3 - Il passaggio della linea
Per tutto il giorno seguente papà Catrame non comparve sul
ponte della nave. Rintanato nella cala, aveva dormito come un
ghiro, russando come una trottola d'Allemagna. Svegliatosi,
sorseggiò ciò che era rimasto nella bottiglia e divorò con
un appetito da pescecane la razione recatagli dai mozzi.
Del resto, la sua presenza in coperta non era necessaria,
poiché il tempo si manteneva tranquillo, l'oceano era liscio
come uno specchio, e il vento debole.
Quando però il sole scomparve all'orizzonte e la luna si
alzò in cielo, riflettendosi vagamente nell'azzurra e limpida
superficie del mare, si udì la scala del boccaporto maestro
scricchiolare, e poco dopo si vide apparire il vecchio
marinaio.
Aspirò avidamente una boccata d'aria marina, percorse il
legno da prua a poppa, con quel suo dondolamento che lo faceva
rassomigliare a un orso bianco, diede una sbirciata alle vele
senza guardare in viso nessuno, caricò flemmaticamente la sua
corta pipa, nera come la camicia di uno spazzacamino, poi
andò a sedersi con tutta gravità sul barile e parve immerso
in profondi pensieri.
Tosto i marinai, a due, a tre alla volta, i più coraggiosi
prima, i paurosi poi, ed i superstiziosi ultimi,
s'avvicinarono silenziosamente al vecchio marinaio,
circondandolo. Il capitano fu l'ultimo a giungere, tenendo in
mano un'altra bottiglia.
Tutti rispettavano il raccoglimento del vecchio, e certo
nessuno avrebbe osato strapparlo alle sue meditazioni; ma la
pazienza non era la virtù del capitano.
- Olà, papà Catrame, sei morto? - gli chiese.
II vecchio alzò il capo e, fissando il comandante, gli
domandò a bruciapelo: - Credete al re del mare, voi?
Il capitano scoppiò in una risata fragorosa, ma nessun
marinaio lo imitò. Bensì tutti lo guardarono con stupore,
come se fossero meravigliati che egli non prestasse fede a
ciò che narrava papà Catrame.
Il lupo di mare non mostrò tuttavia di offendersi, però
la sua fronte si corrugò, e, battendo con quelle mani callose
e irte di nodi i bordi del barile, esclamò: - Me lo direte
poi!
Ricadde nelle sue meditazioni, ma per pochi istanti,
poiché ad un tratto si scosse, come se avesse trovato quello
che cercava nei suoi lontani ricordi, e disse: - Oggi non si
costuma più; i lodevoli usi degli antichi marinai sono messi
da un lato come ferravecchi inservibili, e non si crede che
valga la pena di rendere omaggio a Nettuno, il re degli abissi
marini. Che importa se le navi affondano più spesso che una
volta? Sono casi, dicono gli scettici; sono accidenti,
affermano gli spregiudicati. Al diavolo le superstizioni dei
vecchi marinai! Lasciamo da parte le leggende, distruggiamo
tutto, ché il mondo deve rifarsi. Non è cosi?
Papà Catrame fece udire un riso stridulo, beffardo, che
aveva un non so che di strano, e che parve si ripetesse fino
in fondo alla stiva.
- La linea! - riprese poi. - Chi oggi, passando la linea,
rende omaggio al re del mare? Peuh! Hanno altro pel capo i
marinai moderni, che di pensare a Nettuno! Ma quale vendetta
si prende talora questo re del mare! Oh che! credete forse che
gli antichi marinai abbiano inventato la cerimonia per far
ridere voi, spregiudicati? O credete che un tempo pensassero a
divertirsi frammezzo alle onde incalzanti e ai sibili
diabolici del vento? No, no; e papà Catrame, se così vi
parla, ne ha il motivo.
- Voi siete giovani, e nulla sapete sul passaggio della
linea, che oggi si celebra al più con una innaffiata del
ponte; ma un tempo era una cerimonia importante, e nessun
marinaio, per quanto audace, avrebbe osato passarvi sopra,
poiché la vendetta di Nettuno presto o tardi lo avrebbe
infallantemente colpito.
Ora ve lo proverò.
Papà Catrame rattizzò la pipa col suo pollice
incombustibile, sorseggiò un buon bicchiere che gli offriva
il capitano, reclamò con un gesto maestoso il più assoluto
silenzio, e dopo di essersi accomodato sul barile, principiò
la sua seconda e non meno interessante narrazione.
- Un destino strano, incomprensibile, mi spinse sempre a
prendere imbarco sulle peggiori navi della nostra marina; e io
non le cercavo, veh! Quasi tutti i capitani che ho servito
nella mia lunga, lunghissima carriera marinaresca, erano
bestemmiatori o scredenti. Non badavano alle nostre
tradizioni, non badavano ai nostri vecchi usi, non credevano
né alle sirene, né alle figlie della spuma, né ai mostri
marini, a nulla insomma.
- Mi ero imbarcato in qualità di gabbiere su di una
vecchia corvetta, di cui ora non ricordo il nome, poiché sono
passati da quell'epoca lunghi anni. Era una gran nave però,
buona veliera, un po' vecchia, sì, ma colle costole ancora
robuste, destinata ai lunghi viaggi dell'Oceano Atlantico e
dell'Indiano, e perciò costretta a passare sovente la linea
equatoriale.
- Il capitano aveva sempre, fino allora, conservato
l'usanza di rendere il dovuto omaggio al re del mare, quando
dall'emisfero settentrionale passava nell'emisfero australe, e
mai aveva avuto a pentirsene. Anzi soleva dire che, appunto
per quello, la sua corvetta godeva una buona protezione; ed
infatti mai una tempesta fatale l'aveva sorpresa, e quelle
ordinarie le aveva facilmente vinte.
- Ma gli uomini purtroppo cambiano, e anche il nostro
capitano, seguendo l'andazzo dei tempi, a poco a poco si era
mutato, diventando uno spregiudicato.
- Avvenne or dunque che la nostra corvetta si trovò un
giorno nei pressi della linea equatoriale. Voi già sapete che
questa linea è puramente geografica, e perciò invisibile: è
un semplice parallelo, egualmente distante dai due poli.
- L'equipaggio, fedele alle tradizioni marinaresche,
cominciò a fare i preparativi onde procedere al battesimo, e
rendere quindi il dovuto omaggio a Nettuno, il quale si dice
abiti in prossimità della linea.
- Oh, allora erano bei tempi! Voi siete giovani, e non
potete avere che una pallida idea di quella cerimonia che
faceva battere il cuore del marinaio, perché sapeva di
compiere un dovere che lo metteva al coperto dal furore degli
oceani.
- Quando echeggiava sul ponte di comando: «Ecco la
linea!» una viva emozione s'impadroniva di tutti: ufficiali,
marinai e mozzi, eccoli tutti in movimento per prepararsi alla
festa.
- La gran gala, formata dalle bandiere di tutti gli Stati
del mondo e dalle bandiere dei segnali, saliva maestosamente
in aria, distendendosi fra l'albero di mezzana e la punta del
bompresso, e il vessillo nazionale s'innalzava maestosamente
sul picco della randa, salutato da un colpo di cannone.
- Si frugavano e rifrugavano le casse di tutti, si
spogliavano le cabine dell'ufficialità e dei passeggeri per
ornare l'opera morta, e dappertutto si stendevano tappeti,
arazzi e scialli variopinti, tramutando la nave in un'immensa
sala, sfolgorante pei lucenti metalli dell'attrezzatura e per
le tinte vivaci di tutto quel pandemonio di bandiere
svolazzanti e di stoffe spiegate al vento.
- Il mastro d'equipaggio e una dozzina dei più robusti
marinai scomparivano, mentre gli altri preparavano le pompe e
i mastelli pel battesimo, tanto più gradito al re del mare
quanto più era abbondante
- Nel momento preciso che il vascello passava la linea,
ecco giungere sotto l'anca di tribordo o di babordo
un'imbarcazione adorna di arazzi e di bandiere, montata da una
dozzina di tritoni e da un vecchio che raffigurava Nettuno.
Una voce grossa grossa si alzava dal mare, chiedendo:
«È battezzato il vascello?»
- «No!» - rispondeva l'equipaggio.
- «Ammainate la scala, dunque!» - comandava la voce
grossa.
- La scala d'onore veniva tosto calata: i marinai si
schieravano a prua coi mastelli pieni d'acqua, dinanzi e
attorno alle pompe; gli ufficiali e i passeggeri a poppa.
- Il re del mare saliva gravemente sul ponte. Era un
vecchio dalla lunga barba, adorno di conchiglie, recante in
capo una corona di metallo e nella sinistra un tridente. Lo
seguivano dodici marinai camuffati da tritoni, carichi di
conchiglie e di alghe marine.
- Il re, che era rappresentato dal mastro, si avanzava
verso il capitano, seguito da tutto il suo stato maggiore, e
dopo di aver ricevuto un lungo inchino da parte dell'intera
ufficialità, chiedeva al comandante: «Hai pagato il tuo
tributo al re del mare?»
- «No», - rispondeva il capitano.
- «Allora ti battezzo».
- Così dicendo, prendeva una tinozza piena d'acqua e la
rovesciava sul capo di lui inondandolo completamente.
- Quello era il segnale del battesimo generale. Le pompe,
energicamente manovrate, inondavano passeggeri e ufficiali, e
le tinozze si vuotavano sul capo di tutti. Torrenti d'acqua
correvano da prua a poppa, recando il dovuto tributo al re del
mare, e la battaglia si prolungava fino al completo
esaurimento delle forze di ambe le parti.
- La nave, così battezzata, poteva allora sfidare
impunemente i furori degli oceani, poiché Nettuno la
proteggeva; ma guai a non farlo! Il tributo d'acqua si
cambiava in una ecatombe umana, e papà Catrame, che è ancora
qui, vivo per miracolo, lo sa!
Il vecchio marinaio per la terza volta s'interruppe,
girando sull'attento equipaggio un lungo sguardo, come per
accertarsi che tutti lo ascoltavano religiosamente; ricaricò
la pipa, l'accese, indi continuò: - Come vi dissi, la nostra
corvetta era giunta nei pressi della linea: fra qualche ora
doveva lasciare l'emisfero settentrionale per entrare in
quello meridionale.
- Il nostro mastro, rigido osservatore delle tradizioni
marinaresche, si recò sul ponte di comando seguito da tutto
l'equipaggio, e disse al capitano: «La linea è vicina,
signore; Nettuno esige il suo tributo».
- «Vada al diavolo Nettuno e tutti i suoi tritoni»
rispose lo scettico.
- Il mastro impallidì.
- «Volete chiamare la sfortuna a bordo, signore», -
disse.
- «Me ne rido della collera di Nettuno, io».
- «Ma l'equipaggio...»
- «Basta così», - rispose ruvidamente il capitano. -
«Sono padrone io a bordo: andatevene!»
- Salì sul ponte di comando, ordinò di sciogliere tutte
le vele, perfino gli scopamari e i coltellacci, e, per colmo
di spavalderia insensata, fece ammainare la bandiera, onde
togliere al re del mare ogni idea che lo si volesse salutare.
- La corvetta, spinta da un buon vento, s'inoltrò verso la
linea; ma, cosa strana davvero, camminava più lenta del
solito, e pareva che ad ogni istante fosse lì lì per
arrestarsi. I marinai sussurravano che erano i tritoni del re
del mare che si aggrappavano alla carena per non lasciarla
passare; ma il capitano crollava il capo e faceva aggiungere
sempre nuove vele a quelle già sciolte.
- A mezzogiorno preciso la corvetta passava la linea. Quasi
nel medesimo istante un fremito agitò la tranquilla distesa
dell'oceano, e dalla profondità degli abissi uscì un cupo
rimbombo. Poco dopo un'onda immensa sorse agli estremi confini
dell'orizzonte, si distese e venne a rompersi con cupi muggiti
sulla prua della nave.
- Ci guardammo l'un l'altro, stupiti e spaventati, e,
parola di papà Catrame, vi era di che spaventarsi.
Interrogammo ansiosamente gli ufficiali: ci dissero che, per
un caso strano, un fenomeno, non so se maremoto o cos'altro,
era avvenuto nel momento preciso in cui passavamo la linea. Ci
credete voi? Io no, e scommetterei che non ci credevano
neanche gli ufficiali, perché erano pallidi come tutti noi.
- Anche il capitano era diventato serio serio, e la sua
fronte si era aggrottata; ma egli era testardo come un
guascone, e non voleva credere a Nettuno, né alla potenza di
questo re.
- Ed ecco ad un tratto sorgere all'orizzonte una nube, nera
come il bitume. Voi non lo crederete forse; ma io, con questi
occhi ho veduto che quella nube aveva tre punte acute,
rassomiglianti a un gigantesco tridente. Eravamo tutti muti
per lo spavento: ufficiali, marinai e mozzi erano diventati
pallidissimi allo scorgere quella sinistra nube, nel cui seno
guizzavano lampi sanguigni.
- Pareva che Nettuno avesse rizzato dinanzi a noi il suo
immane tridente per impedirci il passo; e così doveva essere,
poiché poco dopo il vento girava bruscamente al sud,
soffiando di fronte a noi. Cresceva la sua violenza di minuto
in minuto, poi era caldo come se uscisse dalle voragini
dell'inferno, e sollevava con forza irresistibile l'oceano,
alzando la gran nube, che si estendeva minacciosamente sopra
il nostro capo, e conservando sempre la sua bizzarra forma.
- Dagli abissi del mare uscivano muggiti e boati profondi,
il vento urlava su tutti i toni attraverso il sartiame
dell'alberatura, nell'aria rombava incessantemente il tuono e
lampeggiava. Talvolta tra le raffiche furiose, ci pareva di
udire una voce possente che ci gridasse: «Non passa la linea
chi non mi saluta!...»
- Invano il nostro capitano, che non voleva arrendersi al
re del mare, comandava manovre, girava di bordo per prendere
vento largo, e tentava di avanzare bordeggiando: la nave
veniva respinta dalle onde e dal vento. Tre volte ripassammo
la linea, e tre volte fummo ricacciati nell'emisfero
settentrionale.
- Scoppiavano le vele, cedevano le manovre correnti, si
piegavano come stuzzicadenti gli alberi e i pennoni, si
sfondavano le murate, cresceva la paura in tutti; ma il
testardo non voleva capitolare, e tornava sempre più irato
alla carica, deciso di mandarci tutti a bere nella grande
tazza salata, piuttosto che retrocedere.
- Parve che la fortuna sorridesse all'audace, poiché a
mezzanotte, dopo dodici ore di lotta disperata, la corvetta
ripassava la linea, entrando nell'emisfero australe. Ma
Nettuno aveva decretato la fine del testardo comandante.
- Un'ora dopo, una montagna d'acqua rovesciava la corvetta
sul tribordo. Cosa sia poi accaduto, non ho mai potuto saperlo
con precisione. Mi ricordo confusamente d'aver veduto non so
quante onde precipitarsi con orribile frastuono sul povero
legno, di aver udito urla, invocazioni disperate, gemiti,
scricchiolii, uno spezzarsi di legni, poi più nulla.
- Quando rinvenni, mi trovai nel fondo di una scialuppa,
solo sul burrascoso oceano. Come ero là? Non lo seppi mai.
- La tempesta mi portò lontano lontano dal luogo del
naufragio. Rimasi in mare dieci giorni, mangiando una delle
mie scarpe e aprendomi due volte una vena per dissetarmi.
- Quando una nave mi raccolse, ero ridotto in uno stato da
far compassione: giallo come un melone, asciutto come
un'aringa, tutto pelle ed ossa. Dei miei compagni non ebbi
più notizia; si sono salvati, o riposano in fondo agli abissi
marini? Io lo ignoro ancora; ma se qualcuno fosse
sopravvissuto a quell'orribile catastrofe, l'avrei incontrato
in qualche angolo del mondo e invece nessuno mai mi apparve.
Sono tutti morti: il cuore me lo dice.
Papà Catrame col dorso della mano spazzò via due lagrime
che gli solcavano le incartapecorite gote, si mise la pipa in
tasca e scosse malinconicamente il capo, brontolando: - Non si
creda più ora al re del mare!...
- A quale re? - chiese il capitano. - A quello creato dalla
vostra balzana fantasia? Non è così, mastro Catrame? Un
tempo si poteva credere all'esistenza di Nettuno forse, come
si è creduto all'esistenza delle sirene e a cento altre
corbellerie; ma oggi no, vecchio mio. Simili storie si
lasciano ai marinai vecchi e barbogi...
- Ma la corvetta...
- Una tempesta qualunque l'ha affondata, Catrame.
- Ma quell'onda immensa...
- Un maremoto, mastro mio.
- Ma quella nube...
- Una nube pur che sia. Forse che non ne hai mai vedute di
quelle che hanno tre, cinque, dieci, venti punte?... Va' a
dormire, papà Catrame, e lascia là Nettuno che non è mai
esistito e il battesimo della linea che non è un omaggio reso
al re degli abissi, ma una carnevalata inventata da allegri
marinai. Va', va' e bevi il resto della mia bottiglia.
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