DIALOGO DI MESSER BENEDETTO VARCHI INTITOLATO L'ERCOLANO, OVVERO AGLI ALBERI (Prima Terza)
Ricoprire, in questo soggetto, è, quando alcuno il.
quale ha detto, o fatto alcuna cosa la quale egli non
vorrebbe avere né detta, né fatta, ne dice alcune altre
diverse da quella, e quasi interpetra a rovescio, o almeno
in un altro modo, se medesimo; onde propriamente,
come suole, disse il nostro Dante:
Io vidi ben siccome ei ricoperse
Lo cominciar con altro che poi venne:
Che fur parole alle prime diverse.
La qual cosa si dice ancora rivolgere, o, rivoltare, e
talvolta, scambiare i dadi. Il verbo proprio è ridirsi, cioè
dire il contrario di quello s'era detto prima.
Scalzare, metaforicamente, il che oggi si dice ancora
cavare i calcetti, significa quello che volgarmente si dice
sottrarre, e, cavare di bocca, cioè entrare artatamente in
alcuno ragionamento, e dare d'intorno alle buche per
fare che colui esca, cioè dica, non se ne accorgendo,
quello che tu cerchi di sapere. E quando alcuno per
iscalzare chicchessia, e farlo dire, mostra, per corlo al
boccone, di sapere alcuna cosa, si dice far le caselle per
apporsi.
Origliare e, quando due, o più ritiratisi in alcun luogo
favellano di segreto, stare di nascoso all'uscio, e porgere
l'orecchie per sentire quello dicono. Il verbo generale è
spiare, verbo non meno infame, che origliare: sebbene
si piglia alcuna volta, in buona parte, dove far la spia si
piglia sempre in cattiva, il che si dice volgarmente esser
referendario.
D'uno ch'è benestante, cioè agiato delle cose del mondo,
e che ha le sue faccende di maniera incamminate se
gli può giustamente dire quel proverbio: asin bianco gli
va al mulino; e nondimeno o per pigliarsi piacere d'altrui,
o per sua natura, pigola sempre, e si duole dello stato
suo, o fa alcuna cosa da poveri, si suol dire, come delle
gatte: egli uccella per grassezza; e' si rammarica di gamba
sana; egli ruzza, o veramente, scherza in briglia; benché
questo si può dire ancora di coloro che mangiano il cacio
nella trappola, cioè fanno cosa della quale debbono,
senza potere scampare, essere incontanente puniti; come
coloro che fanno quistione, e s'azzuffano essendo in prigione:
e quando alcuno, per lo contraria, faccendo il musone,
e stando cheto, attende a' fatti suoi senza scoprirsi
a persona per venire a un suo attento, si dice: e' fa fuoco
nell'orcio, o, e' fa, a' chetichegli; e tali persone che non
si vogliono lasciare intendere, si chiamano coperte, segrete,
e talvolta, cupe, e dalla plebe soppiattoni, o, golponi,
o, lumaconi, e massimamente se sono spilorci, e miseri,
come di quelli che hanno il modo a vestir bene, e nondimeno
vanno mal vestiti, si dice: chi ha 'l cavallo in istalla,
può andare a pié.
D'uno il quale non possa, o non voglia, favellare, se
non adagio, e quasi a scosse, e, per dir la parola propria
de' volgari, cacatamente, si dice, e ponza, quasi penino un
anno a rinvenire una parola; come, per lo contrario, di
chi favella troppo, e frastagliatamente in modo che non
iscolpisce le parole, e non dice mezze le cose, si dice: e'
s'affolta, o, e' fa una affoltata, o, e' s'abborraccia.
Quando uno dice il contrario di quello che dice un altro,
e s'ingegna con parole, e con ragioni contrarie alle
sue di convincerlo, si chiama ribattere, cioè latinamente
retundere; ma se colui, conosciuto l'error suo, muta
oppenione, si chiama sgannare, onde sgannati si dicono
quelli i quali persuasi da vere ragioni, sono stati tratti, e
cavati d'errore.
Subillare uno, è tanto dire, e tanto per tutti i versi, o
con tutti i modi pregarlo che egli a viva forza, e quasi
a suo marcio dispetto, prometta di fare tutto quello che
colui il quale lo subilla, gli chiede; il che si dice ancora
serpentare, e, tempestare, quando colui non lo lascia
vivere, né tenere i piedi in terra; il che i Latini dicevano
propriamente sollicitare.
Se alcuno ci dice, o ci chiede cosa la quale non volemo
fare, sogliamo dire: e' canzona, o, e' dice canzone. C: Cotesto mi pare linguaggio furbesco. V. E' ne pizzica, anzi ne tiene più di sessanta per cento;
ma che noja dà, o qual mia colpa? Voi mi dite che io vi
dica tutto quello che si dice in Firenze; ed io il fo. C. È vero; e me ne fate piacere singulare; e, poiché non
vi posso ristorare io, Dio vel rimeriti per me. Ma ora che
io mi ricordo, che volete voi significare quando voi dite:
questa sarebbe la canzone dell'uccellino? quale è questa
canzone, o chi la compose, o quando? V. L'autore è incerto, e anco il quando non si sa, ma
non si può errare a credere che la componesse il popolo,
quando la lingua cominciò, o ebbe accrescimento la
lingua nostra, cavandola o dalla natura, o da alcun'altra
lingua; perché Ser Brunetto ne fa menzione nel Pataffio,
chiamandola favola, e non canzone, che in questo caso
è il medesimo; onde quando si vuole affermare una cosa per vera, si dice: questa non è né favola, né canzone. Il
verso di Ser Brunetto dice:
La favola sarà dell'uccellino;
ma comunche si sia, ella è cotale. Quando alcuno in
alcuna quistione dubita sempre, e sempre o da beffe,
o da vero ripiglia le medesime cose, e della medesima
cosa domanda, tantoché mai non sene può venire né a
capo, né a conchiusione, questo si dimanda in Firenze la
canzone, o volete, la favola dell' uccellino. C. Datemene un poco d'esempio. V. Ponghiamo caso, ch'io vi dicessi: La rosa è 'l più bel
fiore che sia; e voi mi dimandaste: Perch'è la rosa il più
bel fiore che sia? e io vi rispondessi: Perch'ell'ha il più
bel colore di tutti gli altri; e voi di nuovo mi dimandaste:
Perch'ha, ella il più bel colore di tutti gli altri? e io vi
rispondessi: Perché egli è il più vivo, e il più acceso; e
voi da capo mi ridomandaste: Perch'è egli il più vivo, e 'l
più acceso? e così, se voi seguitaste di domandarmi, e io
di rispondervi, a cotal guisa si procederebbe in infinito,
senza mai conchiudere cosa nessuna; il che è contra la
regola de' filosofi, anzi della natura stessa; la quale aborre
l'infinito, il quale non si può intendere, e quello che
non si può intendere, si cerca in vano, e la natura non
fa, e non vuole che altri faccia cosa nessuna indarno.
Chiamasi ancora la canzone dell'uccellino, quando un
dice: Vuoi tu venire a desinare meco? e colui risponde;
E' non si dice, Vuoi tu venire a desinare meco; e così si
va seguitando sempre tanto che non si possa conchiuder
cosa nessuna, né venire a capo di nulla. C. Per mia fe, che la canzone, o la favola dell'uccellino
potrebbe essere per mio avviso non so se meno lunga,
ma bene più vaga; ma seguitate i vostri verbi; se già non
ne sete venuto al fine, come io creo. V. Adagio; io penso che e' vi paja mille anni ch'io gli
abbia forniti; e io dubito che, se vorrete che io seguiti,
ella non sia la canzone della quale avemo favellato. C. Volesselo Dio, quanto alla lunghezza; che io non
udii mai cosa alcuna più volentieri: però, se mi volete
bene, seguitate. V. Ragguagliare, non le partite, come fanno i mercatanti
in su i loro libri, ma alcuno d'alcuna cosa, è o riferirgli
a bocca, o scriverli per lettere tutto quello che si sia
o fatto, o detto in alcuna faccenda che si maneggi; il che
si dice ancora informare, instruire, far sentire, avvisare, e
dare avviso.
Di chi dice male d'uno, il quale abbia detto male di
lui, il che si chiama rodersi i basti, e gli rende, secondo
il favellare d'oggi, il contracambio, ovvero la pariglia, la
qual voce è presa dagli Spagnuoli, s'usa dire, egli s'è riscosso;
tratto per avventura da' giuocatori, i quali quando
hanno perduto una somma di danari, e poi la rivincono,
si chiamano risquotersi; il che avviene spesse volte;
onde nacque il proverbio: Chi vince da prima, perde da
sezzo. Dicesi ancora riscattare, come de' prigioni, quando
pagano la taglia, e, ritornare in sul suo, ma più gentilmente,
egli ha risposto alle rime, o, per le rime, e più Boccaccevolmente,
rendere (come diceste voi di sopra) pane
per cofaccia, o, frasche per foglie.
D'uno il quale avea deliberato, o, come dicono i villani,
posto in sodo, di voler fare alcuna impresa, e poi, per
le parole, e alle persuasioni altrui, se ne toe giù, cioè se
ne rimane, e lascia di farla; che i Latini chiamavano desistere
ab incepto; si dice: egli è stato svolto dal tale, o, il
tale l'ha distolto, e generalmente, rimosso.
Coloro che la guardano troppo nel sottile, e sempre,
e in ogni luogo, e con ognuno, e d'ogni cosa tenzonano,
e contendono, né si può loro dir cosa che essi non la
vogliano ribattere, e ributtarla, si chiamano fisicosi, e
il verbo è fisicare; uomini per lo più incancherati, e da
dovere essere fuggiti.
Appuntare alcuno, vuol dire riprenderlo, e massimamente
nel favellare; onde certi saccentuzzi che vogliono
riprendere ognuno, si chiamano ser Appuntini.
Tacciare alcuno, e, difettarlo, è, nollo accettare per uomo
da bene, ma dargli nome d'alcuna pecca, o mancamento.
Bisticciarla con alcuno, e, star seco sul bisticcio, è volere
stare a tu per tu, vederla fil filo, o pur quanto la canna;
e se egli dice, dire; se brava, bravare; né lasciarsi vincere,
o soperchiare di parole; e questi tali, per mostrarsi pari
agli avversarj, e da quanto loro sogliono dire alla fine;
per tacere altri motti o sporchi, o disonesti, che a questo
proposito dicono tutto 'l giorno i plebei: tanto è da
casa tua a casa mia, quanto da casa mia a casa tua; e
nel medesimo significato, e a questo stesso proposito,
sogliono dire: rincarinmi il fitto.
Riscaldare uno, non è altro che confortarlo, e pregarlo
caldamente che voglia o dire, o fare alcuna casa in servigio,
e benefizio o nostro, o d'altrui.
Gonfiare alcuno, è volergli vendere vesciche, cioè dire
alcuna cosa per certa, che certa non sia, acciocché egli
credendolasi, te ne abbia ad avere alcuno obbligo. Dicesi
ancora: tu mi vuoi far cornamusa, e, dar panzane, cioè
promettendo Roma, e Toma, e stando sempre in su i generali,
ben faremo, e ben diremo, non venir mai a conclusione
nessuna. Dicesi ancora ficcar carote, e spezialmente
quando alcuno faccendo da se stesso qualche finzione,
o trovato, che i Latini dicevano comminisci, lo racconta
poi non per suo, per farlo più agevolmente credere,
ma per d'altrui; e ancoraché sia falso, l'afferma per
vero, o per volere la baja, o per essere di coloro che dicono
le bugie, e credonsele; e questi due verbi dar panzane,
ovvero, baggiane, e, ficcar carote, sono non pur Fiorentini, e Toscani, ma Italiani, ritrovati da non molti anni in
quà.
Altercare, onde nacque altercazione, è verbo de' Latini,
i quali dicono ancora altercari in voce deponente, in
vece del quale i Toscani hanno tenzionare, ovvero, tenzonare,
cioè rissare, contendere, e combattere, cioè quistionare
di parole, onde viene tenzione, ovvero, tenzone,
cioè la rissa, il contendimento, ovvero la contesa, il combattimento,
ovvero il contrasto di parole, e bene spesso
di fatti. Dicesi ancora, ma più volgarmente, fare una batosta,
darsene infino a'denti, e, fare a'morsi, e, a' calci, e,
fare a' capelli.
Quando alcuno vuol mostrare a chicchessia di conoscere
che quelle cose le quali egli s'ingegna di fargli credere,
sono ciancie, bugie, e bagattelle, usa dirgli: tu
m'infìnocchi, o, non pensar d'infinocchiarmi, e talora si
dice: tu mi vuoi empier di vento, o, infrascare.
Se alcuno chiama un altro, e il chiamato o non ode,
o non vuole udire; il che è la peggior sorte di sordi che
sia; si dice al chiamante: tu puoi zufolare, o, cornare, o,
cornamusare; tu puoi scuotere; che è in su buon ramo.
E quando alcuno o ha udito in verità, o finge d'aver
udito, il rovescio appunto di quello che avemo detto, il
che i Latini chiamavano obaudire; noi diciamo: egli ha
franteso.
Quando ci pare che alcuno abbia troppo largheggiato
di parole, e detto assai più di quello che è, solemo dire:
bisogna sbatterne, o tararne, cioè farne la tara, come si
fa de' conti degli speziali, o, far la Falcidia, cioè levarne
la quarta parte, tratto dalla legge di Falcidio tribuno
della plebe, che ordinò che de' lasci, quando non v'era
pago, si levasse la quarta parte; e talvolta si dice fare
la Trebellianica, dal Senatoconsulto Trebelliano il verbo
generale è difalcare.
Quelli che sanno trattenere con parole coloro di cui
essi sono debitori, e gli mandano per la lunga d'oggi
in dimane, promettendo di volergli pagare, e soddisfare
di giorno in giorno, perché non si richiamino di loro, e
vadansene alla ragione, si dicono: saper tranquillare i lor
creditori; e, levarsi dinanzi, ovvero, torsi da dosso, e, dagli
orecchi i cavalocchi; che così si chiamano coloro i quali
prezzolati risquotono per altri.
Quelli i quali avendo udito alcuna cosa, vi pensano dipoi
sopra, e la riandano colla mente, si dicono Toscanamente,
ma con verbo Latino, ruminare, e Fiorentinamente,
rugumare, e talvolta rumare, tratto da' buoi, e dagli altri
animali, i quali, avendo l'ugna fesse, ruminano: il qual
verbo si piglia molte volte in cattivo senso, cioè si dice
di coloro i quali avendo mali umori in corpo, ed essendo
adirati, pensano di volere, quando che sia, vendicarsi,
e intanto rodono dentro se stessi; il che si dice eziandio
rodere i chiavistelli.
A coloro che sono bari, barattieri, truffatori, trappolatori,
e traforelli, che comunemente si chiamano giuntatori,
i quali per fare star forte il terzo, e il quarto colle barerie,
baratterie, trufferie, trappolerie, traforerie, e giunterie
loro, vogliono o vendere gatta in sacco, o cacciare
un porro altrui, si suol dire, per mostrare che le trappole,
e gherminelle, anzi tristizie, e mariolerie loro sono conosciute,
e che non avemo paura di lor tranelli: i mucini
hanno aperto gli occhi, i cordovani sono rimasi in Levante:
non è più 'l tempo di Bartolommeo da Bergamo: noi sappiamo
a' quanti dì è San Biagio: noi conosciamo il melo dal
pesco; i tordi da gli stornelli; gli storni dalle starne; i bufoli
dall'oche; gli asini da' buoi; l'acquerel dal mosto cotto;
il vino dall'aceto; il cece dal fagiuolo; la treggea dalla gragnuola;
e altri cotali, che o per non potersi onestamente
nominare, o per essere irreligiosi, non intendiamo di voler
raccontare; e in quello scambio diremo che quando
alcuno, per esser pratico del mondo, non è uomo da essere
aggirato, né fatto fare, si dice: egli se le sa; egli non
ha bisogno di mondualdo, o, procuratore; egli ha pisciato
in più d'una neve; egli ha cotto il culo ne' ceci rossi; egli.ha
scopato più d'un cero; egli è putta scodata; e se si vuol mostrare,
lui essere uomo per aggirare, e fare stare gli altri,
si dice: egli è fantino; egli è un bambino da Ravenna,
egli è più tristo che i tre assi; più cattivo che banchellino;
più viziato, e più trincato, che non è un famiglio d'otto; e
generalmente d'uno che conosca il pel nell'uovo, e non
gli chiocci il ferro, e sappia dove il diavol tien la coda, si
dice: egli ha il diavolo nell'ampolla. C. Io posso imbottarmi a posta mia, perché io son
chiaro che alla lingua Fiorentina non vo' dire avanzino,
ma non manchino, anzi piuttosto avanzino, che manchino,
vocaboli. V. Voi non avete udito nulla; questi che io ho raccontati,
s'appartengono solamente, e si riferiscono all'atto
del favellare, eccetto però che quelli che o in conseguenza,
o per inavvertenza mi son venuti alla bocca; e sono
ancora, si può dire, all'A; pensa quel che voi diresti, chi
vi raccontasse gli altri dell'altre materie, che sono infiniti,
e se sapeste quanti se ne sono perduti. C. Come perduti? V. Perduti sì; non sapete voi che i vocaboli delle lingue
vanno, e vengono, come l'altre cose tutte quante? C. Dite voi cotesto per immaginazione, o pure lo
sapete del chiaro? V. Lo so di chiaro, e di certo, perché oltra quelli che si
truovano ne' libri antichi, i quali oggi o non s'intendono,
o non sono in uso, Ser Brunetto Latini, maestro di Dante,
lasciò scritta un'operetta in terza rima, la quale egli
intitolò Pataffio, divisa in dieci capitoli, che comincia:
Squasimo Deo introcque, e a fusone,
Ne hai, ne hai, pilorci con mattana,
Al can la tigna, egli è mazzamarrone;
nella quale sono le migliaja de' vocaboli, motti, proverbj,
e riboboli, che a quel tempo usavano in Firenze, e oggi
de' cento non se ne intende pur uno. C. Oh gran danno, oh che peccato! ma se egli (come
fate ora voi) dichiarati gli avesse, non sarebbe avvenuto
questo. Ma lasciando le doglianze vane da parte, posciaché
io credeva che voi foste al ronne, non che alla zeta, e
voi dite che non sete appena all'a, seguitate il restante, se
vi piace. V. Mettere su uno, o, metterlo al punto, il che si dice
ancora metterlo al curro, è instigare alcuno, e stimularlo
a dovere dire, o fare alcuna ingiuria, o villania, dicendogli
il modo come e' possa, e debba o farla, o dirla; il che
si chiama generalmente, commetter male tra l'uno uomo,
e l'altro, o parenti, o amici che siano, il qual vizio, degno
piuttosto di castigo che di biasimo, sprimevano i Latini
con voce sola, la quale era committere; e, come si dice,
mettere ingrazia alcuno, cioè fargli acquistare la benevolenza,
e il favore d'alcun gran maestro, con lodarlo, e dirne
bene: così si dice, metter in disgrazia, e, far cadere di
collo alcuno, mediante il biasimarlo, e dirne male; onde
d'un commettimale, il quale sotto spezie d'amicizia vada
ora riferendo a questi, e ora a quelli, si dice, egli è un teco
meco. C. A questo modo non hanno i Toscani verbo proprio
che significhi con una voce sola quello, che i Latori
dicevano committere? V. Lo possono avere, ma io non me ne ricordo, anzi
l'hanno, e me ne avete fatto ricordare ora voi, ed è,
scommettere, perché Dante disse:
A quei che scommettendo acquistan carco.
Tor su, o tirar su alcuno, il che si dice ancora levare
a cavallo, è dire cose ridicole, e impossibili, e volere
dargliele a credere per trarne piacere, e talvolta utile;
come fecero Bruno, e Buffalmacco a maestro Simone
da Vallecchio, che stava nella via del Cocomero, e più
volte al povero Calandrino, onde nacque, che quando
alcuno dubita, che chicchessia non voglia giostrarlo, e
fargli credere una cosa per un'altra, dice: tu mi vuoi far
Calandrino, e talvolta il Grasso legnajuolo, al quale fu
fatto credere, che egli non era lui, mia diventato un altro.
Tirar di pratica si dice di coloro, i quali ancoraché non
sappiano una qualche cosa, ne favellano non dimeno così
risolutamente, come se ne fossino maestri, o l'avessero
fatta co' piedi, e demandati di qualche altra, rispondono,
senza punto pensarvi, o sì, o no, come vien lor bene,
peggio di coloro, i quali se venisse lor fatto d'apporsi,
o di dare in covelle, tirano in arcata colla lingua.
Quando alcuno aveva in animo, e poco meno che
aperte le labbra per dover dire alcuna cosa, e un altro
la dice prima di lui, cotale atto si chiama furar le mosse, o
veramente rompere l'uovo in bocca, cioè torre di bocca, il
che i Latini dicevano antevertere, e alcuni usano, non tu
m'hai, furato le mosse, e tu me l'hai tolto di bocca, ma tu
me l'hai vinta del tratto, e alcuni, tu m'hai rotto la parola
in bocca, e alcuni tagliata, il che pare piuttosto convenire
a coloro, che mozzano altrui; e interrompono il favellare.
Annestare in sul secco, o dire di secco in secco, si dice
d'uno il quale, mancandogli materia, entra in ragionamenti
diversi da' primi, e fuori di proposito, come dire:
quante ore sono? Che si fa in villa? Che si dice del Re
di Francia? Verrà quest'anno l'armata del Turco? e altre
così fatte novelle.
Tirare gli orecchi a uno significa riprenderlo, o ammonirlo,
cavato da' Latini, che dicevano vellere aurem: dicesi
ancora riscaldare gli orecchi: dicesi ancora zufolare,
o soffiare negli orecchi ad uno, cioè parlargli di segreto, e
quasi imbecherarlo.
Mettere troppa mazza, si dice d'uno il quale in favellando
entri troppo addentro, e dica cose, che non ne vendano gli speziali, e insomma che dispiacciano, onde corra
rischio di doverne essere o ripreso, o gastigato: dicesi
ancora mettere troppa carne a fuoco.
Spacciare pel generale, si dice di coloro che demandati,
o richiesti d'una qualche cosa, rispondono finalmente
senza troppo volersi ristrignere, e venire, come si dice,
a' ferri.
Quando uno si sta ne'suoi panni, senza dar noja a persona,
e un altro comincia per qualche cagione a morderlo,
e offenderlo di parole, se colui è uomo da non si lasciare
malmenare, e bistrattare, ma per rendergli, come
si dice, i coltellini, s'usa dire: egli stuzzica il formicajo, le
pecchie, o sì veramente, il vespaio, che i Latini dicevano
irritare crabrones. Dicesi ancora: egli desta, o sveglia il
can che dorme; e' va cercando maria per Ravenna; egli ha
dato in un ventuno, ovvero nel bargello, e talvolta egli invita
una mula Spagnuola a i calci, e più propriamente, e'
gratta il corpo alla cicala.
Sfidare è il contrario d'affidare, e significa due cose;
prima quello, che i Latini dicevano desperare salutem,
con due parole, onde d'uno infermo, il quale, come dice
il volgo, sia via là, via là, o a'confitemini, o al pollo pesto,
o all'olio santo, o abbia male, che 'l prete ne goda, s'usa
dire: i medici l'hanno sfidato; e poi quello, che io non so
come l Latini se 'l dicessero, se non indicere bellum, onde
trasse il Bembo:
Quella che guerra a' miei pensieri indice.
cioè sfidare a battaglia, e come si dice ancora dagli Italiani,
ingaggiar battaglia, o ingaggiarsi, o darsi il guanto della
battaglia.
Rincorare, che Dante disse incorare, e gli antichi dicevano
incoraggiare, è fare, o dare animo, cioè inanimare, o
inanimire uno, che sia sbigottito, quasi rendendoli il cuore; dicesi ancora: io mi rinquoro, cioè i 'l ripiglio cuore, e
animo di far la tal cosa, o la tale. C. Non si potrebbono queste cose, che voi avete detto,
e dite, ridurre con qualche regola sotto alcun capo, affinché
non fossero il pesce pastinaca, e più agevolmente si
potessero così mandare, come ritenere nella memoria? V. Io credo di sì, da chi non avesse altra faccenda, e
volesse pigliare questa briga non so se disutile, ma certo
non necessaria. C. Vogliam noi provare un poco, benché io credo, che
noi ce ne siamo avveduti tardi? V. Proviamo (che egli è meglio ravvedersi qualche
volta, che non mai, e ancora non è tanto tardi, quanto
voi per avventura vi fate a credere) se alcuno sapesse, e
potesse raccontare di questa materia quello che sapere, e
raccontare se ne può. C. Che? Cominciereste dall'a, b, c, e seguitereste per
l'ordine dell'alfabeto? V. Piuttosto piglierei alcuni verbi generali, e sotto
quelli, come i soldati sotto le loro squadre, ovvero bandiere,
gli riducerei, e ragunerei. C. Deh provatevi un poco, se Dio vi conceda tutto
quello, che desiderate. V. Chi potrebbe, non che io, che vi sono tanto obbligato,
negarvi cosa nessuna? Pigliamo, esempigrazia, il
verbo Fare, e diciamo, senza raccontare alcuno di quelli
che fino a quì detti si sono, in questa maniera.
Far parole è quello che i Latini dicevano, facere verba,
cioè favellare.
Far le parole, che si dice ancora con verbo Latino concionare,
onde concione, è favellare distesamente sopra alcuna
materia, come si fa nelle compagnie, e massimamente
di notte, il che si chiama propriamente fare un sermone;
e nelle nozze quando si va a impalmare una fauciulla,
e darle l'anello, che i notai fanno le parole.
Far le belle parole a uno, è dirgli alla spianacciata, e a
lettere di scatola, ovvero di speziali, come tu l'intendi, e
aprirgli senza andirivieni, o giri di parole, l'animo tuo di
quello, che tu vuoi fare, o non fare, o che egli faccia, o
non faccia.
Fare le paroline, è dar soje, e caccabaldole o per ingannare,
o per entrare in grazia di chicchessia: dicesi eziandio
fare le parolozze.
Fare una predica, ovvero uno sciloma, o ciloma ad
alcuno, è parlargli lungamente o per avvertirlo d'alcuno
errore, o persuaderlo a dover dire, o non dire, fare, o non
fare alcuna cosa.
Far motto, è tolto da' Provenzali, che dicono far buon
motti, cioè dire belle cose, e scrivere leggiadramente,
ma a noi questo nome motto significa tutto quello che
i Latini comprendono sotto questi due nomi, joci, e
dicterii, e i Greci sotto questi altri due, scommati, e
apotegmati. Fare, o, toccare un motto d'alcuna cosa, è
favellarne brevemente, e talvolta fare menzione. Far
motto ad alcuno significa o andare a casa sua a trovarlo
per dimandargli se vuole nulla, o riscontrandolo per la
via salutarlo, o dirgli alcuna cosa succintamente. Fare
un mottozzo significa fare una ribaldera, cioè festoccia, e
allegrezza di parole. Non far motto significa il contrario,
e talora si piglia per tacere, e non rispondere, onde il
Petrarca:
Talor risponde, e talor non fa motto.
A motto a motto dicevano gli antichi, cioè, a parola a
parola, o di parola in parola; e fare, senza altro, significa
alcuna volta dire, come Dante:
Che l'anima col corpo morta fanno.
Far le none, non può dichiararsi se non con più parole,
come per cagion d'esempio: se alcuno dubitando, che
chicchessia nol voglia richiedere in prestanza del suo cavallo,
il quale egli prestare non gli vorrebbe, cominciasse,
prevenendolo, a dolersi con esso lui, che il suo cavallo
fosse sferrato, o pigliasse l'erba, o avesse male a un pié,
e colui rispondesse, non accade, che tu mi faccia o suoni
questa nona.
Far uscire uno, è ancorach'ei s'avesse presupposto di
non favellare, frugarlo, e punzecchiarlo tanto colle parole,
e dargli tanto di quà, e di là, che egli favelli, o che egli
parli alcuna cosa.
Fare una bravata, o tagliata, o uno spaventacchio, o un
sopravvento, non è altro, che minacciare, e bravare; il che
si dice ancora, squartare, e fare una squartata.
Far le forche, è sapere una cosa, e negare, o infingersi
di saperla, o biasimare uno per maggiormente lodarlo, il
che ti dice ancora far le lustre, e talvolta le marie.
Far peduccio, significa ajutare uno colle parole, dicendo
il medesimo che ha detto egli, o faccendo buone,
e fortificando le sue ragioni, acciocché egli consegua
l'intento suo.
Fare un cantar di cieco, è fare una tantaferata, o cruscata,
o cinforniata, o fagiolata, e insomma una filastroccola
lunga lunga, senza sugo, o sapore alcuno.
Fare il caso, o alcuna cosa leggiere, è dire meno di
quello, che ella è; come fanno molte volte i medici, per
non isbigottire li ammalati.
Farsi dare la parola da uno, è farsi dare la commessione
di poter dire, o fare alcuna cosa, o sicurare alcuno che
venga sotto le tue parole, cioè senza tema di dovere
essere offeso.
Quando si toglie su uno, e fassegli o dire, o fare alcuna
cosa che non vogliano fare gli altri, si dice: farlo il messere,
il corrivo, il cordovano, da ribuoi, e generalmente, il
goffo, e fra Fazio; e tali si chiamano corribi, e cordovani, e
spesso, pippioni, o cuccioli.
Fare orecchi di mercante, significa lasciar dire uno, e
far le viste di non intendere.
Far capitale delle parole d'alcuno, è credergli ciò che
promette, e avere animo ne' suoi bisogni di servirsene.
Quando si mostra di voler dare qualche cosa a qualcuno,
e fargli qualche rilevato benefizio, e poi non se gli
fa, si dice avergli fatta la cilecca, la quale si chiama ancora
natta, e talvolta, vescica, o giarda.
Fare fascio d'ogni erba, tratto da quelli che segano i
prati, o fanno l'erba per le bestie, si dice di coloro i quali
non avendo elezione, o scelta di parole nel parlare, o
nello scrivere, badano a porsu, e attendono a impiastrar
carte; e di questi, perché tutte le maniere di tutti i parlari
attagliano loro, si suol dire che fanno come la piena, la
quale si caccia innanzi ogni cosa, senza discrezione, o
distinzione alcuna.
Far delle sue parole fango, è venir meno delle sue
parole, e non attenere le sue promesse.
Fare il diavolo, e peggio, è quando altri avendo fatto
capo grosso, cioè adiratosi, e sdegnatosi con alcuno, non
vuole pace, né tregua, e cerca o di scaricar sé, o di
caricare il compagno con tutte le maniere, che egli sa, e
può; e molte volte si dice per beffare alcuno, mostrando
di non temerne.
Fare lima lima a uno, è un modo d'uccellare in questa
maniera: chi vuole dileggiare uno, fregando l'indice della
mano destra in sull'indice, della sinistra verso il viso di
colui, gli dice lima lima, aggiugnendovi talvolta, mocceca,
o, moccicone, o altra parola simile, come baggea, tempione,
tempie grasse, tempie sucide, benché la plebe dice
sudice.
Fare le scalee di Santo Ambrogio, significa dir mal
d'uno in questo modo, e per questa cagione: ragunavansi,
non sono mille anni passati, la sera di state per pigliare il fresco una compagnia di giovani, non a' marmi in su
le scalee di Santa Maria del Fiore, ma in su quelle di Santo
Ambrogio, non lungi dalla porta alla Croce, e quivi
passando il tempo, e il caldo, facevano lor cicalecci, ma
quando alcuno di loro si partiva, cominciavano a leggere
in sul suo libro, e rinvenire se mai avea detto, o fatto cosa
alcuna biasimevole, e che non ne vendesse ogni bottega,
e insomma a fare una ricerca sopra la sua vita; onde
ciascuno, perché non avessono a caratarlo, voleva esser
l'ultimo a partirsi: e di quì nacque che quando uno si
parte da qualche compagnia, e non vorrebbe restar loro
in bocca, e fra' denti, usa dire: non fate le scalee di Santo
Ambrogio.
Far tener l'olio a uno, o farlo filare, o stare al filatojo,
significa per bella paura farlo star cheto: dicesi alcuna
volta fare stare a stecchetto; benché questo significa piuttosto
fare stare a segno, e quello che i Latini dicevano
cogere in ordinem. C. Non avete voi altri verbi, che questi da usare,
quando volete che uno stia cheto? V. Abbiamne, ma io vi raccontava solamente quelli,
che vanno sotto la lettera f, e che io penso che vi siano
manco noti; perché noi abbiamo tacere, come i Latini, e
ancor diciamo, non far parole, e non far motto, non alitare,
e non fiatare, non aprir la bocca, chiudila, sta zitto,
il quale zitto, credo che sia tolto da' Latini, i quali quando
volevano che alcuno stesse cheto, usavano profferire
verso quel tale queste due consonanti st, quasi, come diciamo
noi zitto. E quello, che i Latini volevano significare,
quando sopraggiugneva uno del quale si parlava non
bene, onde veniva a interrompere il loro ragionamento,
e fargli chetare, cioè lupus est in fabula, si dice dal volgo
più brevemente, zoccoli; e non volendo, a maggior cautela,
per non esser sentiti, favellare, facciamo come fece
Dante nel veutesimoquinto canto del Purgatorio, quando,
di sé medesimo parlando, disse:
Mi posi il dito su dal mento al naso.
O come disse nel ventesimoprimo canto del Purgatorio:
Volse Vergilio a me queste parole
Con viso che tacendo dicea: taci.
Solemo ancora, quando volemo essere intesi con cenni
senza parlare, chiudere un occhio, il che si chiama far
d'occhio, ovvero, fare l'occhiolino, che i Latini dicevano
nictare, cioè accennare cogli occhi, il che leggiadramente
diciamo ancora noi con una voce sola, usandosi ancora
oggi frequentemente il verbo ammiccare in quella stessa
significazione che l'usò Dante, quando disse nel ventesimoprimo
canto del Purgatorio:
Io pur sorrisi, come l'uom ch'ammicca.
Non già che abbiamo da potere sprimere con una noce
sola quello che i Latini dicevano connivere, cioè fare le
viste, o infingersi di non vedere, e proverbialmente far
la gatta di Masino. Queste cose vi siano per un poco
d'esempio. Pigliamo ora il verbo dare, il quale è generale
anch'egli. Dicesi dunque:
Dar parole, cioè trattenere, e non venire a' fatti, cavato
da' Latini, che dicevano dare verba, e lo pigliavano per
ingannere: dicesi ancora dar paroline, o buone parole,
come fanno coloro, che si chiamano rosajoni da damasco,
onde nacque quel proverbio plebeo: dà buone parole, e
friggi.
Dare una voce, significa chiamare: Dar mala voce,
biasimare: Dare in sulla voce, sgridare uno, acciocché
egli taccia: Avere alcuno mala voce, è quello, che i Latini
dicevano male audit, cioè essere in cattiva concetto, e
predicamento.
Dar pasto, è il medesimo, che dar panzane, e paroline,
per trattenere chicchessia.
Dar cartacce, metafora presa da' giucatori, è passarsi
leggiermente d'alcuna cosa, e non rispondere a chi ti
domanda, o rispondere meno che non si conviene a chi
t'ha o punto, o dimandato d'alcuna cosa; il che si dice
ancor dar passata, o dare una stagnata, e talvolta, lasciare
andare due pani per coppia, o dodeci danari al soldo; come
fanno coloro che con vogliono ripescare tutte le secchie,
che caggiono ne' pozzi.
Dar le carte alla scoperta, significa dire il suo parere,
e quanto gli occorre liberamente senza aver rispetto, o
riguardo ad alcuno, ancoraché fosse alla presenza.
Dare una sbrigliata, ovvero sbrigliatura, è dare alcuna
buona riprensione ad alcuno per raffrenarlo, il che si
dice ancora fare un rovescio, e cantar a uno la zolfa, o
il vespro, o il mattutino, o risciacquargli il bucato, o dargli
un gratacapo.
Dare in brocco, cioè nel segno, ovvero berzaglio ragionando,
è apporsi, e trovare le congenture, o toccare il
tasto, o pigliare il nerbo della cosa.
Dar di becco in ogni cosa, è voler fare il saccente, e il
satrapo, e ragionando d'ogni cosa, farne il Quintiliano, o
l'Aristarco.
Dar del buono per la pace, è favellare umilmente, e
dir cose, mediante le quali si possa comprendere che
alcuno cali, e voglia venire agli accordi; quasi come usano
i fanciulli quando scherzando, fanno la via dell'Agnolo,
cioè danno un poco di campo, acciò si possa scampare.
Dare in quel d'alcuno, ovvero dove gli duole, significa
quello che Dante disse:
Sì mi dié dimandando per la cruna
Del mio desio, e C.
cioè dimandare appunto di quelle cose, o mettere materia
in campo, che egli desiderava, e aveva caro di sapere,
onde s'usa dire: costì mi cadde l'ago.
Dar bere una cosa ad alcuno, è fargliele credere; onde
si dice bersela, e, il tale se l'ha beuta, o fatto le viste di
bersela.
Dare il suo maggiore, tolto dal giuoco de' germini,
ovvero de' tarocchi, nel quale sono i trionfi segnati col
numero, è dire quanto alcuno poteva, e sapeva dire il più,
in favore, o disfavore di chicchessia; e perché le trombe
sono il maggiore de' trionfi del passo, dar le trombe, vuol
dire fare l'ultimo sforzo.
Dare il vino, è quello stesso che subornare, ovvero
imbecherare, il che si dice ancora imbiancare.
Dar seccaggine, significa infastidire, o torre il capo
altrui col gracchiare, il che i Latini significano col verbo
obtundere: dicesi ancora, tu mi infracidi; tu m'hai fracido,
benché gli idioti dicono fradicio; tu m'hai secco; tu m'hai
stracco; tu m'hai tolto gli orecchi, e in altri modi, de quali
ora non mi sovviene.
Dare una borniola, è dire il contrario di quello che è,
e si dice propriamente d'uno il quale, avendo i giucatori
rimessa in lui, e fattolo giudice d'alcuna lor differenza, dà
il torto a chi ha la ragione, o la ragione a chi ha il torto;
come quando nel giuoco della palla alcuno dice, quello
esser fallo, o rimando, il quale non è.
Dar fuoco alla bombarda, è cominciare a dir male
d'uno, o scrivere contra di lui, il che si dice cavar fuora il
limbello.
Dar nel fango, come nella mota, è favellare senza distinzione,
e senza riguardo, così degli uomini grandi, come
de' piccioli.
Dar le mosse a' tremoti, si dice di coloro senza la
parola, e ordine de' quali non si comincia a metter mano,
non che spedire cosa alcuna; il che si dice ancora, dar
l'orma a' topi, ed esser colui che debbe dar fuoco alla
girandola.
Dar che dire alla brigata, è fare, o dire cosa, mediante la
quale la gente abbia occasione di favellare sinistramente;
che i Latini dicevano dare sermonem: e talvolta, far bella
la piazza, che i medesimi Latini dicevano designare.
Dare il gambone a chicchessia, è quando egli dice, o
vuol fare una cosa, non solamente acconsentire, ma lodarlo,
e insomma mantenerlo in sull'oppenione, e prosopopea
sua, e dargli animo a seguitare.
Dare una bastonata a uno, è dire mal di lui sconciamente,
e tanto più se vi s'aggiugne, da ciechi.
Dare favellando nelle scartate, è dire quelle cose che si
erano dette prima, e che ognuno si sapeva.
Dare a traverso, significa dire tutto il contrario di
quello, che dice un altro, e mostrare sempre d'aver per
male, e per falso tutto quello, che egli dice.
Dare in sul viso, quando favella, e massimamente se
egli uccella a civetta, cioè si va colle parole procacciando
ch'altri debba ripigliarlo, è dir di lui senza rispetto il
peggio che l'uomo sa, e può, e toccarlo bene nel vivo,
quasi facendogli un frego.
Dare appicco, è favellare di maniera ad alcuno, che
egli possa appiccarsi, cioè pigliare speranza di dover
conseguire quello che chiede; onde di quelli che hanno
poca, o nessuna speranza, si dice: e' si appiccherebbono
alla canna, ovvero alle funi del cielo, come chi affoga,
s'attaccherebbe a' rasoj.
Dar nel buono, significa due cose: la prima, entrare in
ragionamenti utili, o proporre materie onorevoli: la seconda,
in dicendo l'oppenione sua d'alcuna cosa allegarne
ragioni almeno probabili, e che possano reggere, se
non più, a quindici soldi per lira, al martello, e in somma
dir cose che battano, se non nel vero, almeno nel verisimile.
Dar la lunga, è mandar la bisogna d'oggi in dimane, o,
come si dice, a cresima, senza spedirlo.
Dare, o, vender bossoletti, tratto (penso) da' ciurmadori,
è vendere vesciche per palle grosse, o dar buone parole,
e cattivi fatti; la qual cosa, come dice il proverbio,
inganna non meno i savj, che i matti.
Dare una battisoffiola, o, cusoffiola ad alcuno, è dirgli
cosa, o vera, o falsa, mediante la quale egli entri in
sospetto, o in timone d'alcuno danno, o vergogna, e per
non istare con quel cocomero in corpo, sia costretto a
chiarirsi.
Darla a mosca cieca, da un gioco che fanno i fanciulli,
nel quale si turano gli occhi con una benda legata al capo
e dire senza considerazione, o almeno rispetto veruno di
persona tutto quello che alcuno vuol dire, e zara a chi
tocca.
Dar giù, ovvero, del ceffo in terra, è quello proprio che
i Latini dicevano oppetere, cioè cadere col viso innanzi,
e daredella bocca in terra, e lo pigliavano per morire:
nondimeno in Firenze si dice non solo de' mercatanti
quando hanno tratto ambassi in fondo, cioè quando sono
falliti, e di quelli cittadini, o gentiluomini i quali, come
si dice in Vinegia, sono scaduti, cioè hanno perduto il
credito nell'universale, ma ancora di quelli spositori i
quali interpretando alcun luogo d'alcuno autore, non
s'appongono, ma fanno, come si dice, un marrone, o
pigliano un ciporro; ovvero, un granchio, e talvolta, per
iperbola, una balena.
Dare il pepe, ovvero le spezie, è un modo per uccellare,
o sbeffare alcuno, e si faceva, quando io era giovanetto,
per tutto Firenze da' fattori in questo modo: chi voleva
uccellare alcuno, se gli arrecava di dietro, affinché egli,
che badava a' casi suoi, nol vedesse, e accozzati insieme
tutti e cinque i polpastrelli, cioè le sommità delle dita,
(il che si chiama Fiorentinamente far pepe, onde nacque
il proverbio, tu non faresti pepe di Luglio) faceva della
mano come un becco di grù, ovvero di cicogna, poi gli
dimenava il gomito con quel becco sopra 'l capo, come
fanno coloro che col bossolo mettono o del pepe, o delle
spezie in sulle vivande; la qual maniera di schernire altrui
avevano ancora i Latini, come si vede in Persio, quando
disse.
O Jane, a tergo quem nulla ciconia pinxit.
Usavasi ancora in quel tempo un'altra guisa d'uccellare
ancora peggiore di questa, e più plebea, la quale si chiamava,
far ti ti, in questo modo: colui che voleva schernire,
anzi offendere gravissimamente alcuno, pronosticandogli
in cotale atto, che dovesse essere impiccato, si metteva
la mano quasi chiusa, in un pugno alla bocca, e per
essa a guisa di tromba diceva forte, talché oguno poteva
udire, due volte, ti; tratto da una usanza la quale oggi è
dismessa, perché si soleva, quando una giustizia era condotta
in cima delle forche per doversi giustiziare, in quella
che il manigoldo stava per dargli la pinta, sonare una
tromba, cioè farla squittire due volte, l'una dopo l'altra,
un suono somigliante a questa voce, ti ti. Pigliamo ora il
verbo stare, e diciamo che
Stare a bocca aperta, significa quello che Virgilio spresse
nel primo verso del secondo libro dell'Eneida:
Conticuere omnes, intentique ora tenebant.
e poco di sotto favellando di Didone:
. . . . . . Pendetque iterum narrantis ab ore.
Stare a bocca chiusa, si dichiara da se medesimo.
Stare sopra sé, ovvero, sopra di sé, è un modo di
dubitare, e di non voler rispondere senza considerazione,
la qual cosa i Latini, e spezialmente i Giureconsulti, a cui
più toccava, che agli altri, dicevano haeligrere, e talvolta
col suo frequentativo, haeligsitare.
Stare in sul grande, in sul grave, in sul severo, in
sull'onorevole, in sulla riputazione, e finalmente in sul
mille, significano quasi una cosa medesima, cioè così col
parlare, come coll'andare tenere una certa gravità conveniente
al grado, e forse maggiore; il che si chiama in
Firenze, e massimamente de' giovani, far l'omaccione, e
talvolta fare il grande: e di questi tali si suol dire ora,
ch'ei gonfiano, e ora, ch'egli sputano tondo, i quali quando
s'ingerivano nelle faccende, ed erano favoriti dello
stato, i quali si chiamavano Repubbliconilarghi in cintura,
si dicevano, toccare il polso al lione, ovvero marzocco;
e quando presentati, o senza presenti si spogliavano in
farsettino per favorire, e ajutar alcuno, come dice la plebe,
a brache calate, si chiamavano, vendere i merli di Firenze,
e quando si valevano dello stato oltra l'ordinario, o
vincevano alcuna provvisione straordinaria, si diceva, e'
la fanno frullare; e quando non riusciva loro alcuna impresa
nella quale si fossero impacciati, e messivi coll'arco
dell'ossa, si diceva tra 'l popolo, e' la fanno bollire e mal
cuocere.
Stare in sulle sue, è guardare che alcuno, quando ti
favella, o tu a lui, non ti possa appuntare, e parlare, e
rispondere in guisa che egli non abbia onde appiccarti
ferro addosso, e pigliarti (come si dice) a mazzacchera,
o giugnerti alla schiaccia. Usasi ancora nella medesima
significazione, stare all'erta, e, stare in sul tirato, e non si
lascia intendere.
Stare coll'arco teso, si dice, d'uno, il quale tenga gli
orecchi, e la mente intenti a uno che favelli per corlo, e
potergli apporre qualche cosa, o riprovargli alcuna bugia,
non gli levando gli occhi da dosso per farlo imbiancare,
o imbianchire, o rimanere bianco, il che oggi si dice,
con un palmo di naso.
Star sodo alla macchia, ovvero al macchione, è non uscire
per bussare ch'uom faccia, cioè lasciare dire uno quanto
vuole, il qual cerchi cavarti alcun segreto di bocca, e
non gli rispondere, o rispondergli di maniera che non
sortisca il disiderio suo, egli venga fallito il pensiero, onde
conosca di gettar via le parole, e il tempo, onde si levi
da banco, ovvero da tappeto, senza dar più noja, o ricadia,
e torre, o spezzare il cervello a sé, e ad altri; e questi
tali che stanno sodi al macchione, si chiamano ora formiche
di sorbo, e quando, cornacchie da campanile. Dicesi
ancora quasi in un medesimo significato, stare in sul noce,
il che è proprio di coloro che temendo di non esser
presi per debito, o per altra paura, stanno a Bellosguardo,
e non ardiscono spassegiare l'ammatonato, cioè capitare
in piazza, che i Latiui dicevano abstinere publico; e
di coloro che hanno cattiva lingua, e dicon male volentieri,
si dice: egli hanno mangiato noci, benché il volgo dica,
noce; e, mangiar le noci col mallo, si dice di quelli che
dicono male, e cozzano con coloro i quali fnno dir male
meglio d'essi, dimanieraché non ne stanno in capitale,
anzi ne scapitano, e perdono in digrosso, e questi tali
maldicenti si chiamano a Firenze male lingue, linguacce,
lingue fracide, e lingue serpentine, e, lingue tabane,
con meno infame vocabolo, sboccati, linguacciuti, mordaci,
latini di bocca, e aver la lingua lunga, o, appuntata, o,
velenosa.
Quando alcuno dimandato d'alcuna cosa, non risponde
a proposito, si suol dire Albanese messere, o io sto co'
frati, o tagliaronsi di Maggio, o veramente Amore ha nome
l'oste.
Quando alcuno ci dimanda alcuna cosa, la quale non
ci piace di fare, lo mandiamo alle birbe, o, all'isola pe'
cavretti.
Quando alcuno per iscusarsi, o gittare la polvere negli
occhi altrui, che i Latini dicevano tenebras offundere,
dice d'aver detto, o fatto, o di voler fare, o dire al
cuna cosa per alcuna cagione, e ha l'animo diverso dalle
parole, s'usa, per mostrarli che altri conosce il tratto,
e che la ragia è scornata, dirgli: più su sta mona Luna,
da un giuoco che i fanciulli, e le fanciulle facevano già in
Firenze; e se ha detto, o fatto quella tal cosa, gli rispondiamo,
tu me l'hai chiantata, o, calata, o appiccata, o fregata.
Potrebbesi ancora pigliare il verbo proprio, e dire
non mica tutte le metafore, perché sono infinite, ma parte;
perché favellare colle mani, significando dare, è cosa
da bravi, onde si chiamano maneschi: Favellere colla bocca
piccina, è favellare cautamente, e con rispetto, e andare,
come si dice, co' calzari del piombo: Favellare senza
barbazzale; il che i Greci dicevano, con maggior traslazione,
senza briglia, è dire tutto quello che più ti piace,
o torna bene, senza alcun risguardo, e, come dice il
volgo, alla sbarcata: Favellare senza animosità, è dire il
parer suo senza passione: Favellare in aria, senza fondamento:
Favellare in sul saldo, o di sodo, consideratamente,
e da senno, e, come dicevano i Latini, extra jocum,
cioè fuor di baja: Favellare in sul quamquam, gravemente,
e con eloquenza: Favellare all'orecchie, di segreto: Favellare
per cerbottana, per interposta, e segreta persona:
Favellare per lettera, che gli idioti, o chi vuole uccellare,
dicono per lettiera, è favellare in grammatica, o, come dicono
i medesimi, in gramuffa; e si dice Favellare Fiorentino,
in Fiorentino, alla Fiorentina, e Fiorentinamente, e
così nella lingua, nel linguaggio, nell'idioma, nella favella,
o nella parlatura, o nel volgare Fiorentino, o di Firenze,
o di Fiorenza: Favellare come gli spiritati, è favellare
per bocca d'altri: Favellare come i pappagalli, non intendere
quello che altri favella: Favellare come Papa scimio,
dire ogni cosa a rovescio; cioè il sì nò, e 'l nò sì: Favellare
rotto, cincischiato, onde si dice ancora cincischiare, e
addentellato, il che è proprio degli innamorati, o di coloro
che temono; è quello che Vergilio nel quarto libro
dell'Eneida favellando di Didone disse:
Incipit efferi, mediaque in voce resistit.
Favellare a caso, o a casaccio, o a fata, o al bacchio, o
a vanvera, o a gangheri, o alla burchia, o finalmente alla
carlona, e talvolta favellare naturalmente è dirla come ella
viene, e non pensare a quello, che si favella, e (come si
dice) soffiare, e favellare: Favellare a spizzico, a spilluzzico,
a spicchio, e a miccino, è dir poco, e adagio, per non
dir poco, e male; come si dice del pecorino Dicomano.
Di quelli che favellano, o piuttosto cicalano assai, si dice:
egli hanno la lingua in balìa; la lingua non muore, o non
si rappallozzola loro in bocca, o e' non ne saranno rimandati
per mutoli: come di quelli che stanno musorni: egli
hanno lasciato la lingua a casa, o al beccajo; e' guardano il
morto; o egli hanno fatto come i colombi del Rimbussato,
cioè perduto 'l volo.
D'uno che favella, favella, e favellando, favellando con
lunghi circuiti di parole aggira sé, e altrui, senza venire
a capo di conclusione nessuna, si dice: e' mena 'l can
per l'aja: e talvolta, e' dondola la mattea; e' non sa tutta
la storia intera, perché non gli fu insegnato la fine; e a
questi cotali si suol dire: egli è bene spedirla, finirla,
liverarla, venirne a capo, toccare una parola della fine; e,
volendo che si chetino, far punto, far pausa, soprassedere,
indugiare, serbare il resto a un'altra volta, non dire ogni
cosa a un tratto, serbare che dire.
D'uno il quale ha cominciato a favellare alla distesa, o
recitare un'orazione, e poi temendo, o non si ricordando,
si ferma, si dice: egli ha preso vento, e talvolta, egli è
arrenato. Chi favella gravemente: pesa le parole: chi non
favella, o poco, le parole pesano a lui: chi favella di quelle
cose delle quali è interdetto il favellare, mette la bocca,
o la lingua dove non debbe: chi favella più di quello
che veramente è, e aggiugne qualcosa del suo, si chiama
mettere di bocca: coloro che favellano a quelli, i quali
non gl'intendono, o s'infingono di non intendergli, si
dicono, predicare a' porri: quelli i quali, quando alcuno
favella loro, non hanno l'animo quivi, e pensano a ogni
altra cosa che a quella che dice colui, si chiamano porre,
ovvero piantare una vigna: di quelli che si beccano il
cervello, sperando vanamente che una qualche cosa debba
loro riuscire, e ne vanno cicalando quì, e quà, si dice
che fanno come 'l cavallo del Ciolle, il quale si pasceva
di ragionamenti; come le starne di monte Morello di rugiada.
Chi in favellando ha fatto qualche scappuccio, e
gli è uscito alcuna cosa di bocca, della quale vien ripreso,
suole a colui che lo riprende, rispondere: Chi favella
erra; egli erra il prete all'altare; e' cade un cavallo, che ha
quattro gambe: chi favella sine fine dicentes, e dice più
cose che non sono i beati Pauli, è in uso di dire e' vincerebbe
il palio di Santo Ermo, il quale si dava a chi più
cicalava; e di simili gracchioni si dice ancora: e' terrebbe
l'invito del diciotto, o, egli seccherebbe una pescaja, o
e' ne torrebbe la volta alle cicale, o e' ne rimetterebbe chi
trovò il cicalare: chi nel favellare dice o per ira, o per altro,
quello che il suo avversario, aspettando il porco alla
quercia, gli voleva far dire, si chiama, infilzarsi da sé
a sé: quando le cose delle quali si favella, non ci compiacciono,
o sono pericolose, s'usa dire, perché si muti
ragionamento, ragioniam d'Orlando, o parliamo di Fiesole,
o favelliamo de' moscioni, o come dicono i volgari che
disse Santo Agostino a' ranocchi, non tuffemus in acqua
turba. Portare a cavallo si dicono coloro, i quali essendo
in cammino, fanno con alcuno piacevole ragionamento,
che' il viaggio non rincresca; ma bisogna avvertire che il
cavallo di questi tali non sia di quella razza che trottino,
e come quello che racconta il Boccaccio, perciocché allora
è molto meglio andare a pié, come fece prudentemente
Madonna Oretta, moglie di messer Geri Spina. Anco
i Latini dicevano in questa sentenza: Comes facundus
in itinere pro vehiculo est. Sogliono alcuni, quando favellano,
usare a ogni pié sospinto, come oggi s'usa: sapete; in effetto; ovvero, in conclusione: altri dicono: che è,
che non è, o l'andò, e la stette, altri, dalla, che le desti, o
cesti, e canestri; altri scappati la mano; e alcuni scasimodeo;
e chi ancora chiacchi bichiacchi; onde d'un ceriuolo,
o chiappolino, il quale non sappia quello che si peschi,
né quante dita s'abbia nelle mani, e vuol pure dimenarsi
anch'egli per parer vivo, o guizzare per non rimanere
in secco, andando a favellare ora a questo letterato,
o mercante, e quando a quell'altro si dice: egli è un
chicchi bichicchi, e non sa quanti piedi s'entrano in uno
stivale. Questi tali foramelli, e tignosuzzi, che vogliono
contrapporsi a ognuno, si chiamano ser saccenti, ser sacciuti,
ser contraponi, ser vinciguerra, ser tuttesalle, dottori
sottili, nuovi Salamoni, Aristarchi, o Quintiliani salvatichi;
e perché molte volte si danno de' pensieri del Rosso,
si chiamano ancora accattabrighe, beccalite, e pizzica
quistioni. Attuare, quando è della prima congiugazione,
non viene da apri tuto, né signifca assicurare, come hanno
scritto alcuni, ma è proprissimo, e bellissimo verbo, il
cui significato non può sprimersi con un verbo solo, perché
è quello che i Latini dicono or sedare, or comprimere,
or retundere, e talvolta extinguere; e usollo il Bocaccio
(sebben mi ricordo) non solo nella novella d'Alibech
due volte, ma ancora nell'ottavo della Teseide, dicendo:
Onde attutata s'era veramente
La polvere, e il fumo, ec.
e Dante, la cui proprietà è meravigliosa, disse nel 26 del
Purgatorio:
Ma poiché furon di stupore scarche,
Lo qual negli alti cor tosto s'attuta.
Ma attutire della quarta congiugazione significa fare
star cheto contra sua voglia uno, che favelli, o colle
minacce, o colle busse. Quando due favellano insieme, e
uno di loro o per non avere bene inteso, o per essersi
dimenticato alcuna cosa, dice: riditela un'altra volta;
quell'altro suol rispondere: noi non siam più di Maggio. C. Deh fermate uu poco, se vi piace, il corso delle
vostre parole, e ditemi perché cotesto detto più si dice
del mese di Maggio, che degli altri; se già questa materia
non v'è, come mi par di conoscere, venuta a fastidio. V. La lingua va dove 'l dente duole; ma che debbo io
rispondere alla vostra dimanda, se non quello che dicono
i Volgari medesimi? cioè, perché di Maggio ragghiano gli
asini. Ma come voi avete detto, io vorrei oggimai uscire
di questo gineprajo, che dubito di non essere entrato nel
pecoreccio, e venire a cose di più sugo, e di maggiore
nerbo, e sostanza, che questue fanfaluche non sono. C. Se voi ragionate per compiacere a me, come voi
dite, o come io credo, non vi dia noja, perché coteste
sono appunto quelle fanfaluche che io disidero di sapere,
perciocché queste cose, le quali in sui libri scritte non
si ritrovano, non saperrei io per me donde poterlemi
cavare. V. Non d'altronde, se non da coloro, i quali l'hanno in
uso nel lor parlare, quasi di natura. C. E chi son costoro? V. Il senato, e 'l Popolo Fiorentino. C. Dunque in Firenze oggi s'intendono le cose, che voi
avete dette?
V E si favellano, che è più là, non dico da' fattori de'
barbieri, e de' calzolaj, ma da ciabattini, e da' ferravecchi,
che non pensaste ch'io me le fossi succiate dalle dita,
o le vi volessi vendere per qualche grande, e nascoso
tesoro; e non è sì tristo artigiano dentro a quelle mura,
che voi vedete (e il medesimo dico de' foresi, e de'
contadini) il quale non sappia di questi motti, e riboboli
per lo senno a mente le centinaja, e ogni giorno, anzi a
ciascuna ora, e bene spesso, non accorgendosene, non
ne dica qualch'uno. Più vi dirò, che se la mia fante ci
udisse ora ragionare, non istate punto in dubbio, che
ella maravigliandosi tra sé, e faccendo le stimite, non
dicesse: Guarda cose che quel Cristiano del mio padrone
insegna a quell'uomo, che ne son pieni i pozzi neri, e le
sanno infino a' pesciolini excl sicuramente (direbbe ella)
egli debbe avere poca faccenda, forseché non vi si ficca
drento, e per avventura non bestemmierebbe. Sapete
dunque, se volete, donde possiate impararle. C. E disselo a Margutte, e non a sordo; ma seguiate voi,
se più avete che dire. V. Questa materia è così larga, e abbraccia tante le cose,
che chi volesse contarle tutte, arebbe più faccenda
che non è in un sacco rotto, e gli converrebbe non fare
altro tutta una settimana intera intera; perché ella fa, come
si dice dell'Idra; o per dirlo a nostro modo, come le
ciriege; che si tirano dietro l'una l'altra; pure io, lasciando
indietro infinite cose, m'ingegnerò d'abbreviarla, per
venire, quando che sia, alla fine. Dico dunque che, dire
farfalloni, serpelloni, e strafalcioni, si dice di coloro che
lanciano; raccontando bugie, e falsità manifeste; de' quali
si dice ancora: e' dicono cose che non le direbbe una bocca
di forno; e talvolta mentre favellano, per mostrare di
non le passare loro, si dice: ammannaò, o affastella, che
io lego, o suona, che io ballo. Non fo menzione de' passerotti,
perché la piacevolezza; e la moltitudine loro ricercherebbe
un libro appartato, il che già fu fatto da me
in Venezia, e poi da me, e da Messer Carlo Strozzi arso
in Ferrara. Quando alcuno, per procedere mescolatamente,
e alla rinfusa, ha recitato alcuna orazione la quale
sia stata, come il pesce pastinaca, cioè senza capo, e
senza coda, come questo ragionamento nostro, e in somma
non sia soddisfatta a nessuno, s'usa dire a coloro che
ne dimandano: ella è stata una pappolata, o pippionata, o
porrata, o pastocchia, ovvero pastocchiata, o cruscata, o favata,
o chiacchierata, o fagiolata, o intemerata; e talvolta
una bajaccia, ovvero bajata, una trescata, una taccolata, o
tantaferata, una filastrocca, ovvero filastroccola, e chi dice
zanzaverata, o cinforniata. Quando i maestri voglion
significare che i fanciulli non se le sono sapute, e non ne
hanno detto straccio, usano queste voci: boccata, boccicata,
boccicone, cica, calia, gamba, tecca, punto, tritolo, briciolo,
capello, pelo, scomuzzolo, e più anticamente, e con
maggior leggiadria fiore, cioè punto, come fece Dante,
quando disse:
Mentreché la speranza ha fior del verde.
che così si debbe leggere, e non come si truova in tutti i
libri stampati: è fuor del verde; e, per lo contrario, quando
se le sono sapute: egli l'ha in sulle punte delle dita; e
non ha errato parola; e in altri modi tali: Dire il pan pane,
e dirla fuor fuora è dire la cosa, come ella sta, o almeno
come altri pensa che ella stia, liberamente, e chiamare
la gatta gatta, e non mucia. Dire a uno il padre del
porro, e cantargli il vespro, o il mattutino degli Ermini,
significa riprenderlo, e accusarlo alla libera, e protestargli
quello, che avvenire gli debba, non si mutando. Erano
gli Ermini un convento di Frati, secondoché mi soleva
raccontare mia madre, i quali stavano già in Firenze, e
perché cantavano i divini ufizj nella loro lingua, quando
alcuna cosa non s intendeva, s'usava dire: ella è la zolfa
dagli Ermini. Dire a lettere di scatola, o di speziale, è dire
la bisogna chiaramente, e di maniera che ognuno senza
troppa speculazione intendere la possa. Dire le sue ragioni
a' birri, si dice di coloro che si voglion giustificare
con quelli a chi non tocca, e che non possono ajutargli,
tratto da coloro che, quando ne vanno presi, dicono
a quelli che ne gli portano a guisa di ceri, che è loro fatto
torto. D'uno che attende, e mantiene le promessioni
sue, si dice: egli è uomo della sua parola; e quando fa il
contrario: egli non si paga d'un vero. Di coloro che favellano
in punta di forchetta, cioè troppo squisitamente, e affettatamente, e (come si dice oggi) per quinci, e
quindi, si dice: andare su per le cime degli alberi; simile a
quello, cercare de' fichi in vetta. A coloro, che troppo si
millantano, e dicono di voler fare, o dire cose di fuoco,
s'usa, rompendo loro la parola in bocca, dire non isbraciate.
D'uno, il quale non s' intenda, o non voglia impacciarsi
d'alcuna faccenda, intervenendovi solo per bel parere,
e per un verbigrazia, rimettendosene agli altri, si dice:
il tale se ne sta a detto. A uno, che racconti alcuna
cosa, e colui a chi egli la racconta, vuol mostrare in un
bel modo di non la credere, suol dire, san chi l'ode; alle
quali parole debbono seguitare queste, pazzo chi 'l crede.
D'uno, che dica del male assai, si dice: il suo aceto è
di vin dolce, o egli ha una lingua che taglia, e fora: e per
lo contrario d'uno, che non sappia fare una torta parola,
né dir pur zuppa, non che far villania ad alcuno, o stare
in su i convenevoli, e fare invenie, si dice: egli è meglio
che il pane, e talvolta, che il Giovacca. D'uno, che sia maledico,
e lavori altrui di straforo, commettendo male occultamente,
si dice: egli è una mala bietta, o una cattiva
lima sorda. D'uno che sia in voce del popolo, e del quale
ognuno ardisca dire quello che vuole, e ancora fargli delle
bischenche, e de' soprusi, si dice: egli è il Saracino di
piazza, ovvero cimiere a ogni elmetto. Considerate ora un
poco voi, qual differenza sia dallo scrivere al favellare, o
dallo scrivere daddovero a quello da motteggio. Messer
Francesco Petrarca disse questo concetto in quel verso:
Amor m'ha posto, come segno a strale.
e messer Piero Bembo:
Io per me nacqui un segno
Ad ogni stral delle sventure umane.
Quando alcun uomo iroso, e col quale non si possa
scherzare, è venuto per la bizzarria sua nel contendere
con chicchessia in tanta collera, e smania, che girandogli
la coccola non sa, o non può più parlare, e nientedimeno
vuol sopraffare l'avversario, e mostrare che non lo stimi,
egli, serrate ambo le pugna, è messo il braccio sinistro
in sulla snodatura del destro, alza il gomito verso il
cielo, e gli fa un manichetto; o veramente posto il dito
grosso tra l'indice, e quello del mezzo, chiusi, e ristretti
insieme quegli altri, e disteso il braccio verso colui, gli
fa (come dicono le donne) una castagna, aggiugnendo
spesse volte: To', castrami questa, il quale atto forse con
minore onestà, ma certo con maggiore proprietà chiamò
Dante, quando disse:
Alla fin delle sue parole il ladro
Le mani alzò con amendue le fiche.
la qual cosa, secondo alcuni, volevano significare i Latini,
quando dicevano medium unguem ostendere; e talvolta,
medium digitum: il che pare, che dimostri quello essere
stato atto diverso. I Latini a chi diceva loro alcuna cosa
della quale volessino mostrare che non tenevano conto
nessuno, dicevano: haud manum vorterim; e noi nel medesimo
modo: io non ne volgerei la mano sozzopra. Diciamo
ancora, quando ci vogliamo mostrare non curanti
di chicchessia: io non ne farei un tombolo in sull'erba; e
quando vogliamo mostrare la vilipensione maggiore, diciamo
con parole antiche: io non ne darei un paracucchino,
o veramente bazzago, o con moderne, una stringa, un
lupino, un lendine, un moco, un pistacchio, un bagattino,
una frulla, un baghero, o un ghiabaldano, de' quali se ne
davano trentasei per un pelo d'asino. Quando alcuno entra
d'un ragionamento in un altro, come mi pare che abbiamo
fatto noi, si dice: tu salti di palo in frasca, o veramente,
darno in Bacchillone. Quando alcuno dice alcuna
cosa, la quale non si creda essere di sua testa, ma che
gli sia stata imburchiata, sogliono dire: questa non è erba di tuo orto. Quando alcuno o non intende, o non vuole
intendere alcuna ragione, che detta gli sia, suole dire:
ella non mi va; non m'entra; non mi calza; non mi cape;
non mi quadra; e altre parole così fatte. Quando alcuno
o privatamente, o in pubblico confessa esser falso quello
ch'egli prima per vero affermato avea, si chiama ridirsi,
o disdirsi. Essere in detta, significa essere in grazia, e
favore, essere in disdetto, in disgrazia, e disfavore. Quando
uno cerca pure di volerci persuadere quello, che non
volemo credere, per levarloci dinanzi, e torci quella seccaggine
dagli orecchi, usiamo dire: tu vuoi la baja, o la
berta, o la ninna, o la chiacchiera, o la giacchera, o la giostra,
o il giambo, o il dondolo de' fatti mieiò, o tu uccelli;
tu hai buon tempo; ringrazia Dio, se tu sei sano; anche
il Duca murava; e molti altri modi somiglianti. Quando
una dice cose non verisimili, se gli risponde, elle sono parole
da donne o da sera, cioè da veglia; o veramente, elle
son favole, e novelle. Quando uno dice sue novelle per
far credere alcuna cosa, se gli risponde, elle son parole; le
parole non empiono il corpo; dove bisognano i fatti, le parole
non bastano; tu hai buon dire tu; saresti buono a predicare
a' porri; e in altre guise cotali. A uno che si sia incapato
una qualche cosa, e quanto più si cerca di sgannarlo,
tanto più v'ingrossa su, e risponde di voler fare, e
dire, s'usa, egli è entrato nel gigante. Chi ha detto, o fatta
alcuna cosa in quel modo appunto, che noi disideravamo,
si chiama aver dipinto, o fattala a pennello. D'uno,
che fa i castellucci in aria, egli si becca il cervello, o si dà
monte Morello nel capo. D'uno, che colle parole, o co'
fatti si sia fatto scorgere, si dice, egli ha chiarito il popolo;
e Morgante disse a Margutte:
Tu m'hai chiarito, anzi vituperato.
D'uno che dà buone parole, e frigge, si dice, egli ha 'l
mele in bocca, e 'l rasòjo a cintola, o come dicevano i Latini, le lagrime del coccodrillo, e noi diciamo, la favola del
tordo, che disse, Bisogna guardare alle mani, e non agli
occhi. Conciare alcuno pel dì delle feste, ovvero come egli
ha a stare, significa nuocergli col dirne male; ma conciare
uno semplicemente, significa, o con preghiere, o con
danari condurlo a fare tutto quello che altri vuole: e coloro,
che conoscono gli umori dove peccano gli uomini,
e gli sanno in modo secondare, che ne traggono quello,
che vogliono, si dicono: trovare la stiva, e sono tenuti valenti.
Andarsene preso alle grida, significa credere quello
che t'è detto, e senza considerare più oltra, dire, o non
dire, fare, o non fare alcuna cosa bene, o male che ella si
sia. Dir buon giuoco, è chiamarsi vinto; è proprio de' fanciulli,
quando, faccendo alle pugna, rimangano perdenti;
il verbo generale è rendersi, e arrendersi; che i Latini
dicevano dare herbam, e dare manus. Dire il paternostro
della bertuccia, non è mica dire quello di San Giuliano,
ma bestemmiare, e maledire, come pare, che facciano cotali
animali, quando acciappinano per paura, o per istizza
dimenano tosto tosto le labbra. Pigliare la parola dal
tale, che gli antichi dicevano, accattare, è farsi dare la parola
di quello, che fare si debba. Andare sopra la parola
d'alcuno, è stare sotto la fede sua di non dovere essere offeso.
Quando alcuno vuole, che tutto quello che egli ha
detto, vada innanzi senza levarne uno jota, o un minimo
che, si dice, e' vuole che la sua sia parola di Re. Cavarsi la
maschera è non volere essere più ippocrito, o simulatore,
ma sbizzarrirsi con uno senza far più i fraccurradi. Coloro,
che quando i fanciulli corrono, danno loro le mosse,
dicono, trana; onde chi vuol beffare alcuno, gli grida
dietro, tran trana, tratto dal suono delle trombe; o miao
miao, dalle gatte. Quando alcuno non dice tutto quello,
che egli vorrebbe, o doverrebbe dire, si dice: egli tiene in
collo; e se è adirato: egli ha cuccuma in corpo, cioè stizza;
onde si dice d'uno che ha preso il broncio: ella gli è montata.
Quando alcuno dice una cosa la quale sia falsa, ma
egli la creda vera, si chiama, dire le buie, che i Latini dicevano
dicere mendacia; ma se la crede falsa, come ella è,
si chiama con verbo latino, mentire, o dire menzogna; la
qual parola è Provenzale, onde menzogniere, cioè bugiardo.
Il verbo, che usò Dante quando disse, io non ti bugio,
è ancora in bocca d'alcuni, i quali dicono, io non ti buso,
cioè dico bugie; è vero, che dir bugie, e mentire si pigliano
l'un per l'altro. Quando alcuno, e massimamente
fuori dell'usanza sua, ha detto in riprendendo chicchessia,
o dolendosene più del dovere, si chiama essere uscito
del manico. Zufolare dietro a uno, è dire con sommessa
voce: quelli è il tale, quelli è colui, che fece, o che disse;
e a colui si dicono zufolare gli orecchi, come dicevano
i Latini personare aures. Quando alcuno vuol significare
a chi dice male di lui, che ne lo farà rimanere, minaccia
di dovergli turare, o riturare la bocca, o la strozza, ovvero
inzeppargliele, cioè con uno struffo, ovvero struffolo
di stoppa, o d'altro, empiergliela, e suggellare. Quando
uno conforta un altro a dover fare alcuna cosa che egli
fare non vorrebbe, e allega sue ragioni, delle quali colui
non è capace, suole spesso avere per risposta: tu ci metti
parole tu; a nessuno confortatore non dolse mai testa; e
se egli seguita di strignerlo, e serrarlo fra l'uscio, e 'l muro,
colui soggiugne: parole brugnina. A uno, che per trastullare
un altro, e aggirarlo colle parole, lo manda ora a
casa questo, e ora a casa quell'altro per trattenerlo, si dice:
abburattare, e mandar da Erode a Pilato. Far tenore,
o falso bordone a uno, che cicali, è tenergli il fermo non
solo nel prestargli gli orecchi a vettura in ascoltarlo, ma
anch'egli di cicalare la sua parte. A chi aveva cominciato
alcun ragionamento, poi entrato in un altro, non si ricordava
più di tornare a bomba, e fornire il primo, pagava
già (secondoché testimonia il Burchiello) un grosso, il
qual grosso non valeva per avventura in quel tempo più,
che quei cinque soldi, che si pagano oggi, i quali io non
intendo a patto nessuno di voler pagare; però tornando
alla prima materia nostra, proponetemi tutte quelle dubitazioni,
che voi dicevate di volermi proporre, che io a
tutte risponderò liberamente tutto quello, che saperrò. C. Io per non perdere questa occasione d'oggi, che
Dio sa quando n'arò mai più un'altra, e valermi di cotesta
vostra buona volontà il più che posso, vorrei dimandarvi
di molte cose intorno a questa vostra lingua, le quali
dimande, per procedere con qualche ordine, chiamerò
quesiti; ma prima mi par necessario, non che ragionevole,
che io debba sapere qual sia il suo propio, vero, legittimo,
e diritto nome, conciossiaché alcuni la chiamano
Volgare, o Vulgare, alcuni Fiorentina, alcuni Toscana, alcuni
Italiana, ovvero Italica, e alcuni ancora Cortegiana,
per tacere di quelli, che l'appellano la lingua del sì. V. Cotesto dubbio è stato oggimai disputato tante volte,
e da tanti, e ultimamente da Messer Claudio Tolomei,
uomo di bellissimo ingegno, e di grandissimo discorso,
così lungamente, che molti per avventura giudicheranno
non solo di poco giudizio, ma di molta presunzione
chiunqhe vorrà mettere bocca in questa materia, non che
me, che sono chi io sono; e però vi conforterei a entrare
in qualche altro ragionamento, che a voi fosse di maggiore
utilità, e a me di manco pregiudizio. C. Io direi che voi non foste uomo della parola vostra,
se non voleste attendermi quello, che di già promesso
m'avete; e di vero io non credeva che egli valesse né a disdirsi,
né a ridirsi, e cotesto che voi allegate per mostrarlo
soverchio, è appunto quello che lo fa necessario, e spezialmente
a me, perché non conchiudendo tutti una cosa
medesima, anzi ciascuno diversamente all'altro, io resto
in maggior dubbio, e confusione, che prima, né so discernere
da me medesimo a qual parte mi debba, e a qual
sentenza piuttosto appigliare per creder bene, e saperne
la verità. V. Dunque credete voi, che io debba esser quelli,
che voglia por mano a così fatta impresa, con animo,
o speranza di dover terminare cotal quistione, e arrecar
fine a sì lunga lite? Troppo errate, se ciò credete, e
male mostrereste di conoscere generalmente la natura
degli uomini, e particolarmente la mia. Laonde son bene
contento, ancoraché conosca in che pelago entri, e con
qual legno, e quanto poveramente guernito, di volere,
checché seguire me ne debba, o possa, dire, non per altra
maggior cagione, che per soddisfare a voi, e a coloro che
tanto instantemente ricercato men' hanno, in favore della
verità tutta l'oppenione mia sincerissimamente. C. Cotesto mi basta, anzi è appunto quello che io
andava caendo. V. Se questo vi basta, noi saremo d'accordo, ma io voglio
che noi riserbiamo questo Quesito al da sezzo; e in
questo mentre, da Cortegiana in fuori, chiamatela come
meglio vi torna, che non potete gran fatto errare di soverchio,
come per avventura vi pensate, e a me non dispiace,
come fa a molti, che ella si chiami Volgare, posciaché
così la nominarono gli antichi, e i nomi debbono
servire alle cose, e non le cose a i nomi. C. Perché volete voi serbare questo quesito all'ultimo?
Forse per fuggire il più che potete di venire al cimento, e
al paragone? Che ben conosco che voi traete alla staffa,
e ci andate di male gambe, e non altramente, che le serpi
all'incanto. V. Anzi piuttosto, perché la cagione che questo dubbio
da tanti, che infin quì disputato n'hanno, risoluto
non si sia, mi pare proceduta più che da altro, perché
eglino non si son fatti da' primi principj, come bisognava,
diffinendo primieramente che cosa fosse lingua, e poi
dichiarando a che si conoscono le lingue, e come dividere
si debbiano; perciocché Aristotile afferma, niuna cosa
potersi sapere, se prima i primi principj, i primi elementi,
e le prime cagioni di lei non si sanno.
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