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CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

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L’Ercolano

di: Benedetto Varchi


DIALOGO DI MESSER BENEDETTO VARCHI INTITOLATO L'ERCOLANO, OVVERO AGLI ALBERI (Prima Terza)
Ricoprire, in questo soggetto, è, quando alcuno il. quale ha detto, o fatto alcuna cosa la quale egli non vorrebbe avere né detta, né fatta, ne dice alcune altre diverse da quella, e quasi interpetra a rovescio, o almeno in un altro modo, se medesimo; onde propriamente, come suole, disse il nostro Dante: Io vidi ben siccome ei ricoperse Lo cominciar con altro che poi venne: Che fur parole alle prime diverse. La qual cosa si dice ancora rivolgere, o, rivoltare, e talvolta, scambiare i dadi. Il verbo proprio è ridirsi, cioè dire il contrario di quello s'era detto prima. Scalzare, metaforicamente, il che oggi si dice ancora cavare i calcetti, significa quello che volgarmente si dice sottrarre, e, cavare di bocca, cioè entrare artatamente in alcuno ragionamento, e dare d'intorno alle buche per fare che colui esca, cioè dica, non se ne accorgendo, quello che tu cerchi di sapere. E quando alcuno per iscalzare chicchessia, e farlo dire, mostra, per corlo al boccone, di sapere alcuna cosa, si dice far le caselle per apporsi. Origliare e, quando due, o più ritiratisi in alcun luogo favellano di segreto, stare di nascoso all'uscio, e porgere l'orecchie per sentire quello dicono. Il verbo generale è spiare, verbo non meno infame, che origliare: sebbene si piglia alcuna volta, in buona parte, dove far la spia si piglia sempre in cattiva, il che si dice volgarmente esser referendario. D'uno ch'è benestante, cioè agiato delle cose del mondo, e che ha le sue faccende di maniera incamminate se gli può giustamente dire quel proverbio: asin bianco gli va al mulino; e nondimeno o per pigliarsi piacere d'altrui, o per sua natura, pigola sempre, e si duole dello stato suo, o fa alcuna cosa da poveri, si suol dire, come delle gatte: egli uccella per grassezza; e' si rammarica di gamba sana; egli ruzza, o veramente, scherza in briglia; benché questo si può dire ancora di coloro che mangiano il cacio nella trappola, cioè fanno cosa della quale debbono, senza potere scampare, essere incontanente puniti; come coloro che fanno quistione, e s'azzuffano essendo in prigione: e quando alcuno, per lo contraria, faccendo il musone, e stando cheto, attende a' fatti suoi senza scoprirsi a persona per venire a un suo attento, si dice: e' fa fuoco nell'orcio, o, e' fa, a' chetichegli; e tali persone che non si vogliono lasciare intendere, si chiamano coperte, segrete, e talvolta, cupe, e dalla plebe soppiattoni, o, golponi, o, lumaconi, e massimamente se sono spilorci, e miseri, come di quelli che hanno il modo a vestir bene, e nondimeno vanno mal vestiti, si dice: chi ha 'l cavallo in istalla, può andare a pié. D'uno il quale non possa, o non voglia, favellare, se non adagio, e quasi a scosse, e, per dir la parola propria de' volgari, cacatamente, si dice, e ponza, quasi penino un anno a rinvenire una parola; come, per lo contrario, di chi favella troppo, e frastagliatamente in modo che non iscolpisce le parole, e non dice mezze le cose, si dice: e' s'affolta, o, e' fa una affoltata, o, e' s'abborraccia. Quando uno dice il contrario di quello che dice un altro, e s'ingegna con parole, e con ragioni contrarie alle sue di convincerlo, si chiama ribattere, cioè latinamente retundere; ma se colui, conosciuto l'error suo, muta oppenione, si chiama sgannare, onde sgannati si dicono quelli i quali persuasi da vere ragioni, sono stati tratti, e cavati d'errore. Subillare uno, è tanto dire, e tanto per tutti i versi, o con tutti i modi pregarlo che egli a viva forza, e quasi a suo marcio dispetto, prometta di fare tutto quello che colui il quale lo subilla, gli chiede; il che si dice ancora serpentare, e, tempestare, quando colui non lo lascia vivere, né tenere i piedi in terra; il che i Latini dicevano propriamente sollicitare. Se alcuno ci dice, o ci chiede cosa la quale non volemo fare, sogliamo dire: e' canzona, o, e' dice canzone.
C: Cotesto mi pare linguaggio furbesco.
V. E' ne pizzica, anzi ne tiene più di sessanta per cento; ma che noja dà, o qual mia colpa? Voi mi dite che io vi dica tutto quello che si dice in Firenze; ed io il fo.
C. È vero; e me ne fate piacere singulare; e, poiché non vi posso ristorare io, Dio vel rimeriti per me. Ma ora che io mi ricordo, che volete voi significare quando voi dite: questa sarebbe la canzone dell'uccellino? quale è questa canzone, o chi la compose, o quando?
V. L'autore è incerto, e anco il quando non si sa, ma non si può errare a credere che la componesse il popolo, quando la lingua cominciò, o ebbe accrescimento la lingua nostra, cavandola o dalla natura, o da alcun'altra lingua; perché Ser Brunetto ne fa menzione nel Pataffio, chiamandola favola, e non canzone, che in questo caso è il medesimo; onde quando si vuole affermare una cosa per vera, si dice: questa non è né favola, né canzone. Il verso di Ser Brunetto dice: La favola sarà dell'uccellino; ma comunche si sia, ella è cotale. Quando alcuno in alcuna quistione dubita sempre, e sempre o da beffe, o da vero ripiglia le medesime cose, e della medesima cosa domanda, tantoché mai non sene può venire né a capo, né a conchiusione, questo si dimanda in Firenze la canzone, o volete, la favola dell' uccellino.
C. Datemene un poco d'esempio.
V. Ponghiamo caso, ch'io vi dicessi: La rosa è 'l più bel fiore che sia; e voi mi dimandaste: Perch'è la rosa il più bel fiore che sia? e io vi rispondessi: Perch'ell'ha il più bel colore di tutti gli altri; e voi di nuovo mi dimandaste: Perch'ha, ella il più bel colore di tutti gli altri? e io vi rispondessi: Perché egli è il più vivo, e il più acceso; e voi da capo mi ridomandaste: Perch'è egli il più vivo, e 'l più acceso? e così, se voi seguitaste di domandarmi, e io di rispondervi, a cotal guisa si procederebbe in infinito, senza mai conchiudere cosa nessuna; il che è contra la regola de' filosofi, anzi della natura stessa; la quale aborre l'infinito, il quale non si può intendere, e quello che non si può intendere, si cerca in vano, e la natura non fa, e non vuole che altri faccia cosa nessuna indarno. Chiamasi ancora la canzone dell'uccellino, quando un dice: Vuoi tu venire a desinare meco? e colui risponde; E' non si dice, Vuoi tu venire a desinare meco; e così si va seguitando sempre tanto che non si possa conchiuder cosa nessuna, né venire a capo di nulla.
C. Per mia fe, che la canzone, o la favola dell'uccellino potrebbe essere per mio avviso non so se meno lunga, ma bene più vaga; ma seguitate i vostri verbi; se già non ne sete venuto al fine, come io creo.
V. Adagio; io penso che e' vi paja mille anni ch'io gli abbia forniti; e io dubito che, se vorrete che io seguiti, ella non sia la canzone della quale avemo favellato.
C. Volesselo Dio, quanto alla lunghezza; che io non udii mai cosa alcuna più volentieri: però, se mi volete bene, seguitate.
V. Ragguagliare, non le partite, come fanno i mercatanti in su i loro libri, ma alcuno d'alcuna cosa, è o riferirgli a bocca, o scriverli per lettere tutto quello che si sia o fatto, o detto in alcuna faccenda che si maneggi; il che si dice ancora informare, instruire, far sentire, avvisare, e dare avviso. Di chi dice male d'uno, il quale abbia detto male di lui, il che si chiama rodersi i basti, e gli rende, secondo il favellare d'oggi, il contracambio, ovvero la pariglia, la qual voce è presa dagli Spagnuoli, s'usa dire, egli s'è riscosso; tratto per avventura da' giuocatori, i quali quando hanno perduto una somma di danari, e poi la rivincono, si chiamano risquotersi; il che avviene spesse volte; onde nacque il proverbio: Chi vince da prima, perde da sezzo. Dicesi ancora riscattare, come de' prigioni, quando pagano la taglia, e, ritornare in sul suo, ma più gentilmente, egli ha risposto alle rime, o, per le rime, e più Boccaccevolmente, rendere (come diceste voi di sopra) pane per cofaccia, o, frasche per foglie. D'uno il quale avea deliberato, o, come dicono i villani, posto in sodo, di voler fare alcuna impresa, e poi, per le parole, e alle persuasioni altrui, se ne toe giù, cioè se ne rimane, e lascia di farla; che i Latini chiamavano desistere ab incepto; si dice: egli è stato svolto dal tale, o, il tale l'ha distolto, e generalmente, rimosso. Coloro che la guardano troppo nel sottile, e sempre, e in ogni luogo, e con ognuno, e d'ogni cosa tenzonano, e contendono, né si può loro dir cosa che essi non la vogliano ribattere, e ributtarla, si chiamano fisicosi, e il verbo è fisicare; uomini per lo più incancherati, e da dovere essere fuggiti. Appuntare alcuno, vuol dire riprenderlo, e massimamente nel favellare; onde certi saccentuzzi che vogliono riprendere ognuno, si chiamano ser Appuntini. Tacciare alcuno, e, difettarlo, è, nollo accettare per uomo da bene, ma dargli nome d'alcuna pecca, o mancamento. Bisticciarla con alcuno, e, star seco sul bisticcio, è volere stare a tu per tu, vederla fil filo, o pur quanto la canna; e se egli dice, dire; se brava, bravare; né lasciarsi vincere, o soperchiare di parole; e questi tali, per mostrarsi pari agli avversarj, e da quanto loro sogliono dire alla fine; per tacere altri motti o sporchi, o disonesti, che a questo proposito dicono tutto 'l giorno i plebei: tanto è da casa tua a casa mia, quanto da casa mia a casa tua; e nel medesimo significato, e a questo stesso proposito, sogliono dire: rincarinmi il fitto. Riscaldare uno, non è altro che confortarlo, e pregarlo caldamente che voglia o dire, o fare alcuna casa in servigio, e benefizio o nostro, o d'altrui. Gonfiare alcuno, è volergli vendere vesciche, cioè dire alcuna cosa per certa, che certa non sia, acciocché egli credendolasi, te ne abbia ad avere alcuno obbligo. Dicesi ancora: tu mi vuoi far cornamusa, e, dar panzane, cioè promettendo Roma, e Toma, e stando sempre in su i generali, ben faremo, e ben diremo, non venir mai a conclusione nessuna. Dicesi ancora ficcar carote, e spezialmente quando alcuno faccendo da se stesso qualche finzione, o trovato, che i Latini dicevano comminisci, lo racconta poi non per suo, per farlo più agevolmente credere, ma per d'altrui; e ancoraché sia falso, l'afferma per vero, o per volere la baja, o per essere di coloro che dicono le bugie, e credonsele; e questi due verbi dar panzane, ovvero, baggiane, e, ficcar carote, sono non pur Fiorentini, e Toscani, ma Italiani, ritrovati da non molti anni in quà. Altercare, onde nacque altercazione, è verbo de' Latini, i quali dicono ancora altercari in voce deponente, in vece del quale i Toscani hanno tenzionare, ovvero, tenzonare, cioè rissare, contendere, e combattere, cioè quistionare di parole, onde viene tenzione, ovvero, tenzone, cioè la rissa, il contendimento, ovvero la contesa, il combattimento, ovvero il contrasto di parole, e bene spesso di fatti. Dicesi ancora, ma più volgarmente, fare una batosta, darsene infino a'denti, e, fare a'morsi, e, a' calci, e, fare a' capelli. Quando alcuno vuol mostrare a chicchessia di conoscere che quelle cose le quali egli s'ingegna di fargli credere, sono ciancie, bugie, e bagattelle, usa dirgli: tu m'infìnocchi, o, non pensar d'infinocchiarmi, e talora si dice: tu mi vuoi empier di vento, o, infrascare. Se alcuno chiama un altro, e il chiamato o non ode, o non vuole udire; il che è la peggior sorte di sordi che sia; si dice al chiamante: tu puoi zufolare, o, cornare, o, cornamusare; tu puoi scuotere; che è in su buon ramo. E quando alcuno o ha udito in verità, o finge d'aver udito, il rovescio appunto di quello che avemo detto, il che i Latini chiamavano obaudire; noi diciamo: egli ha franteso. Quando ci pare che alcuno abbia troppo largheggiato di parole, e detto assai più di quello che è, solemo dire: bisogna sbatterne, o tararne, cioè farne la tara, come si fa de' conti degli speziali, o, far la Falcidia, cioè levarne la quarta parte, tratto dalla legge di Falcidio tribuno della plebe, che ordinò che de' lasci, quando non v'era pago, si levasse la quarta parte; e talvolta si dice fare la Trebellianica, dal Senatoconsulto Trebelliano il verbo generale è difalcare. Quelli che sanno trattenere con parole coloro di cui essi sono debitori, e gli mandano per la lunga d'oggi in dimane, promettendo di volergli pagare, e soddisfare di giorno in giorno, perché non si richiamino di loro, e vadansene alla ragione, si dicono: saper tranquillare i lor creditori; e, levarsi dinanzi, ovvero, torsi da dosso, e, dagli orecchi i cavalocchi; che così si chiamano coloro i quali prezzolati risquotono per altri. Quelli i quali avendo udito alcuna cosa, vi pensano dipoi sopra, e la riandano colla mente, si dicono Toscanamente, ma con verbo Latino, ruminare, e Fiorentinamente, rugumare, e talvolta rumare, tratto da' buoi, e dagli altri animali, i quali, avendo l'ugna fesse, ruminano: il qual verbo si piglia molte volte in cattivo senso, cioè si dice di coloro i quali avendo mali umori in corpo, ed essendo adirati, pensano di volere, quando che sia, vendicarsi, e intanto rodono dentro se stessi; il che si dice eziandio rodere i chiavistelli. A coloro che sono bari, barattieri, truffatori, trappolatori, e traforelli, che comunemente si chiamano giuntatori, i quali per fare star forte il terzo, e il quarto colle barerie, baratterie, trufferie, trappolerie, traforerie, e giunterie loro, vogliono o vendere gatta in sacco, o cacciare un porro altrui, si suol dire, per mostrare che le trappole, e gherminelle, anzi tristizie, e mariolerie loro sono conosciute, e che non avemo paura di lor tranelli: i mucini hanno aperto gli occhi, i cordovani sono rimasi in Levante: non è più 'l tempo di Bartolommeo da Bergamo: noi sappiamo a' quanti dì è San Biagio: noi conosciamo il melo dal pesco; i tordi da gli stornelli; gli storni dalle starne; i bufoli dall'oche; gli asini da' buoi; l'acquerel dal mosto cotto; il vino dall'aceto; il cece dal fagiuolo; la treggea dalla gragnuola; e altri cotali, che o per non potersi onestamente nominare, o per essere irreligiosi, non intendiamo di voler raccontare; e in quello scambio diremo che quando alcuno, per esser pratico del mondo, non è uomo da essere aggirato, né fatto fare, si dice: egli se le sa; egli non ha bisogno di mondualdo, o, procuratore; egli ha pisciato in più d'una neve; egli ha cotto il culo ne' ceci rossi; egli.ha scopato più d'un cero; egli è putta scodata; e se si vuol mostrare, lui essere uomo per aggirare, e fare stare gli altri, si dice: egli è fantino; egli è un bambino da Ravenna, egli è più tristo che i tre assi; più cattivo che banchellino; più viziato, e più trincato, che non è un famiglio d'otto; e generalmente d'uno che conosca il pel nell'uovo, e non gli chiocci il ferro, e sappia dove il diavol tien la coda, si dice: egli ha il diavolo nell'ampolla.
C. Io posso imbottarmi a posta mia, perché io son chiaro che alla lingua Fiorentina non vo' dire avanzino, ma non manchino, anzi piuttosto avanzino, che manchino, vocaboli.
V. Voi non avete udito nulla; questi che io ho raccontati, s'appartengono solamente, e si riferiscono all'atto del favellare, eccetto però che quelli che o in conseguenza, o per inavvertenza mi son venuti alla bocca; e sono ancora, si può dire, all'A; pensa quel che voi diresti, chi vi raccontasse gli altri dell'altre materie, che sono infiniti, e se sapeste quanti se ne sono perduti.
C. Come perduti?
V. Perduti sì; non sapete voi che i vocaboli delle lingue vanno, e vengono, come l'altre cose tutte quante?
C. Dite voi cotesto per immaginazione, o pure lo sapete del chiaro?
V. Lo so di chiaro, e di certo, perché oltra quelli che si truovano ne' libri antichi, i quali oggi o non s'intendono, o non sono in uso, Ser Brunetto Latini, maestro di Dante, lasciò scritta un'operetta in terza rima, la quale egli intitolò Pataffio, divisa in dieci capitoli, che comincia: Squasimo Deo introcque, e a fusone, Ne hai, ne hai, pilorci con mattana, Al can la tigna, egli è mazzamarrone; nella quale sono le migliaja de' vocaboli, motti, proverbj, e riboboli, che a quel tempo usavano in Firenze, e oggi de' cento non se ne intende pur uno.
C. Oh gran danno, oh che peccato! ma se egli (come fate ora voi) dichiarati gli avesse, non sarebbe avvenuto questo. Ma lasciando le doglianze vane da parte, posciaché io credeva che voi foste al ronne, non che alla zeta, e voi dite che non sete appena all'a, seguitate il restante, se vi piace.
V. Mettere su uno, o, metterlo al punto, il che si dice ancora metterlo al curro, è instigare alcuno, e stimularlo a dovere dire, o fare alcuna ingiuria, o villania, dicendogli il modo come e' possa, e debba o farla, o dirla; il che si chiama generalmente, commetter male tra l'uno uomo, e l'altro, o parenti, o amici che siano, il qual vizio, degno piuttosto di castigo che di biasimo, sprimevano i Latini con voce sola, la quale era committere; e, come si dice, mettere ingrazia alcuno, cioè fargli acquistare la benevolenza, e il favore d'alcun gran maestro, con lodarlo, e dirne bene: così si dice, metter in disgrazia, e, far cadere di collo alcuno, mediante il biasimarlo, e dirne male; onde d'un commettimale, il quale sotto spezie d'amicizia vada ora riferendo a questi, e ora a quelli, si dice, egli è un teco meco.
C. A questo modo non hanno i Toscani verbo proprio che significhi con una voce sola quello, che i Latori dicevano committere?
V. Lo possono avere, ma io non me ne ricordo, anzi l'hanno, e me ne avete fatto ricordare ora voi, ed è, scommettere, perché Dante disse: A quei che scommettendo acquistan carco. Tor su, o tirar su alcuno, il che si dice ancora levare a cavallo, è dire cose ridicole, e impossibili, e volere dargliele a credere per trarne piacere, e talvolta utile; come fecero Bruno, e Buffalmacco a maestro Simone da Vallecchio, che stava nella via del Cocomero, e più volte al povero Calandrino, onde nacque, che quando alcuno dubita, che chicchessia non voglia giostrarlo, e fargli credere una cosa per un'altra, dice: tu mi vuoi far Calandrino, e talvolta il Grasso legnajuolo, al quale fu fatto credere, che egli non era lui, mia diventato un altro. Tirar di pratica si dice di coloro, i quali ancoraché non sappiano una qualche cosa, ne favellano non dimeno così risolutamente, come se ne fossino maestri, o l'avessero fatta co' piedi, e demandati di qualche altra, rispondono, senza punto pensarvi, o sì, o no, come vien lor bene, peggio di coloro, i quali se venisse lor fatto d'apporsi, o di dare in covelle, tirano in arcata colla lingua. Quando alcuno aveva in animo, e poco meno che aperte le labbra per dover dire alcuna cosa, e un altro la dice prima di lui, cotale atto si chiama furar le mosse, o veramente rompere l'uovo in bocca, cioè torre di bocca, il che i Latini dicevano antevertere, e alcuni usano, non tu m'hai, furato le mosse, e tu me l'hai tolto di bocca, ma tu me l'hai vinta del tratto, e alcuni, tu m'hai rotto la parola in bocca, e alcuni tagliata, il che pare piuttosto convenire a coloro, che mozzano altrui; e interrompono il favellare. Annestare in sul secco, o dire di secco in secco, si dice d'uno il quale, mancandogli materia, entra in ragionamenti diversi da' primi, e fuori di proposito, come dire: quante ore sono? Che si fa in villa? Che si dice del Re di Francia? Verrà quest'anno l'armata del Turco? e altre così fatte novelle. Tirare gli orecchi a uno significa riprenderlo, o ammonirlo, cavato da' Latini, che dicevano vellere aurem: dicesi ancora riscaldare gli orecchi: dicesi ancora zufolare, o soffiare negli orecchi ad uno, cioè parlargli di segreto, e quasi imbecherarlo. Mettere troppa mazza, si dice d'uno il quale in favellando entri troppo addentro, e dica cose, che non ne vendano gli speziali, e insomma che dispiacciano, onde corra rischio di doverne essere o ripreso, o gastigato: dicesi ancora mettere troppa carne a fuoco. Spacciare pel generale, si dice di coloro che demandati, o richiesti d'una qualche cosa, rispondono finalmente senza troppo volersi ristrignere, e venire, come si dice, a' ferri. Quando uno si sta ne'suoi panni, senza dar noja a persona, e un altro comincia per qualche cagione a morderlo, e offenderlo di parole, se colui è uomo da non si lasciare malmenare, e bistrattare, ma per rendergli, come si dice, i coltellini, s'usa dire: egli stuzzica il formicajo, le pecchie, o sì veramente, il vespaio, che i Latini dicevano irritare crabrones. Dicesi ancora: egli desta, o sveglia il can che dorme; e' va cercando maria per Ravenna; egli ha dato in un ventuno, ovvero nel bargello, e talvolta egli invita una mula Spagnuola a i calci, e più propriamente, e' gratta il corpo alla cicala. Sfidare è il contrario d'affidare, e significa due cose; prima quello, che i Latini dicevano desperare salutem, con due parole, onde d'uno infermo, il quale, come dice il volgo, sia via là, via là, o a'confitemini, o al pollo pesto, o all'olio santo, o abbia male, che 'l prete ne goda, s'usa dire: i medici l'hanno sfidato; e poi quello, che io non so come l Latini se 'l dicessero, se non indicere bellum, onde trasse il Bembo: Quella che guerra a' miei pensieri indice. cioè sfidare a battaglia, e come si dice ancora dagli Italiani, ingaggiar battaglia, o ingaggiarsi, o darsi il guanto della battaglia. Rincorare, che Dante disse incorare, e gli antichi dicevano incoraggiare, è fare, o dare animo, cioè inanimare, o inanimire uno, che sia sbigottito, quasi rendendoli il cuore; dicesi ancora: io mi rinquoro, cioè i 'l ripiglio cuore, e animo di far la tal cosa, o la tale.
C. Non si potrebbono queste cose, che voi avete detto, e dite, ridurre con qualche regola sotto alcun capo, affinché non fossero il pesce pastinaca, e più agevolmente si potessero così mandare, come ritenere nella memoria?
V. Io credo di sì, da chi non avesse altra faccenda, e volesse pigliare questa briga non so se disutile, ma certo non necessaria.
C. Vogliam noi provare un poco, benché io credo, che noi ce ne siamo avveduti tardi?
V. Proviamo (che egli è meglio ravvedersi qualche volta, che non mai, e ancora non è tanto tardi, quanto voi per avventura vi fate a credere) se alcuno sapesse, e potesse raccontare di questa materia quello che sapere, e raccontare se ne può.
C. Che? Cominciereste dall'a, b, c, e seguitereste per l'ordine dell'alfabeto?
V. Piuttosto piglierei alcuni verbi generali, e sotto quelli, come i soldati sotto le loro squadre, ovvero bandiere, gli riducerei, e ragunerei.
C. Deh provatevi un poco, se Dio vi conceda tutto quello, che desiderate.
V. Chi potrebbe, non che io, che vi sono tanto obbligato, negarvi cosa nessuna? Pigliamo, esempigrazia, il verbo Fare, e diciamo, senza raccontare alcuno di quelli che fino a quì detti si sono, in questa maniera. Far parole è quello che i Latini dicevano, facere verba, cioè favellare. Far le parole, che si dice ancora con verbo Latino concionare, onde concione, è favellare distesamente sopra alcuna materia, come si fa nelle compagnie, e massimamente di notte, il che si chiama propriamente fare un sermone; e nelle nozze quando si va a impalmare una fauciulla, e darle l'anello, che i notai fanno le parole. Far le belle parole a uno, è dirgli alla spianacciata, e a lettere di scatola, ovvero di speziali, come tu l'intendi, e aprirgli senza andirivieni, o giri di parole, l'animo tuo di quello, che tu vuoi fare, o non fare, o che egli faccia, o non faccia. Fare le paroline, è dar soje, e caccabaldole o per ingannare, o per entrare in grazia di chicchessia: dicesi eziandio fare le parolozze. Fare una predica, ovvero uno sciloma, o ciloma ad alcuno, è parlargli lungamente o per avvertirlo d'alcuno errore, o persuaderlo a dover dire, o non dire, fare, o non fare alcuna cosa. Far motto, è tolto da' Provenzali, che dicono far buon motti, cioè dire belle cose, e scrivere leggiadramente, ma a noi questo nome motto significa tutto quello che i Latini comprendono sotto questi due nomi, joci, e dicterii, e i Greci sotto questi altri due, scommati, e apotegmati. Fare, o, toccare un motto d'alcuna cosa, è favellarne brevemente, e talvolta fare menzione. Far motto ad alcuno significa o andare a casa sua a trovarlo per dimandargli se vuole nulla, o riscontrandolo per la via salutarlo, o dirgli alcuna cosa succintamente. Fare un mottozzo significa fare una ribaldera, cioè festoccia, e allegrezza di parole. Non far motto significa il contrario, e talora si piglia per tacere, e non rispondere, onde il Petrarca: Talor risponde, e talor non fa motto. A motto a motto dicevano gli antichi, cioè, a parola a parola, o di parola in parola; e fare, senza altro, significa alcuna volta dire, come Dante: Che l'anima col corpo morta fanno. Far le none, non può dichiararsi se non con più parole, come per cagion d'esempio: se alcuno dubitando, che chicchessia nol voglia richiedere in prestanza del suo cavallo, il quale egli prestare non gli vorrebbe, cominciasse, prevenendolo, a dolersi con esso lui, che il suo cavallo fosse sferrato, o pigliasse l'erba, o avesse male a un pié, e colui rispondesse, non accade, che tu mi faccia o suoni questa nona. Far uscire uno, è ancorach'ei s'avesse presupposto di non favellare, frugarlo, e punzecchiarlo tanto colle parole, e dargli tanto di quà, e di là, che egli favelli, o che egli parli alcuna cosa. Fare una bravata, o tagliata, o uno spaventacchio, o un sopravvento, non è altro, che minacciare, e bravare; il che si dice ancora, squartare, e fare una squartata. Far le forche, è sapere una cosa, e negare, o infingersi di saperla, o biasimare uno per maggiormente lodarlo, il che ti dice ancora far le lustre, e talvolta le marie. Far peduccio, significa ajutare uno colle parole, dicendo il medesimo che ha detto egli, o faccendo buone, e fortificando le sue ragioni, acciocché egli consegua l'intento suo. Fare un cantar di cieco, è fare una tantaferata, o cruscata, o cinforniata, o fagiolata, e insomma una filastroccola lunga lunga, senza sugo, o sapore alcuno. Fare il caso, o alcuna cosa leggiere, è dire meno di quello, che ella è; come fanno molte volte i medici, per non isbigottire li ammalati. Farsi dare la parola da uno, è farsi dare la commessione di poter dire, o fare alcuna cosa, o sicurare alcuno che venga sotto le tue parole, cioè senza tema di dovere essere offeso. Quando si toglie su uno, e fassegli o dire, o fare alcuna cosa che non vogliano fare gli altri, si dice: farlo il messere, il corrivo, il cordovano, da ribuoi, e generalmente, il goffo, e fra Fazio; e tali si chiamano corribi, e cordovani, e spesso, pippioni, o cuccioli. Fare orecchi di mercante, significa lasciar dire uno, e far le viste di non intendere. Far capitale delle parole d'alcuno, è credergli ciò che promette, e avere animo ne' suoi bisogni di servirsene. Quando si mostra di voler dare qualche cosa a qualcuno, e fargli qualche rilevato benefizio, e poi non se gli fa, si dice avergli fatta la cilecca, la quale si chiama ancora natta, e talvolta, vescica, o giarda. Fare fascio d'ogni erba, tratto da quelli che segano i prati, o fanno l'erba per le bestie, si dice di coloro i quali non avendo elezione, o scelta di parole nel parlare, o nello scrivere, badano a porsu, e attendono a impiastrar carte; e di questi, perché tutte le maniere di tutti i parlari attagliano loro, si suol dire che fanno come la piena, la quale si caccia innanzi ogni cosa, senza discrezione, o distinzione alcuna. Far delle sue parole fango, è venir meno delle sue parole, e non attenere le sue promesse. Fare il diavolo, e peggio, è quando altri avendo fatto capo grosso, cioè adiratosi, e sdegnatosi con alcuno, non vuole pace, né tregua, e cerca o di scaricar sé, o di caricare il compagno con tutte le maniere, che egli sa, e può; e molte volte si dice per beffare alcuno, mostrando di non temerne. Fare lima lima a uno, è un modo d'uccellare in questa maniera: chi vuole dileggiare uno, fregando l'indice della mano destra in sull'indice, della sinistra verso il viso di colui, gli dice lima lima, aggiugnendovi talvolta, mocceca, o, moccicone, o altra parola simile, come baggea, tempione, tempie grasse, tempie sucide, benché la plebe dice sudice. Fare le scalee di Santo Ambrogio, significa dir mal d'uno in questo modo, e per questa cagione: ragunavansi, non sono mille anni passati, la sera di state per pigliare il fresco una compagnia di giovani, non a' marmi in su le scalee di Santa Maria del Fiore, ma in su quelle di Santo Ambrogio, non lungi dalla porta alla Croce, e quivi passando il tempo, e il caldo, facevano lor cicalecci, ma quando alcuno di loro si partiva, cominciavano a leggere in sul suo libro, e rinvenire se mai avea detto, o fatto cosa alcuna biasimevole, e che non ne vendesse ogni bottega, e insomma a fare una ricerca sopra la sua vita; onde ciascuno, perché non avessono a caratarlo, voleva esser l'ultimo a partirsi: e di quì nacque che quando uno si parte da qualche compagnia, e non vorrebbe restar loro in bocca, e fra' denti, usa dire: non fate le scalee di Santo Ambrogio. Far tener l'olio a uno, o farlo filare, o stare al filatojo, significa per bella paura farlo star cheto: dicesi alcuna volta fare stare a stecchetto; benché questo significa piuttosto fare stare a segno, e quello che i Latini dicevano cogere in ordinem.
C. Non avete voi altri verbi, che questi da usare, quando volete che uno stia cheto?
V. Abbiamne, ma io vi raccontava solamente quelli, che vanno sotto la lettera f, e che io penso che vi siano manco noti; perché noi abbiamo tacere, come i Latini, e ancor diciamo, non far parole, e non far motto, non alitare, e non fiatare, non aprir la bocca, chiudila, sta zitto, il quale zitto, credo che sia tolto da' Latini, i quali quando volevano che alcuno stesse cheto, usavano profferire verso quel tale queste due consonanti st, quasi, come diciamo noi zitto. E quello, che i Latini volevano significare, quando sopraggiugneva uno del quale si parlava non bene, onde veniva a interrompere il loro ragionamento, e fargli chetare, cioè lupus est in fabula, si dice dal volgo più brevemente, zoccoli; e non volendo, a maggior cautela, per non esser sentiti, favellare, facciamo come fece Dante nel veutesimoquinto canto del Purgatorio, quando, di sé medesimo parlando, disse: Mi posi il dito su dal mento al naso. O come disse nel ventesimoprimo canto del Purgatorio: Volse Vergilio a me queste parole Con viso che tacendo dicea: taci. Solemo ancora, quando volemo essere intesi con cenni senza parlare, chiudere un occhio, il che si chiama far d'occhio, ovvero, fare l'occhiolino, che i Latini dicevano nictare, cioè accennare cogli occhi, il che leggiadramente diciamo ancora noi con una voce sola, usandosi ancora oggi frequentemente il verbo ammiccare in quella stessa significazione che l'usò Dante, quando disse nel ventesimoprimo canto del Purgatorio: Io pur sorrisi, come l'uom ch'ammicca. Non già che abbiamo da potere sprimere con una noce sola quello che i Latini dicevano connivere, cioè fare le viste, o infingersi di non vedere, e proverbialmente far la gatta di Masino. Queste cose vi siano per un poco d'esempio. Pigliamo ora il verbo dare, il quale è generale anch'egli. Dicesi dunque: Dar parole, cioè trattenere, e non venire a' fatti, cavato da' Latini, che dicevano dare verba, e lo pigliavano per ingannere: dicesi ancora dar paroline, o buone parole, come fanno coloro, che si chiamano rosajoni da damasco, onde nacque quel proverbio plebeo: dà buone parole, e friggi. Dare una voce, significa chiamare: Dar mala voce, biasimare: Dare in sulla voce, sgridare uno, acciocché egli taccia: Avere alcuno mala voce, è quello, che i Latini dicevano male audit, cioè essere in cattiva concetto, e predicamento. Dar pasto, è il medesimo, che dar panzane, e paroline, per trattenere chicchessia. Dar cartacce, metafora presa da' giucatori, è passarsi leggiermente d'alcuna cosa, e non rispondere a chi ti domanda, o rispondere meno che non si conviene a chi t'ha o punto, o dimandato d'alcuna cosa; il che si dice ancor dar passata, o dare una stagnata, e talvolta, lasciare andare due pani per coppia, o dodeci danari al soldo; come fanno coloro che con vogliono ripescare tutte le secchie, che caggiono ne' pozzi. Dar le carte alla scoperta, significa dire il suo parere, e quanto gli occorre liberamente senza aver rispetto, o riguardo ad alcuno, ancoraché fosse alla presenza. Dare una sbrigliata, ovvero sbrigliatura, è dare alcuna buona riprensione ad alcuno per raffrenarlo, il che si dice ancora fare un rovescio, e cantar a uno la zolfa, o il vespro, o il mattutino, o risciacquargli il bucato, o dargli un gratacapo. Dare in brocco, cioè nel segno, ovvero berzaglio ragionando, è apporsi, e trovare le congenture, o toccare il tasto, o pigliare il nerbo della cosa. Dar di becco in ogni cosa, è voler fare il saccente, e il satrapo, e ragionando d'ogni cosa, farne il Quintiliano, o l'Aristarco. Dar del buono per la pace, è favellare umilmente, e dir cose, mediante le quali si possa comprendere che alcuno cali, e voglia venire agli accordi; quasi come usano i fanciulli quando scherzando, fanno la via dell'Agnolo, cioè danno un poco di campo, acciò si possa scampare. Dare in quel d'alcuno, ovvero dove gli duole, significa quello che Dante disse: Sì mi dié dimandando per la cruna Del mio desio, e
C. cioè dimandare appunto di quelle cose, o mettere materia in campo, che egli desiderava, e aveva caro di sapere, onde s'usa dire: costì mi cadde l'ago. Dar bere una cosa ad alcuno, è fargliele credere; onde si dice bersela, e, il tale se l'ha beuta, o fatto le viste di bersela. Dare il suo maggiore, tolto dal giuoco de' germini, ovvero de' tarocchi, nel quale sono i trionfi segnati col numero, è dire quanto alcuno poteva, e sapeva dire il più, in favore, o disfavore di chicchessia; e perché le trombe sono il maggiore de' trionfi del passo, dar le trombe, vuol dire fare l'ultimo sforzo. Dare il vino, è quello stesso che subornare, ovvero imbecherare, il che si dice ancora imbiancare. Dar seccaggine, significa infastidire, o torre il capo altrui col gracchiare, il che i Latini significano col verbo obtundere: dicesi ancora, tu mi infracidi; tu m'hai fracido, benché gli idioti dicono fradicio; tu m'hai secco; tu m'hai stracco; tu m'hai tolto gli orecchi, e in altri modi, de quali ora non mi sovviene. Dare una borniola, è dire il contrario di quello che è, e si dice propriamente d'uno il quale, avendo i giucatori rimessa in lui, e fattolo giudice d'alcuna lor differenza, dà il torto a chi ha la ragione, o la ragione a chi ha il torto; come quando nel giuoco della palla alcuno dice, quello esser fallo, o rimando, il quale non è. Dar fuoco alla bombarda, è cominciare a dir male d'uno, o scrivere contra di lui, il che si dice cavar fuora il limbello. Dar nel fango, come nella mota, è favellare senza distinzione, e senza riguardo, così degli uomini grandi, come de' piccioli. Dar le mosse a' tremoti, si dice di coloro senza la parola, e ordine de' quali non si comincia a metter mano, non che spedire cosa alcuna; il che si dice ancora, dar l'orma a' topi, ed esser colui che debbe dar fuoco alla girandola. Dar che dire alla brigata, è fare, o dire cosa, mediante la quale la gente abbia occasione di favellare sinistramente; che i Latini dicevano dare sermonem: e talvolta, far bella la piazza, che i medesimi Latini dicevano designare. Dare il gambone a chicchessia, è quando egli dice, o vuol fare una cosa, non solamente acconsentire, ma lodarlo, e insomma mantenerlo in sull'oppenione, e prosopopea sua, e dargli animo a seguitare. Dare una bastonata a uno, è dire mal di lui sconciamente, e tanto più se vi s'aggiugne, da ciechi. Dare favellando nelle scartate, è dire quelle cose che si erano dette prima, e che ognuno si sapeva. Dare a traverso, significa dire tutto il contrario di quello, che dice un altro, e mostrare sempre d'aver per male, e per falso tutto quello, che egli dice. Dare in sul viso, quando favella, e massimamente se egli uccella a civetta, cioè si va colle parole procacciando ch'altri debba ripigliarlo, è dir di lui senza rispetto il peggio che l'uomo sa, e può, e toccarlo bene nel vivo, quasi facendogli un frego. Dare appicco, è favellare di maniera ad alcuno, che egli possa appiccarsi, cioè pigliare speranza di dover conseguire quello che chiede; onde di quelli che hanno poca, o nessuna speranza, si dice: e' si appiccherebbono alla canna, ovvero alle funi del cielo, come chi affoga, s'attaccherebbe a' rasoj. Dar nel buono, significa due cose: la prima, entrare in ragionamenti utili, o proporre materie onorevoli: la seconda, in dicendo l'oppenione sua d'alcuna cosa allegarne ragioni almeno probabili, e che possano reggere, se non più, a quindici soldi per lira, al martello, e in somma dir cose che battano, se non nel vero, almeno nel verisimile. Dar la lunga, è mandar la bisogna d'oggi in dimane, o, come si dice, a cresima, senza spedirlo. Dare, o, vender bossoletti, tratto (penso) da' ciurmadori, è vendere vesciche per palle grosse, o dar buone parole, e cattivi fatti; la qual cosa, come dice il proverbio, inganna non meno i savj, che i matti. Dare una battisoffiola, o, cusoffiola ad alcuno, è dirgli cosa, o vera, o falsa, mediante la quale egli entri in sospetto, o in timone d'alcuno danno, o vergogna, e per non istare con quel cocomero in corpo, sia costretto a chiarirsi. Darla a mosca cieca, da un gioco che fanno i fanciulli, nel quale si turano gli occhi con una benda legata al capo e dire senza considerazione, o almeno rispetto veruno di persona tutto quello che alcuno vuol dire, e zara a chi tocca. Dar giù, ovvero, del ceffo in terra, è quello proprio che i Latini dicevano oppetere, cioè cadere col viso innanzi, e daredella bocca in terra, e lo pigliavano per morire: nondimeno in Firenze si dice non solo de' mercatanti quando hanno tratto ambassi in fondo, cioè quando sono falliti, e di quelli cittadini, o gentiluomini i quali, come si dice in Vinegia, sono scaduti, cioè hanno perduto il credito nell'universale, ma ancora di quelli spositori i quali interpretando alcun luogo d'alcuno autore, non s'appongono, ma fanno, come si dice, un marrone, o pigliano un ciporro; ovvero, un granchio, e talvolta, per iperbola, una balena. Dare il pepe, ovvero le spezie, è un modo per uccellare, o sbeffare alcuno, e si faceva, quando io era giovanetto, per tutto Firenze da' fattori in questo modo: chi voleva uccellare alcuno, se gli arrecava di dietro, affinché egli, che badava a' casi suoi, nol vedesse, e accozzati insieme tutti e cinque i polpastrelli, cioè le sommità delle dita, (il che si chiama Fiorentinamente far pepe, onde nacque il proverbio, tu non faresti pepe di Luglio) faceva della mano come un becco di grù, ovvero di cicogna, poi gli dimenava il gomito con quel becco sopra 'l capo, come fanno coloro che col bossolo mettono o del pepe, o delle spezie in sulle vivande; la qual maniera di schernire altrui avevano ancora i Latini, come si vede in Persio, quando disse. O Jane, a tergo quem nulla ciconia pinxit. Usavasi ancora in quel tempo un'altra guisa d'uccellare ancora peggiore di questa, e più plebea, la quale si chiamava, far ti ti, in questo modo: colui che voleva schernire, anzi offendere gravissimamente alcuno, pronosticandogli in cotale atto, che dovesse essere impiccato, si metteva la mano quasi chiusa, in un pugno alla bocca, e per essa a guisa di tromba diceva forte, talché oguno poteva udire, due volte, ti; tratto da una usanza la quale oggi è dismessa, perché si soleva, quando una giustizia era condotta in cima delle forche per doversi giustiziare, in quella che il manigoldo stava per dargli la pinta, sonare una tromba, cioè farla squittire due volte, l'una dopo l'altra, un suono somigliante a questa voce, ti ti. Pigliamo ora il verbo stare, e diciamo che Stare a bocca aperta, significa quello che Virgilio spresse nel primo verso del secondo libro dell'Eneida: Conticuere omnes, intentique ora tenebant. e poco di sotto favellando di Didone: . . . . . . Pendetque iterum narrantis ab ore. Stare a bocca chiusa, si dichiara da se medesimo. Stare sopra sé, ovvero, sopra di sé, è un modo di dubitare, e di non voler rispondere senza considerazione, la qual cosa i Latini, e spezialmente i Giureconsulti, a cui più toccava, che agli altri, dicevano haeligrere, e talvolta col suo frequentativo, haeligsitare. Stare in sul grande, in sul grave, in sul severo, in sull'onorevole, in sulla riputazione, e finalmente in sul mille, significano quasi una cosa medesima, cioè così col parlare, come coll'andare tenere una certa gravità conveniente al grado, e forse maggiore; il che si chiama in Firenze, e massimamente de' giovani, far l'omaccione, e talvolta fare il grande: e di questi tali si suol dire ora, ch'ei gonfiano, e ora, ch'egli sputano tondo, i quali quando s'ingerivano nelle faccende, ed erano favoriti dello stato, i quali si chiamavano Repubbliconilarghi in cintura, si dicevano, toccare il polso al lione, ovvero marzocco; e quando presentati, o senza presenti si spogliavano in farsettino per favorire, e ajutar alcuno, come dice la plebe, a brache calate, si chiamavano, vendere i merli di Firenze, e quando si valevano dello stato oltra l'ordinario, o vincevano alcuna provvisione straordinaria, si diceva, e' la fanno frullare; e quando non riusciva loro alcuna impresa nella quale si fossero impacciati, e messivi coll'arco dell'ossa, si diceva tra 'l popolo, e' la fanno bollire e mal cuocere. Stare in sulle sue, è guardare che alcuno, quando ti favella, o tu a lui, non ti possa appuntare, e parlare, e rispondere in guisa che egli non abbia onde appiccarti ferro addosso, e pigliarti (come si dice) a mazzacchera, o giugnerti alla schiaccia. Usasi ancora nella medesima significazione, stare all'erta, e, stare in sul tirato, e non si lascia intendere. Stare coll'arco teso, si dice, d'uno, il quale tenga gli orecchi, e la mente intenti a uno che favelli per corlo, e potergli apporre qualche cosa, o riprovargli alcuna bugia, non gli levando gli occhi da dosso per farlo imbiancare, o imbianchire, o rimanere bianco, il che oggi si dice, con un palmo di naso. Star sodo alla macchia, ovvero al macchione, è non uscire per bussare ch'uom faccia, cioè lasciare dire uno quanto vuole, il qual cerchi cavarti alcun segreto di bocca, e non gli rispondere, o rispondergli di maniera che non sortisca il disiderio suo, egli venga fallito il pensiero, onde conosca di gettar via le parole, e il tempo, onde si levi da banco, ovvero da tappeto, senza dar più noja, o ricadia, e torre, o spezzare il cervello a sé, e ad altri; e questi tali che stanno sodi al macchione, si chiamano ora formiche di sorbo, e quando, cornacchie da campanile. Dicesi ancora quasi in un medesimo significato, stare in sul noce, il che è proprio di coloro che temendo di non esser presi per debito, o per altra paura, stanno a Bellosguardo, e non ardiscono spassegiare l'ammatonato, cioè capitare in piazza, che i Latiui dicevano abstinere publico; e di coloro che hanno cattiva lingua, e dicon male volentieri, si dice: egli hanno mangiato noci, benché il volgo dica, noce; e, mangiar le noci col mallo, si dice di quelli che dicono male, e cozzano con coloro i quali fnno dir male meglio d'essi, dimanieraché non ne stanno in capitale, anzi ne scapitano, e perdono in digrosso, e questi tali maldicenti si chiamano a Firenze male lingue, linguacce, lingue fracide, e lingue serpentine, e, lingue tabane, con meno infame vocabolo, sboccati, linguacciuti, mordaci, latini di bocca, e aver la lingua lunga, o, appuntata, o, velenosa. Quando alcuno dimandato d'alcuna cosa, non risponde a proposito, si suol dire Albanese messere, o io sto co' frati, o tagliaronsi di Maggio, o veramente Amore ha nome l'oste. Quando alcuno ci dimanda alcuna cosa, la quale non ci piace di fare, lo mandiamo alle birbe, o, all'isola pe' cavretti. Quando alcuno per iscusarsi, o gittare la polvere negli occhi altrui, che i Latini dicevano tenebras offundere, dice d'aver detto, o fatto, o di voler fare, o dire al cuna cosa per alcuna cagione, e ha l'animo diverso dalle parole, s'usa, per mostrarli che altri conosce il tratto, e che la ragia è scornata, dirgli: più su sta mona Luna, da un giuoco che i fanciulli, e le fanciulle facevano già in Firenze; e se ha detto, o fatto quella tal cosa, gli rispondiamo, tu me l'hai chiantata, o, calata, o appiccata, o fregata. Potrebbesi ancora pigliare il verbo proprio, e dire non mica tutte le metafore, perché sono infinite, ma parte; perché favellare colle mani, significando dare, è cosa da bravi, onde si chiamano maneschi: Favellere colla bocca piccina, è favellare cautamente, e con rispetto, e andare, come si dice, co' calzari del piombo: Favellare senza barbazzale; il che i Greci dicevano, con maggior traslazione, senza briglia, è dire tutto quello che più ti piace, o torna bene, senza alcun risguardo, e, come dice il volgo, alla sbarcata: Favellare senza animosità, è dire il parer suo senza passione: Favellare in aria, senza fondamento: Favellare in sul saldo, o di sodo, consideratamente, e da senno, e, come dicevano i Latini, extra jocum, cioè fuor di baja: Favellare in sul quamquam, gravemente, e con eloquenza: Favellare all'orecchie, di segreto: Favellare per cerbottana, per interposta, e segreta persona: Favellare per lettera, che gli idioti, o chi vuole uccellare, dicono per lettiera, è favellare in grammatica, o, come dicono i medesimi, in gramuffa; e si dice Favellare Fiorentino, in Fiorentino, alla Fiorentina, e Fiorentinamente, e così nella lingua, nel linguaggio, nell'idioma, nella favella, o nella parlatura, o nel volgare Fiorentino, o di Firenze, o di Fiorenza: Favellare come gli spiritati, è favellare per bocca d'altri: Favellare come i pappagalli, non intendere quello che altri favella: Favellare come Papa scimio, dire ogni cosa a rovescio; cioè il sì nò, e 'l nò sì: Favellare rotto, cincischiato, onde si dice ancora cincischiare, e addentellato, il che è proprio degli innamorati, o di coloro che temono; è quello che Vergilio nel quarto libro dell'Eneida favellando di Didone disse: Incipit efferi, mediaque in voce resistit. Favellare a caso, o a casaccio, o a fata, o al bacchio, o a vanvera, o a gangheri, o alla burchia, o finalmente alla carlona, e talvolta favellare naturalmente è dirla come ella viene, e non pensare a quello, che si favella, e (come si dice) soffiare, e favellare: Favellare a spizzico, a spilluzzico, a spicchio, e a miccino, è dir poco, e adagio, per non dir poco, e male; come si dice del pecorino Dicomano. Di quelli che favellano, o piuttosto cicalano assai, si dice: egli hanno la lingua in balìa; la lingua non muore, o non si rappallozzola loro in bocca, o e' non ne saranno rimandati per mutoli: come di quelli che stanno musorni: egli hanno lasciato la lingua a casa, o al beccajo; e' guardano il morto; o egli hanno fatto come i colombi del Rimbussato, cioè perduto 'l volo. D'uno che favella, favella, e favellando, favellando con lunghi circuiti di parole aggira sé, e altrui, senza venire a capo di conclusione nessuna, si dice: e' mena 'l can per l'aja: e talvolta, e' dondola la mattea; e' non sa tutta la storia intera, perché non gli fu insegnato la fine; e a questi cotali si suol dire: egli è bene spedirla, finirla, liverarla, venirne a capo, toccare una parola della fine; e, volendo che si chetino, far punto, far pausa, soprassedere, indugiare, serbare il resto a un'altra volta, non dire ogni cosa a un tratto, serbare che dire. D'uno il quale ha cominciato a favellare alla distesa, o recitare un'orazione, e poi temendo, o non si ricordando, si ferma, si dice: egli ha preso vento, e talvolta, egli è arrenato. Chi favella gravemente: pesa le parole: chi non favella, o poco, le parole pesano a lui: chi favella di quelle cose delle quali è interdetto il favellare, mette la bocca, o la lingua dove non debbe: chi favella più di quello che veramente è, e aggiugne qualcosa del suo, si chiama mettere di bocca: coloro che favellano a quelli, i quali non gl'intendono, o s'infingono di non intendergli, si dicono, predicare a' porri: quelli i quali, quando alcuno favella loro, non hanno l'animo quivi, e pensano a ogni altra cosa che a quella che dice colui, si chiamano porre, ovvero piantare una vigna: di quelli che si beccano il cervello, sperando vanamente che una qualche cosa debba loro riuscire, e ne vanno cicalando quì, e quà, si dice che fanno come 'l cavallo del Ciolle, il quale si pasceva di ragionamenti; come le starne di monte Morello di rugiada. Chi in favellando ha fatto qualche scappuccio, e gli è uscito alcuna cosa di bocca, della quale vien ripreso, suole a colui che lo riprende, rispondere: Chi favella erra; egli erra il prete all'altare; e' cade un cavallo, che ha quattro gambe: chi favella sine fine dicentes, e dice più cose che non sono i beati Pauli, è in uso di dire e' vincerebbe il palio di Santo Ermo, il quale si dava a chi più cicalava; e di simili gracchioni si dice ancora: e' terrebbe l'invito del diciotto, o, egli seccherebbe una pescaja, o e' ne torrebbe la volta alle cicale, o e' ne rimetterebbe chi trovò il cicalare: chi nel favellare dice o per ira, o per altro, quello che il suo avversario, aspettando il porco alla quercia, gli voleva far dire, si chiama, infilzarsi da sé a sé: quando le cose delle quali si favella, non ci compiacciono, o sono pericolose, s'usa dire, perché si muti ragionamento, ragioniam d'Orlando, o parliamo di Fiesole, o favelliamo de' moscioni, o come dicono i volgari che disse Santo Agostino a' ranocchi, non tuffemus in acqua turba. Portare a cavallo si dicono coloro, i quali essendo in cammino, fanno con alcuno piacevole ragionamento, che' il viaggio non rincresca; ma bisogna avvertire che il cavallo di questi tali non sia di quella razza che trottino, e come quello che racconta il Boccaccio, perciocché allora è molto meglio andare a pié, come fece prudentemente Madonna Oretta, moglie di messer Geri Spina. Anco i Latini dicevano in questa sentenza: Comes facundus in itinere pro vehiculo est. Sogliono alcuni, quando favellano, usare a ogni pié sospinto, come oggi s'usa: sapete; in effetto; ovvero, in conclusione: altri dicono: che è, che non è, o l'andò, e la stette, altri, dalla, che le desti, o cesti, e canestri; altri scappati la mano; e alcuni scasimodeo; e chi ancora chiacchi bichiacchi; onde d'un ceriuolo, o chiappolino, il quale non sappia quello che si peschi, né quante dita s'abbia nelle mani, e vuol pure dimenarsi anch'egli per parer vivo, o guizzare per non rimanere in secco, andando a favellare ora a questo letterato, o mercante, e quando a quell'altro si dice: egli è un chicchi bichicchi, e non sa quanti piedi s'entrano in uno stivale. Questi tali foramelli, e tignosuzzi, che vogliono contrapporsi a ognuno, si chiamano ser saccenti, ser sacciuti, ser contraponi, ser vinciguerra, ser tuttesalle, dottori sottili, nuovi Salamoni, Aristarchi, o Quintiliani salvatichi; e perché molte volte si danno de' pensieri del Rosso, si chiamano ancora accattabrighe, beccalite, e pizzica quistioni. Attuare, quando è della prima congiugazione, non viene da apri tuto, né signifca assicurare, come hanno scritto alcuni, ma è proprissimo, e bellissimo verbo, il cui significato non può sprimersi con un verbo solo, perché è quello che i Latini dicono or sedare, or comprimere, or retundere, e talvolta extinguere; e usollo il Bocaccio (sebben mi ricordo) non solo nella novella d'Alibech due volte, ma ancora nell'ottavo della Teseide, dicendo: Onde attutata s'era veramente La polvere, e il fumo, ec. e Dante, la cui proprietà è meravigliosa, disse nel 26 del Purgatorio: Ma poiché furon di stupore scarche, Lo qual negli alti cor tosto s'attuta. Ma attutire della quarta congiugazione significa fare star cheto contra sua voglia uno, che favelli, o colle minacce, o colle busse. Quando due favellano insieme, e uno di loro o per non avere bene inteso, o per essersi dimenticato alcuna cosa, dice: riditela un'altra volta; quell'altro suol rispondere: noi non siam più di Maggio.
C. Deh fermate uu poco, se vi piace, il corso delle vostre parole, e ditemi perché cotesto detto più si dice del mese di Maggio, che degli altri; se già questa materia non v'è, come mi par di conoscere, venuta a fastidio.
V. La lingua va dove 'l dente duole; ma che debbo io rispondere alla vostra dimanda, se non quello che dicono i Volgari medesimi? cioè, perché di Maggio ragghiano gli asini. Ma come voi avete detto, io vorrei oggimai uscire di questo gineprajo, che dubito di non essere entrato nel pecoreccio, e venire a cose di più sugo, e di maggiore nerbo, e sostanza, che questue fanfaluche non sono.
C. Se voi ragionate per compiacere a me, come voi dite, o come io credo, non vi dia noja, perché coteste sono appunto quelle fanfaluche che io disidero di sapere, perciocché queste cose, le quali in sui libri scritte non si ritrovano, non saperrei io per me donde poterlemi cavare.
V. Non d'altronde, se non da coloro, i quali l'hanno in uso nel lor parlare, quasi di natura.
C. E chi son costoro?
V. Il senato, e 'l Popolo Fiorentino.
C. Dunque in Firenze oggi s'intendono le cose, che voi avete dette? V E si favellano, che è più là, non dico da' fattori de' barbieri, e de' calzolaj, ma da ciabattini, e da' ferravecchi, che non pensaste ch'io me le fossi succiate dalle dita, o le vi volessi vendere per qualche grande, e nascoso tesoro; e non è sì tristo artigiano dentro a quelle mura, che voi vedete (e il medesimo dico de' foresi, e de' contadini) il quale non sappia di questi motti, e riboboli per lo senno a mente le centinaja, e ogni giorno, anzi a ciascuna ora, e bene spesso, non accorgendosene, non ne dica qualch'uno. Più vi dirò, che se la mia fante ci udisse ora ragionare, non istate punto in dubbio, che ella maravigliandosi tra sé, e faccendo le stimite, non dicesse: Guarda cose che quel Cristiano del mio padrone insegna a quell'uomo, che ne son pieni i pozzi neri, e le sanno infino a' pesciolini excl sicuramente (direbbe ella) egli debbe avere poca faccenda, forseché non vi si ficca drento, e per avventura non bestemmierebbe. Sapete dunque, se volete, donde possiate impararle.
C. E disselo a Margutte, e non a sordo; ma seguiate voi, se più avete che dire.
V. Questa materia è così larga, e abbraccia tante le cose, che chi volesse contarle tutte, arebbe più faccenda che non è in un sacco rotto, e gli converrebbe non fare altro tutta una settimana intera intera; perché ella fa, come si dice dell'Idra; o per dirlo a nostro modo, come le ciriege; che si tirano dietro l'una l'altra; pure io, lasciando indietro infinite cose, m'ingegnerò d'abbreviarla, per venire, quando che sia, alla fine. Dico dunque che, dire farfalloni, serpelloni, e strafalcioni, si dice di coloro che lanciano; raccontando bugie, e falsità manifeste; de' quali si dice ancora: e' dicono cose che non le direbbe una bocca di forno; e talvolta mentre favellano, per mostrare di non le passare loro, si dice: ammannaò, o affastella, che io lego, o suona, che io ballo. Non fo menzione de' passerotti, perché la piacevolezza; e la moltitudine loro ricercherebbe un libro appartato, il che già fu fatto da me in Venezia, e poi da me, e da Messer Carlo Strozzi arso in Ferrara. Quando alcuno, per procedere mescolatamente, e alla rinfusa, ha recitato alcuna orazione la quale sia stata, come il pesce pastinaca, cioè senza capo, e senza coda, come questo ragionamento nostro, e in somma non sia soddisfatta a nessuno, s'usa dire a coloro che ne dimandano: ella è stata una pappolata, o pippionata, o porrata, o pastocchia, ovvero pastocchiata, o cruscata, o favata, o chiacchierata, o fagiolata, o intemerata; e talvolta una bajaccia, ovvero bajata, una trescata, una taccolata, o tantaferata, una filastrocca, ovvero filastroccola, e chi dice zanzaverata, o cinforniata. Quando i maestri voglion significare che i fanciulli non se le sono sapute, e non ne hanno detto straccio, usano queste voci: boccata, boccicata, boccicone, cica, calia, gamba, tecca, punto, tritolo, briciolo, capello, pelo, scomuzzolo, e più anticamente, e con maggior leggiadria fiore, cioè punto, come fece Dante, quando disse: Mentreché la speranza ha fior del verde. che così si debbe leggere, e non come si truova in tutti i libri stampati: è fuor del verde; e, per lo contrario, quando se le sono sapute: egli l'ha in sulle punte delle dita; e non ha errato parola; e in altri modi tali: Dire il pan pane, e dirla fuor fuora è dire la cosa, come ella sta, o almeno come altri pensa che ella stia, liberamente, e chiamare la gatta gatta, e non mucia. Dire a uno il padre del porro, e cantargli il vespro, o il mattutino degli Ermini, significa riprenderlo, e accusarlo alla libera, e protestargli quello, che avvenire gli debba, non si mutando. Erano gli Ermini un convento di Frati, secondoché mi soleva raccontare mia madre, i quali stavano già in Firenze, e perché cantavano i divini ufizj nella loro lingua, quando alcuna cosa non s intendeva, s'usava dire: ella è la zolfa dagli Ermini. Dire a lettere di scatola, o di speziale, è dire la bisogna chiaramente, e di maniera che ognuno senza troppa speculazione intendere la possa. Dire le sue ragioni a' birri, si dice di coloro che si voglion giustificare con quelli a chi non tocca, e che non possono ajutargli, tratto da coloro che, quando ne vanno presi, dicono a quelli che ne gli portano a guisa di ceri, che è loro fatto torto. D'uno che attende, e mantiene le promessioni sue, si dice: egli è uomo della sua parola; e quando fa il contrario: egli non si paga d'un vero. Di coloro che favellano in punta di forchetta, cioè troppo squisitamente, e affettatamente, e (come si dice oggi) per quinci, e quindi, si dice: andare su per le cime degli alberi; simile a quello, cercare de' fichi in vetta. A coloro, che troppo si millantano, e dicono di voler fare, o dire cose di fuoco, s'usa, rompendo loro la parola in bocca, dire non isbraciate. D'uno, il quale non s' intenda, o non voglia impacciarsi d'alcuna faccenda, intervenendovi solo per bel parere, e per un verbigrazia, rimettendosene agli altri, si dice: il tale se ne sta a detto. A uno, che racconti alcuna cosa, e colui a chi egli la racconta, vuol mostrare in un bel modo di non la credere, suol dire, san chi l'ode; alle quali parole debbono seguitare queste, pazzo chi 'l crede. D'uno, che dica del male assai, si dice: il suo aceto è di vin dolce, o egli ha una lingua che taglia, e fora: e per lo contrario d'uno, che non sappia fare una torta parola, né dir pur zuppa, non che far villania ad alcuno, o stare in su i convenevoli, e fare invenie, si dice: egli è meglio che il pane, e talvolta, che il Giovacca. D'uno, che sia maledico, e lavori altrui di straforo, commettendo male occultamente, si dice: egli è una mala bietta, o una cattiva lima sorda. D'uno che sia in voce del popolo, e del quale ognuno ardisca dire quello che vuole, e ancora fargli delle bischenche, e de' soprusi, si dice: egli è il Saracino di piazza, ovvero cimiere a ogni elmetto. Considerate ora un poco voi, qual differenza sia dallo scrivere al favellare, o dallo scrivere daddovero a quello da motteggio. Messer Francesco Petrarca disse questo concetto in quel verso: Amor m'ha posto, come segno a strale. e messer Piero Bembo: Io per me nacqui un segno Ad ogni stral delle sventure umane. Quando alcun uomo iroso, e col quale non si possa scherzare, è venuto per la bizzarria sua nel contendere con chicchessia in tanta collera, e smania, che girandogli la coccola non sa, o non può più parlare, e nientedimeno vuol sopraffare l'avversario, e mostrare che non lo stimi, egli, serrate ambo le pugna, è messo il braccio sinistro in sulla snodatura del destro, alza il gomito verso il cielo, e gli fa un manichetto; o veramente posto il dito grosso tra l'indice, e quello del mezzo, chiusi, e ristretti insieme quegli altri, e disteso il braccio verso colui, gli fa (come dicono le donne) una castagna, aggiugnendo spesse volte: To', castrami questa, il quale atto forse con minore onestà, ma certo con maggiore proprietà chiamò Dante, quando disse: Alla fin delle sue parole il ladro Le mani alzò con amendue le fiche. la qual cosa, secondo alcuni, volevano significare i Latini, quando dicevano medium unguem ostendere; e talvolta, medium digitum: il che pare, che dimostri quello essere stato atto diverso. I Latini a chi diceva loro alcuna cosa della quale volessino mostrare che non tenevano conto nessuno, dicevano: haud manum vorterim; e noi nel medesimo modo: io non ne volgerei la mano sozzopra. Diciamo ancora, quando ci vogliamo mostrare non curanti di chicchessia: io non ne farei un tombolo in sull'erba; e quando vogliamo mostrare la vilipensione maggiore, diciamo con parole antiche: io non ne darei un paracucchino, o veramente bazzago, o con moderne, una stringa, un lupino, un lendine, un moco, un pistacchio, un bagattino, una frulla, un baghero, o un ghiabaldano, de' quali se ne davano trentasei per un pelo d'asino. Quando alcuno entra d'un ragionamento in un altro, come mi pare che abbiamo fatto noi, si dice: tu salti di palo in frasca, o veramente, darno in Bacchillone. Quando alcuno dice alcuna cosa, la quale non si creda essere di sua testa, ma che gli sia stata imburchiata, sogliono dire: questa non è erba di tuo orto. Quando alcuno o non intende, o non vuole intendere alcuna ragione, che detta gli sia, suole dire: ella non mi va; non m'entra; non mi calza; non mi cape; non mi quadra; e altre parole così fatte. Quando alcuno o privatamente, o in pubblico confessa esser falso quello ch'egli prima per vero affermato avea, si chiama ridirsi, o disdirsi. Essere in detta, significa essere in grazia, e favore, essere in disdetto, in disgrazia, e disfavore. Quando uno cerca pure di volerci persuadere quello, che non volemo credere, per levarloci dinanzi, e torci quella seccaggine dagli orecchi, usiamo dire: tu vuoi la baja, o la berta, o la ninna, o la chiacchiera, o la giacchera, o la giostra, o il giambo, o il dondolo de' fatti mieiò, o tu uccelli; tu hai buon tempo; ringrazia Dio, se tu sei sano; anche il Duca murava; e molti altri modi somiglianti. Quando una dice cose non verisimili, se gli risponde, elle sono parole da donne o da sera, cioè da veglia; o veramente, elle son favole, e novelle. Quando uno dice sue novelle per far credere alcuna cosa, se gli risponde, elle son parole; le parole non empiono il corpo; dove bisognano i fatti, le parole non bastano; tu hai buon dire tu; saresti buono a predicare a' porri; e in altre guise cotali. A uno che si sia incapato una qualche cosa, e quanto più si cerca di sgannarlo, tanto più v'ingrossa su, e risponde di voler fare, e dire, s'usa, egli è entrato nel gigante. Chi ha detto, o fatta alcuna cosa in quel modo appunto, che noi disideravamo, si chiama aver dipinto, o fattala a pennello. D'uno, che fa i castellucci in aria, egli si becca il cervello, o si dà monte Morello nel capo. D'uno, che colle parole, o co' fatti si sia fatto scorgere, si dice, egli ha chiarito il popolo; e Morgante disse a Margutte: Tu m'hai chiarito, anzi vituperato. D'uno che dà buone parole, e frigge, si dice, egli ha 'l mele in bocca, e 'l rasòjo a cintola, o come dicevano i Latini, le lagrime del coccodrillo, e noi diciamo, la favola del tordo, che disse, Bisogna guardare alle mani, e non agli occhi. Conciare alcuno pel dì delle feste, ovvero come egli ha a stare, significa nuocergli col dirne male; ma conciare uno semplicemente, significa, o con preghiere, o con danari condurlo a fare tutto quello che altri vuole: e coloro, che conoscono gli umori dove peccano gli uomini, e gli sanno in modo secondare, che ne traggono quello, che vogliono, si dicono: trovare la stiva, e sono tenuti valenti. Andarsene preso alle grida, significa credere quello che t'è detto, e senza considerare più oltra, dire, o non dire, fare, o non fare alcuna cosa bene, o male che ella si sia. Dir buon giuoco, è chiamarsi vinto; è proprio de' fanciulli, quando, faccendo alle pugna, rimangano perdenti; il verbo generale è rendersi, e arrendersi; che i Latini dicevano dare herbam, e dare manus. Dire il paternostro della bertuccia, non è mica dire quello di San Giuliano, ma bestemmiare, e maledire, come pare, che facciano cotali animali, quando acciappinano per paura, o per istizza dimenano tosto tosto le labbra. Pigliare la parola dal tale, che gli antichi dicevano, accattare, è farsi dare la parola di quello, che fare si debba. Andare sopra la parola d'alcuno, è stare sotto la fede sua di non dovere essere offeso. Quando alcuno vuole, che tutto quello che egli ha detto, vada innanzi senza levarne uno jota, o un minimo che, si dice, e' vuole che la sua sia parola di Re. Cavarsi la maschera è non volere essere più ippocrito, o simulatore, ma sbizzarrirsi con uno senza far più i fraccurradi. Coloro, che quando i fanciulli corrono, danno loro le mosse, dicono, trana; onde chi vuol beffare alcuno, gli grida dietro, tran trana, tratto dal suono delle trombe; o miao miao, dalle gatte. Quando alcuno non dice tutto quello, che egli vorrebbe, o doverrebbe dire, si dice: egli tiene in collo; e se è adirato: egli ha cuccuma in corpo, cioè stizza; onde si dice d'uno che ha preso il broncio: ella gli è montata. Quando alcuno dice una cosa la quale sia falsa, ma egli la creda vera, si chiama, dire le buie, che i Latini dicevano dicere mendacia; ma se la crede falsa, come ella è, si chiama con verbo latino, mentire, o dire menzogna; la qual parola è Provenzale, onde menzogniere, cioè bugiardo. Il verbo, che usò Dante quando disse, io non ti bugio, è ancora in bocca d'alcuni, i quali dicono, io non ti buso, cioè dico bugie; è vero, che dir bugie, e mentire si pigliano l'un per l'altro. Quando alcuno, e massimamente fuori dell'usanza sua, ha detto in riprendendo chicchessia, o dolendosene più del dovere, si chiama essere uscito del manico. Zufolare dietro a uno, è dire con sommessa voce: quelli è il tale, quelli è colui, che fece, o che disse; e a colui si dicono zufolare gli orecchi, come dicevano i Latini personare aures. Quando alcuno vuol significare a chi dice male di lui, che ne lo farà rimanere, minaccia di dovergli turare, o riturare la bocca, o la strozza, ovvero inzeppargliele, cioè con uno struffo, ovvero struffolo di stoppa, o d'altro, empiergliela, e suggellare. Quando uno conforta un altro a dover fare alcuna cosa che egli fare non vorrebbe, e allega sue ragioni, delle quali colui non è capace, suole spesso avere per risposta: tu ci metti parole tu; a nessuno confortatore non dolse mai testa; e se egli seguita di strignerlo, e serrarlo fra l'uscio, e 'l muro, colui soggiugne: parole brugnina. A uno, che per trastullare un altro, e aggirarlo colle parole, lo manda ora a casa questo, e ora a casa quell'altro per trattenerlo, si dice: abburattare, e mandar da Erode a Pilato. Far tenore, o falso bordone a uno, che cicali, è tenergli il fermo non solo nel prestargli gli orecchi a vettura in ascoltarlo, ma anch'egli di cicalare la sua parte. A chi aveva cominciato alcun ragionamento, poi entrato in un altro, non si ricordava più di tornare a bomba, e fornire il primo, pagava già (secondoché testimonia il Burchiello) un grosso, il qual grosso non valeva per avventura in quel tempo più, che quei cinque soldi, che si pagano oggi, i quali io non intendo a patto nessuno di voler pagare; però tornando alla prima materia nostra, proponetemi tutte quelle dubitazioni, che voi dicevate di volermi proporre, che io a tutte risponderò liberamente tutto quello, che saperrò.
C. Io per non perdere questa occasione d'oggi, che Dio sa quando n'arò mai più un'altra, e valermi di cotesta vostra buona volontà il più che posso, vorrei dimandarvi di molte cose intorno a questa vostra lingua, le quali dimande, per procedere con qualche ordine, chiamerò quesiti; ma prima mi par necessario, non che ragionevole, che io debba sapere qual sia il suo propio, vero, legittimo, e diritto nome, conciossiaché alcuni la chiamano Volgare, o Vulgare, alcuni Fiorentina, alcuni Toscana, alcuni Italiana, ovvero Italica, e alcuni ancora Cortegiana, per tacere di quelli, che l'appellano la lingua del sì.
V. Cotesto dubbio è stato oggimai disputato tante volte, e da tanti, e ultimamente da Messer Claudio Tolomei, uomo di bellissimo ingegno, e di grandissimo discorso, così lungamente, che molti per avventura giudicheranno non solo di poco giudizio, ma di molta presunzione chiunqhe vorrà mettere bocca in questa materia, non che me, che sono chi io sono; e però vi conforterei a entrare in qualche altro ragionamento, che a voi fosse di maggiore utilità, e a me di manco pregiudizio.
C. Io direi che voi non foste uomo della parola vostra, se non voleste attendermi quello, che di già promesso m'avete; e di vero io non credeva che egli valesse né a disdirsi, né a ridirsi, e cotesto che voi allegate per mostrarlo soverchio, è appunto quello che lo fa necessario, e spezialmente a me, perché non conchiudendo tutti una cosa medesima, anzi ciascuno diversamente all'altro, io resto in maggior dubbio, e confusione, che prima, né so discernere da me medesimo a qual parte mi debba, e a qual sentenza piuttosto appigliare per creder bene, e saperne la verità.
V. Dunque credete voi, che io debba esser quelli, che voglia por mano a così fatta impresa, con animo, o speranza di dover terminare cotal quistione, e arrecar fine a sì lunga lite? Troppo errate, se ciò credete, e male mostrereste di conoscere generalmente la natura degli uomini, e particolarmente la mia. Laonde son bene contento, ancoraché conosca in che pelago entri, e con qual legno, e quanto poveramente guernito, di volere, checché seguire me ne debba, o possa, dire, non per altra maggior cagione, che per soddisfare a voi, e a coloro che tanto instantemente ricercato men' hanno, in favore della verità tutta l'oppenione mia sincerissimamente.
C. Cotesto mi basta, anzi è appunto quello che io andava caendo.
V. Se questo vi basta, noi saremo d'accordo, ma io voglio che noi riserbiamo questo Quesito al da sezzo; e in questo mentre, da Cortegiana in fuori, chiamatela come meglio vi torna, che non potete gran fatto errare di soverchio, come per avventura vi pensate, e a me non dispiace, come fa a molti, che ella si chiami Volgare, posciaché così la nominarono gli antichi, e i nomi debbono servire alle cose, e non le cose a i nomi.
C. Perché volete voi serbare questo quesito all'ultimo? Forse per fuggire il più che potete di venire al cimento, e al paragone? Che ben conosco che voi traete alla staffa, e ci andate di male gambe, e non altramente, che le serpi all'incanto.
V. Anzi piuttosto, perché la cagione che questo dubbio da tanti, che infin quì disputato n'hanno, risoluto non si sia, mi pare proceduta più che da altro, perché eglino non si son fatti da' primi principj, come bisognava, diffinendo primieramente che cosa fosse lingua, e poi dichiarando a che si conoscono le lingue, e come dividere si debbiano; perciocché Aristotile afferma, niuna cosa potersi sapere, se prima i primi principj, i primi elementi, e le prime cagioni di lei non si sanno.


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Ultimo Aggiornamento:
13/07/2005 22.50

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