbero dispiacere e non vorrebbero? Vuol dire che io li ho tanto
abituati a me stesso e ad essere così, che io ho perduto ormai qualunque diritto a
ricredermi. Ho fatto bene o male? E non potrebbe essere un bene anche per loro se io
riescissi a far conoscere quel che penso? Io ho continuato a vivere adattandomi sempre, e
costringendo me stesso a una certa regolarità, che mi sembrava giusta ed opportuna. Ora
m'accorgo che posso esser vissuto soltanto provvisoriamente, finché un giorno dovesse
sopravvenire un fatto decisivo, come quello della cambiale, che farà doventare debole
ciò che prima mi sembrava sicuramente forte e scelto bene. E se io non volessi più
obbedire a tutto ciò che fa parte anche di me stesso, mi troverei obbligato a non stare
più in questa casa e forse ad andarmene chi sa dove. L'impazienza del mio stato d'animo
deliberativo dipende soltanto da me; finché io non l'ho manifestato a nessuno. Ma,
siccome per eseguire la mia volontà, dovrei necessariamente, in un modo o in un altro,
farla conoscere a loro, io non sarei più libero come mi credo; ed io, perciò, mi sono
illuso da vero di godere e di soffrire soltanto per un effetto della mia coscienza. La
paura che io ho di sbagliare a prendere qualche decisione, l'impossibilità anzi di
prenderla, è la causa della mia indifferenza. Non vale, dunque, la pena ch'io soffra;
perché non soffro soltanto per me ma anche per gli altri. Io vivo così perché essi
vivono insieme con me.» Allora gli
pareva possibile cedere e trasmettere la sua sofferenza a qualcuno di loro; ed egli
ritrarsi verso qualche punto, dal quale avrebbe potuto soltanto assistere. Non vide più
perché egli avesse dovuto continuare a vivere, e il desiderio della morte gli parve
preferibile e necessario. «Essi mi fanno morire, senza ch'io abbia il diritto di
rifiutarmi. Anzi non mi preparo né meno a rifiutarmi. E perché?» Ma il perché non lo
trovava; e, a forza di pensarci, gli vennero in mente altre cose, che con quella domanda
non avevano più nessun legame. Almeno, quand'era giovine, non gli era mai capitato di
perdersi in queste possibilità negative, che ora filtravano anche nel suo passato più
remoto; in quel passato che credeva invulnerabile. Invece non esisteva nessuna resistenza;
e un giorno di disperazione si trovava subito a contatto con la sua giovinezza; che, con
una rapidità da far paura, era doventata soltanto una verità del suo sentimento. Escì di camera
con un viso che Enrico gli domandò se si sentisse male. - Io? Perché?
Non sono mai stato come oggi! Niccolò a
Firenze s'era divertito a girare tutto il giorno; senza parlare a nessuno. Egli
s'incoraggiava con energia ad essere senza preoccupazioni; e camminava a testa alta,
tronfio e rimpettito, come un signore che avesse a fare visite da insuperbire; e,
solleticando il suo amor proprio, fossero dicevoli soltanto alle sue ricchezze. La
giornata gli parve troppo breve; e soltanto in treno, mentre si riavvicinava a Siena, ebbe
qualche dubbio se avesse dovuto stare insieme con Giulio. Ma si portò almeno un centinaio
di ragioni, l'una migliore dell'altra; che lo approvarono. «Avrei poco giudizio se io me
la prendessi prima del tempo! Per oggi, è bene ch'io abbia fatto così.» Quando il treno
arrivò, era vicino a buio; e Niccolò non si sentì nessuna fretta di andare a casa.
Lasciò passarsi avanti tutti gli altri scesi alla stazione; seguiti dai facchini con le
valigie in spalla; ed egli guardava Siena come se la vedesse per la prima volta. Era
tentato, perfino, di domandare quale strada dovesse prendere! Si fermò, con le mani
dietro la schiena, a guardare la basilica di San Francesco; già scura d'ombra. Dirimpetto, né
meno a mezzo chilometro, il pendio d'una collina era invece ancora chiaro; e, tra essa e
la basilica, la vallata che s'allarga in pianura, non smettendo fino ai monti lontani, era
azzurrognola e placida; con anche certi colori di grigio quasi bianco. Un cipresso, da
sopra una sporgenza che non si vede, pareva sospeso sopra alla pianura. Sotto San
Francesco, le case d'Ovile; sospinte e sdrucciolate giù per lunghi scarichi. Niccolò si
volse intorno, per vedere se nessuno lo notava. Desiderava che lo giudicassero pieno di
boria e d'alterigia; e, andando a casa, si soffermò a tutte le botteghe dove erano
ghiottonerie e robe da mangiare. A casa disse giubilando, per vantarsi: - Come sono
stato bene! Una giornata incantevole! E, poi,
fingendo una magnanimità compunta: - Scommetto che
voi vi siete annoiati! |
Edizione HTML a cura di: mail@debibliotheca.com
Ultimo Aggiornamento: 17/07/2005 14.03