III |
Il dopopranzo, e l'indomani, e tutti i giorni in
seguito, la Villa divenne la passeggiata preferita di Pietro, che vi
conduceva il suo amico, il quale protestava sempre e finiva sempre col
cedere. |
Allo stesso verone, quasi ogni volta nella stessa
positura e vestita di bianco, essi vedevano la Piemontese,
come l'aveva sopranominata Raimondo, che vi restava da mezzogiorno
spesso sino alle 3 e dalle 7 alle 8. |
Una sera l'incontrarono che andava al Caffè di
Sicilia, accompagnata dal signore biondo. |
«Se andassimo al caffè?...», disse Pietro, come per
esservi incoraggiato dal suo amico. |
Dalla soglia la videro seduta ad un tavolino, al fianco
del suo compagno, mentre due ufficiali dei Cavalleggieri Alessandria le
prodigavano tutte le delicate attenzioni di chi vuol fare la corte ad
una signora. Ella sembrava appena badarvi; ma rispondeva qualche volta
col suo solito sorriso grazioso, che mostrava i suoi bellissimi denti di
perle. |
Il giovane dalla barba nera, che Pietro avea veduto una
volta con lei alla Marina, veniva dall'altra sala del
caffè, e fermandosi dinanzi al tavolino dov'era ella si levò il
cappello, aspettando d'esser salutato. |
Siccome nessuno gli badava, egli girò con tutta flemma
sui talloni ed uscì. |
Pietro prese il braccio del suo amico, e lo trascinò
via, mormorando: «È meglio che non entriamo!...». |
«Dove andiamo?», domandò qualche minuto dopo, come
se cercasse una distrazione. |
«Dove ti piace. A proposito... potremmo approffittare
dell'invito dei signori A***, che abbiamo per stassera.» |
«Vi si balla?» |
«Sì.» |
«Andiamo, in tal caso! M'immaginerò di ballare colla
mia bella Piemontese»; aggiunse Brusio, forzando le labbra ad un
sorriso. |
Essi furono accolti con festa dall'allegra brigata che
era radunata nel salone. Pietro sedette al pianoforte e suonò un
valtzer, che otto o dieci coppie ballarono. |
«Vi lasciaste molto aspettare, signorini!», disse in
tuono di scherzevole rimprovero una graziosa giovanetta, figlia del
padrone di casa e maritata ad un cugino di Raimondo, appena Pietro andò
a raggiungere sul divano il suo amico, ch'era seduto vicino alla
signora. |
«È che Pietro, qui presente, è innamorato cotto; e
abbiamo fatto la ronda alla bella»; disse Angiolini ridendo. |
«Davvero!... Non mi sorprende in lei, signorino,
questa novità [Si sa che bel modello!...] E chi sarebbe questa
sventurata?...» |
«Parola d'onore, signora, che lo sventurato son io,
almeno sta volta»; rispose Pietro. |
«Lei?!... È da ridere!... E di chi sarebbe
innamorato, s'è lecito?» |
«Molto lecito, al contrario! Giacché non ho il bene
di conoscerne neanche il nome...» |
«Ed ella conosce lei, almeno?» |
«No.» |
La signora diede in uno scoppio di risa. |
«E l'ama, a quanto dice?» |
«Come un pazzo!» |
«Dove l'incontra?» |
«Qualche volta al passeggio, o alla
Marina... E poi so dove trovarla...» |
«Dove?» |
«A casa sua...» |
«Dunque va in casa?» |
«No; dal verone.» |
«Ah! è amore da verone!», esclamò la giovane
ridendo sempre più come una folle; «e dove abita questa meraviglia?» |
«Al Rinazzo, vicino il
Laberinto.» |
«Nella casa ***?» |
«Precisamente.» |
«Una giovane alta, sottile, molto elegante... non
tanto bella in verità?» |
«Può essere... ciò è relativo...» |
«È forestiera?» |
«Forestiera. Credo sia piemontese.» |
«La conosco.» |
«Sul serio?» |
«So il suo nome, almeno potrò insegnarglielo e non
farle fare più la figura dell'amante della luna.» |
«Come si chiama?» |
«Si chiama Narcisa Valderi.» |
«Narcisa!... bel nome; si direbbe averlo ricevuto a
vent'anni! E la conosce molto?» |
«Cioè... non molto. Sono stata in sua casa due o tre
volte.» |
«Mi parli di lei... a lungo!...» |
«Ella finge di scherzare, signorino, ma ha lo sguardo
troppo acceso per dissimulare che quello che dice lo sente davvero.» |
«Sì, è vero!... Ma se le giuro che l'adoro,
colei!...» |
«L'ha veduta da vicino?», domandò in tuono quasi
derisorio la giovane. |
«Sì.» |
«È tutta toletta!...» |
«Io amo appunto in lei questa toletta, questo lusso,
questo apparato brillante e vaporoso in cui la farfalla mi fa
dimenticare il bruco.» |
«Via, via... vedo bene che scherza...» |
«Dica dunque...» |
«Ella si alza alle dieci o alle dieci e mezzo; prende
un bagno di cui i profumi costano ciascun giorno otto o nove lire; e poi
si mette allo specchio, ove impiega da un'ora e mezzo a due ore per
l'abbigliamento della mattina, da due a tre per quello della sera, e da
tre a tre e mezzo e spesso sino a quattro per la toletta da ballo o da
teatro... È sorprendente... miracoloso, come una donna possa star tanto
ad appuntarsi gli spilli!...» |
«Ammirabile!... Avanti.» |
«Dopo la toletta viene la colazione: ella ha
l'affettazione di mangiare pochissimo, ma i suoi cibi costano un occhio
del capo, in compenso; indi si mette al pianoforte, o al verone,
sdraiata su di una poltroncina, e vi resta, spesso dormendo, sino
all'ora di pranzo. Suo marito...» |
«Un uomo di quasi 38 anni, alto e biondo?» |
«Sì, il conte di Prato; lo conosce?» |
«Me l'immagino.» |
«Suo marito l'ama alla follia; passa i giorni al suo
fianco, scherzando coi suoi capelli, e guardandola coll'occhialetto
faccia a faccia.» |
«Ed ella?...» |
«Ella gli sorride... e chiude gli occhi come se
temesse di fargli perdere la testa seguitando a guardarlo com'ella fa.» |
«In fede mia!... credo che n'abbia ben ragione!...» |
«Questi dettagli li ho risaputi da una mia amica che
abita dirimpetto alla casa della contessa...» |
«En place pour la quadrille!», fu
gridato. |
Pietro si alzò e prese il cappello. |
«Se ne va, così presto!» |
«Sì; devo andare a finire le tesi...» |
«O a passare una mezz'ora sotto le finestre della
bella?...» |
«Sarebbe agire da stolido, almeno, dopo quanto ella mi
ha detto.» |
Ed il giovane sorrise del suo sorriso che si sforzava
di rendere allegro mentre era amaro. |
Per andare a casa sua prese la strada che a lui parve
la più corta, passando cioè dal Rinazzo. |
Nella casa della contessa non c'era lume. Pietro si
fermò a guardare in silenzio quei veroni oscuri, poscia chinò la testa
sul petto con un sospiro, mormorando: «Stassera al teatro si dà un
dramma molto in voga... È al teatro certamente... ella...». |
Indi, come vergognandosi di questo monologo, scrollò
le spalle con dispetto ed affrettò il passo. |
«Andiamo a teatro stassera?», disse a Raimondo
l'indomani appena furono assieme. |
«Andiamoci, se così ti piace. E le tesi?» |
«Dormiranno anche stassera. Avrò sempre il tempo di
finirle.» |
Alla piazza della Cattedrale incontrarono un amico che
si fermò a discorrere con loro. |
«Andrete a teatro stassera?», domandò egli. |
«Perché questa domanda?» |
«Perché si darà una bellissima commedia nuova e ci
verrà tutta Catania.» |
«Ci sarò allora... poiché in tal caso verrà anche
la mia bella»; disse Pietro scherzando. |
«Ah!... Ah!... la tua bella di numero... Non so più a
qual numero sii... buona lana!» |
«Sul serio; sono innamorato come uno stolido.» |
«E di chi?» |
«Di una signora ch'è una maga... involta fra i
merletti e i velluti..., della quale so il nome da ieri soltanto.» |
«La contessa di Prato?» |
«La conosci?» |
«Per bacco! Al ritratto che ne fai... non c'è altra
qui che possa appropriarselo.» |
«È veritiero però questo ritratto?» |
«Perdio!... E tu l'ami, costei?!...» |
«Non so quello che farei per una parola di quella
donna...» |
«Non ci sarebbe bisogno di far tante cose; basterebbe
farti amico con suo marito... ed anche col suo amante; ed uno di questi
due ti presenterebbe... il resto verrebbe da sé.» |
«Amante!», esclamò Pietro impallidendo suo malgrado
mentre cercava di sorridere; «ah! c'è dunque un amante?». |
«Pel momento però... bada!... A Napoli sembra che
sieno stati più d'uno; ciò che diede luogo a molti scandali, che
finirono con un duello in cui il marito ruppe, con una sciabola, il
braccio ad uno dei più indiscreti.» |
«E ciò non è bastato?» |
«Ella fa quello che vuole di quest'uomo che comanda
col gesto del suo dito mignolo; e che ha il coraggio di andare a
battersi in duello mentre non osa fare la minima rimostranza alla
moglie. È la storia di molti mariti.» |
«E quel giovane bruno, dalla barba nera, che
l'accompagna spesso?...» |
«È l'amante di cui ti parlavo.» |
«Che peccato!», esclamò Pietro fatto pensieroso. |
«Fatti presentare», insisté Antonino. |
«Io!...», esclamò, con un accento indefinibile di
stupore, Pietro. |
«Sì; tu sarai il secondo dei suoi adoratori presenti,
senza calcolare gli assenti... Perdio! perché ti fai triste?... ne
saresti innamorato sul serio?...» |
«Sei tanto ingenuo da crederlo?» |
«Fatti presentare allora.» |
«Sarebbe inutile.» |
«Chi lo sa!» |
«La mia condizione mi proibisce di averla a prezzo di
una viltà, e non ho danari bastanti per mettermi nel numero di questi
signori che le fanno la corte... Del resto sento che non son fatto sul
loro stampo... poiché non saprei amarla in comune, com'essi fanno...» |
«Dimenticala dunque.» |
«Non ci ho mai pensato che come uno scherzo.» |
«A rivederci stassera.» |
«Addio.» |
Alle nove e mezzo i due inseparabili amici erano alla
porta del teatro, in mezzo alla folla dei giovanotti che fumando stavano
ad osservare le signore che scendevano dalle carrozze. |
La recita era cominciata da cinque minuti. I giovanotti
erano entrati a prender posto. Raimondo strepitava, tentando di
trascinare l'amico, poiché protestava di non voler perdere la prima
scena. L'ultima carrozza avea deposto l'ultima signora sul marciapiede,
e Brusio non si muoveva ancora. |
Raimondo finalmente perdé la pazienza e lo lasciò
solo per entrare in platea. |
Poco dopo le dieci si udì il rumore di una carrozza
che si avvicinava; ed il solo orecchio di Pietro poté distinguere che
il passo dei cavalli non avea l'uniforme regolarità di quello dei
cavalli signorili. |
«Una carrozza da nolo... è la sua!», mormorò egli
appoggiandosi alla porta. |
La carrozza si fermò infatti alla prima porta, ov'egli
si trovava, ed un uomo, nel quale Pietro riconobbe il conte, saltò il
primo a terra, per dare la mano alla signora che accompagnava. |
Brusio istintivamente fece un passo in avanti. |
La contessa appoggiò appena alla mano del signor di
Prato la sua mano da ragazzina coperta dal guanto bianco; mise
lentamente il piede, che sembrava appena accennato nel suo stivalettino
di raso, sul predellino, e saltò sul marciapiede. Con una perfezione di
grazia assai distinta, ella tirò con sé il lungo strascico della sua
veste di seta granadine, per impedire che,
rialzandosi nello scendere, scoprisse più del basso della sua gamba
sottile e ben modellata. Soltanto, non potendo, nel tempo istesso,
raccorre il bóurnous che le copriva le spalle,
questo, nel momento in cui curvava fuori dello sportello la sua
testolina ornata di fiori, le scivolò per le spalle e per gli omeri
nudi di un'abbagliante bianchezza. |
Quell'uomo che, solo e fermo sull'ingresso, dimostrava
chiaramente di attendere qualcheduno, mentre tutti erano dentro il
teatro, le recò forse sopresa, poiché, passando dinanzi a lui, mentre
raccoglieva le pieghe della sua veste perché non lo sfiorassero, ella
alzò un momento gli occhi su di lui. |
Indi, come infastidita da quello sguardo scintillante
che s'incrociava col suo e che sembrava assorbirne tutto il fluido, ella
si volse un istante verso il conte, che dava alcuni ordini al cocchiere,
prima di salire le scale del corridoio. |
Vi fu un momento, quando un lembo del leggerissimo
tessuto di quella veste strisciò sui suoi abiti, che le gambe di Pietro
tremarono. |
Pochi minuti dopo egli si diresse lentamente verso la
platea. Entrando, il riflesso dei cristalli di un occhialetto fisso
sulla porta colpì i suoi sguardi. Alzò gli occhi su quel palchetto
della prima fila da dove partiva quel raggio, e vide la contessa che
abbassava lentamente l'occhialetto, appoggiandolo, col braccio disteso,
sul velluto del parapetto, mentre lo fissava ancora ad occhio nudo,
quasi con curiosità: aveva voluto conoscere certamente, per una
bizzarrìa da donna elegante, quest'uomo che aspettava sull'ingresso,
tre quarti d'ora dopo alzata la tela. |
Pietro cercò il suo posto e sedette quasi dirimpetto
alla loggia della contessa. |
La commedia fu applauditissima; ma Pietro non applaudì
giammai, poiché soltanto alcuni squarci attrassero la sua attenzione; e
in quegli squarci, quando il suo cuore provava potentemente quello che
aveva sentito l'autore, egli rivolgevasi, senza accorgersene anche,
verso il palchetto di Narcisa, e cercava negli occhi di lei l'eco di
quello che egli provava nel suo cuore. |
La contessa voltava le spalle alla scena; e solo di
tratto in tratto, in quei momenti che avevano il potere di strappare
Pietro alle sue frequenti preoccupazioni, ella volgeva i suoi limpidi
occhi verso gli attori. Del resto ella discorreva qualche volta con i
numerosi visitatori che occupavano successivamente le seggiole del suo
palchetto; e pochissime volte si servì dell'occhialetto per esaminare
le tolette delle signore. Giammai però l'abbassò verso la platea. |
Nel suo sguardo, nel suo gesto, nella sua attitudine,
fin nel modo in cui parlava e sorrideva qualche volta con quei signori
che le tenevano compagnia, c'era un'indefinibile espressione di
stanchezza e di noia, che si traduceva in sfumature molli, in pose
voluttuosamente accidiose. |
L'occhialetto di Pietro stava quasi sempre fissato su
quella loggia. Due o tre volte, ella, sorpresa di quella molesta
assiduità, volse gli occhi verso quel binocolo che aveva
l'indiscretezza di guardarla sì a lungo dalla platea. Una volta infine
alzò lentamente il suo, e bruscamente, senza quelle transazioni che
sono assai comuni in teatro per mascherare il vero scopo, ella lo fissò
di contro a quello del giovane che si abbassò subito. |
Ella rimase alcuni secondi in quella positura; indi
lasciò quasi cadere sul parapetto il binocolo, e fece un leggiero
movimento di spalle d'impazienza. |
Prima che terminasse la recita Brusio lasciò il suo
posto e si recò sul corridoio. |
Il suo occhio era acceso e brillante; le sue gote,
abitualmente pallide, si coloravano di un rossigno febbrile. |
Pochi minuti dopo, prima ancora che il sipario fosse
abbassato, udì aprire la porta di un palchetto sul corridoio, e dei
passi che si avvicinavano, mischiandosi al fruscio di una veste. |
La contessa gli passò dinanzi, questa volta allegra e
ridente, al braccio di uno di coloro ch'erano stati nel suo palchetto. |
Pietro in quel momento avrebbe dato dieci anni della
sua vita per uno sguardo di quella donna. Le sue vesti lo toccarono
senza che ella mostrasse di avvedersi di lui. Solo il conte si volse a
fissarlo con occhio assai cupo e sospettoso. |
Il giovane scese le scale quasi insieme a lei; la vide
montare in carrozza col conte, dopo aver dato la mano agli altri, e
partire. |
Egli rimase immobile sul limitare. |
«Non vai a casa?», gli disse alle spalle la voce di
Raimondo. |
«Sì... ti aspettavo per dirti addio...» |
«A domani, non è vero?» |
«Non lo so... Avrò forse da studiare tutto il
giorno...» |
E s'incamminò lentamente per la Marina. |
A due ore del mattino Raimondo si disponeva
tranquillamente ad andare a letto, quando fu bussato con furia alla sua
porta. |
«Chi può esser a quest'ora?», disse fra sé il
giovane sorpreso andando ad aprire. |
«Son io, Raimondo... son io! Aprite, di grazia!»,
udì la voce della signora Brusio, quasi delirante dietro la porta. |
«Che c'è, signora?... Dio mio!... ella mi
spaventa!», esclamò il giovane introducendo la madre del suo amico
nella sua camera. |
«Pietro!... Dov'è Pietro? Dov'è mio figlio, signor
Angiolini?», disse la povera madre colle lagrime agli occhi. |
«Pietro non è in casa?», domandò Raimondo vieppiù
sorpreso. |
«Son due ore del mattino e mio figlio non si è ancora
ritirato... Ho mandato il domestico a cercarlo al teatro, e ritornò
dicendo che il teatro era chiuso da un pezzo, ma che sulla porta era
avvenuta una rissa fra alcuni giovanotti; che vi erano stati dei feriti
e degli arrestati... Mio Dio!... gli sarà accaduta qualche
disgrazia!... Dove lo lasciaste voi?...» |
«Ci separammo all'ingresso del teatro, e mi disse che
andava subito a casa... Ma io non so nulla di risse...» |
«Dio!... Dio mio!...», singhiozzò la madre
torcendosi le braccia, «come farò, Dio mio, come farò!... Son sola,
signor Angiolini, son sola!... Mio figlio!... chi sa cosa n'è di mio
figlio!... Aiutatemi; corriamo all'ufficio di Questura a prendere
informazioni...» |
«Non si disperi, signora; spero ricondurle Pietro al
più presto, senza alcun accidente. Abbia la bontà di aspettarmi qui.» |
Raimondo, indossato in fretta un abito, prese il
cappello ed uscì. |
Dando campo ad un sospetto che gli era balenato in
mente mentre la signora Brusio si disperava per l'inusitata e
straordinaria tardanza del figlio suo, e per la notizia che il domestico
le avea rapportato, egli si diresse per la strada Stesicorea ed indi per
quella Etnea, verso la casa ove abitava la contessa di Prato. Giungendo
sotto i veroni, sul marciapiede di faccia, gli sembrò di vedere qualche
cosa di nero immobile sul lastrico. |
Si avvicinò esitante e lo chiamò per nome a bassa
voce. |
«Che vuoi?», rispose una voce rauca e ancora
tremante, come se inghiottisse delle lagrime, che Raimondo avrebbe
stentato a riconoscere, nel suo accento duro e quasi cupo, se gli fosse
stato meno famigliare. |
Si appressò ancora, e vide il suo amico seduto sullo
scaglione del marciapiede, coi gomiti sui ginocchi e il mento fra le
mani. |
«Tu qui!... a quest'ora!», esclamò Raimondo. |
«Che vuoi, ti dico?!», replicò con maggiore asprezza
Pietro. «Non son forse più padrone di fare quello che mi piace?!...» |
Raimondo capì che quello non era il momento di parlare
al suo amico; e sospirando tristemente, poiché allora soltanto scoperse
lo spaventoso abisso del precipizio su cui egli si cullava, sedette
silenzioso al suo fianco. |
Pietro rimase muto, come non avvedendosene, cogli occhi
di una sorprendente lucidità, fissi sul lume che brillava dietro le
tende di seta del verone. |
Qualche volta, a lunghi intervalli, egli trasaliva, ed
una gocciola, come di sudore, che partiva dall'orbita, luccicava un
momento solcando le sue guance. Ad un tratto egli afferrò con violenza
il braccio di Raimondo! |
«Guarda!... guarda anche tu!», diss'egli con la voce
stridente ed interrotta del delirante o del pazzo. |
E si alzò, come se avesse voluto elevarsi sino al
verone per meglio osservare. |
«Io non vedo niente», mormorò Raimondo che si
fregava gli occhi inutilmente. |
Pietro, senza rispondergli, gli porse la busta del suo
occhialetto che trasse dalla saccoccia del soprabito. |
«Guarda, ti dico!... c'è da diventar pazzo!» |
Coll'aiuto dell'occhialetto Raimondo vide la contessa,
presso le tende del verone, di cui le invetriate erano aperte, sdraiata,
nella sua favorita posizione languida e voluttuosa, su di una poltrona,
ancora colla veste del teatro, coi capelli ancora intrecciati di fiori;
ed un uomo, il conte, ritto dietro la spalliera della poltrona, che si
chinava verso di lei, e le divideva coi baci i ricci da sulla fronte.
Ella gli sorrideva del suo riso da sirena; e di quando in quando,
allorché il conte rimaneva come stordito nel fascino di quelle
seduzioni mirabili di voluttà, ella gli prendeva le mani colle sue
manine affilate e bianchissime, e se ne lisciava la fronte, e le
nascondeva fra il setoso volume dei suoi capelli, e se le posava sugli
occhi e sulle labbra, ma lentamente, con quel suo abbandono ch'era
irresistibile, come se avesse voluto dare il tempo a tutte le emanazioni
inebbrianti che scaturivano dai suoi pori di penetrare in lui sino al
midollo delle ossa. |
Raimondo, quasi spaventato, pel suo amico, da quella
vista, fu scosso dai singhiozzi di lui che prorompevano soffocati come
singulti; e, riponendo tristamente nell'astuccio l'occhialetto, disse
col tuono di chi prende una risoluzione: |
«Via, Pietro, è tempo di partire! Tua madre ti
attende a casa mia!». |
«Mia madre!...», esclamò il giovane con un sussulto
che dimostrava come quella corda vibrasse ancora potentemente nel suo
cuore, mentre tutte le altre erano allentate e sconvolte. |
«Sì, tua madre, spaventata dalla tua estraordinaria
tardanza, che ti cerca da me come una pazza.» |
«È tanto tardi dunque?», domandò egli come parlando
in sogno. |
«Son le tre fra poco.» |
«Non credevo fosse sì tardi... Hai ragione, andiamo
via... bisogna essere uomini!» |
Poscia si fermò in mezzo alla strada, quasi non avesse
avuto la forza di staccarsi da quel punto. |
«Ben dicesti: bisogna essere uomini e non
fanciulli!», replicò Raimondo, dando al suo accento la possibile
espressione e trascinandolo in qualche modo per forza, mentre Pietro si
lasciava condurre a capo chino come un ragazzo. |
|
IV |
Quando entrarono nell'Albergo di Francia, dove li
aspettava la signora Brusio, questa corse ad abbracciare suo figlio con
tutta l'effusione di un cuore di madre; ma rimase senza osarlo, colle
braccia aperte, dinanzi allo sguardo fosco e alla fisonomia cupa ed
irritata del figlio suo. |
«Credevo», disse questi aspramente, «di non essere
più all'età di uno scolaretto che si manda a cercare se ha fatto tardi
nel ritornare da scuola...» |
La madre fu dolorosamente colpita da quelle parole, le
sole che avesse udite in tal modo da quel figlio che l'idolatrava.
L'istinto materno fu atterrito dallo stato di quel giovanetto che in
un'ora avea potuto dimenticare siffattamente il culto che nutriva della
madre, e risponderle in tal guisa. |
«Andiamo, figlio mio, le tue sorelle ci
aspettano...», diss'ella tristamente, ma evitando di inasprirlo;
«grazie, signor Angiolini!...» |
S'incamminarono verso casa; e la madre osservò
sospirando che il figliuolo non le offriva il braccio, e camminava cupo,
ed anche indispettito al suo fianco. |
Sulla scala corsero ad incontrarli le due sorelline
ancora pallide e singhiozzanti, che gridavano: |
«Mamma! mamma!... L'hai trovato?... È qui il nostro
Pietro?!...». |
Le loro festanti esclamazioni furono interrotte dalla
voce dura del fratello. |
«Per l'avvenire», esclamò questi, cercando di dare
la possibile moderazione alla sua voce tremante d'irritazione, «spero
che le mie tardanze non daranno più luogo a simili scene da teatro...
che mi costringerebbero a cercare altrove la pace e la libertà di cui
ho bisogno... che son deciso ad avere... Datemi la doppia chiave della
porta, onde non dia più occasione ad attendermi domani, e facciamola
finita!...» |
E senza neanche prendere il lume, si chiuse nella sua
camera, sbattendone l'uscio con impeto. |
«Povero figlio mio!», singhiozzò la desolata madre,
abbracciando piangente le sue figlie: «ecco le prime lagrime che mi fai
versare!». |
Pietro passeggiò per la camera alcuni minuti, agitato
e smanioso; poscia si fece al verone. |
La calma serena di quella notte d'estate, il fresco
venticciuolo che gli asciugava il sudore sulla fronte lo calmarono
alquanto; egli pensò alle lagrime di sua madre ed odiò se stesso come
giammai aveva odiato. |
«Son vile!... sì, son vile!...», esclamò
strappandosi i capelli. «Oh! la testa... Dio mio!...» |
Aprì l'uscio della sua camera senza far rumore, e
camminando leggero leggero andò ad origliare dietro la bussola della
camera di sua madre, onde vedere se dormiva. |
La signora Brusio era ancora in piedi quando suo figlio
aveva aperto l'uscio, ascoltando ansiosamente il più lieve rumore
ch'egli facesse, e che potesse farle indovinare lo stato del cuore di
lui; appena udì che si avvicinava capì, con l'istinto materno, che suo
figlio pentito veniva a vedere se ella dormisse; e l'istinto materno le
suggerì anche che l'unico perdono che egli poteva desiderare nel suo
pentimento era che sua madre riposasse. Ella si gettò sul letto, e
finse di dormire. |
Pietro ascoltò, dietro il paravento, il respiro
alquanto accentuato di sua madre; credette che dormisse davvero, e non
poté frenare le lagrime che gli scorrevano ardenti sulle guance:
lagrime di pentimento, di rabbia contro se stesso, di terrore
dell'avvenire (che allora soltanto intravedeva) per ciò che provava. |
«Povera madre!», esclamò singhiozzando; «povera
madre mia!». |
E la madre udì quei singhiozzi, e soffocò i suoi fra
i guanciali. |
Pietro si ritirò in punta di piedi, com'era venuto; e
si rimise al verone. |
Colla fronte fra le mani, ed i gomiti appoggiati alla
ringhiera, egli si assopì in quel vortice luminoso e turbolento che il
cuore e l'imaginazione gli creavano, e dove vedeva un'ombra, dove una
figura, ora vestita di bianco, ora quale l'avea veduta poche ore
innanzi... carezzantesi la fronte ed i capelli con le mani di
quell'uomo... Quando, abbarbagliato da una luce vivissima, egli alzò
gli occhi, si avvide con sorpresa che il primo raggio di sole facea
scintillare i vetri. |
«Diggià!», mormorò egli: «il giorno vien presto al
presente!...». |
Sua madre, entrando la mattina nella camera di lui,
osservò con dolore che il letto era intatto, come era stato acconciato
la sera innanzi. |
«Madre mia!», le disse il giovane prendendole una
mano, in tuono di pentimento del passato ma risoluto ad ottenere quello
che domandava, «ti chiedo perdono di quello che ho detto e fatto
ieri... Ma ti prego di lasciarmi per l'avvenire alquanto più di
libertà, che l'età mia ora richiede...». |
«Fa come vuoi, figlio mio...», rispose la madre
abbracciandolo. «Io non temo che tu ne possa abusare, poiché sei
figlio di un uomo onesto e manterrai onorato il nome che ti diede. In
quanto a me...», e la povera donna sospirava tentando di sorridere,
«in quanto a me cercherò di vincere le mie sciocche paure...» |
«Grazie, grazie, buona madre!...», esclamò Pietro
facendo uno sforzo per non bagnare di lagrime quella mano che baciava. |
Però ogni sera quella madre, che numerava coi battiti
del suo cuore i minuti che suo figlio tardava a venire, aspettava, sino
alle due, e spesso sino alle tre, che il noto passo le annunziasse da
lungi, nel silenzio della strada, ch'era lui che
veniva; e piangeva sovente, quando, invece di mettersi a letto, lo udiva
passeggiare per la camera, o farsi al verone; e l'indomani, dopo avere
interrogato sospirando il letto, spesso colle lenzuola ancora
rimboccate, cercava negli occhi smarriti del figlio e nei suoi
lineamenti pallidi e sbattuti la risposta ai vaghi timori che
l'agitavano. Pietro, che ogni mattina pel passato soleva informarsi
della salute di sua madre, non s'accorgeva nemmeno del pallore di lei e
della sua cera malaticcia. |
Raimondo non lo vedeva quasi più. Brusio passava i
giorni al Laberinto, la sera seguendo la donna che
gli aveva ispirato questa folle passione o cercando d'incontrarla al
passeggio, (dove lo sguardo di lei qualche volta lo fissava con quel
raggio pacato e snervante della sua pupilla cerulea, ciò che faceva
delirare il povero giovane, e gli faceva seguire, coll'occhio ardente e
le membra convulse, quella veste fluttuante che armonizzavasi sì
mirabilmente ai movimenti pieni di seduzione del corpo da fata) o al
teatro dove la vedeva splendere di tutto il prestigio del suo lusso,
profumata da quel vapore inebbriante che recano la bellezza, la
giovinezza, la ricchezza; facendo scintillare la luce del suo sguardo
insieme al riflesso dei suoi diamanti; armonizzando la bianchezza
vellutata e purissima della sua pelle alla bianchezza pallida delle
perle che le cingevano il collo bellissimo; spesso allegra e ridente
cogli uomini più eleganti e più alla moda, appartenenti alla migliore
società, che si contendevano un posto nel suo palchetto; spesso a metà
nascosta nell'angolo più oscuro della loggia, colla testolina ricciuta
e coronata di fiori e di gemme rovesciata all'indietro sulla parete, con
quell'attitudine abbandonata cui ella sapeva dare tutto quanto vi ha
d'attraente nella mollezza, d'irresistibile nel languore; e vi stava ad
occhi chiusi, come dormendo ed assorbendo con maggior squisitezza di
voluttà le armonie della musica che avevano il potere di commuoverla
dippiù. |
Egli passava la notte sotto i veroni di lei, coll'occhio
fisso su quel lume che rischiarava la sua stanza; aspirando, con
terribile voluttà di passione (ch'era tanto potente da sembrare
angoscia qualche volta) di gelosia, ed anche di dolore, tutti i rumori
più insensibili del suo passo, del fruscio della sua veste, tutte le
emanazioni della donna amata, i minimi suoni del suo pianoforte e della
sua voce, che spesso parlava al conte di quelle parole, cui rispondeva,
come un'eco, un singhiozzo dalla strada. |
Egli sapeva l'ora del suo levarsi, della sua toletta,
del suo pranzo, della sua passeggiata; conosceva il modo d'ondeggiare
delle tende quando ella vi stava dietro, il rumore delle carrucole della
poltroncina che la sua mano indolente tirava a sé. |
Era un martirio spaventevole che s'imponeva senza
saperlo; che l'attraeva però col fascino del precipizio; che alimentava
il parossismo febbrile, il quale divorava le sue forze e la sua vita,
colle sue triste gioie, coi suoi acri godimenti, coi suoi sogni
febbricitanti. |
Alcune volte, ritirandosi ella dopo la mezzanotte, a
piedi, accompagnata [dal conte e] da due o tre giovanotti eleganti che
la corteggiavano, si era rivolta verso quell'uomo, seduto sul
marciapiede, che si sarebbe scambiato con un mucchio di cenci; ed il
conte avea rallentato il passo per meglio osservarlo. Quando ella si
ritirava in carrozza, Pietro osservava, qualche volta, al riverbero dei
lampioni della carrozza, che ella, mentre scendeva dal montatoio, si
volgeva con curiosità verso l'angolo ove sapeva di dover trovare quello
strano personaggio che la prima volta avea supposto un mendico; e che il
conte si fermava innanzi al portone qualche minuto per guardarlo. |
Una notte, negli ultimi di settembre, verso le due del
mattino, Pietro aspettava da un pezzo la contessa che era andata alla
serata del prefetto. Il rumore di una carrozza, che si avvicinava al
gran trotto, si fece udire da molto lontano per le strade deserte, e
poco dopo il legno passò dinanzi al nostro protagonista fermo al suo
solito posto. Narcisa ne scese più lentamente del solito, e scomparve
quasi subito insieme al conte. |
La carrozza ripartì. |
Pietro udì il passo leggero di lei che saliva le
scale, accompagnato dal passo più pesante dell'uomo che la seguiva;
udì la porta che si apriva a riceverli e si rinchiuse poco dopo; vide
che nel salotto ove abitualmente dimorava la contessa, venivano
accresciuti i lumi. |
Poco dopo la dolce voce di Narcisa, col suo accento
molle ed armonioso d'indefinibile espressione, fece battere fortemente
il cuore del povero giovane. |
«Mio Dio!... che buio!... Ma dormono tutti in questa
casa stassera!...» |
Indi alcuni suoni, tratti così a caso dal pianoforte,
quasi le dita cercassero le note di una fantastica melodia, che si
stancarono presto a riprodurre e che diede luogo al terzetto finale
d'Ernani, anch'esso poco dopo interrotto, colla
stessa capricciosa volubilità, per un valtzer allora in gran voga:
Il Bacio, di Arditi. |
Però sembrava che un'attitudine estraordinaria
facesse, in chi suonava, supplire a tutte le lievi imperfezioni di
esecuzione, che venivano dalle difficoltà che incontrava, con una
espressione molto rara, che traeva degli impeti e dei fremiti di delirio
festevole dalle note del valtzer e faceva piangere con quelle del
melodramma. |
Giammai a Pietro parve di avere udito armonia come
quella che le mani della donna adorata creavano sui tasti d'avorio, nel
silenzio profondo di quella notte, profumata dal vicino
Laberinto e rischiarata dalla luna. |
Tutt'a un tratto anche il valtzer fu interrotto, ed il
giovane udì i passi di lei che si avvicinava al verone, e vide la sua
ombra che intercettava il lume che ne rischiarava il vano. |
Ella si appoggiò all'inferriata del verone, colla
testa fra le mani, perdendo il suo sguardo nell'orizzonte. La luna,
allora nel suo più alto emisfero, la circondava quasi in un trasparente
vapore. |
Un'altra ombra si avanzò e le si mise al fianco. |
«Perdio!», disse una voce secca ed orgogliosa, con
accento toscano, che Pietro riconobbe per quella del conte, «non mi
leverò mai d'addosso quest'accidente!» |
Brusio sentì che quelle parole erano al suo indirizzo,
e il sangue gli montò al viso. |
«Che dite?», rispose la fresca voce della contessa,
sebbene parlasse pianissimo. |
«Parlo di quell'importuno che sta a farci la spia da
mane a sera; che non ci lascia un'ora di pace... e che credo, in fede
mia, sia pazzo di voi...» |
La contessa alzò le spalle con un moto sprezzante
d'indifferenza; indi mormorò sbadatamente, colla sua voce più bella e
più calma, e colla più completa noncuranza, lasciando il verone: |
«E che ci ho da fare io se quest'uomo e pazzo?...». |
Pietro si alzò, lento, come se le gambe gli si
piegassero sotto, sentendo agghiacciarglisi il sudore sulla fronte, coi
denti sbattenti di convulsione. |
Di giorno il conte sarebbe rimasto atterrito dal
pallore e dall'alterazione dei lineamenti di lui, e dal sinistro
splendore dei suoi occhi ardenti. |
Egli rimase un momento immobile, annichilato, come se
quella bellissima voce di donna avesse di un sol colpo reciso i muscoli
più vitali del suo cuore. Il solo rumore che si udiva era quello dei
suoi denti che battevano gli uni contro gli altri. |
«Questa donna ha ragione!», mormorò egli quindi
colla voce rauca, stentando a proferire le parole: «io son pazzo!...
son pazzo!... Sono stato vile anche!...». |
E partì lentamente, quasi strascinandosi. Non avea
fatto dieci passi che udì le note allegre e cristalline del valtzer che
risuonavano di nuovo. |
Si fermò in mezzo alla strada, a guardare un'ultima
volta, con un'ineffabile espressione di disperata amarezza, quel lume
che splendeva chiarissimo in quella stanza riboccante d'armonia; si
levò il cappello, con un moto istintivo, lento, quasi solenne,
esclamando, cogli occhi umidi di lagrime infuocate: |
«Addio, signora!... Addio!». |
Camminò tentoni, barcollando com un ubbriaco, fino a
quando stramazzò, privo di forze, singhiozzante, su di un sedile di
marmo sotto gli alberi del Rinazzo. |
«Oh! questo valtzer! questo valtzer!», gridò egli
smaniante, come se quelle note gli percuotessero sul cervello, «Dio!...
mi pare di diventar matto davvero... Ah!... ma non ha dunque nemmeno un
pensiero per l'uomo ch'è pazzo per lei, questa donna?!!...» |
E partì correndo, come un delirante, fuggendo quei
suoni, che sembravano inseguirlo nel silenzio della contrada. |
Si aggirò quasi tutta la notte per le vie più
solitarie e deserte della città; spesso correndo e singhiozzando
disperatamente, spesso lasciandosi cadere a terra, sul canto di una via,
quando l'eccitazione febbrile che l'agitava gli toglieva le forze che
gli aveva dato nel suo parossismo. Non tenteremo di dare un'idea di
quelle lagrime roventi che lasciavano solchi sul suo volto livido ed
impastato di polvere e di sudore. La tempesta violenta che mugghiava in
quel petto gli faceva emettere voci tronche, gemiti che si articolavano
come parole, ma in mezzo ai quali risuonava sempre un grido, or come un
singhiozzo, or come un'invocazione disperata: «Narcisa!...
Narcisa!...». E quando le sue arterie battevano in modo da rompersi,
egli si afferrava la testa fra le mani, e tornava a correre come un
pazzo, fin quando la stanchezza fisica lo istupidiva alla lotta
terribile delle sue passioni. |
Cominciava ad albeggiare; quell'incerto crepuscolo gli
ferì gli occhi come un riverbero infuocato; quella vita che si
risvegliava nella grande città con tutti i suoi rumori, quella luce che
crescendo gli sembrava rischiarasse tutta l'immensità della sua
disperazione, gli parvero odiose... a lui che cercava il nulla, che non
avea pensato al suicidio perché odiava troppo ancora per essere stanco
della vita. |
Aprì la porta di strada di casa sua colla doppia
chiave che recava sempre addosso; si chiuse nella sua camera, così al
buio; e si buttò sul letto, vestito com'era, lasciando cadere soltanto
in un angolo il suo cappello: era annichilato. |
La stanchezza fisica e la morale l'avevano vinta fors'anche
sulla sua disperazione; o almeno, in quel punto, gliela avevano resa
meno sensibile. Egli si addormentò poco dopo di un sonno agitato,
febbrile ed interrotto. |
Sua madre, che all'alba avea lasciato il letto, dopo
una notte passata fra le lagrime, e stava nel salotto che precedeva la
camera di lui, onde vedere se almeno fosse rientrato, udì a lungo
gemiti, singhiozzi, rantoli soffocati, che si mischiavano alla
respirazione affannosa e stentata del dormente, e che conturbavano e
straziavano il suo cuore. Questa donna, coll'orecchio fissato sulla
toppa dell'uscio, stette quasi un giorno intiero ascoltando con
angosciosa ansietà tutti i minimi rumori di lui e cercando
d'indovinarli. Finalmente, verso le sette di sera, l'udì levarsi e
passeggiare per la camera. Ella ebbe timore, sì, la madre che
comprendeva come qualche cosa di terribile passasse nell'animo del
figlio, e lo allontanasse dalle sue consolazioni e fin dalle sue
lagrime, la madre ebbe timore che questo figlio adorato, buono un tempo
ed affettuoso, che ella non riconosceva più ora allo sguardo fosco e al
carattere aspro e violento, non commettesse qualche scena brutale se si
fosse accorto di essere stato spiato. |
Pietro passeggiò un pezzo per la camera,
strascinandosi o camminando a salti, a seconda delle istantanee
trasformazioni che subiva il corso delle sue idee; odiando quel filo di
luce che trapelava dalle commessure delle imposte e che gli provava che
la luce illuminava ancora; odiando i rumori della strada che gli
annunziavano che tutto non era morto o almeno in lutto come il suo
cuore; odiando fin anche il pensiero di esser vicino alla sua famiglia,
quella famiglia che avea formato il suo culto e per la quale avrebbe
dato altra volta tutto il suo sangue. Poi sedette presso il tavolino,
colla testa fra le mani; e vi stette a lungo; coll'occhio arido, lucido,
di una straordinaria fissità. |
Una febbre ardente faceva vibrare con forza le sue
pulsazioni; allorché sentì battere sì violentemente le sue arterie
ch'egli ne udiva quasi il sordo rumore con colpi spessi percossi sul
cervello; allorché sentì sulle palme quel fuoco che ardeva la sua
fronte; allorché, più che mai, intravide dei lucidi bagliori
attraversargli la pupilla con un solco luminoso, che nell'animo
tracciava una striscia infuocata fra la tempesta delle sue passioni,
dubitò un momento che fosse pazzo davvero. Egli ebbe paura di
quest'idea... paura di non esser più padrone di sé, della sua vita,
nel momento che sentiva averne maggior bisogno, per inebbriarsi di tutta
la terribile voluttà di quel dolore che l'attaccava alla vita istessa;
ebbe paura di abbandonare questa, come in trastullo, agli uomini: egli
si fece alcune domande che erano strazianti nella loro calma forzata; si
propose ragionamenti posati che tradivano ancora la convulsione dello
sforzo che erano costati, dominando l'uragano che tempestavagli in cuore
con volontà disperata di calma, per convincersi che non era pazzo...
poiché egli avea paura d'esserlo... poiché egli odiava ferocemente... |
Udì suonare nove ore all'orologio della stanza
contingua. |
«Vediamo!», mormorò egli alzandosi, «a quest'ora
dev'essere buio... Ho tutta la mia ragione ancora!... Che vale
disperarsi per colei?... quali diritti ne ho io? Siamo uomini, perdio!...
come dice Raimondo... Ma chi dice questo spesso è segno che teme di non
esserlo abbastanza... Non è vero che son pazzo!... Non voglio essere
pazzo io!... Ebbene!... io voglio esser uomo!... sì... ho la testa
lucida!... comprendo che bisogna annegarne la memoria... annegarla fra
il vino... le donne... l'orgia!...» |
Aprì le imposte, per vedere s'era notte davvero: era
buio affatto; raccolse il cappello da terra e se lo calcò sul capo
senza nemmeno aggiustarsi i capelli arruffati e appiccicati col sudore
sulla fronte, ed uscì, quasi fuggendo la madre che udiva camminare
nell'altra stanza. |
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