TRE CROCI
di Federigo Tozzi
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CAPITOLO XI Il Nicchioli
non aveva sospettato; ma gli era parso che il libraio volesse troppo approfittarsi di lui;
e, perciò, s'era imbroncito. Dopo, però, s'avvide ch'egli avrebbe potuto essere più
fermo senza alterarsi. E aveva in mente di spiegarlo al Gambi; disposto magari, in
seguito, e dopo aver visto le cose con chiarezza, a non rifiutare il suo aiuto; quando non
ci fossero stati veri pericoli. Non poteva darsi pace, anzi, d'essere stato costretto a un
diniego così reciso e anche umiliante. Ma la sua stessa albagia buonacciona non gli
permetteva né meno di temere che Giulio avesse fatto qualche imbroglio. Egli, intanto,
per evitare di chiedergli troppo presto scusa e anche di accondiscendere, pensò che non
doveva tornare almeno per un poco di tempo alla libreria; e, il lunedì, sebbene non ce ne
avesse bisogno, andò alle sue tenute di Monteriggioni: così, se lo avessero cercato, non
lo avrebbero trovato in casa. Bisogna essere buoni, ma fino a un certo punto! Il lunedì
mattina, tutti e tre i fratelli si trovarono nella libreria. Enrico bofonchiava
abbacchiato ed immusonito; con gli occhi gonfi e pesti. Cavò l'orologio dal taschino, e
disse: - Oh, a
presentare la cambiale, c'è ormai due ore sole! Niccolò, che
stava a capo riverso su la sua sedia, sbattendo i denti insieme, gli fece una sghignazzata
rabbiosa e gridò: - Tu stattene
cheto! Giulio si
raccomandò che non si mettessero a imbastire un litigio, perché gli avrebbero fatto
perdere di più la testa. Egli era sempre
mite; e restava assorto a almanaccare la via di scampo più prudente. Si teneva il mento
con una mano, e non alzava mai gli occhi. Le mani gli s'erano affilate e parevano fatte
soltanto di tendini. Niccolò non voleva essere distornato dal guardarlo, aspettando; e
preparandogli un risolino. Ma Giulio disse, con una dolcezza rassegnata: - Farò
un'altra firma falsa. I due fratelli,
che s'aspettavano di meglio, restarono zitti; quasi contrariati. Giulio sentì che avevano
ragione, e non aggiunse altre parole. Allora, Enrico
disse, con una certa vivacità che credeva approvata da Niccolò: - Se non trovi
un santo più fidato! - Non abbiamo
fatto così le altre volte? - Ma... sarebbe
tempo di smettere. Niccolò si
drizzò e disse a Giulio, andando alla scrivania: - Dammi quel
che ci vuole per comprare la cambiale: ci vado io. Enrico disse: - Aspetta!
Riflettiamo, prima! Allora, Giulio
rimise i soldi nella ciotola di legno; pigiandoci la punta delle dita sopra. Niccolò
sembrava abbonito, quasi contento; come se, anzi, avesse la bramosia di comprare la
cambiale. Egli ci teneva a farsi vedere il più sveglio, quasi il più sagace; ma siccome
gli altri restavano ancora indecisi, egli spazientito si ributtò su la sedia, spingendola
a dietro con tutto il corpo e puntando i piedi in terra. Badò se ci aveva un mezzo
sigaro, e poi si mise a cacciarsi le dita nel naso. Giulio teneva
gli occhi bassi, benché fosse voltato dalla parte di Enrico; e sentiva le ciglia
chiudersi da sé, su gli occhi. Enrico disse: - O quel
mascalzone del Nicchioli non potrebbe cavarci d'impiccio? Giulio accennò
di no, con la testa. - Ma
bisognerebbe almeno che tu provassi! Giulio si fece
di porpora, e disse: - Glie ne
parlai ieri. Niccolò,
allora, smosse un'altra volta la sedia; che scricchiolò come se si sfondasse. E gridò: - Le bugie né
meno tu me le devi dire. - Che male ho
fatto? Niccolò
riprendeva gagliardia, quasi baldanza. Andò fino alla porta, tornò a dietro; poi fece lo
stesso altre due volte. Enrico gli
disse: - Smetti. Non
senti come sventoli? Egli, allora,
si piantò a sedere; e gridò: - Di qui non mi
alzo! Mentre Giulio
stava per dire a Enrico che intanto poteva decidersi lui a comprare la cambiale da qualche
tabaccaio, purché non andasse troppo lontano, entrò il Corsali; che aveva voglia di
raccontare un pettegolezzo su certi suoi pigionali; uno di quei pettegolezzi che li
mettevano di buon umore. Niccolò lo aggredì: - Che vuoi? Non
è giornata, oggi! - Che ti è
accaduto? Io non ne so mica niente! - Vattene. - Oh, ma
potresti usare modi più garbati! Niccolò
ringhiò, battendo forte i piedi. Giulio gli fece capire, con un cenno della testa, che
non potevano dargli retta. Allora, il
Corsali s'arrischiò: - Se io posso
esservi utile... Enrico disse,
come se si rivolgesse ai fratelli: - Non se ne
vuole mica andare! Entra, qua dentro, franco, quasi con brio... e pretende che lo si
tratti da persona educata! La colpa è vostra, perché è sempre venuto a trovare voi! Io
non l'avrei fatto passare né meno una volta! Il Corsali,
adirato, gli chiese: - E tu che hai
da guaire contro di me? Finché vi ho fatto comodo... Niccolò
rispose: - A me non fa
comodo nessuno. Altro che i signori. E oggi né meno quelli! Vattene, e basta! - Mi meraviglio
di Giulio! Ma anche Giulio
sbuffò; e il Corsali escì, minacciandoli. Erano tutti e
tre fuori di sé dalla collera; ed erano i soli momenti che si volevano veramente bene.
Giulio, sicuro che nessuno avrebbe contraddetto, disse ad Enrico: - Vai a
prenderla! Restati soli,
Giulio e Niccolò sentivano l'uno per l'altro una tenerezza che pareva una cosa sola con
la loro collera. Anche Giulio, ora, era più spigliato; e, quando venne la cambiale, la
stese subito su la scrivania. Scelse una penna che faceva bene, e la provò con l'unghia
del pollice; ma, siccome gli tremavano un poco le mani, disse: - Prima è
meglio ch'io mi calmi! Gli altri due
fratelli, appoggiati agli scaffali, gli stavano attorno. Giulio accese una sigaretta; e,
fumatala mezza, disse: - Ora sono in
ordine! Si strinse
forte le mani insieme, poi un dito per volta della destra; tuffò la penna, guardò che
non fosse inchiostrata troppo; e, tenendo ferma la cambiale con la sinistra, cominciò la
firma. In quel momento si entusiasmava; e, benché si sentisse sempre rimescolare e come
un'interruzione nella sua coscienza, non avrebbe potuto fare a meno di finire la firma;
quasi protetto e scusato dalla certezza della sua bravura. Egli esaminò la firma, da
tutte le parti; e la mostrò ai fratelli; che la trovarono perfetta, confrontandola con
una vera del Nicchioli. Ma, fatta la firma, bisognava portare la cambiale. E la titubanza
cominciava qui. Per portarla, doveva ragionare presso a poco così: «Ormai è fatta, e
sarei ridicolo che me ne pentissi e me ne vergognassi. Se è fatta, vuol dire ch'io devo
prendere la cambiale e portarla alla banca. A che cosa servirebbe, se no? Sono doventato
un ragazzo che non sa quello che deve lambiccare?» Ma quella mattina non ebbe tempo per
queste riflessioni, e né meno per altre più brevi; perché tanto Niccolò che Enrico gli
intimarono: - Non bisogna
perdere più tempo! C'è mezz'ora soltanto! Alzati da sedere! Egli prese la
cambiale ed obbedì. Ma, per la strada, sentiva di perdere quella specie di sicurezza; e
camminava sempre più a rilento. Avrebbe potuto tornare a dietro o strappare la cambiale?
Egli ci pensò, un attimo solo e come a una cosa impossibile. C'erano dinanzi a lui tante
vie, ma egli doveva prendere quella della banca. Quando fu su per le scale, pulite ed
eleganti, riconobbe l'odore che veniva sempre da quegli uffici. Molta gente scendeva e
saliva; egli ne conosceva parecchi e s'affrettava a salutarli. Giunto allo sportello dove
accettavano gli sconti, dovette attendere perché c'erano almeno una dozzina di persone.
Ma non gli venne mai in mente di andarsene; anzi, ostentava di avere fretta; e consegnò
la cambiale all'impiegato, con un sorriso convenzionale; da commerciante conosciuto e
accreditato. Poi chiese, scherzando: - Va bene? L'impiegato,
con un moto della testa, rispose: - Benissimo! E buttò la
cambiale, insieme con le altre, in una cestina di vimini. Giulio,
scendendo con più allegrezza, pensava: «Anche questa volta il colpo è fatto!» Ma
s'accorgeva che la sua allegria era impacciata e malsicura: pareva che egli non avesse
forza. Si sentiva, ora, come un convalescente; che comincia a riconoscere le proprie
sensazioni e le trova troppo vecchie e usate. E vuole averle più intense. Ma non tardò
molto a confessarsi ripreso in mezzo al disordine delle sue preoccupazioni. In bottega
c'era il Nisard, che parlava con quella voce che viene quando ci si trova tra persone in
lutto. Egli non capiva che cosa avessero; ma voleva rendersi gradevole e non far pesare
quella specie di giocondità corretta, quasi precisa e convenuta, che era della sua
indole; pur senza essere costretto a lasciarla per gli altri. Giulio, con un
cenno, fece capire ai fratelli che la cambiale era stata presa; e si mise alla scrivania,
un poco impacciato e incuriosito di quel che parlavano. Soffiò meticolosamente la polvere
su la scrivania; quasi toccandola con le guance, per piegare la testa e sogguardare da
vicino e contro luce. Il Nisard gli piaceva, anche perché gli parlava di pittura antica;
e con lui poteva mostrare la sua erudizione di bibliofilo; sempre con un'ironia astuta e
bonaria. Possedeva parecchi libri rari; e, facendoli vedere con una compiacenza
particolare, li sfogliava come se li accarezzasse. S'intendeva bene di stampe vecchie e le
riconosceva subito; sorridendo come una zitellona, con il labbro di sotto che gli pendeva. Il Nisard
capì, con un'occhiata, che anche Giulio era molto differente agli altri giorni; e perché
fossero costretti ad ammirare la sua amabilità, sfoggiò, prima di andarsene, qualche
parola come egli solo sapeva scegliere in certe circostanze. Come fu escito,
Giulio disse: - Domani
sapremo se la cambiale sarà accettata dalla banca! Niccolò
rispose: - Ne sono
arcisicuro! Ma Enrico non
era del suo parere e scuoteva la testa. Poi s'impennò: - Se io fossi
certo che la respingono, anderei ad ammazzarli uno per volta! Ladri! Che ci rimettono,
loro, a farci questo piacere? Vorrei che si trovassero con l'acqua alla gola come noi! Niccolò
seguitò, per un pezzo, a sostenere che aveva torto. - Ah, ah, ah!
Tu non ne infili né meno una! Anzi sono sicuro, appunto perché tu dici di no, che la
cambiale sarà presa! Andrà a vele gonfie! Mi par di vederla, quando la prenderanno in
mano quelli che devono decidere! Perdio! Siamo galantuomini, per ora! Anche Giulio
allora si rifece animo; e disse cose strampalate: - Ci penserò tutto il giorno; così, la
cambiale doventerà viva come se nel suo posto ci fossi io e potrà parlare da sé! Enrico chiese: - O, allora,
perché dianzi ci siamo tanto rannuvolati? Se viene il Corsali, quando io non ci sono,
ditegli a nome mio che non lo volevo offendere sul serio! Giulio gli
chiese: - E dove hai da andare? - Vado a
giocare due o tre briscole; perché non ne posso fare a meno! Mi parrebbe di non essere
più io! Niccolò era
così nervosamente allegro che cominciò a canticchiare sguaiataggini. Giulio lo
ascoltava; ma ad un tratto, senza osare di dirlo a lui, sentì come un fendente dal capo
ai piedi. Per salvarsi, nascose il viso tra le mani. |
Edizione HTML a cura di: mail@debibliotheca.com
Ultimo Aggiornamento: 17/07/2005 14.04