Dirò come mi sia pervenuta questa storia, che
convenienze particolari mi obbligano a velare sotto la forma del
romanzo. |
Verso la metà di novembre avevamo progettato una
partita di campagna con Consoli e Pietro Abate. |
Il 14, con una bella giornata, noi eravamo sulla strada
di Aci. |
Verso Cannizzaro un elegante calesse signorile
oltrepassò la nostra modesta carrozza da nolo. Giammai si è tanto
umiliati dal contrasto come in simili casi. Consoli, ch'era forse il
più matto della compagnia, gridò al cocchiere: |
«Dieci lire se passi quel calesse!». |
Il cocchiere frustò a sangue le rozze, che
cominciarono a correre disperatamente, facendoci sbalzare in modo da
esser sicuri di ribaltare; e siccome le povere bestie non correvano come
egli voleva, Consoli salì in piedi sul sedile dinanzi per togliere le
redini e la frusta dalle mani del cocchiere. |
Allora cominciò un alterco fra quegli che non voleva
cederle e Consoli che le voleva ad ogni costo, mentre il legno correva
alla meglio. |
Tutt'a un tratto i cavalli si arrestarono; Abate ed io,
sorpresi di vederci fermati sì bruscamente, domandammo che c'era. |
«Un morto»: fu la risposta laconica del cocchiere. |
Un convoglio funebre attraversava lentamente lo
stradone; esso era semplicissimo: un prete, un sagrestano che portava la
croce, un ragazzo che recava l'acqua benedetta, e tre o quattro
pescatori; il feretro, coperto di raso bianco e velato di nero, era
portato da quattro domestici abbrunati, e una carrozza signorile, in
gran lutto, lo seguiva. |
Quando la carrozza fu a paro della nostra, una testa
scoperta si affacciò allo sportello sollevando la tendina di seta nera,
e noi riconoscemmo uno dei nostri amici d'Università, Raimondo
Angiolini, laureato in medicina da quasi due anni. |
Domandammo chi era morto ad un domestico in lutto che
seguiva, anch'egli a piedi, il convoglio, e ci fu risposto: «La
contessa di Prato». |
«Ella!», esclamammo tutti ad una voce, come se fosse
stato impossibile che la morte avesse potuto colpire quella fata, che
aveva fatto il fascino di tutti. |
Non sapevamo spiegarci per quali circostanze la
contessa fosse morta in quel luogo e Angiolini ne accompagnasse il
feretro; per un movimento istintivo ed unanime scendemmo da carrozza, e,
a capo scoperto, seguimmo il mortorio sino alla chiesetta. |
Raimondo Angiolini entrando in chiesa venne a
stringerci la mano; i nostri occhi soltanto l'interrogavano, poiché
egli rispose tristemente le stesse parole che ci erano state dette: |
«La contessa di Prato». |
«Ella!», fu ripetuto di nuovo. |
Raimondo abbassò il capo tristemente. |
«Morta... la contessa!... morta qui!», esclamò
Abate. |
«Sì, ieri l'altro, alle due del mattino... una morte
orribile.» |
Rimanemmo un pezzo in silenzio: giammai questo
spaventoso mistero del nulla avea colpito siffattamente le noncuranti
immaginazioni dei nostri 23 anni. |
«Sembra un sogno!», mormorò Consoli, «saranno
appena due mesi ch'io la vidi al teatro.» |
«La sua malattia fu brevissima»; rispose Raimondo,
«è morta per Pietro Brusio.» |
«Per Brusio! ella!... la contessa!...» |
Anche Brusio era uno dei nostri compagni d'Università,
buon giovanotto, alquanto discolo; ma, per quanto ci torturassimo il
cervello, non arrivammo a comprendere come la Prato, questa Margherita
dell'aristocrazia, fosse giunta ad amarlo, e, quel ch'è più, a morire
d'amore per lui. Siccome i nostri volti al certo esprimevano tal dubbio,
Angiolini riprese: |
«Nessuno, fuori di me e dell'amico mio Brusio, e forse
egli meno di me, potrà mai arrivare a conoscere per qual concorso
straordinario di circostanze questi due esseri» (Angiolini nella sua
qualità di medico diceva esseri) «si sono
incontrati ed hanno finito per assorbire l'uno la vitalità dell'altro.
Sono di quei misteri, che sembrano troppo reconditi ma troppo ben
tracciati nel loro sviluppo per essere casuali, e che fanno supporre
quello che il coltello anatomico non ci ha potuto far trovare nelle
fibre del cuore umano». |
«Vogliamo saperlo allora!», saltò su a dire Consoli,
«siamo tutti amici di Brusio.» |
Angiolini, malgrado il suo scetticismo di medico, volse
uno sguardo alla bara, posta fra quattro ceri, nel mezzo della chiesa,
mentre il prete celebrava la messa. |
«Comprendete benissimo, amici miei, che questo non è
il luogo, né l'ora.» |
Ricondotti a quella triste meditazione tutti fissammo a
lungo e in silenzio quella cassa coperta di raso e velata di nero, su
cui il più allegro sole d'inverno, che scintillava sui vetri della
modesta chiesuola, mandava a posare uno dei suoi raggi. |
Io non so come ciò avvenga, ma nessuno di noi tre, in
quel punto, quando quel bel sole invernale animava quelle spiagge
ridenti, con quel mare immenso che si vedeva luccicare attraverso la
porta, fra tutto quel sorriso di cielo e la vita che sentivamo
rigogliosa, fidente, espansiva, con il canto allegro dei pescatori che
lavoravano sul lido e il cinguettare dei passeri sul tetto della chiesa,
a cui faceva un triste contrapposto il silenzio funereo di quel recinto,
interrotto solo dal mormorare del prete che officiava, e la luce velata
della chiesetta colle pallide fiammelle di quelle torce, nessuno di noi
tre, dicevo, poteva credere intieramente che quelle quattro tavole
racchiudessero quel corpo, meraviglia di grazia e di eleganza, che,
pochi giorni innanzi, quando si vedeva passare al trotto del suo
brillante equipaggio, faceva voltare tante teste. |
Lo ripeto: giammai la morte ci era sembrata più
imponente e più possibile nello stesso tempo prima d'allora. |
Quando uscimmo di chiesa dissi a Raimondo: |
«Hai bisogno di noi?». |
«No, grazie.» |
«E Brusio?», domandò Abate. |
«È là»; rispose Angiolini additandoci una graziosa
casina. |
A quelle sole parole scorgemmo tutto l'abisso che dovea
separare Brusio dalla società, in quel momento in cui lo immaginammo
solo e annientato in quelle camere ancora profumate da lei, ancora
stillanti di quell'amore che inebriandoli aveva ucciso il più fragile
dei due esseri; ora solo, perduto nell'immensità di quel dolore
profondo che sbalordisce come il fulmine. |
Sentimmo che nulla potevamo fare per lui in quel
momento. |
«Addio!», dissi ad Angiolini stendendogli la mano. |
«Ci vedremo?», aggiunse Abate. |
«Chi sa?... fra un mese o due forse...» |
«E ci narrerai questa storia?», disse Consoli. |
«Tu la scriverai?», rispose Raimondo rivolto a me. |
«Forse.» |
«In tal caso bisogna che Pietro me ne dia prima il
permesso. Addio.» |
Tre mesi dopo rividi Angiolini al Caffè di Sicilia.
Gli domandai di Brusio: era ritornato a Siracusa, sua patria; gli
rammentai la promessa, ed egli mi narrò le parti principali di quella
storia di cui noi avevamo assistito alla triste catastrofe; però pei
dettagli mi promise di comunicarmeli minuziosi e precisi, dopo che
avrebbe consultato certe lettere che aveva ricevuto da Brusio e dalla
contessa. |
Un mese più tardi ricevei dalla Posta un grosso plico
col bollo di Napoli; vi erano i dettagli e le lettere che mi aveva
promesso Angiolini, due o tre fotografie rappresentanti diverse
località di una casa abitata in Napoli da Pietro Brusio, e finalmente
la preghiera, che Raimondo mi faceva, se mai mi decidessi un giorno a
pubblicare questa storia dell'amore onnipotente, di salvare
rigorosamente le apparenze, in modo che neanche gli amici di Brusio
potessero penetrarne il segreto. |
Dal canto mio non ho fatto che coordinare i fatti,
cambiando i nomi qualche volta, ed anche contentandomi di accennare le
iniziali, quando, anche conosciuto il nome, le circostanze per le quali
è ricordato non sono compromettenti; rapportandomi spesso alla nuda
narrazione di Angiolini e alle lettere che questi mi rimise;
aggiungendovi del mio soltanto la tinta uniforme, che può chiamarsi la
vernice del romanzo. |
|
|
I |
In una bella sera degli ultimi di maggio, due
giovanotti, tenendosi a braccetto, passeggiavano pel gran viale del
Laberinto che dovea trasmutarsi in Villa Pubblica,
con quella oziosità noncurante che forma il carattere degli studenti e
dei giovanotti che non hanno ancora le pretensioni di
dandys. |
Passeggiavano da quasi cinque minuti in silenzio,
quando una signora, abbigliata con gusto squisito, appoggiandosi con il
molle e voluttuoso abbandono che posseggono solo le innamorate o le
spose nella luna di miele, al braccio di un uomo,
anch'esso molto elegante, passò loro dinanzi; e lo strascico della sua
lunghissima veste sfiorò i calzoni del giovane alto e bruno che stava a
diritta, il quale non sembrò accorgersene. |
«La bella donna!», esclamò il suo compagno, un
giovane biondo, come per rompere quel silenzio, che durava da un pezzo. |
L'altro, istintivamente, alzò il capo e guardò la
signora, che, o naturalmente, o per l'istinto della donna, avea volto a
metà il viso verso di loro, parlando con l'uomo che l'accompagnava. |
Il bruno sembrò esaminarla di un lungo sguardo dalla
piuma del suo cappellino, che scherzava coi ricci dei suoi magnifici
capelli cadenti sin quasi sulle sopracciglia, alla punta del suo piccolo
piede, chiuso in stivaletti di seta nera, che allora, forse per la più
squisita civetteria, l'ampia guarnizione della veste lasciava scoperto
sino al basso di una gamba sottile e ben modellata. |
«Sì, molto bella!», diss'egli, come rispondendo a se
stesso. |
E, malgrado che tentasse immergersi di nuovo nei
pensieri che lo tenevano sì preoccupato un momento innanzi, due o tre
volte alzò gli occhi a fissare la veste, che ancora strisciava lontana
sulla sabbia del viale. |
Alla porta ella montò nella carrozza che l'aspettava,
e partì. |
«Ella non dev'essere siciliana»; ripigliò il bruno,
che si chiamava Piero. |
«Chi te lo dice?» |
«Tutto: il suo genere d'eleganza, la sua andatura...
il modo stesso con cui accolse la tua esclamazione.» |
«L'ha udito dunque!», mormorò il biondo, arrossendo
come un collegiale. |
«Raimondo, amico mio, sarai sempre un ragazzetto su
questo argomento. Credi dunque che quando una bella donna ti passa
dinanzi badi ad ascoltare le sciocchezze che le sussurra un imbecille
qualunque sotto il naso?» |
«Ma quest'imbecille può anche essere un amante... e
allora...» |
«E allora ragion dippiù per ascoltare ciò che si
dice di lei, quale impressione desta passando, per poi fare un presente
all'innamorato delle tue osservazioni (se sono favorevoli però, bada!)
sotto il pretesto di riderne; presente che deve rendere innamorato quel
povero allocco per dieci gradi dippiù.» |
Raimondo rise dell'osservazione; e ambedue proseguirono
a passeggiare in silenzio. |
All'ingresso del giardino si separarono, colla tacita
promessa, data nella più tacita stretta di mano, di rivedersi
l'indomani. |
Noi cercheremo di delineare questi due personaggi, dei
quali uno è destinato ad avere la maggior parte negli avvenimenti che
verranno in seguito. |
Pietro Brusio, l'uno dei due (ricorriamo al pseudonimo
per questo come per quasi tutti i nostri personaggi, viventi ancora la
maggior parte e molto conosciuti) è, come abbiamo accennato, un
giovanotto alto; di circa 25 anni; alquanto magro, ciò che non
impedisce che abbia delle belle forme, le quali sarebbero più eleganti,
se avesse il segreto, come l'hanno molti, di saperle fare spiccare; ha i
capelli assai radi, di un castagno molto più chiaro di quello dei suoi
pizzi e dei baffi; pelle bruna; occhi piccoli e vivissimi; labbra
alquanto grosse e sensuali; narici larghe e dilatantisi sempre più alla
minima aspirazione del suo carattere impetuoso; piedi e mani
piccolissime, in rapporto alla sua statura. Nell'assieme figura energica
e maschia, che può avere anche i suoi riflessi di bellezza, messa sul
suo piedistallo, nella sua giusta luce, al suo posto insomma. È un
giovane quale se ne incontrano molti in Sicilia: sangue arabo in vene
andaluse: orgoglioso come un Cid egli non dissumula
menomamente le sue pretensioni di superiorità, che nulla sembra
autorizzare nel suo esteriore. Vivo ed impetuoso come tutti i
meridionali, egli scenderebbe sino alla lotta di piazza pel minimo
sguardo un po' dubbio che s'incrociasse col suo. Natura generosa del
resto, elevata, con molte aspirazioni al superiore, troppo nobile forse
per trovarsi in contatto colla società del giorno senza risentirne gli
urti, egli passa colla maggior facilità dall'estrema confidenza nella
sua stella, nel suo avvenire (poiché egli avea dato
due o tre drammi al teatro di Siracusa, dei quali si era parlato il
giorno dopo soltanto, o non si era parlato affatto) allo scoraggiamento
massimo, alla disillusione più completa di tutti quei sogni rosati, che
pur riempiono un gran vuoto, rispondono ad un gran bisogno di quell'età
in cui il cuore e l'immaginazione vivono anch'essi la loro vita. |
Il compagno che gli passeggiava allato è molto più
piccolo; biondo, piuttosto grasso; uno di quei caratteri che non servono
sovente ad altro che a far spiccare una individualità superiore a cui
si accompagnano, di cui sentono e subiscono l'influenza come un
satellite. |
Raimondo, il biondo, ha però il merito di essere come
il compimento del carattere infiammabile, sovente del soverchio, del suo
amico. Egli non ha la superiorità d'ingegno di lui, ma molta maturità
di giudizio, ciò che lo fa ragionare calmo ed assennato, ed impedisce a
Pietro di commettere mille pazzie, poiché Raimondo ha la voce dolce ed
insinuante ed il carattere conciliativo; sembra infine che l'ardente
carattere dell'amico suo subisca a sua volta l'influenza della pacata
indole di lui. |
Entrambi appartengono a due buone famiglie di Siracusa.
Raimondo è già laureato in medicina da quasi un anno, e Pietro studia
legge per studiare qualche cosa che non gli renda soltanto strette di
mano dei comici, che per altro si misuravano dal numero dei rinfreschi
offerti e mai rifiutati, e qualche applauso, assai freddo, della platea,
che avea il valore di un biglietto gratis. |
Abbiamo insistito, forse di soverchio, su questi
dettagli fisici e morali, d'uso per alcuni, per noi resi indispensabili
dalla necessità, che abbiamo peculiare, di far sentire,
diremmo, i caratteri che presentiamo prima di agitarli nelle scene di un
racconto intimo. Scopriamo sin dal principio il meccanismo, per non
attirarci la taccia, poscia, di aver fatto agire delle marionette, da
chi non ne vedesse il filo motore ch'è il cuore. |
Cinque giorni dopo, all'ora solita, noi incontriamo i
due amici, che passeggiano, colla stessa sbadataggine, sotto gli alberi
del Rinazzo; l'uno, il biondo, chiacchierando quasi
sempre solo; il suo compagno col capo basso e le mani dietro le reni. |
«Mio caro», diceva il biondo, guardando l'amico negli
occhi in aria di malizia, «risponderai almeno questa volta a quella
piccina?» |
«Io?», rispose bruscamente Pietro, come destandosi di
soprassalto, «e perché fare?» |
«Bella risposta! che pure non avrebbe avuto
l'opportunità di venir fuori oggi, se tu l'avessi data a te stesso il
giorno, o piuttosto la sera, che ti venne in mente di accalappiare colle
tue commedie quella poveretta.» |
«Credo che tu abbi ragione in quanto alla risposta; e
che tu dica una bestialità, ciò che fai spessissimo, in quanto a
quello che mi vai cantando di accalappiamenti e di poverette...» |
«Pietro...» |
«Lasciami tranquillo, ti dico!... Ci credi sul serio
dunque che a quest'ora Maddalena, la piccina, come la
chiami, pianga e si disperi perché non le scrivo più, perché la sera,
onde aspettarla sotto il verone, non rischio più di farmi gettare delle
immondezze sul capo da qualche serva maligna, che finga di non vedermi,
e perché non do più lo spettacolo ai vicini, che si mettono ad
origliare dietro le imposte, di quelle freddure che si ricantano sempre
sullo stesso tuono: buona sera; come stai? mi ami sempre? non
quanto me... ecc. ecc., poiché le varianti sono pochissime?!
In fede mia che ne ho abbastanza di tali amori da quindici anni!!... Se
mi avesse permesso di salire un momento sulle scale... pazienza!...» |
«Sì, pazienza per altri otto giorni! La sarebbe
finita come tutte le altre... Eppure ti assicuro che se tu l'avessi
veduta piangere come io l'ho veduta; se ella ti avesse abbracciato i
ginocchi come li ha abbracciati a me, per indurti ad andarla a vedere, a
scriverle almeno... se tu avessi udito le parole ch'ella mi diceva!...» |
«Parola d'onore!», esclamò sghignazzando Pietro,
«che tu ne sei innamorato cotto. Va, Raimondo, amico mio, tu farai il
tuo cammino, coi tuoi ventidue anni, i tuoi capelli biondi, e il tuo
volto fresco e roseo.» |
Il biondo prese quegli scherzi come li prendeva sempre,
dalla parte che lasciano ad un uomo di spirito, ch'è quella di riderne
pel primo, e riprese: |
«Se così fosse, confessa che mi saresti molto
obbligato di averti sbarazzato di una noia, senza i
ritornelli soliti di traditore, Iddio è giusto,
ecc.». |
Pietro ne rise esso pure, e strinse con effusione la
mano del suo amico. |
«Sentimi, caro Raimondo»; diss'egli alquanto
gravemente; «io non son di quelli che dicono: fo così perché
così fanno gli altri. Mi sento troppo superiore a questi
altri per seguirne l'esempio. A diciott'anni è
permesso credere ancora all'amore, alla fedeltà, alla donna tipo
eroina, come impastocchiano gli sfa[c]cendati nei romanzi... A
ventiquattro (è desolante quello che dico, ma non è men vero) si è
scettici come lo scetticismo, quando cento volte si sono ascoltate le
più appassionate proteste, fatte colle lagrime agli occhi, dalla donna
che ha in saccoccia la lettera del rivale...» |
«È curiosa!», interruppe Raimondo. |
«Che cosa?» |
«Come ti hanno guastato i romanzi di Sue; tu, accanito
avversario dell'esagerazione della scuola francese, e che ora mi copii
sì bravamente l'uomo stufo a ventun'anni, lo
Scipione del Martino il Trovatello...» |
«Non copio io!», disse Pietro quasi con asprezza;
«ti dico soltanto quello che penso. Ti dico anche che darei qualche
cosa del mio avvenire per possedere ancora le illusioni sì care de'
miei diciassette anni... Tu conosci la mia vita, Raimondo!... Ti ricordi
di una giovanetta che amai alla follia... Che fece quella giovanetta,
per la quale avevo pianto,... ne ho vergogna anche a pensarci... pianto
dinanzi a te... come un fanciullo... come un vile?!... Ella m'ingannò
per un mercante; poi per un nobile, per un uomo ammogliato... E questa
donna, che avea dato appuntamento per la sera al suo amico,
che ascoltava tremando le ore che segnava l'orologio del salotto,
poiché temeva ch'io m'incontrassi con lui, abbracciava i miei ginocchi,
come ieri Maddalena abbracciava i tuoi; mi supplicava colle lagrime più
ardenti, colle carezze più tenere, cogli accenti più deliranti di non
lasciarla sì tosto, di non lasciarla in collera, poiché s'era accorta
ch'io avevo sospetto di quello che dovevo vedere mezz'ora più tardi...
Dopo amai una maritata; credei che una signora che rischia di romperla
colla società, e colla sua felicità istessa, dovesse molto sentire,
quest'affetto, al quale sacrifica il suo decoro, la pace domestica, e,
presso di noi, fors'anche la vita... Quindici giorni dopo, a caso, in
una festa da ballo, seppi, da uno di quegli amici che s'incontrano
dappertutto, che da tre giorni egli era in relazione con quella
signora... e le espressioni appassionate di lei, ch'egli mi citò, erano
le stesse di quelle che aveva impiegato per farmi credere al suo
amore... In seguito amai una fanciulla... pura siccome un
angiolo, come direbbe il signor Germont nella
Traviata; ella aveva tutto ciò che può far credere
alla purità del cuore: distinzione d'educazione, coltura d'ingegno,
bontà di sentimenti... Io l'amai come un pazzo, quella fanciulla dal
viso pallido e dagli occhi cerulei... Scesi persino alle puerilità del
collegiale,... passare sotto i suoi veroni, seguitarla al passeggio e in
chiesa... Quella giovanetta rispose finalmente alle mie lettere, mi
promise amore e fedeltà, nell'istesso tenore, suppongo, in cui l'aveva
promesso sei mesi prima ad un giovane che sposò alcune settimane
appresso... E dopo questo, dopo innumerevoli esempî, che ogni giorno
cadono sott'occhio, credi che si possa più aver fede
nell'amore propriamente detto, in quest'amore chiesto
e giurato spesso col rituale alla mano, senza passare almeno per uno
scolaro di primo anno?» |
«Ti rispondo colle tuo parole: Credo che abbi ragione
almeno per metà; ma confessa che per l'altra tu esageri un pochino,
lasciandoti trasportare, al solito, dalla tua immaginazione.» |
«Può essere anche questo»; rispose sorridendo il
giovane; «del resto colla Maddalena l'ho rotta tranquillamente o
diplomaticamente, come vuoi meglio. Infine vuoi una parabola per
convincerti?» |
«Fuori la parabola!» |
«Ecco!», e Pietro trasse dal suo portasigari, che
avea trasformato anche in portafogli e portamonete, un bigliettino in
carta profumata ed involto in una sopracoperta piccolissima color rosa;
colla stessa flemma ne prese un sigaro ed un fiammifero. Acceso il
foglietto, cominciò ad accendere tranquillamente il sigaro. |
Raimondo ebbe il tempo di leggere le ultime frasi assai
tenere del bigliettino, scritto con quel carattere minuto ed uguale che
sembra particolare alle signorine distinte, firmato in basso colle sole
iniziali. |
«Hai veduto?», gli domandò Pietro trionfante,
buffandogli in faccia il fumo azzurrognolo del sigaro. |
«Ho guardato ma non ho visto, come il cieco della
Bibbia.» |
«È semplicissimo: vi è un detto celebre:
Fumo di gloria non val fumo di pipa: ciò che in
parentesi dimostrerebbe che le mie più belle produzioni-erba non
valgono il fumo delizioso di questo regalia; io ne
faccio un altro: Amor di donna, e d'uomo, se si
vuole, non dura più di cenere di carta, o
biglietto amoroso... o sigaro regalia.
Spero di farmi nome almeno coi proverbi... giacché non l'ho potuto con
opere di maggior lena... Ma guarda laggiù, imbecille!...» |
«Che c'è?» |
«Cospetto!... la signora che incontrammo l'altra volta
alla Villa!» |
«È vero.» |
«Che donna... Perdio!...» |
«Non è poi quella maraviglia che mi vai cantando...» |
«Non ho parlato di maraviglie. Ti dico semplicemente
che a Catania, e in tutta Sicilia anche, son poche le donne che sappiano
recare così bene il loro perdessus reine-blanche, e
che sappiano appoggiarsi con tanta grazia al braccio di quel briccone in
guanti paglia e pincenez che ha la fortuna di premere
quel polsino contro le sue costole.» |
Essi passarono quasi rasente a quella donna, che questa
volta non li vide o fece le viste di non vederli, e che sorrideva del
suo riso incantevole al suo cavaliere, mentre gli parlava. |
«Hai udito che bella voce!», esclamò Pietro,
premendo il braccio del suo compagno; «all'accento mi parve torinese...
Io adoro tutto il Piemonte in questo momento...» |
«Eppure veduta dappresso non è bella...» |
«È adorabile, se non è bella! Essa non ha la
bellezza regolare, compassata, che direi statuaria, e che non invidio ai
modelli dei pittori; ma ha occhio che affascina, e sorriso che seduce
carezzando, quando questo fascino ci può fare atterrire coi suoi
brividi troppo potenti. Questa donna alta e sottile, di cui le forme
voluttuosamente eleganti sembrano ondeggiare lente e indecise sotto la
scelta toletta che le riproduce con tutta l'attrattiva vaporosa delle
mezze tinte, ha tutte le perfezioni per poter coprire ed anche far
ammirare come pregi altre imperfezioni; questa donna che ha bisogno di
tutta la delicatezza e la bellezza di contorno del suo collo da inglese
per non far troppo spiccare la piccolezza della sua testa da bambina; di
tutta la flessibilità della sua vita per far dimenticare l'estrema
sottigliezza del suo corpo; di tutta l'abbagliante bianchezza dei suoi
denti per fare una bellezza della sua bocca alquanto grande, con cui
ella sorride sì dolce che sarebbe a desiderarsi di vederla sempre
sorridere; che si serve di tutte le ombre, di tutti i riflessi più
lucidi, più belli, più azzurrognoli dei suoi magnifici capelli neri
per nascondere che la sua fronte è alquanto larga ed alta del
soverchio; di tutta la limpidità dello sguardo dei suoi occhi, infine,
per farne ammirare la pupilla di un riflesso molto chiaro; questa donna
mi colpisce mille volte dippiù coll'effetto direi strano, sorprendente,
poiché rubato a Dio, della sua beltà... Io non potrei giammai
esprimerti l'effetto che mi fa questa bellezza, che non è tale che
quasi per un miracolo, poiché non ha nulla per esserlo, ed in cui tutto
sembra formare un assieme di grazia e d'incanto; questa bellezza che ha
bisogno di tutte le risorse della toletta, di tutte le seduzioni dei
modi e dell'accento, di tutto l'incanto dello sguardo e del sorriso, per
circondarsi di questo vapore trasparente... illusorio, lo confesso, che
la fa bella però, che la fa adorabile, poiché sembra non farla vedere
che in nube, attraverso l'incenso e l'orpello; questa bellezza che vuol
essere tale a dispetto della natura che l'avea fatta comune; questa
figura plastica che non ha di bello che gli elementi, direi, per divenir
tale, e lo spirito creatore che fa nascere tutte le grazie di cui si
circonda; che si mette allo specchio donna per sortirne silfide...
maga... sirena...» |
«To... to... to!... Pietro, amico mio, ne saresti
innamorato?...» |
«Io!», rispose il giovane scrollando le spalle, come
cadendo dalla sua esaltazione, «sei pazzo!» |
«Eppure tutti i pregi di costei non valgono un solo di
Maddalena. Venti ancor più belle di lei non farebbero un angioletto
così bello e perfetto qual è la piccina, come mi
piace chiamarla; che pure hai abbandonato senza un pensiero.» |
Pietro fissò uno sguardo sull'amico, poi un altro
sulla signora ch'era già molto lontano, e rispose semplicemente,
abbassando il capo: «Maddalena non sa neanche annodarsi il nastro del
cappellino come colei». |
«È graziosa!», esclamò Raimondo. «Dunque ameresti
dippiù una donna che avesse bisogno, per essere amata, d'impiegare
prima due ore allo specchio?» |
«Sì, lo confesso... Chiamala anche civetteria, o ciò
che vuoi; nella donna che dovrei amare io vorrei tutte queste cure
minute, tutte queste precauzioni delicate, tutte le perfezioni dello
spirito e le squisitezze dell'educazione, tutti questi dettagli
dell'assieme, insomma, che servirebbero a formarmi l'aureola della donna
che dovrei avvicinare colla riverenza e il delirio dei sensi, che tal
prestigio dovrebbe recarmi, poiché la riverenza del cuore io non l'ho
più. Io amo nella donna i velluti, i veli, i diamanti, il profumo, la
mezza luce, il lusso... tutto ciò che brilla ed affascina, tutto ciò
che seduce e addormenta... tutto ciò che può farmi credere, per mezzo
dei sensi, che questo fiore delicato, del cui odore m'inebbrio, che mi
trastullo fra le mani, non nasconde un verme; che quest'essere non è,
come il mio, debole e creta... E allora io l'amerei... un giorno,
un'ora, ma l'amerei... Quanto alle altre donne, le amerò allorché
scoprirò un cuore nella donna.» |
Pietro, dopo questa scappata, rimase muto alcuni altri
secondi, aspirando voluttuosamente, colle narici dilatate, il fumo del
sigaro, come se attraverso quella nube cenerognola volesse discernere le
forme indecise del tipo che avea ornato di tale incanto nella sua
immaginazione. Poscia, come arrossendo del suo trasporto, si mise a
ridere fragorosamente, esclamando: |
«Che ne dici della mia tirata, Pilade?». |
«Non è cosa nuova in te. Dimentichi troppo spesso che
sei scritto sul ruolo degli studenti di terzo anno in legge, per
trasportarti ai tempi in cui impiastricciavi carta.» |
«Hai ragione; bisogna dimenticare quei tempi...»,
disse il giovane con una forzata allegria, che pure avea una leggiera
tinta d'amarezza. «Destino! ecco la gran parola che
gli uomini non sanno proferire più spesso, ma nella quale io son
credente come un maomettano... Io, povero sciocco, che m'ero fitto in
capo di salire le scale del Campidoglio, e raccogliervi una corona
qualunque... eccomi destinato probabilmente a logorare quelle dei
tribunali, e di corone non si parla più... fossero anche di cavoli. Se
gli uomini sapessero far valere questa parola quanto essa lo merita, l'incolpabilità
delle azioni umane rimarrebbe sugli scritti dei penalisti: ecco che,
almeno una volta, parlo da saggio...» |
«Ed anche il merito delle azioni umane, in tal caso...
E tu sei superstizioso in quest'idea?» |
«Al fanatismo!» |
«Ma se tu fossi destinato ad amare
quella donna, che non hai veduto che due volte, in passando?...» |
Pietro cominciò dallo scrollare le spalle, al [suo]
solito; indi rimase alcuni minuti in silenzio, e disse tristamente, come
se quell'idea gli facesse pena o paura: «Chi lo sa!?...». |
|
II |
Venti giorni sono scorsi da quello in cui incontrammo i
due amici al Rinazzo. Siamo nei lunghi giorni del
giugno. Pietro studia assiduamente da mattina a sera le sue tesi,
poiché si approssimano gli esami; ed esce assai di rado. |
La sera di un giovedì Raimondo venne a trovarlo nel
suo stanzino da studio, nella casa che abitava insieme a sua madre e
alle sue due sorelle, in via Vittoria. |
«Che vuoi?», domandò Pietro bruscamente, celando, al
suo solito, la viva amicizia che nutriva pel suo compagno sotto
quell'apparenza di ruvidità. |
«Vengo per condurti meco al passeggio.» |
«Ne ho forse il tempo? Sai bene che gli esami sono
vicini, e non ho ore da sprecare andando a spasso; sai pure che col
professore Crisafulli non c'è da scherzare.» |
La signora Brusio, ch'era entrata con Raimondo nello
stanzino di suo figlio, e si era appoggiata, con quell'atteggiamento
ineffabile d'amore delle madri, alla spalliera della sua seggiola, unì
le sue istanze a quelle di Raimondo per indurre suo figlio a prendere un
po' d'aria. |
«Stassera c'è musica alla Marina»,
disse Raimondo. |
«Va pure, figlio mio»; disse la madre, «da quasi
venti giorni tu non esci più, e ciò ti farà ammalare invece di farti
proseguire i tuoi studî. Prendi qualche ora di riposo; ne hai
bisogno.» |
Pietro amava sua madre d'immenso affetto. Pel suo
carattere impetuoso ed insofferente quella dolce voce di donna, quella
mano pallida e affilata che carezzava i suoi capelli, erano
irresistibili. |
«Giacché siete congiurati, e volete così!...»,
diss'egli sorridendo, «aspettami cinque minuti, Raimondo; il tempo di
vestirmi.» |
E passò nella sua camera. |
«Fatelo divertire, signor Angiolini»; disse al
giovane medico la signora Brusio, «ha tanto bisogno di distrazione il
mio povero Pietro! È tanto tempo che non fa altro che studiare!... e mi
sembra che sia divenuto più pallido... Mi atterisce l'idea che abbia ad
ammalare!» |
«Non pensi a queste cose, signora»; interruppe
Raimondo; «Pietro è forte come un toro, e quest'eccesso di lavoro non
può durare che altri otto o dieci giorni. Terminati gli esami abbiamo
stabilito di andare a passare una settimana alla campagna.» |
«Grazie, grazie, Raimondo!», disse la madre,
stringendo la mano del giovane, «voi siete il degno amico del mio
Pietro... Ve lo raccomando!... Siamo tre donne che non abbiamo più che
lui...» |
Vestito che fu Pietro i due amici andarono alla
Marina. |
I viali erano affollatissimi; la musica eseguiva le
più appassionate melodie di Bellini e di Verdi; un bel lume di luna si
mischiava alle vivide fiammelle dei lampioncini, sospesi in festoni agli
alberi, che illuminavano i viali. Era una di quelle sere incantate che
si passano su queste spiaggie del Mediterraneo, in cui lo specchio terso
ed immenso del mare, che riflette tremolante il raggio dolce e pacato
della luna, sembra servire di cornice al quadro allegro, vivace,
animato, che formicola colle sue mille seduzioni sotto gli alberi. |
Pietro si sentì come allargare il cuore e fu grato
all'amico di quella piacevole sensazione; essi passeggiavano per uno dei
viali più appartati. |
«Non m'inganno!», esclamò Pietro tutt'a un tratto,
come di soprassalto, stringendo vivamente il braccio dell'amico contro
il suo; «è lei!... là!... in mezzo a quei due uomini!» |
In fondo al viale quasi deserto, perché troppo lontano
dalla musica, spiccava infatti, e per la solitudine del luogo, e per una
certa originalità elegante di abbigliamento e di andatura, la signora
che aveva recato tale impressione in Pietro Brusio. |
Vestiva un semplicissimo abito di
tarlatane a quadretti bianchi e bleu, tessuto di una
freschezza e leggerezza quasi vaporosa; uno scialle nero, fermato sul
petto da uno spillone d'oro; ed un cappellino grigio ornato
cerise. |
Nulla però varrebbe a riprodurre l'eleganza suprema,
la molle e quasi ingenua civetteria, con la quale ella rialzava la veste
sino a metà della sottoveste ricchissima e si appoggiava al braccio di
un uomo di quasi 30 anni, assai bruno, con volto ombrato da una folta
barba nera, che avrebbe fatto invidia ad un guastatore, e vestito con
ricercatezza alquanto leccata. Dall'altro lato era accompagnata da un
signore di mezza età, alto, quasi biondo, freddo, e che parlava con una
bella pronunzia toscana. |
I due giovani, passeggiando, s'incrociarono con essi
che venivano loro di contro. Questa volta uno sguardo della signora,
incerto, quasi negligente, si fissò indolentemente, ma a lungo negli
occhi ardenti di Pietro che la divoravano. |
Due o tre volte ancora i due amici l'incontrarono di
faccia; e ciascuna volta quello sguardo limpido, chiaro, noncurante, si
fissò sul giovane che la guardava a lungo; e ciascuna volta il cuore di
Pietro batteva stranamente in modo più forte; e le sue guancie pallide
e brune si facevano ancor più pallide; e il suo occhio sfavillava più
ardente; ed egli affrettavasi, trascinava quasi il suo compagno per
giungere a quest'attimo in cui quella silfide dovea passargli dinanzi,
in cui quella veste doveva sfiorarlo, in cui quegli occhi dalla pupilla
trasparente dovevano fissarsi sui suoi, sebbene come non vedendolo. Una
o due volte che Brusio non incontrò quello sguardo, fu triste, e quasi
dispettoso di se medesimo. Una volta, l'ultima, in cui gli parve
accorgersi che, lui oltrepassato di uno o due passi, ella, parlando
all'uomo a cui dava il braccio, verso di cui si piegava sorridendo con
una grazia affascinante, avesse rivolto a metà il viso verso di lui e
che un lampo partito da quegli occhi lo cercasse, egli fu ebbro...
felice di una sensazione nuova, strana, che non sapea definire, della
quale avea quasi paura, poiché non poteva giustificarla. |
Ritornando per lo stesso viale la cercò invano cogli
occhi da lungi... Giunse in capo al viale: era deserto... La cercò per
tutta la Marina, come se in quella folla elegante ed
animatissima avesse dovuto discernere in mezzo a mille
colei al solo riflesso azzurrognolo dei ricci che
ombreggiavano la sua fronte fin quasi sulle sopracciglia, al solo
movimento della sua piccola testa che sembrava inchinarsi come un giunco
sul collo sottile e ben modellato; era partita... |
Che voleva egli? Che cercava da quella donna, di cui il
lusso, il corteggio, l'adulazione era l'atmosfera in cui viveva; che gli
uomini più ricchi, più eleganti, più nobili si fermavano ad ammirare,
senza che ella mostrasse avvedersene; che tre o quattro volte l'avea
guardato come si guarda un fanciullo, un albero, un oggetto qualunque
che s'incontri?... Nemmeno egli lo sapeva in quel punto; egli avrebbe
arrossito di confessarsi la premura che prendeva per colei che dovea
essere sempre un'estranea per lui. |
Cinque minuti dopo riprese il braccio di Raimondo,
dicendogli: |
«Andiamo via!». |
«Così presto?» |
«Non ti annoi a morte qui stassera?... Non c'è
alcuno!» |
Raimondo guardò attorno, come trasognato, perché
giammai la Marina di Catania avea offerto una
riunione più bella; e domandò ingenuamente: «Sei pazzo?... Tu stesso
un quarto d'ora fa mi dicevi esser deliziosa questa serata... qui...». |
«Sarà vero anche ciò, come è vero che ora mi
annoio... e se vuoi rimanere ti dico addio.» |
E gli stese la mano come per congedarsi. |
«Un momento... ecco! giunge in quel viale a sinistra
Maddalena. Guardala almeno una volta.» |
«Che m'importa di Maddalena a me!... Guardala tu, se
vuoi... Addio!» |
E dopo quella brusca separazione partì di buon passo e
si diresse verso la sua abitazione per via Garibaldi. |
Però giunto alla crocevia della Vittoria sembrò
esitare un momento, e proseguì a camminare sin fuori Porta Garibaldi.
La notte era magnifica, Pietro sedette sul sedile di pietra circolare
che limita la gran piazza. |
«È strano», mormorò egli, «come stasera non ho
voglia né d'andare a casa, né di rimettermi alle mie tesi!...» |
E rimase altri cinque minuti in silenzio, collo sguardo
fosco e fisso sui ciottoli del marciapiede. |
«Andiamo!», esclamò quindi levandosi, e come
facendosi forza, «devono essere le undici, e mia madre a quest'ora mi
attende.» |
Guardò il suo orologio e si diresse lentamente verso
la sua abitazione. |
La signora Brusio, coll'occhio della madre, osservò
che il suo Pietro, quella sera, era più pallido e distratto del solito;
e che, invece di rimettersi a studiare, si ritirò, appena giunto, nella
sua camera. |
L'indomani Raimondo, verso le undici, si disponeva ad
uscire, quando Pietro entrò da lui nella camera che occupava
all'Albergo di Francia. |
«Buon vento!», esclamò Raimondo sorpreso da quella
visita che non si aspettava più da un mese; «ci son novità
stamattina?» |
«Quali novità vuoi mai che ci sieno?» |
«Per bacco! ti credeva sui digesti
a quest'ora; ed eccoti già a correre per le strade come uno
sfaccendato.» |
«È che lo sono. Avrò sempre il tempo di finire le
mie tesi, ed ero una gran bestia a prenderla tanto sul criminale; infine
ne vengono approvati tanti più asini di me!... Usciamo.» |
«Usciamo pure. Hai fatto colazione?» |
«Non ci penso; mi sento in vena di passeggiare.» |
«Con il caldo che fa non è la miglior cosa.» |
«Andiamo alla Villa.» |
«Sia per la Villa.» |
E i due amici uscirono, tenendosi, al solito, a
braccetto. |
«A proposito della Villa, sai dove abita quella
signora piemontese tanto distinta che abbiamo incontrato qualche
volta?» |
«No... dove?» |
«In quella bella casa sulla stada Etnea: della quale i
veroni si vedono dal Laberinto.» |
«Dici davvero?!», esclamò Brusio animandosi quasi
suo malgrado, e fermandosi in mezzo alla strada. |
«Verissimo.» |
«E tu l'hai veduta?» |
«Io stesso.» |
«Proprio lei?...» |
«Proprio lei!... Ma che diavolo!... Ne saresti
innamorato?...» |
«Mi credi forse pazzo da legare?», rispose Pietro con
un sorriso che dissimulava appena la contrarietà che gli arrecava
quella domanda. |
«Perché poi?» |
«Perché amarla io, sarebbe una disgrazia: amarmi
ella, assurdo.» |
«Mi piace questa modestia da venticinque soldi.» |
«È modestia che vale amor proprio»; rispose Pietro
piccato, «prendila come vuoi.» |
«Eppure, vediamo»: insisté Raimondo attaccandosi al
braccio del suo amico, «immaginiamoci che per un capriccio, una
fantasia, un destino, secondo te, questa donna si
innamori di te; immaginiamoci ch'ella te lo dica, come lo dicono le
donne quando vogliono, facendotelo comprendere, cioè, cogli occhi, col
gesto, coll'atteggiamento... Ebbene! allora saresti il Catone del
momento?...» |
«Impossibile!», esclamò il giovane tristamente, come
se avesse creduto un momento a quel sogno e si fosse poi accorto ch'esso
era troppo bello e insieme penoso per lui. |
«Perché?» |
«Perché colei è vana, orgogliosa, come lo dimostra
il fasto di cui si circonda. Soltanto potrebbe impressionarla la
bellezza, l'eleganza, la nobiltà, la ricchezza, il lusso... cose tutte
che non posseggo. Dunque o costei è maritata, e non amerà giammai un
Don Giovanni in ventiquattresimo che si chiama semplicemente Pietro
Brusio; o è mantenuta, e non possederò mai abbastanza per pagare i
suoi fiori per un anno; o è zitella, e non sposerebbe certamente l'uomo
oscuro, comune, che non ha tanto da farla vivere in quel lusso nel quale
vive, e che le è necessario, indispensabile per essere quella che è.
In tutti questi casi io dovrei dunque essere vile per amarla, o dovrei
comprare il suo amore a prezzo di qualche infamia.» |
«Ben pensato e ben ragionato! ciò che, in parentesi,
ti avviene assai di rado. Vogliamo far colazione al Caffè di Parigi?» |
«No; andiamo al Laberinto.» |
Raimondo guardò il suo amico di uno sguardo scrutatore
e quasi beffardo. |
«Ti fo riflettere che non ho ancor fatto colazione;
abbi dunque la bontà di concedermi dieci minuti.» |
I due amici entrarono dai Fratelli Guerrera. Mezz'ora
dopo erano alla Villa. |
Faceva molto caldo. Il Laberinto era
delizioso colle sue ombre profumate di fior d'arancio. I due sedettero
all'ombra, e quasi contemporaneamente alzarono gli occhi sui veroni
della casa, sebbene alquanto distante, che Raimondo avea indicato come
l'abitazione della Piemontese. |
Le tende di giunco erano abbassate sulle ringhiere,
quantunque il sole non vi giungesse ancora, forse per dare alquanto più
d'ombra agli appartamenti; e dietro una di quelle si vedeva una figura
di donna, vestita di bianco, quasi coricata su di una poltroncina con
tutto il languente e voluttuoso abbandono di una sultana; a quella vista
il cuore di Pietro batté forte, come la sera innanzi. |
«È dessa!», disse Raimondo, «vedi che non
t'ingannavo!...» |
Pietro non rispose, tenendo sempre fissi gli occhi sul
verone. |
Ella si toglieva soltanto a lunghi intervalli da quella
positura per recarsi agli occhi un binocolo che teneva sui ginocchi e
col quale guardava nella strada o verso la Villa; ed indi, come stanca
di quello sforzo, lasciava ricadere mollemente la testa sulla spalliera,
e sembrava assorbirsi in quell'inerzia contemplativa che gli orientali
cercano nell'oppio. |
Un uomo, seduto accanto a lei su di una seggiola assai
bassa, le leggeva qualche cosa di un giornale che teneva fra le mani, e
che ella udiva sbadatamente; e s'interrompeva di tratto in tratto per
prendere una mano di lei, che gliela abbandonava con la stessa languida
indifferenza, e che lo ringraziava col suo sorriso seduttore, e col suo
sguardo che faceva scorrere un'onda di voluttà in quell'uomo,
quand'egli si recava alle labbra la sua mano. |
Allora solamente la sua leggiadra testolina, coronata
da quei ricci magnifici, si volgeva lentamente verso di lui. |
Qualche volta, con un movimento tutto infantile, quella
manina bianca ed affilata si appoggiava alla ringhiera, e sopra vi
appoggiava la fronte; quasi quel bellissimo collo fosse troppo debole
per sostenere quella piccola testa. |
«Con questa donna ci sarebbe da impazzire!», esclamò
Pietro reprimendo un fremito, dopo averla divorata a lungo dello
sguardo. |
«Credi che sieno marito e moglie?», domandò l'altro. |
«È il mistero che questa donna sa rendere
impenetrabile colle sue mille indefinibili gradazioni di fisonomia,
d'espressione, di gesto, che fanno spesso dimenticare la sirena nella
vergine, e viceversa. Se lo sono, è da poco tempo: a meno che costei
non senta ancor ella sì a lungo, come deve far sentire a tutti quelli
che l'avvicinano.» |
Parecchie volte, forse a caso, l'occhialetto
dell'incognita si rivolse verso il banco di pietra sul quale erano
seduti i due amici. |
«Ti guarda!», disse Raimondo sorridendo. |
«O guarda i passeri che saltellano fra le fronde.
Credi sul serio ch'io ne sia innamorato?» |
«Ne parli tanto!...» |
«Diffida sempre di quegli amori di cui ti si parla a
lungo e sì leggermente: è segno certo che si vuol ridere alle tue
spalle... Io l'amo come un bel personaggio da dramma o da romanzo, come
un bel fiore... come una bella donna prima venuta insomma... che sa
recare con grazia il velo sul cappellino e sollevare con disinvoltura lo
strascico della veste... e nient'altro... In fede di che, se vuoi,
andiamocene; sono le due meno dieci minuti», aggiunse dopo aver
consultato l'orologio. |
«Sì, è troppo tardi; siamo qui da più di due ore»,
rispose il biondo alzandosi. |
Egli sorprese lo sguardo del suo amico, che ancora
restava fissato sul verone. |
«Vuoi venire, o no?» |
«Un momento... restiamo altri dieci minuti e partiremo
alle due precise...» |
«Non amo gli inglesi colla loro metodicità regolata
sul quadrante di un orologio... Hai detto d'andarcene...» |
«Hai ragione»; rispose Brusio ridendo, «partiamo.» |
Due o tre volte, prima di uscire dal giardino, si volse
a guardare il verone, sul quale non poteva più vedere che la tenda
abbassata. |
«Bella donna!», ripeteva egli di tempo in tempo, con
un entusiasmo ch'era troppo allegro per non essere affettato, e troppo
affettato per non nascondere una preoccupazione: «quanto io
t'amo!». |