X. Lo strangolatore.
Erano trascorsi venti giorni. Tremal-Naik, mercé la sua
robusta costituzione e le assidue cure dei suoi compagni,
guariva rapidamente.
La ferita si era ormai richiusa e poteva alzarsi.
Però, mentre riacquistava le forze, l'indiano diventava
ognor più cupo ed inquieto. I suoi compagni lo sorprendevano
talvolta colla faccia nascosta fra le mani e le gote umide,
come se avesse pianto. Non parlava che rade volte, non
confessava a chicchessia il terribile dolore che struggevalo e
talvolta veniva assalito da improvvisi accessi di rabbia,
durante i quali si lacerava le carni colle unghie e tentava di
gettarsi dall'amaca gridando:
- Ada!... Ada!...
Kammamuri ed Aghur indarno si sforzavano di farlo parlare;
indarno cercavano la causa di quelle sfuriate che minacciavano
di riaprire la non ancora cicatrizzata ferita e si chiedevano
chi mai poteva essere colei che portava quel nome che egli
pronunciava e nei suoi deliri e nei suoi sonni, quel nome che
era il suo incubo, il suo tormento.
Manciadi il bengalese, qualche volta si associava a loro
per venire a capo di qualche cosa, ma ciò accadeva assai di
rado. Quest'uomo pareva anzi che sfuggisse la presenza del
ferito, quasiché avesse da temere qualche cosa.
Non entrava nella di lui stanza se non quando lo vedeva
dormire, ma quasi con ripugnanza. Amava meglio percorrere la
jungla in cerca di selvaggina, di raccogliere legna e di
attingere acqua. Strana cosa: ogni qual volta udiva il padrone
invocare Ada, egli veniva assalito da un tremore straordinario
e la sua faccia, di solito tranquilla, d'un subito s'alterava
cangiando persino di colore.. Altro particolare misterioso è,
che di mano in mano che Tremal-Naik migliorava, anziché
gioire, diventava tetro e d'umore nero.
Si avrebbe detto che a quell'uomo spiaceva che il padrone
guarisse. Perché? Nessuno avrebbe potuto dirlo.
Il mattino del ventunesimo giorno, nella capanna accadde un
avvenimento che doveva avere funeste conseguenze.
Kammamuri s'era alzato al primo raggio di sole. Visto che
Tremal-Naik dormiva d'un sonno tranquillo, si diresse verso la
porta per svegliare Manciadi che riposava al di fuori, sotto
una piccola tettoia di canne di bambù. Levò la spranga e
spinse l'uscio ma con sua grande sorpresa questo non s'aprì:
c'era al di fuori qualche cosa che gli faceva intoppo.-
Manciadi!- gridò il maharatto.
Nessuno rispose alla chiamata.. Nella mente del maharatto
balenò il sospetto che al poveretto fosse toccata qualche
disgrazia, che i nemici lo avessero strangolato o che le tigri
della jungla l'avessero sbranato.
Accostò un occhio alla fessura della porta e s'accorse che
l'oggetto che le impediva d'aprirsi era un corpo umano.
Guardando con maggiore attenzione, riconobbe in lui il
bengalese Manciadi.
- Oh!... - esclamò egli con orrore. Aghur!
L'indiano fu lesto ad accorrere alla chiamata del compagno.
- Aghur, - disse il maharatto, sgomentato. - Hai udito
nulla questa notte?
- Assolutamente nulla.
- Nemmeno un gemito?
- No, perché?
- Hanno ucciso Manciadi!
- È impossibile! - esclamò Aghur.
- È qui disteso dinanzi alla porta.
- Darma non ha dato alcun segnale e nemmeno Punthy.
- Eppure dev'esser morto. Non risponde, né si muove.
- Bisogna uscire: spingi forte.
Il maharatto appoggiò una spalla alla porta e fece forza
respingendo Manciadi. Ottenuto un varco, i due indiani si
slanciarono all'aperto. Il povero bengalese era coricato
bocconi e pareva morto, quantunque non si vedesse sul suo
corpo ferita alcuna.. Kammamuri gli accostò una mano sul
petto e sentì che il cuore ancora batteva.
- È svenuto, - diss'egli.
Strappò una penna ad un punya che trovavasi lì vicino, vi
diede fuoco e l'accostò alle nari dello svenuto. Tosto un
sospiro sollevò il petto, poi le braccia e le gambe si
mossero e infine s'aprirono gli occhi che si fissarono con
smarrimento sui due indiani.
- Cosa ti è accaduto - gli chiese premurosamente Kammamuri.
- Siete voi! - esclamò affannosamente il bengalese. -
Ah!... che paura!... Credevo di essere stato ammazzato sul
colpo!
- Ma cos'hai veduto? Chi cercò d'ammazzarti? Degli uomini
forse?
- Uomini?... Chi parla d'uomini?
- Di' su.
- Ma non sono stati uomini, - disse il bengalese.
- Sì, sì, non m'inganno, era un elefante.
- Un elefante! esclamarono i due indiani. - Un elefante
qui!
- Ma sì, era un elefante enorme, con una proboscide
mostruosa, e due denti lunghissimi.
- E si è avvicinato a te? - chiese Aghur.
- Sì, e per poco non mi spezzò il cranio. Io dormiva
saporitamente, quando fui svegliato da un potente soffio;
aprii gli occhi e vidi sopra di me la gigantesca testa del
mostro. Cercai di alzarmi per fuggire, ma la proboscide mi
piombò sul cranio, inchiodandomi al suolo.
- E poi? - chiese Kammamuri con ansietà.
- Poi non ricordo più nulla. Il colpo era stato così
forte che svenni.
- Che ora era?
- Non lo so, perché m'ero addormentato.
- È strano, - disse il maharatto. - E Punthy non s'accorse
di nulla.
- Cosa facciamo, - chiese Aghur, lanciando uno sguardo
ardente sulla jungla.
- Lasciamo il colosso in pace, rispose Kammamuri.
- Ritornerà, - s'affrettò a dire Manciadi, - e rovinerà
la capanna..
- È vero, - disse Aghur. - Se lo inseguissimo?
- E perché no? Abbiamo delle buone carabine.
- Io sono pronto ad aiutarvi, - rispose Manciadi.
- Ma non possiamo lasciare solo il padrone, quantunque sia
completamente guarito, - osservò Kammamuri. - Voi sapete che
un pericolo ci minaccia sempre.
- Tu rimarrai e noi andremo alla caccia, - incalzò Aghur.
- Con un vicino così pericoloso, non si può vivere
tranquilli.
- Se avete coraggio bastante, vi lascio libero campo.
- Così va bene! - esclamò Aghur. - Lascia fare a noi, e
vedrai che prima di mezzodì il colosso sarà morto.
Andò a prendere nella capanna due pesanti carabine di
grosso calibro e ne porse una al bengalese che la caricò con
grande attenzione, con una verga di piombo. Munitisi di
pistoloni e d'un enorme coltellaccio, nonché di abbondanti
munizioni, entrarono risolutamente nella jungla, percorrendo
un largo sentiero tracciato fra i bambù. Aghur era allegro e
discorreva; il bengalese, invece, era diventato cupo e spesso
soffermavasi per guardare il compagno che lo precedeva di
pochi passi.
Talvolta si chinava verso terra ed ascoltava, fingendo di
cercare le traccie dell'elefante. Quel brusco cangiamento,
quegli sguardi e quelle manovre, non sfuggirono ad Aghur, il
quale credette che il bengalese avesse paura.
- Animo, Manciadi, diss'egli, allegramente. - Non credere
che sia tanto difficile abbattere una bestia, anche se è
munita di proboscide. Una palla in un occhio e tutto sarà
finito.
- Non ho paura io, - rispose bruscamente il bengalese,
sforzandosi, ma invano, di atteggiare le sue labbra ad un
sorriso.
- Mi sembri inquieto.
- Infatti lo sono, ma non è l'elefante che mi preoccupa.
- E che cosa, adunque?
- Aghur, - disse Manciadi con accento strano. - Hai paura
della morte?
- Se ho paura della morte?... Perché mi fai questa
domanda? Non ho mai avuto paura di nulla... io!
- Meglio per te.
- Non ti capisco.
- Comprenderai fra qualche ora, silenzio ed avanti.
- È pazzo, - pensò Aghur, - o mezzo morto dalla paura.
Sta bene, lo abbatterò io il colosso.
I due indiani affrettarono il passo, malgrado il sole che
gli arrostiva e gli ostacoli che ingombravano il sentiero, e
un'ora dopo giungevano in un boschetto di giacchieri alberi,
le cui frutta, anziché pendere all'estremità dei rami,
escono direttamente dal tronco, d'un bel colore giallo, d'una
fragranza straordinaria e del peso di oltre trenta libbre.
Quivi giunti, Manciadi con grande sorpresa del compagno, si
mise a fischiare un'arietta malinconica, giammai udita nella
jungla nera.
- Cosa fai? - gli chiese Aghur.
- Fischio, - rispose Manciadi tranquillamente.
- Farai fuggire l'elefante.
- Anzi lo attiro. Gli elefanti amano la musica e, quando la
odono, accorrono.
- To'! non l'ho mai saputo.
- Cammina, Aghur, e guardati ben d'attorno. Sai tu dove
trovasi uno stagno?
- Qui vicino.
- Andiamo.
Aghur, quantunque tuttociò gli sembrasse assai strano,
ubbidì.. Prese un sentieruccio appena visibile e condusse il
compagno sulle rive di un piccolo stagno contornato da ammassi
di pietre rozzamente scolpite rovine di un'antica pagoda.
- Tu rimarrai qui, - gli disse il bengalese. - Io batto il
bosco e scovo l'elefante, poiché qui dev'essere nascosto.
Si mise sotto il braccio la carabina e si allontanò senza
aggiungere sillaba. Appena fu certo di non essere né veduto,
né udito, si mise a correre rapidamente e si arrestò ai
piedi di un palmizio, sul cui tronco vedevasi rozzamente
inciso l'emblema misterioso degl'indiani di Raimangal.
- A me ora, diss'egli. - Questo bosco sarà la sua tomba.
Si drizzò quanto era lungo ed emise un fischio. Un segnale
eguale vi rispose e qualche minuto dopo, fra il varco di due
cespugli appariva la sinistra figura di Suyodhana. Egli
incrociò le braccia sul petto, fregiato del serpente dalla
testa di donna, e fissò Manciadi con uno sguardo acuto come
la punta d'una spilla.
- Figlio delle sacre acque del Gange, sii il benvenuto, -
disse il bengalese, toccando la polvere colla fronte.
- Ebbene? - chiese brevemente Suyodhana.
- Siamo battuti.
- Che vuoi tu dire?
- Tremal-Naik è vivo.
Suyodhana divenne ancor più cupo e si conficcò le unghie
nelle carni.
- Avrei mancato al colpo? - ringhiò egli. - Eppure il
pugnale vendicatore gli squarciò il seno!
Chinò il capo sul petto e s'immerse in tetri pensieri.
- Manciadi, - disse dopo qualche tempo, - quell'uomo deve
morire.
- Comanda, figlio delle sacre acque del Gange.
- La vergine della sacra pagoda fu profondamente ferita dal
velenoso sguardo di quell'uomo. La sciagurata ancora l'ama,
né cesserà d'amarlo finché egli vivrà.
- Crederà alla sua morte?
- Sì, perché io le darò le prove.
- Cosa devo fare? Devo avvelenarlo?
- No, il veleno non sempre uccide; vi sono degli antidoti.
- Devo strangolarlo? Ho il mio laccio.
- Andiamo adagio. Hai eseguito quanto ti ordinai?
- Sì, figlio delle sacre acque del Gange. Aghur m'attende
presso lo stagno.
- Bene, tu lo ucciderai.
- E poi? chiese il fanatico con terribile calma.
- Poi tornerai alla capanna e narrerai a Kammamuri che
Aghur fu assassinato. Ti crederà e correrà a cercarlo;
comprendi il resto.
- Hai altro da dirmi?
- Più nulla.
- E strangolato che abbia Tremal-Naik, cosa dovrò fare?
- Raggiungermi a Raimangal: va'!
Manciadi toccò una seconda volta la polvere colla fronte e
si allontanò colla dritta sul calcio d'una pistola.
- Decisamente, - disse il bengalese, - il figlio delle
sacre acque del Gange è un grande uomo!
Il fanatico non pensò nemmeno al doppio assassinio che
stava per commettere. Suyodhana così aveva ordinato, e
Suyodhana parlava in nome della mostruosa divinità alla quale
tutti loro avevano consacrato il loro braccio e la loro vita.
Attraversò lentamente il bosco dei giacchieri e giunse allo
stagno, presso il quale stava sdraiato, colla carabina sulle
ginocchia, la futura vittima.
- Hai veduto l'elefante? - gli chiese Aghur.
- Non ancora, ma ho scoperto le sue traccie, - disse
l'assassino guardandolo con due occhi che mandavano sinistri
bagliori.
- Cos'hai che mi guardi così? - domandò Aghur.
Il bengalese non rispose e continuò a guardarlo.
- Hai scoperto qualche cosa di strano?
- Sì, - rispose Manciadi. - Aghur, ti ricordi cosa ti
dissi un'ora fa?
- L'indiano parve sorpreso ed inquieto. Forse presentiva la
catastrofe.
- Allorché mi parlasti della morte?
- Sì.
- Me lo ricordo, - rispose Aghur.
- Non ti sembra crudele morire a vent'anni, quando
l'avvenire forse sorride? Non ti sembra atroce abbandonare
questa terra indorata dal sole e profumata dall'olezzo di
mille fiori, per scendere nella tomba, nell'oscurità, nel
mistero?
- Sei pazzo? - domandò Aghur.
- No, Aghur, non sono pazzo, - disse l'assassino
avvicinandoglisi fino a toccarlo. - Guarda! -
Aprì la tunica che coprivalo e mise allo scoperto il suo
petto tatuato del serpente colla testa di donna.
- Cos'è? - chiese Aghur.
- L'emblema della morte.
- Non capisco.
- Tanto peggio per te.
Il bengalese sciolse il laccio che teneva nascosto sotto la
tunica e lo fece fischiare attorno alla sua testa.
- Aghur! - gridò, - Suyodhana ti ha condannato e devi
morire!
L'indiano comprese allora tutto. Balzò in piedi colla
carabina in mano, ma gli mancò il tempo di puntarla sul
traditore.
Un fischio tagliò l'aria e il poveretto, stretto alla gola
dal laccio, la cui palla di piombo lo percosse fortemente alla
nuca, stramazzò a terra.
- Assassino!... - urlò egli con voce strozzata.
- Aghur! - disse lo strangolatore con accento funebre. -
Saluta un'ultima volta il sole che ti accarezza, respira
un'ultima volta quest'aria che corre sulle Sunderbunds, invia
l'estremo saluto ai tuoi compagni e scendi nella tomba.
- Kammamuri!... Padrone!... - balbettò Aghur,
dibattendosi.
Il fanatico afferrò solidamente il laccio e soffocò la
voce della vittima con una violenta strappata, poi gli si
gettò sopra e col pugnale lo trafisse.
- Muori, ché la dea lo vuole! - gli gridò un'ultima volta
Manciadi.
Aghur, col volto cinereo, gli occhi schizzanti dalle orbite
cacciò fuori un rauco gemito e cercò di risollevarsi, ma
ricadde.
- E uno, - disse il fanatico, lanciando un guardo feroce
sull'assassinato. - Ora, pensiamo all'altro.
E s'allontanò a rapidi passi, mentre uno stormo di marabù
calava sul cadavere ancor caldo dell'infelice Aghur.
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