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CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

Piccolo mondo antico

Di: Antonio Fogazzaro

PARTE SECONDA

Cap. 7 Cap.8 Cap.9

7. È giuocato

Tre giorni dopo, alle cinque della mattina, in Milano, il professore Gilardoni usciva, inferraiuolato fino agli occhi, dall'Albergo degli Angeli, passava davanti al Duomo e infilava la buia contrada dei Rastelli dietro una fila di cavalli condotti a mano dai postiglioni, entrava nell'ufficio delle diligenze erariali. Il piccolo cortile dove ora è la Posta era già pieno di gente, di bestie, di lanterne. Voci di postiglioni e di conduttori, passi di cavalli, scosse di sonagliere; all'eremita della Valsolda pareva un finimondo.

Si stavano attaccando i cavalli a due diligenze, quattro per ciascuna. Il professore andava a Lodi perché aveva saputo che la marchesa era in visita presso un'amica di Lodi. La diligenza di Lodi partiva alle cinque e mezzo.

Faceva un freddo intenso e il povero professore girava inquieto intorno al carrozzone mostruoso pestando i piedi per riscaldarsi; tanto che un altro viaggiatore gli disse argutamente: "Freschino, eh? Freschinetto, freschinetto!". Quando Dio volle si finì di attaccare i cavalli, un impiegato chiamò i viaggiatori per nome e il buon Beniamino sparì nel ventre del carrozzone insieme a due preti, a una vecchia serva, a un vecchio signore con una natta enorme sul viso e a un giovine elegante. Gli sportelli furono chiusi, un comando fu dato, le sonagliere tintinnarono, il carrozzone si scosse, i preti, la vecchia, il signore dalla natta si fecero il segno della croce, i sedici zoccoli dei cavalli strepitarono sotto l'androne, le ruote pesanti lo empirono di fragore, poi tutto questo fracasso si smorzò e la diligenza svoltò a destra verso Porta Romana.

Adesso le ruote correvano quasi silenziose e i viaggiatori non sentivano più che il pestar disordinato dei sedici zoccoli sulle pietre. Il professore guardava passar le case scure, il raro chiaror dei fanali, qualche piccolo caffè illuminato, qualche garetta di sentinella. Gli pareva che il silenzio della grande città avesse qualche cosa di minaccioso e di formidabile per quei soldati, che le stesse mura delle case nereggiassero d'odio. Quando la diligenza entrò nel corso di Porta Romana, così allagato di nebbia che dai finestrini non si vedeva quasi più nulla, chiuse gli occhi e si abbandonò al piacere d'immaginar le persone e le cose che aveva nel cuore, di conversar con esse.

Non era più il viaggiatore della natta che gli sedeva in faccia, era donna Ester tutta chiusa in un gran mantello nero e col cappuccio in capo. Ella lo guardava fiso; i begli occhi gli dicevano: "Bravo, Lei fa una bella azione, mostra molto cuore, non l'avrei creduto. L'ammiro. Ella non è più né vecchio, né brutto per me. Coraggio!". A questa esortazione di aver coraggio gli veniva una stretta di paura, gli scattava in mente la immagine della marchesa; e il rumor sordo delle ruote si trasformava nella voce nasale della vecchia dama che gli diceva: "Si accomodi. Cosa desidera?".

A questo punto la diligenza si fermò e il professore aperse gli occhi. Porta Romana. Qualcuno aperse lo sportello, domandò le carte di sicurezza, e, raccoltele, si allontanò, ricomparve dopo cinque minuti, le restituì a tutti fuorché al giovine elegante. "Lei scenda", gli diss'egli. Quegli impallidì, discese in silenzio e non ritornò. Dopo un altro minuto fu chiuso lo sportello, una voce ruvida disse: "Avanti!". Il signore dalla natta collocò la sua borsa da viaggio sul sedile rimasto vuoto; nessun altro viaggiatore diede segno di accorgersi dell'accaduto. Solo quando i quattro cavalli ebbero ripreso il trotto, Gilardoni domandò al prete suo vicino se conoscesse il nome del giovine e quegli rispose bruscamente "off!", girò verso il professore due occhi sgomentati e sospettosi. Il professore guardò l'altro prete che subito trasse di tasca una corona e fattosi il segno della croce si mise a pregare. Il professore tornò a chiudere gli occhi e l'immagine del giovane sconosciuto si perdette per sempre nella nebbia come parevano perdervisi i rari fantasmi d'alberi, di pioppi e di salici, che passavano a destra e a sinistra della via.

"Come incominciare?", pensava il Gilardoni. Dalla notte di Natale in poi non aveva fatto che immaginare e discutere fra sé il modo di presentarsi alla marchesa, di entrar nell'argomento e di svolgerlo, la capitolazione da offrire. Non aveva chiara in mente che quest'ultima; ove la signora marchesa facesse un largo assegno al nipote, egli distruggerebbe le carte. Queste carte non le teneva seco; ne aveva una copia. Dovevano produrre un effetto fulmineo; ma come incominciare? Nessuno dei tanti esordi pensati lo accontentava. Anche adesso, fantasticando ad occhi chiusi, si poneva il problema partendo dal solo termine conosciuto: "Si accomodi. Cosa desidera?". Immaginava una risposta che poi gli pareva o troppo ossequiosa o troppo ardita o troppo lontana dall'argomento o troppo vicina ad esso e ricominciava la via dal solito principio: "Cosa desidera?".

Un livido chiaror d'alba, pieno d'uggia, di tristezza e di sonno, entrò nella diligenza. Adesso che l'ora del colloquio stava per giungere, mille dubbi, mille incertezze nuove mettevano in iscompiglio tutte le previsioni del professore. La stessa base de' suoi calcoli improvvisamente crollò. Se la marchesa non gli dicesse né "si accomodi" né "cosa desidera?". Se lo accogliesse Dio sa in quale altro modo imbarazzante? E se non lo volesse ricevere? Santo cielo, se non lo volesse ricevere? L'improvviso strepitar dei sedici zoccoli sopra un ciottolato gli fece battere il cuore. Ma non era ancora il ciottolato di Lodi; era il ciottolato di Melegnano.

A Lodi arrivò circa alle nove. Scese all'Albergo del Sole, ebbe una stanza dove non c'era né sole né fuoco. Non osando affrontare la nebbia delle vie, né le vampe della cucina, osò invece porsi a letto, mise il berretto da notte che sapeva le sue angustie, aspettò, con la sigaretta di canfora in bocca, qualche buona idea e il mezzogiorno.

Salì, al tocco, le scale del palazzo X., col savio proposito di scordar tutte le frasi meditate, di rimettersi alla ispirazione del momento. Un domestico in cravatta bianca lo introdusse in uno stanzone scuro, dal pavimento di mattoni, dalle pareti coperte di seta gialla, dal soffitto a stucchi, e, fatto un inchino, uscì. Poche antiche sedie a bracciuoli, bianche e dorate, con la stoffa rossa, stavano in semicerchio davanti al camino dove tre o quattro ceppi enormi ardevano adagio dietro la grata di ottone. L'aria aveva un odor misto di vecchie muffe, di vecchie pasticcerie, di vecchie mele cotte, di vecchie stoffe, di vecchia pelle, di decrepite idee, una sottile essenza di vecchiaia che faceva raggrinzar l'anima.

Il domestico ritornò ad annunciare, con grande emozione del Gilardoni, il prossimo ingresso della signora marchesa. Aspetta e aspetta, ecco aprirsi un grande uscio a fregi dorati, ecco un campanellino corrente, ecco Friend che trotta dentro fiutando il pavimento a destra e a manca, ecco una gran campana di seta nera sotto un cupolino di pizzo bianco, ecco fra due nastri celesti la parrucca nera, la fronte marmorea, gli occhi morti della marchesa.

"Che miracolo, professore, a Lodi?", disse la voce sonnolenta, mentre il cagnolino fiutava gli stivali del professore. Questi fece un profondo saluto e la dama che pareva appunto l'ampolla dell'essenza di vecchiaia, andò a porsi in un seggiolone accanto al fuoco e fece accomodare la sua bestiola in un altro; dopo di che accennò al Gilardoni di accomodarsi pure. "Suppongo", diss'ella, "che avrà qualche parente alle Dame Inglesi."

"No", rispose il professore, "veramente no."

La marchesa era faceta, qualche volta, alla sua maniera. "Allora", disse, "sarà forse venuto a far provvista di mascherponi."

"Neanche, signora marchesa. Sono venuto per affari."

"Bravo. È stato disgraziato col tempo. Mi par che piova, adesso."

A questa impreveduta diversione il professore ebbe paura di perdere la tramontana. "Sì", diss'egli sentendosi diventare sciocco come lo scolaro cui l'esame piega male: "pioviggina".

La sua voce, la sua fisionomia dovettero tradire l'imbarazzo interno, apprendere alla marchesa che egli era venuto per dirle qualche cosa di particolare. Ella si guardò bene dall'offrirgliene il bandolo, continuò a parlargli del tempo, del freddo, dell'umido, di un raffreddore di Friend che infatti accompagnava di frequenti starnuti il discorso della sua dama. La voce sonnolenta aveva un placido tono quasi ridente, una blanda benevolenza; e il professore sudava freddo al pensiero di fermare quella melliflua vena per offrir in cambio la pillola amara che aveva in tasca. Egli avrebbe potuto approfittar d'una pausa per metter fuori il suo esordio, ma non seppe farlo; e fu invece la marchesa che ne approfittò per metter fuori la sua chiusa.

"La ringrazio tanto", diss'ella, "della visita, e adesso La congedo perché Ell'avrà le Sue faccende e, per dire il vero, ho un impegno anch'io."

Qui bisognò saltare:

"Veramente", rispose il Gilardoni, tutto agitato, "io ero venuto a Lodi per parlare con Lei, signora marchesa."

"Questo", osservò la dama, gelida, "non lo avrei potuto immaginare."

Il professore trascorse avanti, nello slancio del salto.

"Si tratta di cose urgentissime", diss'egli, "e io debbo pregare..."

La marchesa lo interruppe.

"Se si tratta di affari, bisogna ch'Ella si rivolga al mio agente di Brescia."

"Scusi, signora marchesa; si tratta d'un affare specialissimo. Nessuno sa e nessuno deve sapere che sono venuto da Lei. Le dico subito che si tratta di Suo nipote."

La marchesa si alzò e il cane accovacciato sul seggiolone si levò pure, abbaiando verso il Gilardoni.

"Non mi parli", disse solennemente la vecchia signora, "di quella persona che per me non esiste più. Andiamo, Friend."

"No, signora marchesa!", ripigliò il professore. "Ella non può assolutamente immaginare cosa Le dirò!"

"Non m'importa di niente, non voglio saper niente, La riverisco!"

La inflessibile dama si mosse, così dicendo, verso l'uscio.

"Marchesa!", esclamò alle sue spalle il professor Beniamino, mentre Friend, saltato dal seggiolone, gli abbaiava disperatamente alle gambe: "Si tratta del testamento di Suo marito!"

Stavolta la marchesa non poté a meno di fermarsi. Tuttavia non si voltò.

"Questo testamento non Le può piacere", soggiunse rapidamente il Gilardoni, "ma io non ho l'intenzione di pubblicarlo. Mi ascolti, La supplico, marchesa!"

Ella si voltò. La faccia impenetrabile tradiva una certa emozione nelle narici. Neppure le spalle eran del tutto tranquille.

"Che storie mi conta?", rispose. "Le pare una bella convenienza di venire a nominarmi, così senza riguardi, il povero Franco? Cosa c'entra Lei negli affari della mia famiglia?"

"Perdoni", replicò il professore frugandosi in tasca. "Se non c'entro io, ci potrebbero entrare altri con meno riguardi di me. Abbia la bontà di vedere i documenti. Queste..."

"Si tenga i suoi scartafacci", interruppe la marchesa vedendogli levar di tasca delle carte.

"Queste sono le copie fatte da me..."

"Le dico che se le tenga, che se le porti via!"

La marchesa suonò un campanello e si avviò da capo per uscire. Il professore, tutto fremente, udendo venir un domestico, vedendo lei aprir l'uscio, gittò le sue carte sopra una seggiola, disse sottovoce in fretta e furia: "Le lascio qui, non le veda nessuno, io sono al Sole, ritornerò domani, le guardi, ci pensi bene!", e prima che arrivasse il domestico, scappò per la parte ond'era venuto, tolse il ferraiuolo, infilò le scale.

La marchesa rimandò il domestico, stette un poco in ascolto, poi ritornò sui suoi passi, prese le carte, andò a chiudersi nella sua stanza e, inforcati gli occhiali, incominciò a leggere presso la finestra. La faccia era oscura e le mani tremavano.

Il professore stava per andare a letto nella sua camera gelata del Sole, quando due poliziotti vennero a recargli l'ordine di recarsi immediatamente all'ufficio di Polizia.

Egli sentì bene un certo rimescolamento interno ma non si smarrì e partì con essi. Alla Polizia, un piccolo Commissario insolente gli domandò perché fosse venuto a Lodi e avutone risposta che c'era venuto per affari privati, fece un atto d'incredulità sprezzante. Che affari privati pretendeva avere a Lodi il signor Gilardoni? Con chi? Il professore nominò la marchesa. "Ma se nessuna Maironi sta a Lodi!", esclamò il Commissario, e perché l'altro protestava, lo interruppe subito: "Basta, basta, basta!". La Polizia sapeva di certo che il signor Gilardoni, quantunque I. R. pensionato, non era un leale austriaco, che aveva degli amici a Lugano e ch'era venuto a Lodi con un fine politico.

"Lei ne sa più di me!", esclamò il Gilardoni soffocando a stento la collera.

"Faccia silenzio!", gl'intimò il Commissario. "Del resto Ella non deve credere che l'I.R. Governo abbia paura di Lei. È libero di andare. Solamente deve lasciar Lodi entro due ore!"

Qui Franco avrebbe capito subito di dove veniva il colpo; il filosofo non capì.

"Son venuto", diss'egli, "a Lodi per un affare urgente che non ho finito, per un interesse privato gravissimo. Come posso partire dentro due ore?"

"Con una vettura. Se, trascorse due ore, Ella è ancora in Lodi, La faccio arrestare."

"La mia salute", replicò la vittima, "non mi permette di viaggiare di notte in dicembre."

"Ebbene, La farò arrestare subito."

Il povero filosofo prese in silenzio il suo cappello e uscì.

Un'ora dopo egli partiva per Milano in un calessino chiuso, con i piedi nella paglia, con una coperta sulle gambe, con una gran sciarpa al collo, pensando che aveva pur fatto una bella spedizione e inghiottendo saliva ogni momento per sentir se gli doleva la gola. Notte infame davvero; ma non la passò sulle rose neppur la signora Marchesa.

8. Ore amare

L'ultimo dì dell'anno, mentre Franco stava scrivendo le minutissime istruzioni che intendeva lasciare a sua moglie per il governo del giardinetto e dell'orto, mentre lo zio rileggeva per la decima volta la sua favorita Storia della diocesi di Como, Luisa uscì a passeggio con Maria. Splendeva un tepido sole. Non v'era neve che sul Bisgnago e sulla Galbiga. Maria trovò una viola presso il cimitero e un'altra la trovò in fondo alla Calcinera. Lì faceva veramente caldo, l'aria aveva un lieve aroma di alloro. Luisa sedette con le spalle al monte, permise che Maria si divertisse ad arrampicarsi e sdrucciolar sull'erba secca dietro a lei, e pensò.

Non aveva riveduto il professor Gilardoni dopo la notte di Natale e desiderava parlargli, non per udir da capo la storia del testamento Maironi, ma per farsi raccontare il suo colloquio con Franco quando gliel'aveva mostrato, per conoscere le prime impressioni di Franco e l'opinione del professore. Poiché il testamento era stato distrutto, ciò aveva solamente un'importanza psicologica. La curiosità di Luisa non era però una fredda curiosità di osservatrice. La condotta di suo marito l'aveva gravemente offesa. Pensandoci e ripensandoci, come aveva fatto dalla notte di Natale in poi, s'era persuasa che anche il silenzio serbato con lei fosse un peccato grave contro il diritto e l'affetto. Ora le riusciva amaro il sentirsi diminuir la stima per suo marito, tanto più amaro alla vigilia della sua partenza e in un momento in cui egli meritava lode. Avrebbe voluto almeno sapere che quando il Gilardoni gli aveva mostrato quelle carte vi era stata in lui una lotta, che il sentimento più giusto si era sollevato almeno un momento nell'anima sua. Si alzò, prese Maria per mano e si avviò verso Casarico.

Trovò il professore nell'orto, col Pinella, disse a Maria di andar a correre, a giuocare insieme al Pinella, ma la bambina, sempre avida di ascoltar i discorsi delle persone grandi, non volle assolutamente saperne. Allora entrò nell'argomento senza pronunciar nomi. Voleva parlare al professore di quelle tali carte, di quelle vecchie lettere. Il professore, rosso, rosso, protestò che non capiva. Per fortuna il Pinella chiamò Maria mostrandole un libro d'immagini e Maria, vinta dal libro, corse a lui. Allora Luisa levò al professore gli scrupoli, gli disse che sapeva tutto da Franco stesso, gli confessò di aver disapprovato suo marito, di aver provato e di provare ancora un gran dolore...

"Perché perché perché?", interruppe il buon Beniamino. Ma perché Franco non aveva voluto far nulla! "Ho fatto io, ho fatto io, ho fatto io!", disse il Gilardoni, tutto acceso e trepidante, "ma per amor del cielo non dica niente a Suo marito!". Luisa restò sbalordita. Ma cosa aveva fatto il professore? Ma quando? Ma come? Ma il testamento non era stato distrutto?

Allora il professore, rosso come una bragia, facendo degli occhi spiritati, intercalando il suo dire di "ma per carità, neh? - ma zitto, neh?", mise fuori tutti i suoi segreti, la conservazione del testamento, il viaggio a Lodi. Luisa lo ascoltò sino alla fine, poi fece "ah!" e si strinse forte forte il viso fra le mani.

"Ho fatto male?", esclamò il professore, spaventato. "Ho fatto male, signora Luisina?"

"Altro che male! Malissimo! Mi scusi, sa, Lei ha avuto l'aria di andare a proporre una transazione, un mercato! E la marchesa crederà che siamo d'accordo! Ah!"

Ella strinse e scosse le mani congiunte come se avesse voluto rimaneggiarvi, rimpastarvi dentro una testa professorale più quadra. Il povero professore, costernato, andava ripetendo: "Oh Signore! Oh povero me! Oh che asino!", senza tuttavia comprender bene quale asinata avesse commesso. Luisa si buttò sul parapetto verso il lago, a guardare nell'acqua. Balzò su a un tratto, batté il dorso della destra sul palmo della sinistra, il suo viso s'illuminò. "Mi conduca nel Suo studio", diss'ella. "Posso lasciar qui Maria?". Il professore accennò di sì e l'accompagnò, tutto palpitante, nello studio.

Luisa prese un foglio di carta e scrisse rapidamente:

"Luisa Maironi Rigey fa sapere alla marchesa Maironi Scremin che il professore Beniamino Gilardoni è un ottimo amico di suo marito e suo, ma che ne fu disapprovato per l'uso inopportuno di un documento destinato a sorte diversa: che perciò nessuna comunicazione si attende né si desidera da parte della signora marchesa".

Com'ebbe scritto, tese silenziosamente la lettera al professore. "Oh no!", esclamò il professore dopo aver letto. "Per amor del cielo, non mandi questa lettera! Se Suo marito lo sa! Pensi che dispiacere immenso, per me, per Lei! E come Suo marito non lo avrebbe a sapere?". Luisa non rispose, lo guardo a lungo, non pensando a lui, pensando a Franco, pensando che forse la marchesa potrebbe prendere quella lettera per un artificio, per uno spauracchio. La riprese e la stracciò sospirando. Il professore, raggiante, le voleva baciar la mano. Ella protestò: non lo aveva fatto né per lui né per Franco, lo aveva fatto per altre ragioni! Il sacrificio del suo sfogo la esacerbò, anzi, contro Franco. "Ha torto! Ha torto!", ripeteva col cuore amaro. E né lei né il professore si accorsero che Maria era nella stanza. Vista partir sua madre, la piccina non aveva più voluto restar col Pinella e il Pinella l'aveva condotta fino all'uscio dello studio, gliel'aveva aperto senza far rumore. La piccina, colpita dall'aspetto di sua madre, si fermò a fissarla con una espressione di sgomento. La vide stracciar la lettera, la udì esclamare "ha torto!" e si mise a piangere. Luisa accorse, la prese tra le braccia, la consolò e partì subito. Le ultime parole del professore nel congedarsi, furono: "Per carità, silenzio!".

"Cosa, silenzio?", domandò subito Maria. Sua madre non le badò; tutti i suoi pensieri erano altrove. Maria ripeté tre o quattro volte: "Cosa, silenzio?". Quando finalmente si udì rispondere "zitto, basta" tacque un poco e poi ricominciò rovesciando all'indietro la sua testolina ridente, proprio per stuzzicar la mamma: "Cosa, silenzio?". Ne fu sgridata forte, tacque ancora, ma passando sotto il cimitero, a pochi passi da casa, ricominciò da capo, con lo stesso riso malizioso. Allora Luisa, tutta raccolta nello sforzo di comporsi una maschera indifferente, le diede solo una strappata, che però bastò a farla tacere.

Maria era molto allegra, quel giorno. A pranzo, scherzando con la mamma, si ricordò dei rimproveri toccati a passeggio, la guardò sottecchi col solito risolino timido e provocatore, mise ancora fuori il suo "cosa, silenzio?". La mamma finse di non udire ed ella insistette. Luisa la fermò allora con un "basta!" così insolitamente vibrato che la boccuccia di Maria si aperse piano piano e le lagrime scoppiarono. Lo zio fece "oh povero me!" e Franco diventò scuro, si capì che disapprovava sua moglie. Poiché Maria piangeva e piangeva, si sfogò addosso a lei; la prese tra le braccia, la portò via che strillava come un'aquila. "Meglio ancora!", esclamò lo zio. "Bravissimi!" "Lasci un po' fare, Lei", gli disse la Cia mentre Luisa taceva. "I genitori devono farsi ubbidire, già." "Ma sì, così mi piace", le rispose il padrone, "mettete fuori anche voi la vostra sapienza." Ella si azzittì tutta ingrugnata.

Intanto Franco, piantata Maria in un angolo dell'alcova, ritornò e brontolò qualche parola sul voler far piangere i bambini per forza, per cui Luisa s'imbronciò alla sua volta, andò in cerca di Maria, la ricondusse lagrimosa ma silenziosa. Il breve desinare finì male perché Maria non volle più mangiare e tutti erano imbronciati per una ragione o per l'altra, meno lo zio Piero il quale si mise ad arringar Maria con dei predicozzi mezzo serii mezzo scherzosi, tanto che le fece tornare un po' di sole in viso. Dopo pranzo Franco andò a vedere di certi vasi che teneva nel sotterraneo sotto il giardinetto pensile e prese Maria con sé, la interrogò benignamente, vedendola ormai allegra, sull'origine di tanti guai. "Che significava questo cosa, silenzio?" "Non lo so." "Ma perché la mamma non voleva che tu dicessi così?" "Non lo so. Io dicevo sempre così e la mamma mi sgridava sempre." "Quando?" "A passeggio." "Dove sei stata, a passeggio?" "Dal signor Ladroni." (Lo zio le aveva facilitato il nome del professore così.) "E hai cominciato in casa del signor Ladroni a dire questa cosa?" "No, è stato il signor Ladroni che ha detto così alla mamma." "Cosa ha detto?" "Ma, papà, non capisci niente! Ha detto: per carità, silenzio!". Franco non parlò più. "La mamma ha stracciato una carta, anche, dal signor Ladroni", soggiunse Maria, stimando, adesso, far tanto maggior piacere a suo padre quante più cose gli raccontava di questa visita. Suo padre le impose di tacere. Ritornato in casa, domandò a Luisa, con un viso poco benevolo, perché avesse fatto piangere la bambina. Luisa lo guardò, le parve che sospettasse, gli domandò risentita se dovesse giustificarsi di queste cose. "Oh no!", fece suo marito, freddo; e se ne andò in giardinetto a veder se le foglie secche al piede degli aranci e la paglia intorno al tronco fossero in ordine perché la notte si annunziava rigida. Lavorando intorno alle piante si disse amaramente che se avessero avuto senso e parola, gli si sarebbero mostrate più riconoscenti, più affettuose del solito per la sua prossima partenza, mentre Luisa aveva cuore di essergli aspra. D'essere stato aspro egli stesso non gli venne in mente. Luisa, dal canto suo, si dolse subito d'avergli risposto così, ma non poteva trattenerlo, gittarglisi al collo e finirla con due baci; troppo le pesava sul cuore l'altra cosa! Franco finì di accomodar le fasciature a' suoi aranci e rientrò a pigliarsi il mantello per andar in chiesa ad Albogasio. Luisa che stava in cucina sbucciando delle castagne, lo udì passare pel corridoio, stette un momento in forse, lottando con se stessa, poi balzò fuori, lo raggiunse mentre stava per scender le scale.

"Franco!", diss'ella. Franco non rispose, parve respingerla. Ella lo afferrò allora per un braccio, lo trasse nella vicina camera dell'alcova. "Cosa vuoi?", diss'egli, scosso ma desideroso di tenersi il suo rancore. Luisa non gli rispose, gli cinse con le braccia il collo riluttante, gli piegò il viso sul petto e disse sottovoce:

"Non dobbiamo esser in collera, sai, in questi giorni".

Egli, che aveva aspettato parole di scusa, si staccò dal collo le braccia di sua moglie e rispose asciutto:

"Io non sono in collera. Mi racconterai poi", soggiunse, "cosa ti ha confidato il signor professore Gilardoni di tanto segreto da doverti raccomandare il silenzio".

Luisa lo guardò attonita, addolorata. "Tu hai sospettato di me", diss'ella, "e hai interrogato la bambina? Hai fatto questo?"

"Ebbene", diss'egli, "e se avessi fatto questo? Del resto tu pensi sempre il peggio di me, si sa. Bene, guarda, non voglio saper niente." Ella lo interruppe, "ma te lo dirò, ma te lo dirò", ed egli allora cui la coscienza rimordeva un poco per l'interrogatorio di Maria, vedendo poi anche Luisa disposta a parlare, non volle assolutamente udirla, le proibì di spiegarsi. Ma il suo cuore traboccava di amarezza e gli occorreva pure uno sfogo. Si dolse che dopo la notte di Natale ella non fosse più stata con lui la solita Luisa. A che valevano le proteste? Lo aveva capito bene. Del resto era tanto tempo ch'egli aveva capito una cosa! Che cosa? Oh, una cosa naturale! Naturalissima! Meritava egli di essere amato da lei? No certo; egli era un povero disutile e niente altro. Non era naturale che dopo averlo conosciuto bene, ella lo amasse meno? Perché certo certo lo amava meno di una volta.

Luisa tremò che questo fosse vero, disse "no, Franco, no" e lo sgomento di non saperlo dire con energia bastante le paralizzò la voce. Egli che aveva sperato una smentita violenta, sussurrò atterrito: "Dio mio!". Allora fu lei che si atterrì, fu lei che lo strinse disperatamente fra le braccia singhiozzando "ma no! ma no! ma no!". S'intesero sino al fondo con una comunicazione magnetica e stettero a lungo abbracciati, parlandosi in un muto sforzo spasmodico di tutto l'esser loro, dolendosi l'uno dell'altro, rimproverandosi, volendosi appassionatamente riprendere, gustando il piacere acuto e amaro di unirsi per un momento con la volontà e con l'amore malgrado la intima disunione delle loro idee e della loro natura; tutto senza una parola, senza una sola voce.

Franco partì per andare in chiesa. Non volle invitar Luisa ad accompagnarlo, sperando ch'ella lo facesse spontaneamente; ed ella non lo fece dubitando che gli fosse gradito.

La mattina del sette gennaio, dopo le dieci, lo zio Piero fece chiamare Franco.

Lo zio stava ancora a letto. Si alzava tardi, non potendo riscaldare la stanza e non volendo, per economia, accendere il fuoco nel salottino troppo per tempo. Però il freddo non gl'impediva di tirarsi su a leggere, con mezzo il petto e ambedue le braccia fuori delle coperte.

"Ciao", diss'egli quando Franco entrò.

Dal tono del saluto, dalla bella faccia seria nella sua bontà, Franco intese che lo zio aveva pronte parole insolite.

Lo zio gl'indicò infatti la sedia presso il letto, e disse il più solenne dei suoi esordi:

"Sètet giò".

Franco sedette.

"Dunque parti domani?"

"Sì, zio."

"Bene."

Parve che nel metter fuori quel "bene" il cuore dello zio gli fosse venuto in bocca, tanto la parola gli gonfiò le guance, gli uscì piena e sonora.

"Tu", riprese il vecchio, "non mi hai udito fino ad ora, dirò così, approvare né disapprovare il tuo progetto. Forse avrò dubitato un poco che lo effettuassi. Adesso..."

Franco gli stese ambedue le mani. "Adesso", continuò lo zio, tenendogliele strette fra le proprie, "visto che sei fermo nella tua idea, ti dico: l'idea è buona, il bisogno c'è, va, lavora, il lavoro è una gran cosa. Dio ti faccia incominciar bene e poi ti faccia perseverare, ch'è il più difficile. Ecco."

Franco gli voleva baciar le mani, ma lo zio fu pronto a ritirarle. "Lassa stà, lassa stà!". E riprese a parlare.

"Adesso senti. È possibile che non ci vediamo più." Proteste di Franco. "Sì sì sì", rispose il vecchio ritirando l'anima dagli occhi e dalla voce, "tutte belle cose, cose che bisogna dire. Lascia stare."

Gli occhi ripresero la loro luce seria e buona, la voce il suo tono grave.

"È possibile che non ci vediamo più. Del resto ti domando io cosa ci faccio, oramai, a questo mondo. E per voi sarebbe meglio che me ne andassi. Forse a tua nonna dispiace che io vi abbia raccolti, forse le sarà più facile, poi, di riconciliarsi con voi. Perciò, posto che non ci vediamo più, ti prego, appena morto io, se le cose non saranno ancora accomodate, di fare qualche passo."

Franco si alzò, abbracciò lo zio con le lagrime agli occhi.

"Testamento", riprese lo zio, "non ne ho fatto e non ne faccio. Il poco che ho è di Luisa; non occorre testamento. Vi raccomando la Cia; fate che non le manchi un letto e un tozzo di pane. Per i funerali bastano tre preti che mi cantino un requiem di cuore; il nostro, l'Introini e il prefetto della Caravina; c'è mica bisogno di farne cantare cinque o sei per amor del candirott e del vin bianch. Per il mio vestiario lasciamo fare a Luisa che saprà dove metterlo a posto. Il mio orologio a ripetizione lo prenderai tu per mia memoria. Vorrei lasciare un ricordo anche a Maria, ma come si fa? Potrai pigliar un pezzo della mia catena d'oro. Se hai una medaglietta, un crocifisso, glielo attacchi al collo con la mia catena. E amen."

Franco piangeva. Era una gran commozione di sentire lo zio parlar della sua morte così serenamente come di un affare qualsiasi da condur con giudizio e onestà; lo zio che discorrendo con gli amici pareva tanto attaccato alla vita, che diceva sempre: "Se se pò schivà quella tal crepada!".

"Oh e adesso contami!", diss'egli. "Che lavoro speri di trovare?"

"Per ora, nell'ufficio d'un giornale a Torino, mi scrive T. Forse in avvenire si troverà qualche cosa di meglio. Se poi al giornale non potessi vivere e se non trovassi altro, ritornerei. Per questo bisogna tener la cosa segretissima, almeno per il primo tempo."

Quanto al segreto, lo zio era incredulo. "E le lettere?", diss'egli.

Per le lettere era combinato che Franco scriverebbe a Lugano fermo in posta, che Ismaele porterebbe alla posta di Lugano le lettere della famiglia e ritirerebbe quelle di Franco. E che si doveva dire ai conoscenti? Si era già detto che Franco andava a Milano il giorno otto per affari e che sarebbe stato assente forse un mese, forse anche più.

"Questo dover infinocchiar la gente non è la più bella cosa del mondo", disse lo zio, "ma insomma! Io ti abbraccio adesso, neh, Franco, perché so che domani mattina parti per tempo e oggi difficilmente saremo soli. Dunque addio. Ti raccomando tutto da capo e non dimenticarti di me. Oh, un'altra cosa. Tu vai a Torino. Io, come impiegato, ho inteso servire il mio paese. Non ho cospirato, non vorrei cospirare neanche adesso, ma al mio paese ci ho sempre voluto bene. Insomma, salutami la bandiera tricolore. Ciao, neh!"

Qui lo zio aperse le braccia.

"Verrai anche tu, zio, in Piemonte", gli disse Franco alzandosi commosso da quell'abbraccio. "Se posso appena guadagnarmi quel che strettamente bisogna, vi faccio venire tutti."

"E no, caro. Son troppo vecchio, non mi muovo più."

"Ebbene, verrò io questa primavera con duecentomila miei amici."

"Eh sì! Düsent mila zücch! Belle idee, belle speranze! Oh, è qui, signorina Ombretta Pipì?"

Ombretta Pipì, così Maria era chiamata in casa nei momenti di buon umore, entrò impettita e grave. "Buon giorno, zio. Mi dici l'Ombretta Pipì?"

Suo padre la prese e la posò sul letto dello zio che la raccolse a sé sorridendo, se la fece sedere sulle gambe.

"Venga qua, signorina. Ha dormito bene? E la bambola, ha dormito bene? E il mulo, ha dormito bene? Ah non c'era? Tanto meglio. Sì, sì, adesso vengo con l'Ombretta. E un bacio, niente? E un altro, no? Allora bisogna proprio dire:

Ombretta sdegnosa

Del Missipipì,

Non far la ritrosa

E baciami qui."

Maria lo ascoltò come se udisse i versi per la prima volta; e poi, fuori a ridere, a saltare, a battere le mani. E lo zio rideva come lei.

"Papà", diss'ella facendosi seria, "perché piangi? Sei in castigo?"

Si aspettavano alquante visite, in quel giorno, di conoscenti che avevan promesso di venire a congedarsi da Franco prima della sua partenza per Milano. Luisa fece il miracolo di accender la stufa in Siberia, come lo zio chiamava la sala, e vi si trovarono insieme donna Ester, i due indivisibili Paoli di Loggio, il Paolin e il Paolon, il professor Gilardoni che vi sofferse di una trepidazione, di una inquietudine continua perché Luisa, non avendo ancora allestito il bagaglio di Franco, andava e veniva dalla camera dell'alcova, chiamava Ester ogni momento ed Ester era quindi sempre in moto, quando passava dietro al professore, quando gli passava davanti, quando a destra, quando a sinistra. Al pover'uomo pareva di stare in un turbine magnetico.

Ecco capitare, molto inattesa perché dopo la perquisizione non s'era più veduta, anche la signora Peppina. "Oh cara la mia süra Lüisa! Oh car el me sür don Franco! L'è vera ch'el voeur propi andà via?" Adesso è il Paolin che si dimena un poco sulla sedia perché ha l'idea che la süra Peppina sia mandata dal marito per vedere chi c'è e chi non c'è intorno all'uomo sospetto, nella casa scomunicata. Vorrebbe andarsene subito col suo Paolon, ma il Paolon è più grosso. "Come se fa adèss con sto vioròn chì ch'el capiss nagott?", pensa il Paolin, e, senza guardare il Paolon, gli dice sottovoce: "Andèmm, Paol! Andèmm!" Il Paolon stenta infatti molto a capire ma finalmente si alza, se ne va col Paolin, piglia la sua sulle scale.

Franco ebbe lo stesso pensiero del Paolin e salutò la signora Peppina con mal garbo. La povera donna ne avrebbe pianto perché voleva tanto bene a sua moglie e teneva in gran concetto anche lui; ma capiva la sua avversione; la scusava in cuor suo. Appena osava guardarlo di tempo in tempo, umile, con un'aria di cane bastonato. Si tolse la Maria sulle ginocchia, le parlò del suo buon papà, del suo caro papà che andava via. "Chi sa che dispiasè, neh ti poera vèggia? Chi sa che magòn? Poer ratin. Andà via el papà! On papà de quella sort!" Franco discorreva col professore ma udiva e fremeva d'impazienza. Fu contentissimo che la Veronica venisse a chiamarlo.

Lo volevano nell'orto. Vi discese, trovò il signor Giacomo Puttini e don Giuseppe Costabarbieri ch'eran venuti per salutarlo ma, informati dal Paolin e dal Paolon, desideravano non farsi vedere dalla süra Peppina. Anche il suolo dell'orto scottava loro i piedi. Mentre il piccolo eroe magro si difendeva, soffiando, dagl'inviti di Franco a salire in casa, il piccolo eroe grasso girava vivacemente la testa e gli occhietti come un merlo di buon umore, a guardar ora il monte ora il lago, quasi per un'abitudine di sospetto. Scorse una barca che veniva da Porlezza. Chi sa? Non potrebb'essere l'I.R. Commissario? Benché la barca fosse ancora lontana, pensò subito di cavarsela, pensò di andar col Puttini a visitar il Ricevitore per aver la fortuna di non trovar la süra Peppina in casa.

Scambiati con Franco saluti sommessi e frettolosi, i due vecchi leproni trottarono via a testa bassa e Franco rimase nell'orto. L'aria era mite, il picco di Cressogno saliva senza neve, tutto glorioso di sole, nel sereno, il sole dorava ancora le coste giallognole della Valsolda picchiettate di ulivi, mentre dall'altra parte del lago scendevano sino all'acqua, nell'ombra azzurrognola, i grandi padiglioni bianchi della Galbiga nevosa e del Bisgnago. Franco stette a guardare col cuore grosso il caro paese dei suoi sogni, de' suoi amori. "Addio, Valsolda", pensò. "E adesso voglio salutare anche voialtre."

Voialtre erano le sue piante, gli aranci amari, l'olea sinensis, il nespolo del Giappone, il pinus pinea, che verdeggiavano a giusti intervalli lungo il viale diritto, fra le aiuole degli erbaggi e il lago; erano i rosai, i capperi, le agavi che uscivano a pender sopra l'acqua dai fori praticati nel muro. Tutte piccole vite, ancora; il colosso della famiglia, il pino, non misurava tre metri; piccole, pallide vite che parevano sonnecchiare nel pomeriggio invernale. Ma Franco le vedeva nell'avvenire come le aveva pensate piantandole col suo fine sentimento del grazioso e del pittoresco. Ciascuna portava in sé una intenzione di lui.

Le nobili pianticelle del viale, sorgendo sugli erbaggi, dovevano significare una certa finezza di spirito e di cultura nella modesta fortuna della famiglia. Gli aranci avevano il compito speciale di dare al quadretto una intonazione mite e gentile; il dovere del nespolo era di alzare e allargar le braccia frondose sopra un futuro sedile; i rosai e i capperi del muro verso il lago dovevano dire a chi passava in barca la fantasia d'un poeta; le agavi vi avrebbero risposto, in un accordo minore, agli aranci, compagni di esilio; finalmente gli alti destini del pino erano di spiegar un grazioso ombrello sulla breve oasi, di porre il suo accento meridionale sopra l'accordo delle agavi e degli aranci, di incorniciar con la sua verde corona il piccolo seno azzurro di Casarico. Addio, addio! Pareva a Franco che le pianticelle gli rispondessero tristemente: "Perché ci lasci? Che sarà di noi? Tua moglie non ci ama come te".

Intanto la barca veduta da don Giuseppe aveva camminato e passava davanti all'orto, alquanto discosto dalla riva. V'erano un signore e una signora. Il signore si alzò in piedi e salutò con voce squillante: "Addio, don Franco! Evviva!". La signora sventolò il fazzoletto. Erano i Pasotti. Franco salutò col cappello.

I Pasotti! In Valsolda di gennaio! Che ci venivano a fare? E quel saluto! Pasotti che dopo la perquisizione non si era fatto più vedere, Pasotti salutar così? Che voleva dir ciò? Franco, perplesso, salì in casa, diede la notizia. Tutti stupirono e sopra tutti la süra Peppina: "Ma comè? El dis de bon? El sür Controlòr? Poer omasc! Anca la süra Barborin? Poera donnètta!". Si commentò il fatto. Chi supponeva una cosa e chi un'altra. Dopo cinque minuti Pasotti entrò strepitando, trascinandosi dietro la signora Barborin carica di scialli e di fagotti, mezza morta dal freddo. Povera creatura, non sapeva dir altro che "dò ôr! dò ôr in barca!" mentre suo marito schiamazzava ghignando negli occhi diabolici: "Le fa bene, le fa bene! Le ho cacciato giù un bicchierino di ginepro a Porlezza. Ha fatto smorfie d'inferno, ma sta benone!". La povera sorda, indovinando che parlava del ginepro, girava gli occhi per il soffitto, rifaceva le smorfie di Porlezza. Pasotti non era mai stato così espansivo. Baciò la mano a Luisa, abbracciò l'ingegnere e Franco accompagnando gli atti con effusioni e profluvi di sentimento. "Carissima donna Luisa! Signora ammirabile e perfetta. Car el me Peder! Car el me re de coeur! Il mondo è grande ma on alter Peder el gh'è propri no, va là! E questo don Franco! Caro il mio Francone! Pensare come t'ho veduto io! In sottane e grembialino. Quando andavi a rubar i fichi al prefetto della Caravina! Sto baloss chì!"

Il "baloss" non faceva il viso più incoraggiante del mondo ma l'altro non se ne dava per inteso. Altrettanto poco poteva intendersi sua moglie con le signore che l'interrogavano.

"Come l'ha mai faa, süra Pasotti", le gridava la signora Peppina, "a vegnì in Valsolda de sto temp chì?" "Oh dèss, la capiss nient, poera donnètta." Per quanto anche Luisa ed Ester le gridassero nelle orecchie la stessa domanda, per quanto ella spalancasse la bocca, la sorda non capiva, andava rispondendo a caso: "Se ho mangiàa? Se voeui disnà chì?". Intervenne Pasotti, disse che in ottobre egli e sua moglie eran partiti per un richiamo di affari, senza fare il bucato, che sua moglie lo andava seccando da un pezzo per questo benedetto bucato, che finalmente si era risolto di accontentarla e di venire. Allora donna Ester si voltò verso la Pasotti a far l'atto di lavare.

La Pasotti guardò suo marito che le teneva gli occhi addosso e rispose: "Sì sì, la bügada, la bügada!". Quell'occhiata, l'impero che lesse negli occhi del Controllore fecero sospettare Luisa che vi fosse sotto un mistero. Questo mistero e le inesplicabili espansioni di Pasotti le suggerirono un altro sospetto. Se fosse venuto per loro? Se nelle cause di questa improvvisa venuta ci avesse parte il viaggio del professore a Lodi? Avrebbe voluto consultarsi col professore, dirgli di fermarsi fino a che i Pasotti fossero partiti; ma come parlargli poi senza che se ne avvedesse Franco? Intanto donna Ester prese congedo e il professore che aveva ottenuto il perdono della capricciosetta, perfidetta signorina, a patto di non domandare il paradiso, ebbe licenza di accompagnarla a casa.

I Pasotti non potevano salire ad Albogasio Superiore fino a che il mezzadro, fatto avvertire subito, non avesse posto loro in ordine e riscaldata almeno una stanza. Parlò subito di piantare un tarocchino in tre con l'ingegnere e Franco. Allora se ne andò anche la signora Peppina e la Pasotti chiese a Luisa di ritirarsi un momento, la pregò di accompagnarla. Appena fu sola coll'amica nella camera dell'alcova si guardò attorno con due occhioni spaventati e poi sussurrò: "Sèm minga chì per la bügada neh, sèm minga chì per la bügada!". Luisa la interrogò silenziosamente, col viso e col gesto, perché a parlar forte in sala avrebbero udito. Stavolta la Pasotti capì, rispose che non sapeva niente, che suo marito non le aveva detto niente, che le aveva imposto la storia del bucato ma che del bucato a lei non importava nulla. Allora Luisa prese un pezzo di carta e scrisse: "Cosa sospetti?". La Pasotti lesse e poi cominciò una mimica complicatissima. Scrollamenti del capo, stralunamenti d'occhi, sospiri, invocazioni al soffitto; pareva che si combattesse dentro di lei una gran battaglia di timori e di speranze. Finalmente fece "ah!", afferrò la penna e scrisse sotto la domanda di Luisa:

"La marchesa!".

Lasciò cader la penna, stette a contemplar l'amica. "L'è a Lod", diss'ella sottovoce. "El Controlòr l'è staa a Lod. Speri comè!" E poi scappò in sala temendo esser sospettata da suo marito.

Finito il tarocco, Pasotti si accostò a una finestra, disse forte qualche cosa sugli effetti della luce crepuscolare e chiamò Franco. "Bisogna che tu venga stasera da me", gli disse piano, "devo parlarti." Franco cercò schermirsi. Partiva l'indomani mattina per Milano, lasciava la famiglia per qualche tempo, gli era difficile passar la sera fuori di casa. Pasotti replicò ch'era assolutamente necessario. "Si tratta del tuo viaggio di domani", diss'egli.

"Si tratta del tuo viaggio di domani!" Appena partiti i Pasotti per Albogasio Superiore, Franco riferì questo colloquio a sua moglie. Egli n'era stato turbatissimo. Pasotti sapeva, dunque; non avrebbe fatto tanti misteri se non avesse inteso alludere al viaggio di Torino. E Franco era seccatissimo che Pasotti sapesse. Ma in che modo? L'amico di Torino poteva essere stato imprudente. E adesso che voleva da lui, Pasotti? C'era forse in aria qualche altro colpo della Polizia? Ma Pasotti non era l'uomo da venire ad avvertirnelo! E tutto quel voltafaccia di amabilità? Non si voleva ch'egli andasse a Torino, forse. Non si voleva che trovasse una strada buona, un modo di sottrarre sé e i suoi alla povertà, ai commissari e ai gendarmi! Pensa e ripensa, non poteva essere che questo. Luisa n'era poco persuasa, in cuor suo. Temeva altra cosa; non dubitava però neppur lei che Pasotti sapesse di Torino e ciò scompigliava tutte le sue supposizioni. Insomma non c'era che andare e udire.

Franco andò alle otto, Pasotti lo ricevette colla più affettuosa cordialità e gli fece le scuse di sua moglie ch'era già a letto. Prima d'entrar in argomento volle assolutamente che pigliasse un bicchiere di S. Colombano e una fetta di panettone. Col vino e col dolce Franco dovette inghiottire, suo malgrado, molte dichiarazioni di amicizia, i più sperticati elogi di sua moglie, di suo zio e di lui stesso. Vuotato finalmente il bicchiere ed il piatto, il mellifluo bargnìf si mostrò disposto ad entrare in materia.

Erano seduti a un tavolino, l'uno in faccia all'altro. Pasotti, appoggiato comodamente alla spalliera della seggiola, teneva tra le mani un fazzoletto rosso e giallo di foulard, lo andava palpando.

"Dunque", diss'egli, "caro Franco, come ti dicevo, si tratta del tuo viaggio di domani. Ho inteso dire oggi a casa tua che parti per affari: si tratta di vedere se io non ti porto un affare anche più grosso di quello che hai a Milano."

Franco, sorpreso da questo inaspettato esordio, tacque. Pasotti chinò gli occhi sul fazzoletto senza restare di maneggiarlo e riprese:

"Il mio caro amico don Franco Maironi si può immaginare che se io entro in argomento intimo e delicato, ho una ragione grave di farlo, sento il dovere di farlo e sono autorizzato a farlo".

Le mani si fermarono, gli occhi brillanti e acuti si alzarono a quelli torbidi e diffidenti di Franco.

"Si tratta, mio caro Franco, del tuo presente e del tuo avvenire."

Ciò detto, Pasotti posò risolutamente il foulard da banda. Appoggiate le braccia e giunte le mani sul tavolino entrò nel cuore dell'argomento tenendo sempre gli occhi su Franco che, raccolto alla sua volta indietro sulla spalliera, lo guardava pallido, in una ostile attitudine di difesa.

"È dunque un pezzo che io, per l'antica amicizia verso la tua famiglia, ho in mente di far qualche cosa onde metter fine a un dissidio dolorosissimo. Anche tuo padre, povero don Alessandro! Che cuor d'oro! Che bene mi voleva!" (Franco sapeva che suo padre aveva una volta minacciato Pasotti col bastone perché s'intrometteva troppo nelle faccende di casa sua.) "Basta. Avendo saputo che tua nonna era a Lodi, domenica scorsa mi son detto: dopo tanti dispiaceri che hanno avuto i Maironi, forse questo è il momento. Andiamo, tentiamo. E sono andato."

Pausa. Franco fremeva. Che razza d'intercessore gli era capitato? E chi aveva chiesto intercessioni?

"Debbo dirlo", riprese Pasotti, "sono contento. Tua nonna ha le sue idee, ha un'età in cui le idee difficilmente si cambiano, ha il carattere che sai, molto fermo, ma insomma il cuore c'è. Ti vuol bene, sai. Soffre. Vi è una lotta continua, dentro di lei, fra i suoi sentimenti e i suoi principii; anche, se vuoi, tra i suoi sentimenti e i suoi risentimenti. Povera marchesa! È penoso di vedere come soffre; ma insomma piega, piega. Certamente non bisogna mica aspettarsi poi troppo. Piega ma non fino a spezzare ciò che la sostiene, i suoi principii, voglio dire: sopra tutto i suoi principii politici."

Gli occhi di Franco, le mascelle inquiete, un sussulto di tutta la persona dissero a Pasotti: non toccar questo punto, bada a te! Pasotti si fermò; gli era forse venuto in mente il bastone del fu don Alessandro.

"Ti capisco", riprese. "Credi che non ti capisca? Io mangio il pane del Governo e devo tenermi chiuso nel cuore ciò che penso, ma del resto son con te, sospiro il momento in cui certi colori cederanno il posto a certi altri. Tua nonna non è così e, sfido, bisogna pigliarla com'è. Se si vuol venire a un accomodamento bisogna pigliarla com'è. Si può combattere come ho combattuto io, ma..."

"Tutto questo discorso mi pare inutile", esclamò Franco, alzandosi.

"Aspetta!", riprese Pasotti. "Il diavolo non sarà poi forse tanto brutto! Siedi, ascolta!"

Franco non volle saperne di sedersi ancora.

"Sentiamo!", diss'egli con voce vibrante d'impazienza.

"Intanto la nonna è disposta a riconoscere il tuo matrimonio..."

"Grazie!", interruppe il giovane.

"Aspetta!... e a farvi un assegno molto conveniente; per quel che ho capito, fra le sei e le ottomila svanziche all'anno. Non c'è male, eh?"

"Avanti!"

"Aspetta! Non c'è niente di umiliante. Se ci fosse una condizione umiliante non sarei venuto a proportela. La nonna desidera che tu ti occupi e che tu dia una certa guarentigia di non immischiarti in affari politici. Vi è un modo decoroso di combinare una cosa e l'altra, questo lo devo riconoscere, benché, te lo dico chiaro, io avessi proposto alla nonna un partito diverso. L'idea mia era ch'ella ti mettesse alla testa degli affari suoi. Ne avevi abbastanza per non poter pensare ad altro. Però, anche l'idea della nonna è buona. Conosco fior di giovinotti che pensano come te e che sono nella carriera giudiziaria. È una carriera molto indipendente e molto rispettata. Una parola tua e tu sei ascoltante al Tribunale."

"Io?", proruppe Franco. "Io! No, caro Pasotti! No! Non mi si manda, taci! la Polizia in casa, non si fa bestialmente destituire un galantuomo che ha la sola colpa di essere zio di mia moglie, taci ti dico! non si cercano oggi tutte le vie di affamare la mia famiglia e me, per offrirci domani del pane sporco. No, sai, no, grida pure, per fame no, viva Dio, nessuno mi prende! Dillo pure alla nonna e tu... e tu... e tu..."

Pasotti aveva sicuramente un sangue di derivazione felina, cupido, fine, prudente, carezzevole, pronto alla simulazione ma soggetto alla collera. Era venuto interrompendo l'invettiva di Maironi con proteste sempre più violente; a quest'ultima apostrofe, sentendo arrivar un nembo di accuse che tanto più lo irritavano quanto più le indovinava, balzò egli pure in piedi.

"Fermati!", esclamò. "Che maniera è questa?"

"Buona sera!", disse Franco, pigliando il cappello. Ma Pasotti non intendeva lasciarlo partire così. "Un momento!", diss'egli battendo e ribattendo affrettati pugni sul tavolino. "Voialtri vi fate delle illusioni, voialtri sperate molto in quel testamento e quello non e un testamento, quello è un pezzo di carta straccia, quello è il delirio di un pazzo!"

Franco, ch'era già presso all'uscio, si fermò, tramortito dal colpo. "Che testamento?", diss'egli.

"Via!", riprese Pasotti freddo e beffardo. "C'intendiamo bene!"

Una vampa di collera riaccese il sangue a Franco. "Ma no!", diss'egli. "Fuori! parla! Cosa ne sai tu di testamenti?"

"Ah!", fece Pasotti con ironica dolcezza. "Adesso va benissimo."

Franco l'avrebbe strozzato.

"Sono stato a Lodi, non te l'ho detto? Dunque so."

Franco, fuori di sé, protestò di non capire niente.

"Oh già!", riprese Pasotti, beffardo più di prima. "Lo informerò io il signore. Sappia dunque che il signor professore Gilardoni, il quale non è affatto amico Suo, si è recato in fine di dicembre a Lodi, e si è presentato alla marchesa con una copia senza valor legale di un preteso testamento del povero Suo nonno. In questo testamento Ella, signor don Franco, è istituito erede universale con accompagnamento di offese atroci alla moglie e al figlio del testatore. Ecco che adesso Ella sa. Del resto il signor Gilardoni è stato fedele alla consegna, ha detto di esser venuto di suo capo, senza farne saper niente a voi."

Franco ascoltò, livido come un cadavere, sentendosi oscurar la vista e l'anima, raccogliendo tutte le sue forze per non smarrirsi, per dare una risposta degna.

"Hai ragione", diss'egli. "Anche la nonna ha ragione. Chi ha torto è il professor Gilardoni. Egli mi ha mostrato quel testamento tre anni sono, la notte del mio matrimonio. Gli ho detto di abbruciarlo e ho creduto che l'avesse fatto. Se non lo ha fatto, mi ha ingannato. Se si è recato a Lodi per quella bella impresa che dice, ha commesso una indelicatezza e una stoltezza enorme. Voi avete avuto ragione di pensar male di noi. Ma sappilo bene! Io disprezzo il danaro della nonna quanto il danaro del Governo: e siccome questa signora ha la fortuna di essere la madre di mio padre, mai, capisci, mai, e adoperi ella pure contro di noi tutte le bassezze, tutte le perfidie che vuole, mai non userò una carta che la disonora! Sono troppo superiore a lei! Va' e dille questo a nome mio e dille che si riprenda le sue offerte perché le sdegno! Buona sera."

Lasciò Pasotti sbalordito e se n'andò tutto tremante di sovreccitazione e di collera, dimenticò di ripigliar la sua lanterna, discese al buio, a gran passi, non sapendo né curando affatto dove mettesse i piedi, esclamando di tempo in tempo, buttando fuori ciò che aveva dentro di rovente: pezzi d'ira contro il Gilardoni, pezzi di accusa contro Luisa.

Lo zio era andato a letto per tempo e Luisa aspettava Franco nel salottino con Maria che teneva alzata perché suo padre potesse averla un poco, l'ultima sera. La povera Ombretta Pipì aveva cominciato presto a infastidirsi, a far una boccuccia grossa, un visetto piagnoloso, a domandar con una vocina dolente: "Quando viene, papà?". Ma ell'aveva una mamma unica al mondo per consolare gli afflitti. Ombrettina non teneva da un pezzo scarpettine sane e le scarpettine, anche in Valsolda, costavano denari. Pochi, sì, e quando ce n'è pochissimi? Ma ell'aveva una mamma unica al mondo per calzare gli scalzi. Proprio il giorno prima, Luisa, cercando in granaio un pezzo di corda, aveva trovato fra vecchie sciarpe, casse vuote e seggiole rotte, uno stivale di suo nonno. Lo aveva posto a rammollire nell'acqua, s'era fatta prestare trincetto, lesina e forbice. Prese ora il venerabile stivale che fece spavento a Ombretta e lo posò sulla tavola. "Adesso gli reciteremo l'orazione funebre", diss'ella con quel brio voluto che neppure un'angustia mortale poteva toglierle, se le bisognava. "Prima, però, domanderai al tuo signor bisnonno il permesso di prenderti il suo stivale." Ella fece che Maria giungesse le mani e recitasse questa filastrocca guardando comicamente il soffitto:

Caro signor bisnonno benedetto,

Questo stival, se Lei non se lo mette,

Lo doni alla Sua Ombretta,

Che aspetta con gran fretta

Un paio di scarpette

E Le scocca su in cielo un bel bacetto

Alla pianta del piede con rispetto.

Venne poi una poco riverente fantasia come ne nascevan tante nel cervello di Luisa, una bizzarra storia dell'angioletto che lustra gli stivali in paradiso e che un giorno, per voler pigliare senza permesso un pezzetto di pan d'oro, aveva lasciato cadere sulla Terra lo stivale del bisnonno. Maria si rasserenò, rise, interruppe la mamma con cento domande sul pan d'oro e sullo stivale rimasto in Paradiso. Che ne farebbe di quello il bisnonno? La mamma le spiegò che il bisnonno lo avrebbe applicato per di dietro all'imperatore d'Austria onde buttarlo giù dal cielo, se ve lo incontrava.

In quel momento entrò Franco.

Luisa vide subito che gli occhi e la fronte segnavano tempesta.

"Dunque?", diss'ella. Franco rispose concitato: "Metti a letto Maria".

Luisa osservò che aveva tenuta la bambina alzata per aspettarlo, perché stesse un po' con lui. Franco replicò "ti dico di metterla a letto" tanto aspramente che Maria si mise a piangere. Luisa si fece rossa ma tacque. Accese un lume, prese la bambina in braccio, la porse silenziosamente a suo padre per un bacio, che fu freddo, e la portò via. Franco non la seguì. Si arrabbiò di veder quello stivale e lo gettò in terra. Poi sedette, piantò i gomiti sulla tavola, si strinse il capo fra le mani.

L'amara idea che Luisa fosse complice del Gilardoni gli era lampeggiata in mente subito, mentre Pasotti parlava, col ricordo di quel "cosa, silenzio?", di quel "basta!" e del racconto della bambina. Egli aveva dentro a sé come un vortice dove questa idea spariva girando e ricompariva sempre più basso, sempre più vicino al cuore.

"Dunque?", tornò a chiedere Luisa, rientrando. Franco la guardò un momento in silenzio, la scrutò. Poi si alzò e le afferrò le mani. "Dimmi se sai niente!", diss'egli. Ella indovinò, ma quello sguardo e quel modo la offesero. "Come, se so niente?", esclamò accesa in volto. "Me lo domandi così?" "Ah tu sai!", gridò Franco, gittando da sé le mani di lei e levando le braccia in alto.

Ella presentì ciò che veniva, il sospetto della sua complicità col professore, la propria smentita, l'offesa mortale, irrimediabile che Franco le avrebbe fatto se, nell'ira, non avesse creduto alla sua parola, e giunse le mani spaventata. "No, Franco, no, Franco", diss'ella sottovoce e gli gettò le braccia al collo, volle chiuder coi baci le labbra di lui. Ma egli fraintese, credette che volesse domandar perdono e la respinse. "Lo so, sì, lo so", diss'ella tornando appassionata al suo petto, "ma l'ho saputo dopo, quando era cosa fatta, ne ho avuto sdegno come te, più di te!" Ma Franco aveva troppo bisogno di sfogarsi, di offendere. "E come vuoi che ti creda?", esclamò. Ella indietreggiò con un grido, poi gli fece ancora un passo incontro, gli stese le braccia. "No", supplicò straziata, "dimmi che mi credi, dimmelo subito subito perché altrimenti tu non sai, tu non sai!"

"Cosa, non so?"

"Tu non sai come sono io che ti amerò ancora ma non vorrò più essere moglie per te, che potrò soffrir tanto ma non cambiare, mai più! Capisci cosa vuol dire mai più?"

Egli la trasse a sé, la sottile persona ansante, le strinse le mani da rompergliele e disse con voce soffocata: "Ti crederò, sì, ti crederò". Luisa che lo guardava lagrimosa chiese una parola migliore. "Ti crederò", disse, "ti crederò?"

"Ti credo, ti credo."

Lo credeva davvero ma dov'è ira è sempre anche orgoglio. Non volle subito arrendersi del tutto; il suo accento fu piuttosto d'un uomo compiacente che d'un uomo convinto. Restarono ambedue silenziosi, tenendosi per le mani, cominciarono a sciogliersi l'un dall'altro via via con un impercettibile moto. Fu Luisa che infine, dolcemente, si staccò del tutto. Sentiva la necessità di troncar quel silenzio, parole calde non ne trovava, parole fredde non ne voleva, si mise a raccontare senz'altro come avesse saputo dal Gilardoni del malaugurato viaggio a Lodi. Parlava con voce tranquilla, non propriamente fredda ma triste, stando seduta alla tavola in faccia a suo marito. Mentre riferiva le confidenze del professore, Franco si riaccendeva, la interrompeva continuamente: "E non gli hai detto questo? - E non gli hai detto quello? - Non gli hai detto stupido? - Non gli hai detto bestia?". La prima volta Luisa lasciò correre, poi protestò. Aveva già detto di essersi sdegnata per lo sproposito del Gilardoni; pareva quasi, adesso, che suo marito ne dubitasse! Franco si chetò ma di mala voglia.

Quando il racconto fu terminato si scagliò ancora contro il filosofo balordo, tanto che Luisa lo difese. Era un amico, aveva errato gravemente, gravissimamente, ma con buona intenzione. Dove andavano a finire le massime di Franco, la carità, il perdono delle offese, s'egli non perdonava neppure a chi aveva voluto fargli del bene? Ella pensò, qui, cose che non disse. Pensò che Franco perdonava moltissimo quando a perdonare c'era follia e gloria e perdonava pochissimo quando c'erano semplicemente ottime ragioni di farlo. Franco a udirsi parlar da lei di carità, s'irritò, non osò dire che si sentiva superiore a un attacco simile, ma ritorse poco generosamente il colpo. "Ecco!", esclamò con una reticenza piena di sottintesi. "Tu lo difendi! Già!".

Luisa ebbe un sussulto nervoso delle spalle, ma tacque.

"E perché non parlare, tu?", riprese Franco. "Perché non raccontarmi tutto subito?"

"Perché quando rimproverai Gilardoni egli mi supplicò di tacere ed io credetti, com'era anche vero, che fosse inutile, a cosa fatta, darti un dispiacere così grande. L'ultimo dì dell'anno, quando sei andato in collera, volevo dirtelo, volevo raccontarti ciò che mi aveva confidato Gilardoni, te lo ricordi? E tu non hai assolutamente voluto. Non ho insistito anche perché Gilardoni ha detto alla nonna che noi non ne sapevamo niente."

"Non lo ha creduto! Naturale!"

"E se io parlavo cosa ci poteva far questo? Così Pasotti avrà ben capito che tu non sapevi niente!"

Franco non replicò. Allora Luisa gli chiese di raccontarle il colloquio e stette ad ascoltarlo senza batter ciglio. Ella indovinò, con l'acume dell'odio, che se Franco avesse accettato di entrare negl'impieghi, sarebbe venuta fuori l'ultima condizione: separarsi dallo zio, da un impiegato destituito per ragioni politiche. "Certo!", diss'ella, "avrebbe voluto anche questo! Canaglia!" Suo marito trasalì come se quella scudisciata avesse toccato il sangue anche a lui... "Adagio", diss'egli, "con queste parole! Prima, è una supposizione tua; e poi..."

"È una supposizione mia? E il resto? E offrirti una viltà simile?"

Franco che aveva risposto a Pasotti con furore, rispose ora mollemente a sua moglie.

"Sì sì sì, ma insomma..."

Adesso era lei che diventava violenta. L'idea che la nonna osasse proporre loro l'abbandono dello zio la faceva quasi impazzire. "Almeno questo", diss'ella, "mi consentirai: che pietà non ne merita! Dio mio, pensare che questo testamento c'è ancora!"

"Oh!", esclamò Franco. "Torniamo da capo?"

"Torniamo da capo! Hai tu il diritto di pretendere che io neanche pensi, neanche senta come non piace a te? Sarei vile, meriterei di essere una schiava, e non voglio poi essere né una cosa né l'altra."

La ribelle intravveduta, sentita qualche volta da Franco attraverso l'amante, la creatura dall'intelletto forte sopra l'amore e orgoglioso, non potuta mai conquistare interamente, gli stava ora di fronte, tutta vibrante nella coscienza della sua ribellione.

"Va bene", disse Franco parlando a se stesso. "Sarebbe vile, sarebbe schiava. Si ricorda Ella nemmeno più che domani vado via?"

"Non andar via. Resta. Eseguisci la volontà del tuo povero nonno. Ricordati quello che mi hai raccontato sulla origine della sostanza Maironi. Restituisci tutto all'Ospitale Maggiore. Fa giustizia."

"No!", rispose Franco. "Chimere! Il fine non giustifica i mezzi. Il vero fine poi, per te, è colpire la nonna. Questa storia dell'Ospitale è il mezzo di giustificarlo. No, non mi servirò mai di quel testamento. L'ho anche dichiarato a Pasotti, con parole da farmi sputare in faccia se cambiassi! E parto domattina."

Seguì un lungo silenzio. Poi le due voci ripresero il dialogo, gelate e tristi come se nell'uno e nell'altro cuore vi fosse adesso qualche cosa di morto.

"Hai pensato", disse Franco, "che farei anche disonore a mio padre?"

"In che modo?"

"Prima per la forma oltraggiosa delle disposizioni e poi perché farei supporre la complicità di mio padre nella soppressione del testamento. Già, tu non le capisci queste cose. Che te ne importa?"

"Ma non è necessario parlar di soppressione. Può darsi che il testamento non sia stato trovato."

Nuovo silenzio. La stessa candela di sego che ardeva sulla tavola aveva una espressione lugubre. Luisa si alzò, raccolse da terra lo stivale del bisnonno e si dispose a incominciar il suo lavoro. Franco andò ad appoggiar la fronte alle invetriate della finestra. Vi rimase un pezzo, assorto nella contemplazione delle ombre della notte. Poi disse piano, senza volgere il capo:

"Mai mai l'anima tua non è stata tutta con me".

Nessuna risposta.

Egli si voltò, adesso, e domandò a sua moglie, affatto senza collera, con la dolcezza inesprimibile che aveva nei momenti di depressione fisica o morale, se gli era accaduto, fin dal principio della loro unione, di mancare verso di lei. Gli fu risposto un impercettibile: "No".

"Allora forse non mi amavi come ho creduto?"

"No no no."

Franco non era sicuro di aver inteso bene e ripeté:

"Non mi amavi?"

"Sì sì, tanto."

Lo spirito di lui si rialzò, un'ombra di severità gli rientrò nella voce.

"E allora", diss'egli, "perché non mi hai dato tutta l'anima tua?"

Ella tacque. Aveva prima tentato invano di riprendere il lavoro. Le mani tremavano.

E adesso veniva questa domanda terribile! Doveva o non doveva rispondere? Rispondendo, rivelando per la prima volta cose sepolte in fondo al cuore, avrebbe allargata la scissura dolorosa; ma poteva non essere leale? Il suo silenzio durò tanto che Franco le chiese ancora: "Non parli?". Ella raccolse tutte le proprie forze e parlò.

"È vero, l'anima mia non è mai stata interamente con te." Tremò nel dir così, e Franco non respirava più.

"Mi sono sempre sentita diversa e staccata da te", riprese Luisa, "nel sentimento che deve governare tutti gli altri. Tu hai le idee religiose di mia madre. Mia madre intendeva e tu intendi la religione come un insieme di credenze, di culto e di precetti, ispirato e dominato dall'amor di Dio. Io ho sempre avuto ripugnanza a concepirla così, non ho mai potuto veramente sentire, per quanto mi sforzassi, questo amore di un Essere invisibile e incomprensibile, non ho mai potuto capire il frutto di costringer la mia ragione ad accettare cose che non intende. Però mi sentivo un desiderio ardente di dirigere la mia vita a qualche cosa di bene secondo un'idea superiore al mio interesse. E poi mia madre mi aveva talmente penetrata, con l'esempio e con la parola, de' miei doveri verso Dio e la Chiesa, che i miei dubbi mi davano un grandissimo dolore, li combattevo quanto potevo. Mia madre era una santa. Ogni atto della sua vita corrispondeva alla sua fede. Anche questo poteva molto sopra di me e poi sapevo che la maggiore afflizione della sua vita era stata l'incredulità di mio padre. Ho conosciuto te, ti ho amato, ti ho sposato, mi sono confermata nel proposito di diventare, nelle cose di religione, come te, perché tu eri come mia madre. Ma ecco, un po' alla volta, ho trovato che tu non eri come mia madre. Debbo dire anche questo?"

"Sì, tutto."

"Ho trovato che tu eri la bontà stessa, che avevi il cuore più caldo, più generoso, più nobile della terra, ma che la tua fede e le tue pratiche rendevano quasi inutili tutti questi tesori. Tu non operavi. Tu eri contento di amar me, la bambina, l'Italia, i tuoi fiori, la tua musica, le bellezze del lago e delle montagne. In questo seguivi il tuo cuore. Per l'ideale superiore ti bastava di credere e di pregare. Senza la fede e senza la preghiera tu avresti dato il fuoco che hai nell'anima a quello ch'è sicuramente vero, ch'è sicuramente giusto qui sulla terra, avresti sentito quel bisogno di operare che sentivo io. Tu lo sai, già, come ti avrei voluto in certe cose! Per esempio, chi sente il patriottismo più di te? Nessuno. Bene, io avrei voluto che tu cercassi di servirlo proprio davvero, poco o molto, il tuo paese. Adesso vai in Piemonte ma ci vai sopra tutto perché non abbiamo quasi più da vivere."

Franco accigliatissimo, fece un atto iracondo di protesta.

"Se vuoi", disse umilmente Luisa, "mi fermo."

"No, no, avanti, fuori tutto, è meglio!"

Egli rispose tanto concitato, tanto sdegnoso, che Luisa tacque e solo ripigliò il suo discorso dopo un altro "avanti!".

"Anche senz'andare in Piemonte ci sarebbe stato da fare in Valsolda, in Val Porlezza, in Vall'Intelvi quello che fa V. sul lago di Como, mettersi in relazione colla gente, tener vivo il sentimento buono, preparare tutto ciò ch'è bene preparare per il giorno della guerra, se verrà. Io te lo dicevo e tu non ti persuadevi, mi facevi tante difficoltà. Questa inerzia favoriva la mia ripugnanza al concetto tuo della religione e la mia tendenza ad un altro concetto. Perché religiosa mi sentivo anch'io moltissimo. Il concetto religioso che mi si veniva formando sempre più chiaro nella mente era questo, in breve: Dio esiste, è anche potente, è anche sapiente, tutto come credi tu; ma che noi lo adoriamo e gli parliamo non gliene importa nulla. Ciò ch'egli vuole da noi lo si comprende dal cuore che ci ha fatto, dalla coscienza che ci ha dato, dal luogo dove ci ha posto. Vuole che amiamo tutto il bene, che detestiamo tutto il male, e che operiamo con tutte le nostre forze secondo quest'amore e quest'odio, e che ci occupiamo solamente della terra, delle cose che si possono intendere, che si possono sentire! Adesso capisci come concepisco io il mio dovere, il nostro dovere, di fronte a tutte le ingiustizie, a tutte le prepotenze!"

Più Luisa procedeva nel definire ed esprimere le proprie idee, più si sentiva contenta di farlo, di esser finalmente sincera, di porsi con franchezza sopra un terreno proprio e fermo; più si spegneva dentro di lei ogni sdegno contro il marito, più le saliva nel cuore una tenera pietà di lui.

"Ecco", soggiunse, "se si trattasse solamente di questo dispiacere circa la nonna, non credi che avrei sacrificato mille volte l'opinione mia piuttosto che affliggerti? Bisognava bene che ci fosse sotto qualche altra cosa. Adesso sai tutto, adesso l'anima mia l'ho messa nelle tue mani."

Ella lesse sulla fronte di suo marito un dolor cupo, una freddezza nemica. Si alzò, mosse adagio adagio verso di lui, a mani giunte, fissandolo, cercando gli occhi che la evitavano e si fermò per via, respinta da una forza superiore, benché egli non avesse detto una parola né fatto un gesto.

"Franco!", supplicò. "Non mi puoi amare più?"

Egli non rispose.

"Franco! Franco!", diss'ella, tendendogli le mani giunte. Poi fece l'atto di avanzare. Egli si tirò bruscamente indietro. Stettero così a fronte in silenzio, per un eterno mezzo minuto.

Franco teneva le labbra serrate, si udiva la sua respirazione frequente. Fu lui che ruppe il silenzio.

"Quello che hai detto è proprio il tuo pensiero?"

"Sì."

Egli teneva le mani sulla spalliera d'una seggiola. La scosse con violenza e disse amaramente: "Basta". Luisa lo guardò con tristezza indicibile e mormorò: "Basta?". Egli rispose con ira: "Sì, basta basta basta basta!". Tacque un istante e riprese duramente: "Sarò un neghittoso, un inerte, un egoista, tutto quello che vuoi, ma non sono poi un bambino da venirmi a quietare con due carezze dopo avermi detto tutto quello che mi hai detto! Basta!".

"Oh Franco, ti ho fatto male, lo so, ma mi è costato tanto di farti male! Non puoi prendermi con bontà?"

"Ah, prenderti con bontà! Tu vuoi ferire e che ti si prenda con bontà! Tu sei superiore a tutti, tu giudichi, tu sentenzii, tu sei la sola che intende cosa Dio vuole e cosa non vuole! Questo no, sai, del resto. Di' pure di me quello che ti piace ma lascia stare le cose che non capisci. Occupati del tuo stivale, piuttosto!"

Egli non voleva vedere in sua moglie che l'orgoglio, e la sua stessa collera gli era nata quasi tutta d'orgoglio, d'amor proprio offeso, era una collera impura che gli offuscava la mente e il cuore. Sì la moglie che il marito avrebbero creduto poter essere accusati di tutto fuorché d'orgoglio.

Ella tacque, riprese il suo posto, tentò riprendere il lavoro, maneggiava nervosamente gli strumenti senza saper bene che si facesse. Franco se n'andò in sala, sbattendo l'uscio dietro di sé.

Nel buio della sala, abbandonata dopo le cinque, si gelava; ma Franco non se n'accorse. Si buttò sul canapè, si diede tutto al suo dolore, alla sua collera, a una facile, violenta difesa mentale di se stesso contro la moglie. Siccome Luisa si era levata, fosse pure con certi temperamenti, contro lui e contro Dio, gli faceva comodo di confondere in cuor suo la propria causa con quella dell'altro muto, terribile Offeso. La sorpresa, l'amarezza, l'ira, le buone e le cattive ragioni gli fecero prima una turbinosa tempesta nel cervello. Poi si sfogò a immaginare pentimenti di Luisa, domande di perdono, magnanime risposte proprie.

A un tratto udì Maria gridare e piangere. Si alzò per andar a vedere cos'avesse, ma era senza lume. Allora attese un poco pensando che andrebbe Luisa. Non udì alcun movimento e la bambina piangeva sempre più forte. Si accostò pian piano al salotto, guardò per il vetro dell'uscio.

Luisa teneva le braccia incrociate sulla tavola e il viso appoggiato alle braccia. Non si vedevano, al lume della candela, che i suoi bei capelli bruni. Franco si sentì cadere la collera, aperse l'uscio e chiamò a mezza voce con certa severa dolcezza: "Luisa, Maria piange". Luisa levò il viso pallidissimo, prese la candela e uscì senza dir parola. Suo marito la seguì. Trovarono la bambina a sedere sul letto, tutta piangente, spaventata da un sogno. Quando vide suo padre gli stese le braccia supplicandolo con la voce grossa di pianto: "No via, papà, no via, papà!". Franco se la strinse in braccio, la coperse di baci, la chetò, la ripose nel letticciuolo. Ella si teneva stretta una mano del papà, non la voleva in alcun modo lasciare.

Luisa prese un'altra candela sul suo tavolino da notte, volle accenderla e non le riusciva, tanto le tremavano le mani. "Non vieni a letto?", le chiese Franco. Ella rispose "no" tremando più di prima. Franco credette indovinar in lei una supposizione, un timore, e se ne offese. "Oh, puoi venire!", diss'egli sdegnoso. Luisa accese il lume e disse più pacatamente che doveva lavorare alle scarpette. Uscì e solamente sulla soglia mormorò: "Buona notte". Franco rispose asciutto: "Buona notte". Ebbe un momento l'idea di spogliarsi, l'abbandonò subito poiché sua moglie stava alzata a lavorare. Tolse una coperta, si coricò vestito, dalla parte del letticciuolo onde potersi tenere una manina di Maria che non dormiva ancora, e spense il lume.

Che dolcezza, quella manina cara! Franco la sentiva, bambina, la sua figliuola, innocente, amorosa bambina e la immaginava donna, tutta sua nel cuore, tutta unita a lui nelle idee come nei sentimenti, immaginava che quella manina stretta volesse compensarlo del dolore datogli da Luisa, dirgli: papà, tu e io siamo uniti per sempre. Dio, gli venivano i brividi a pensare che forse Luisa vorrebbe educarla nelle sue idee e ch'egli sarebbe lontano, non ci potrebbe far niente! Pregò il Signore, pregò il Maestro così dolce ai bambini, pregò Maria, pregò la santa nonna Teresa, pregò la sua propria mamma di cui sapeva ch'era stata tanto pura e tanto religiosa: "Custodite, custodite la mia Maria!". Offerse tutto se stesso, la felicità terrena, la salute, la vita purché Maria fosse salva dall'errore.

"Papà", disse Ombretta. "Un bacio."

Egli si sporse dal letto, si chinò a cercar con le labbra il caro visino e poi le disse di tacere, di dormire. Ella tacque un minuto e chiamò:

"Papà".

"Cosa?"

"Non ho mica il mulo sotto il guanciale, sai, papà."

"No, no, cara, ma dormi."

"Sì, papà, dormo."

Tacque un altro minuto e poi:

"La mamma è a letto, papà?"

"No, cara."

"Perché?"

"Perché ti fa le scarpette."

"Le porto anche in Paradiso, io, le scarpette, come il bisnonno?"

"Taci, dormi."

"Contami una storia, papà."

Egli si provò ma non aveva la fantasia né l'arte di Luisa e s'imbarazzò presto. "Oh papà", disse Maria con l'accento della compassione, "tu non sai raccontar le storie."

Questo lo umiliò. "Senti, senti", rispose, e si mise a recitare una ballata di Carrer,

Al bosco nacque, povera bambina,

Gerolimina,

rifacendosi, dopo quattro strofe che ne sapeva, sempre da capo, con intonazioni sempre più misteriose e abbassando via via la voce in un bisbiglio inarticolato, fino a che Ombretta Pipì, cullata dal metro e dalla rima, entrò con essi nel mondo dei sogni. Quando la udì dormire in pace gli parve così crudele di lasciarla, gli parve d'essere un tal traditore che vacillò nel suo proponimento. Si rimise subito.

Il dolce dialogo con la bambina gli aveva alquanto pacificato e rischiarato lo spirito. Incominciò ad aver coscienza di un altro dovere che oramai gl'incombeva di fronte alla moglie: mostrarlesi uomo a costo di qualsiasi sacrificio, nella volontà e nell'azione, difendere, contro lei, la propria fede con le opere, partire, lavorare e soffrire; e poi... e poi... se Iddio santo vorrà che il cannone tuoni per l'Italia, via, avanti, e venga pure una palla austriaca che la faccia piangere e pregare anche lei!

Gli sovvenne di non aver dette le sue preghiere della sera. Povero Franco, non gli era mai successo di recitarle a letto senz'assopirsi a metà. Sentendosi abbastanza tranquillo, pensando che Luisa tarderebbe forse molto a venire, ebbe paura di addormentarsi e si domandò cosa direbbe se lo trovasse addormentato. Si alzò pian piano, disse le sue preghiere, accese quindi il lume, sedette alla scrivania, si pose a leggere e si addormentò sulla sedia.

Fu svegliato dagli zoccoli della Veronica che scendeva le scale. Luisa non era ancora venuta. Entrò poco dopo e non espresse alcuna meraviglia di veder Franco alzato.

"Sono le quattro", diss'ella. "Se vuoi partire manca mezz'ora." Occorreva partire alle quattro e mezzo per essere sicuramente a Menaggio in tempo di pigliar il primo battello che veniva da Colico. Invece di andar a Como e quindi a Milano come s'era annunciato ufficialmente, Franco doveva scendere ad Argegno e salire a S. Fedele, calare in Svizzera per la Val Mara o per Orimento e il Generoso.

Franco accennò a sua moglie di tacere, di non svegliare Maria. Poi, ancora con un silenzioso gesto, la chiamò a sé.

"Parto", le disse piano. "Ieri sera sono stato cattivo, con te. Ti domando perdono. Dovevo risponderti diversamente, anche avendo ragione. Tu conosci il mio temperamento. Perdonami. Almeno non serbarmi rancore."

"Per parte mia non ne sento affatto", rispose Luisa con dolcezza, come uno che facilmente è benigno perché si sente superiore.

Gli ultimi preparativi furono fatti in silenzio, il caffè fu preso in silenzio. Franco andò ad abbracciare lo zio che non aveva salutato la sera, poi entrò solo nell'alcova, si inginocchiò al lettuccio di Maria, sfiorò col labbro una manina che pendeva dalla sponda. Ritornando in salotto vi trovò Luisa con lo scialle e il cappello, le domandò se veniva a Porlezza anche lei. Sì, veniva. Tutto era pronto, la borsa a mano l'aveva Luisa, la valigetta era in barca, l'Ismaele aspettava alla scaletta della darsena con un piede sullo scalino e un piede sulla prua del battello.

La Veronica accompagnò i viaggiatori col lume, diede il buon viaggio al padrone, tutta compunta, avendo odorata la burrasca.

Due minuti ancora e il pesante battello spinto da Ismaele con la remata lenta e tranquilla "di viaggio" passava sotto il muro dell'orto. Franco mise il capo al finestrino. Passarono, nel chiaror fioco della notte stellata senza luna, i rosai, i capperi, le agavi pendenti dal muro, passarono gli aranci, il nespolo, il pino. Addio, addio! Passarono il Camposanto, la "Zocca de Mainé", la stradicciuola fatta tante volte con Maria, il Tavorell. Franco non guardò più. Non c'era il solito lume, quella notte, nel casottino del battello ed egli non poteva vedere sua moglie, che non parlava.

"Vieni a Porlezza per le carte del notaio", diss'egli, "o proprio per accompagnar me?"

"Anche questo!", mormorò Luisa, tristemente. "Ho voluto esser leale con te fino all'estremo e tu te ne sei offeso. Mi domandi perdono e poi mi dici queste cose. Capisco che non si può esser fedeli alla verità senza soffrire molto, molto, molto. Pazienza, ormai ho preso questa strada. Se son venuta per accompagnarti, lo saprai. Non farmi abbassare a dirlo adesso!"

"Non farmi abbassare!", esclamò Franco. "Io non capisco. Siamo tanto diversi in tante cose, del resto. Dio mio! come siamo diversi! Tu sei sempre così padrona di te stessa, sai sempre esprimere i tuoi pensieri così esattamente, li conservi sempre così netti, così freddi!"

Luisa mormoro:

"Sì, siamo diversi".

Non parlarono più né l'uno né l'altro fino a Cressogno. Quando furono vicini alla villa della nonna, Luisa parlò e cercò che il discorso non cadesse fino a che la villa non fosse passata. Si fece ripetere tutto l'itinerario stabilito, suggerì di pigliar la sola borsa a mano perché la valigia imbarazzerebbe troppo da Argegno in poi. Ne aveva già parlato con Ismaele e Ismaele s'incaricava di portarla a Lugano e di spedirla a Torino di là. Intanto la villa della nonna con le sue suggestioni sinistre, passo.

Ecco il santuario della Caravina, adesso. Due volte, durante i loro amori, Franco e Luisa s'erano incontrati alla festa della Caravina l'otto settembre, sotto gli ulivi. E passò anche la cara piccola chiesa cinta d'ulivi sotto le rupi paurose del picco di Cressogno. Addio, chiesa, addio, tempo passato.

"Ricordati", disse Franco quasi duramente, "che Maria deve dire le sue preghiere ogni mattina e ogni sera. È un comando che ti do."

"Lo avrei fatto anche senza comando", rispose Luisa. "So che Maria non appartiene solo a me."

Silenzio fino a Porlezza. L'uscir dalla cala placida della Valsolda, il veder altre valli, altri orizzonti e il lago segnato dalle prime brezze dell'alba, traevano i due viaggiatori ad altri pensieri, li facevano pensare, senza che ne sapessero il perché, all'avvenire incerto precorso da bisbigli annunciatori di grandi cose, che passavan di furto per il pesante silenzio austriaco. Si udì qualcuno gridare dalla riva di Porlezza e Ismaele si mise a remar di lena. Era il vetturino, il Toni Pollìn, che gridava di far presto se non si voleva perdere il vapore a Menaggio.

Ecco gli ultimi momenti. Franco abbassò il vetro dell'usciolino, guardò quell'uomo come se avesse un grande interesse di udirne le parole.

Quando approdarono si voltò a sua moglie. "Esci anche tu?" Ella rispose: "Se credi". Uscirono. Una carrettella era sulla riva, pronta. "Guarda", disse Luisa, "che nella borsa troverai da far colazione." Si abbracciarono, si scambiarono un bacio rapido e freddo davanti tre o quattro curiosi. "Fa che Maria", disse Franco, "mi perdoni di esser partito così", e furono le ultime sue parole perché il Toni Pollìn insisteva, "presto, presto!". La carrettella partì di gran trotto e con un gran fracasso di frustate per la stretta, scura viuzza di Porlezza.

Franco viaggiava sul Falco, da Campo verso Argegno, quando pensò di prender qualche cosa. Aperse la borsa e gli balzò il cuore vedendo una lettera con questo indirizzo di carattere di sua moglie: "per te". L'aperse avidamente e lesse:

Se tu sapessi cosa mi sento io nell'anima, quel che soffro, come sono tentata di lasciar qui le scarpette delle quali m'intendo assai meno che tu non creda, e di venir da te a rinnegar quello che t'ho detto, non saresti così duro con me. Debbo aver molto peccato contro la Verità perché mi sieno così difficili e amari i primi passi che faccio seguendo lei.

Tu mi credi orgogliosa e io stessa mi credevo molto suscettibile: adesso sento che le tue parole umilianti non potrebbero trattenermi dal venirti a cercare. Ciò che mi trattiene è una Voce dentro di me, una Voce più forte di me, che mi comanda di tutto sacrificare fuorché la mia coscienza della verità.

Ah, io spero un premio di questo sacrificio! Io spero che possiamo un giorno essere uniti con tutta l'anima.

Esco in giardinetto a coglier per te la brava rosellina che abbiamo ammirata insieme ier l'altro, che ha sfidato e vinto gennaio. Ti ricordi quanti ostacoli erano fra noi quando la prima volta ebbi un fiore dalle tue mani? Io non t'amavo ancora e tu già pensavi a vincermi. Adesso sono io che spero di conquistare te.

Mancò poco che Franco lasciasse passare Argegno senza muoversi dal suo posto.

9. Per il pane, per l'Italia, per Dio

Otto mesi dopo, nel settembre del 1855, Franco abitava una misera soffitta a Torino, in via Barbaroux. Aveva ottenuto nel febbraio un posto di traduttore all'Opinione, con ottantacinque lire il mese. Più tardi fece anche relazioni del Parlamento e lo stipendio gli fu portato a cento lire il mese. Il Dina, direttore del giornale, gli voleva bene e gli procacciava qualche lavoro straordinario, fuori d'ufficio, tanto da fargli prendere altre venticinque o trenta lire il mese. Franco viveva con sessanta lire il mese. Il resto andava a Lugano e da Lugano, per le mani fedeli d'Ismaele, a Oria. Per vivere un mese con sessanta lire ci voleva una forza d'animo che lo stesso Franco non avrebbe creduto, prima, possedere. Le ore d'ufficio, il tradurre, assai laborioso per un uomo pieno di scrupoli e di timidità letterarie, gli pesavano più delle privazioni; e sessanta lire gli parevano ancora troppe, si rimproverava di non saper vivere con meno.

Si era legato con altri sei emigrati, parte lombardi parte veneti. Mangiavano insieme, passeggiavano insieme, disputavano insieme. Meno Franco e un Udinese, gli altri erano fra i trenta e i quarant'anni. Tutti poverissimi, non avevano mai voluto pigliar un soldo dal governo piemontese a titolo di sussidio. L'Udinese che apparteneva a una famiglia ricca e austriacante e da casa non riceveva niente, conosceva bene il flauto, dava quattro o cinque lezioni la settimana e suonava nelle orchestrine dei teatri di commedia. Un notaio padovano copiava nello studio di Boggio. Un avvocato di Caprino Bergamasco, soldato di Roma del 1849, teneva i registri di un grande negozio di ombrelli e di mazze in via Nuova, per cui gli amici lo chiamavano il "Fante di bastoni". Un quarto, milanese, aveva fatto la campagna del '48 nelle guide di Carlo Alberto; per questo, e per una certa sua boria meneghína, il Padovano gli aveva posto nome "Caval di spade". La professione del Caval di spade era quella di litigare continuamente col Fante di bastoni per antagonismo di provincia, d'insegnare la scherma in due convitti, e, l'inverno, di suonare il piano dietro una cortina misteriosa, nelle sale dove si ballavano polke a due soldi l'una. Gli altri vivevano con miserabili assegni delle loro famiglie. Erano tutti scapoli, meno Franco, e tutti allegri. Si chiamavano e si facevano chiamare "i sette sapienti". Dominavano Torino, nella loro sapienza, dall'alto di sette soffitte sparse per tutta la città da Borgo San Dalmazzo a Piazza Milano.

La più misera era quella di Franco che la pagava sette lire il mese. Meno il Padovano, a cui una sorella del portinaio di casa portava l'acqua nella soffitta, nessuno della compagnia si faceva del tutto servire, e il Padovano avrebbe espiato bene la sua devota Margà con le tormentose celie degli amici, se non fosse stato il pacifico filosofo ch'era. Tutti si lustravano le scarpe da sé. Il più destro di mano era Franco e a lui toccava di attaccare i bottoni agli amici quando non volevano umiliarsi ricorrendo al Padovano e alla sua Margà, la quale, del resto, certe volte, "o mi povra dona!", ne vedeva capitare una processione. L'Udinese aveva bene un'amante, una piccola "tota" del primo baraccone di piazza Castello sull'angolo di Po; ma era geloso e non permetteva che attaccasse bottoni a nessuno. Gli amici se ne vendicavano chiamandola "tota bürattina" perché vendeva fantocci e bambole. Egli era del resto, grazie a "tota burattina", il solo della compagnia che avesse gli abiti sempre in ordine e la cravatta annodata con una grazia speciale. A mangiare andavano in una trattoria di Vanchiglia battezzata "la trattoria del mal de stomi" dove per trenta lire il mese avevano colazione e pranzo. Il loro lusso era il bicierìn, un miscuglio di caffè, latte e cioccolatte che si aveva per quindici centesimi. Lo prendevano la mattina, i veneti al caffè Alfieri, gli altri al caffè Florio. Meno Franco, però. Franco rinunciava al bicierìn e al relativo torcètt, pasta da un soldo, per ammassare tanto che gli bastasse a far una corsa a Lugano e portar un regaluccio a Maria. Andavano a passeggiare, l'inverno, sotto i portici di Po, quelli della Sapienza, dalla parte dell'Università, non quelli della Follia, dalla parte di S. Francesco; e poi sedevano al caffè dove uno della compagnia, per turno, prendeva il caffè mentre gli altri leggevano i giornali e saccheggiavano lo zucchero. Una volta alla settimana, invece che andare al caffè, si cacciavano, per accontentare il Fante di bastoni, in un buco di via Bertola dove si beveva il più puro e squisito Giambava.

A teatro ci andava l'Udinese e in grazia sua, di tanto in tanto, qualche altro, gratis; sempre alla commedia, per lo più al Rossini o al Gerbino. Per Franco il passar davanti ai manifesti del Regio e degli altri teatri di musica, era un supplizio molto maggiore che lustrarsi le scarpe o far colazione con cinque centimetri quadrati di frittata buonissima per osservare le macchie del sole. Fortunatamente aveva conosciuto certo C., veneto, segretario al Ministero dei Lavori Pubblici, il quale lo presentò alla famiglia di un distintissimo maggiore medico dell'esercito, pure veneto, che possedeva un piano, riceveva, la sera, alcuni amici e li ristorava con un caffè eccellente, quasi unico, in quei tempi, a Torino. Quando i sette sapienti, per una ragione o per l'altra, non passavano la sera insieme, Franco andava a casa C., in piazza Milano, a far musica, a conversare d'arte con le signorine, a disputar di politica con la signora, una fiera patriota veneziana di grande ingegno e d'animo antico, che aveva tutte eroicamente affrontate le durezze e le amarezze dell'esilio, incuorando il marito i cui primi passi erano stati assai difficili e amari; perché a lui, già reputatissimo professore dell'Università di Padova, le care, benedette teste oneste e dure della rigida amministrazione piemontese avevano imposto di subire un esame se voleva diventare capitano medico, niente meno.

La corrispondenza fra Torino e Oria non rispecchiava lo stato vero degli animi di Franco e di Luisa, correva liscia, affettuosa, certo con molti ritegni e cautele da una parte e dall'altra. Luisa si era figurata che Franco avrebbe risposto alla sua letterina e sarebbe entrato nel grande argomento. Non vedendo che parlasse mai né della letterina né di ciò ch'era stato fra loro quell'ultima notte, arrischiò un'allusione. Non fu raccolta. In fatto Franco s'era messo più volte a scrivere col proposito di affrontare le idee di sua moglie. Prima di scrivere si sentiva forte, si teneva sicuro che pensandoci avrebbe trovato facilmente argomenti vittoriosi; gliene venivano anche alla penna di quelli che gli sembravan tali ma poi, quand'erano scritti, ne scopriva subito la insufficienza, ne stupiva, se ne doleva, ritentava la prova e sempre con eguale successo. Eppure sua moglie aveva ben torto; di questo non dubitava un momento; dunque vi doveva essere modo di dimostrarglielo. Bisognava studiare. Cosa? Come? Ne domandò a un prete dal quale si era confessato poco dopo il suo arrivo a Torino. Questo prete, un piccolo vecchietto contraffatto, focoso e dottissimo, lo invitò a casa sua, in piazza Paesana, si pose ad aiutarlo con entusiasmo, gli suggerì una quantità di libri, parte da legger lui, parte da mandare a sua moglie. Forte orientalista e gran tomista, provando una vivissima simpatia per Franco, attribuendogli un ingegno e una cultura forse superiori al vero, per poco non gli suggerì di studiar l'ebraico e volle poi assolutamente che leggesse S. Tommaso. Arrivò sino a dargli un abbozzo di lettera a sua moglie con gli argomenti che doveva sviluppare. Franco s'innamorò subito del vecchietto entusiasta che aveva poi, anche nell'aspetto, la purezza d'un Santo. Si mise a studiar S. Tommaso con grande ardore e vi durò poco. Gli parve di mettersi in un mare senza fine e senza principio, di non potervisi dirigere. Il disegno scolastico della trattazione, quella uniformità nella forma dell'argomentare pro e contro, quel gelido latino denso di profondo pensiero e incolore alla superficie, gli schiacciarono in tre giorni tutta la buona volontà. Gli argomenti dell'abbozzo di lettera non li capì che in piccola parte. Se li fece spiegare, li intese meglio, si dispose a scendere in campo con essi e si trovò impacciato come David nell'armatura di Saul. Gli pesavano, non li poteva maneggiare, senti che non erano roba sua e che non lo sarebbero diventati mai. No, egli non poteva presentarsi a sua moglie col tricorno e con la tonaca del professor G., impugnando una lancia di teologia e coprendosi con uno scudo di metafisica. Riconobbe che non era nato per filosofare in nessun modo; gli mancava persino l'organo del rigido ragionamento logico; o almeno il suo bollente cuore, ricco di tenerezze e di sdegni, voleva troppo parlare anche lui, a favore o contro, secondo la propria passione. Suonando una sera a casa C., tutto fremente e con gli occhi sfavillanti, l'andante della suonata op. 28 di Beethoven, gli capitò di dire a mezza voce: "Ah questo, questo, questo!". Nessun Padre, pensava, nessun Dottore potrebbe comunicar il sentimento religioso come Beethoven. Metteva, suonando, tutta l'anima sua nella musica e avrebbe pur voluto esser con Luisa, suonarle il divino andante, unirsi a lei pregando in un inenarrabile spasimo dello spirito, così. Né gli venne in mente che Luisa, la quale del resto sentiva la musica molto meno di lui, avrebbe piuttosto dato all'andante il senso del doloroso conflitto fra il proprio affetto e le proprie idee.

Andò da G., gli riportò S. Tommaso, gli confessò tutta la sua impotenza con parole così umili e commosse che il vecchio prete, dopo qualche momento di silenzio accigliato e inquieto, gli perdonò. "Là là là", diss'egli riprendendosi con rassegnazione il suo primo volume della Somma, "ca s'raccomanda al Sgnour e sperouma ca fassa Chiel." Così finirono gli studi teologici di Franco.

Tanto meditare sulle idee di sua moglie e sulle proprie e soprattutto il consiglio del professore "ca s'raccomanda al Sgnour" non furono senza frutto. Cominciò a intendere che in qualche cosa Luisa non aveva torto. Rimproverato da lei di non condurre la vita che secondo la sua fede avrebbe dovuto, egli s'era offeso di ciò più che di tutto il resto. Adesso un generoso slancio lo portò all'altro estremo, a giudicarsi sinistramente, a esagerare le proprie colpe d'accidia, d'ira e persin di gola, a tenersi responsabile delle aberrazioni intellettuali di Luisa. E provò una smania di dirlo, di umiliarsi davanti a lei, di separar la causa propria dalla causa di Dio. Quando ebbe il posto all'Opinione e regolò le proprie spese per poter fare un assegno alla famiglia, sua moglie gli scrisse che l'assegno era assolutamente troppo forte in proporzione dei suoi guadagni. Il saper ch'egli viveva a Torino con sessanta lire il mese le rendeva amaro il cibo a lei. Allora egli le rispose, questo non proprio sinceramente, che, anzi tutto, non pativa mai la fame; che, del resto, sarebbe stato felice anche di digiunare perché provava un'avidità intensa di mutar vita, di espiar gli ozi passati, compreso il soverchio tempo dato ai fiori e alla musica, di espiar tutte le passate mollezze, tutte le debolezze, comprese quelle per la cucina raffinata e per i vini scelti. Soggiunse che della vita passata aveva domandato perdono a Dio e che credeva doverlo domandare anche a lei. Insomma il Padovano, cui si era legato di grande amicizia, udito recitarsi da lui, come a riprova di precedenti confessioni, questo brano di lettera, gli disse: "Ciò, la par l'orazion de Manasse re di Giuda".

Luisa scriveva molto affettuosamente, sì, ma con minore effusione. Il silenzio di Franco circa l'argomento del colloquio doloroso le spiaceva; e cominciar lei, di fronte a un silenzio così ostinato, non le parve utile.

I propositi di lavoro e di sacrificio la commossero profondamente; quando lesse quella confessione da gran delinquente con la domanda di perdono a Dio e a lei, ne sorrise e baciò la lettera sentendo ch'era un atto di sottomissione e un'acquiescenza umile alle censure che tanto lo avevano a prima giunta irritato. Povero Franco, ecco gli slanci della sua nobile, generosa natura! Ma durerebbero? Rispose subito e se dalla risposta traspariva la sua commozione, ne traspariva pure il sorriso, del quale Franco non fu contento. Nella chiusa v'eran questi periodi: "Leggendo tutte le accuse che ti fai ho pensato con rimorso a quelle che t'ho fatto io, una triste notte, e ho sentito che ci pensavi anche tu quando scrivevi, benché né questa lettera né alcuna delle altre tue ne abbia parola. Di quelle accuse ho rimorso, Franco mio; ma delle altre cose a cui tanto penso nella mia solitudine, oh come vorrei che parlassimo ancora, da buoni amici!".

Il desiderio di Luisa restò vano. Su questo punto Franco non rispose affatto, anzi la sua prima lettera fu alquanto freddina. Perciò Luisa non ritornò più sull'argomento. Solo una volta, parlando di Maria, scrisse: "Se tu vedessi come recita il Padre nostro, mattina e sera, e come si comporta a Messa, la domenica, saresti contento".

Egli rispose: "Di quanto mi scrivi circa le pratiche religiose di Maria, sono contento e ti ringrazio".

Sì Luisa che Franco scrivevano quasi ogni giorno e spedivano le lettere una volta alla settimana. Ismaele andava alla posta di Lugano ogni martedì, portava la lettera della moglie e riportava quella del marito. In giugno Maria ebbe il morbillo, in agosto lo zio Piero perdette quasi improvvisamente l'occhio sinistro e ne fu, per qualche tempo, molto turbato. Durante questi due periodi, le lettere di Oria spesseggiavano. In settembre la corrispondenza ritornò settimanale. Tolgo dal fascio le ultime lettere scambiate fra Luisa e Franco alla vigilia degli avvenimenti onde furono colti alla fine di settembre.

Luisa a Franco

Oria, 12 settembre 1855

Il riverito signor Ismaele ci ha fatto molto aspettare l'ultima tua, perché da Lugano invece di venire a Oria è andato a Caprino con alcuni amici suoi e delle Potenze Occidentali a festeggiare la presa di Sebastopoli nella cantina dello Scarselon e là ha bevuto "un cicinìn" e quindi è ritornato a Lugano dove un altro "cicinìn" lo ha fatto dormire come un salame fino a mercoledì mattina. Ha pure dimenticato di spedirti il vasetto di lucido e così lo dovrai aspettare una settimana o pagare, a Torino, tanto più caro, se la provvista è finita. Me ne rincresce assai.

Se Dina ti ha offerto di scrivere qualche appendice teatrale, tanto meglio. Così potrai udire gratis un po' di musica; benché sono anch'io dell'opinione del vostro Caval di spade che bisogna ricondurre la musica italiana al tamburo. Quanto all'affare Valle Intelvi, lodo la tua prudenza. Essa è stata però così grande che non sono certissima d'averti inteso bene. Ho inteso che per preparare, in caso di guerra, un movimento alle spalle dei nostri signori, occorrono alcune persone sicure cui far capo con le opportune comunicazioni da Torino, sia direttamente sia per mezzo del Comitato di Como. A ogni modo andrò io stessa domani a Pellio Superiore dove c'è un medico condotto grande amico di V. e sicurissimo. Parlerò con lui, intanto. Per quella fodera sdrucita non ti crucciare. Basta che porti l'abito a Lugano quando verrai. Ci penserò io e posso anche promettere di foderarti le maniche di seta, grazie ad una sottana che mia madre mi diceva essere venuta in casa Ribera da casa Affaitati nel secolo scorso, una sottana gialla a fiorami rossi che né io né Ombretta porteremo certo mai.

Ombretta sta benissimo. Da tre giorni, declinando il caldo, ha ripreso i suoi colori. Stamattina le ho dato la prima lezione di lettura col metodo Lambruschini.

Tutto si trasforma e progredisce nella nostra casa! Questa sorte è toccata ieri all'antico cartellone della tombola, con dolore muto ma palese della Cia. Ne ho fatto strage per tagliarne fuori, oltre a cinque quadratini per le vocali, parecchi altri quadrati più grandi, dove ho disegnato, immagina come! le figure di so-le, lu-na, ca-ne, bu-e, ecc. Maria ha imparate le vocali con prontezza sufficiente. A mezza lezione è entrato lo zio Piero e ha esclamato: "Oh povero me!". Poi, malgrado le mie proteste, ha molto compianto Maria. Ella ha risposto che studiava per scrivere a papà. "Scrivere a papà" è la sua idea fissa e io credo che se la facessi scrivere conducendole la mano, perderei forse il più forte stimolo che posso adoperare con lei come maestra di lettura, poiché sa che prima di scrivere deve imparare a leggere. Il suo affetto per te vien sempre fuori con una mistura di amor proprio. Parla come se fosse un bisogno, non suo ma tuo, mio, dell'universo intero che Ombretta Pipì scriva a papà. Uno di questi giorni mi udì sgridar la Veronica perché ha la cattiva abitudine di buttar dalla cucina l'acqua sporca sul carrubo che n'è intristito. Ricordai alla Veronica, naturalmente, quanto il carrubo è caro a te. Maria l'udiva che brontolava tra sé contro il povero carrubo perché manda ombra in cucina e gli augurava di crepare. "Taci!", le intimò Maria con una forza inesprimibile. "Ti mando via se non taci." L'altra la rimbeccò e Maria fuori a piangere. Io udii e accorsi. "Perché piangi?" "Perché la Veronica dice brutte parole alla pianta di papà." Bisognava vedere che visetto irritato! Adesso fa lei la guardia al carrubo, non se ne allontana senza una predica alla Veronica e prende un'aria d'importanza come se la vita del carrubo fosse affidata a lei. Ogni mattina, quando va in giardinetto, corre lì e dice: "Stai bene, pianta?". Oggi ha versato molte lagrime perché la breva soffiava scotendo forte il carrubo, e poi ch'ella gli ebbe fatta la solita domanda, io le dissi: "Vedi che non sta bene il carrubo? Vedi che risponde di no?". Più tardi mi domandò se il carrubo, quando muore, va in Paradiso. Le risposi che siccome il carrubo disturba la Veronica mandando l'ombra in cucina, non può andare in Paradiso. Tacque mortificata.

Lo zio Piero è ormai rassegnato del tutto alla perdita del suo occhio. Si paragona ad un altare dove si dice messa e il chierico ha spento, durante l'ultimo vangelo, una delle due candele. Dopo pranzo egli e Maria fanno in loggia delle conversazioni senza fine, non più interrotte dal corso del Mississipì, oramai dimenticato. Lo zio le racconta tante vecchie cose che non ha mai raccontato neppure a me. Io non entro, allora, in loggia, perché credo che si apra più volentieri con la piccina sola. Si vogliono un gran bene e non si fanno mai o quasi mai baci né carezze, come se Maria fosse una persona grande.

13

Stamattina ho preso con me la Leu, la sorella della Veronica, ch'è clorotica, per condurla a consultare il medico di Pellio; capisci! Abbiamo impiegato due ore e mezzo da Osteno. Tu avresti goduto con entusiasmo la bellezza dei luoghi e della mattina. Io invece non me ne commossi che un momento fra i vecchi castagni di Pellio Superiore, dove voltandosi a guardar giù la valle si scopre, in fondo a quel grande imbuto verde, Porlezza e un pezzetto di lago, una piccola coppa di acqua viva, verde anche quella. Ti ricordi che abbiamo fatto colazione insieme lassù, nel tempo in cui ero ancora signorina e che l'Ester si è accorta di qualche cosa quando mi hai parlato di mia madre?

Ho trovato il mio medico condotto alla fontana di "Pèll sora", fra le pecore, come un patriarca. Gli ho fatto visitare la Leu e poi, allontanata questa, abbiamo parlato. Non sapeva che sei a Torino e al solo nome di Torino mi afferrò e mi strinse le mani come se la moglie d'uno ch'è a Torino fosse già una specie di eroina. Credeva poi che corrispondendo con Torino io avessi il piano di Cavour in una tasca e quello di Napoleone nell'altra. È un bonapartista così sfegatato che gli è amara l'alleanza inglese e dice "la perfida Albione". Si teneva sicurissimo, del resto, della guerra a primavera e non gli piacque udire che ci sono dei dubbi. Credo che mi abbia subito ammirata meno. Quanto ad agire nel momento buono, dice che in Vall'Intelvi si faranno tagliare a pezzi, se occorre, "come micch". Perché parla sempre in plurale, dice "nün chì". Non ha l'aria d'uno spaccamonti. Parlando di venire alle mani coi Croati diventò più rosso dell'asso di cuori e vibrava tutto come un bracco quando gli si mostra un pezzo di pane. "Nün chì", mi disse, "gh'emm poeu anca el Brenta." Sai, hanno a vendicare il Brenta, fucilato dagli austriaci. Insomma, se la parte mia, quando scoppierà la guerra, non fosse di liberare la "süra Peppina" e di buttare ai cavedini il suo Carlascia, andrei volentieri a battermi insieme al dottore di Pellio.

Ritornammo alle tre. Lo zio giuocava a tarocchi col curato, con Pasotti e col signor Giacomo. Il curato aveva la Gazzetta Ticinese e si era molto parlato di Sebastopoli. Si capisce che Pasotti ha una gran rabbia come tutti i tedesconi. Invece il signor Giacomo era tutto intenerito per il suo Papuzza e il curato propose di bere una bottiglia alla salute di Papuzza. Allora lo zio Piero gli domandò se non aveva vergogna, egli prete, di festeggiare le buone fortune di Papuzza. "Mi l'era per bev", brontola il curato. "L'è ben che ghe n'è minga", risponde lo zio. Il curato brontolò peggio di prima e lo zio, per consolarlo, gli fece una dotta dissertazione sui dialetti lombardi, concludendo: "Ghe n'è no, ghe n'è minga e ghe n'è miga".

14

Non credo che Pasotti verrà più in casa nostra. Me ne rincresce per quella povera Barborin che non potrà più venirci neppur lei, temo; ma non mi pento di quel che ho fatto.

Egli sa benissimo che sei a Torino da un pezzo, come qui lo sanno tutti. Ne ha parlato persino col Ricevitore, me lo disse la Maria Pon che stando alla cappella del Romìt li udì mentre scendevano discorrendo ad Albogasio Superiore. Quando è venuto da noi ha affettato sempre d'ignorarlo e ha domandato le tue notizie con quelle sue solite smancerie di premura e di amicizia. Oggi mi trova sola in giardinetto, mi domanda quanto ancora starai assente e se adesso sei a Milano. Io gli rispondo netto che mi meraviglio della sua domanda. Egli diventa pallido. "Perché?", dice. "Perché Lei va dicendo che Franco è in ben altro luogo." Si confonde, protesta, freme. "Protesti pure", dico io. "Tanto è inutile. Lo so. Del resto Franco sta benissimo dov'è. Lo dica pure a chi crede." "Lei mi offende!", diss'egli. Io non stetti tanto a riflettere e risposi: "Sarà!". Allora se n'andò precipitosamente, senza salutarmi, nero come l'asso di picche, poiché sono in vena di simili paragoni. Sono sicura che stasera andrà a Cressogno.

Il Cüstant ci ha mandato a regalare una magnifica tinca presa da lui stamattina con gran dispetto del Biancòn che pesca tutto il giorno, non prende niente e si arrabbia perché le tinche, brave! se ne impipano di S. M. I. R. A. e del suo Carlascia. "Poer omàsc!", dice la súra Peppina. "El se mangia el fidegh!". Gli passerà, gli passerà.

Miti sensi, pace amica

Tornan presto a nobil cor;

Dio conservi e benedica

Ferdinando Imperator.

15

Ho raccontato allo zio l'episodio Pasotti e n'è stato assai malcontento. "Bel profitto", ha detto, "che ne caverai!" Povero zio, parrebbe un utilitario. Invece è un filosofo. In fondo, di fronte agli sdegni miei per tante brutte cose che sono nel mondo, il suo argomento capitale è "ghe voeur alter!".

Oggi la messa parrocchiale è stata ad Albogasio Superiore. Nell'uscire di chiesa con Maria ho avuto uno sguardo desolato della povera Pasotti che aveva evidentemente l'ordine di evitarmi. Invece è discesa con noi Ester e poi è anche salita in casa e mi ha tenuto, a quattr'occhi, un discorso che da qualche tempo mi aspettavo. Ha cominciato pregandomi di non ridere e ridendo lei. Insomma capisci che il professore, dalli e dalli, ha fatto un po' di breccia. E così, quantunque Ester affermi di non poter decifrare i propri sentimenti. Io vedo tutto il cammino ch'egli ha fatto nel suo cuore. Sulle prime, te ne ricordi? lo chiamava valsoldesemente el vecc, el veggiòn, el zücca pelada, l'oreggiàt, el nasòn, el barbarostì. Quando s'accorse della simpatia di lui un sentimento di gratitudine le fece smettere questi titoli, senza riconciliarla però né con il cranio lucido né con le orecchie a ventaglio né col pelo rossiccio né col naso fiorito dell'adoratore. Adesso de' primi tre guai non si parla più; su questi tre punti l'amico ha vinto la battaglia e può portarli in trionfo. Solo intorno al quarto punto vi è ancora del combattimento. "Mi l'è quel nas!", diceva Ester stamattina e rideva rideva, si nascondeva il bel visetto brillante. Il naso scandaloso mi pare che fatalmente prosperi, si colori e ingrossi sempre più.

Quel semplice uomo mi confidò poco fa, forse perché lo ripetessi a Ester, che ha sempre bevuto solamente acqua anche in gioventù e che il rossore e il turgore del suo naso dipendono da frequenti sofferenze viscerali. Ho paura che questo nuovo aspetto delle cose non migliori la situazione.

Credo però che l'amica finirà con superare anche un così grande e grosso ostacolo. Il fatto è che la passione di lui è all'apice. Egli le ha scritto trenta pagine di confessione generale, vuotandosi proprio il cuore e rivoltandone la fodera, per modo da intenerire un croato. Io lo aiutai presso Ester che deciderà entro due giorni e vuole che la risposta gli sia fatta da me. Io poi capisco che la letteratura del professore le mette soggezione e che ha un gran timore di fare sbaglietti di ortografia. Buon segno!

18

Sono stata tre giorni senza scrivere temendo non esser padrona della mia penna, non saper comprimere il mio pensiero dentro parole che devono avere una data misura e non più. Adesso lo posso fare e lo faccio. Sappi però, Franco, che non rispondo esser padrona di me sempre!

È venuto dunque da me, la sera del 15, l'agente di tua nonna. Poiché la rata semestrale de' tuoi interessi scade il 16 ho creduto che avesse le cinquecento svanziche e gli ho detto senz'altro che andavo a preparargli la ricevuta. Allora il gentilissimo signor Bellini mi disse che la ricevuta mia non gli poteva bastare. "Come", rispondo, "se Le è bastata il 16 marzo?" "Ma!", dice. "I miei ordini!" "Ma Franco non c'è." "Lo so." "E allora, cosa è venuto a fare?" "Sono venuto a dirle che il signor don Franco, per avere il denaro deve presentarsi all'agenzia della signora marchesa in Brescia." "E se non potesse andare a Brescia?" Qui il signor Bellini fece un gesto come per dire: pensateci voi. Io gli risposi che andava bene, gli feci portare il caffè e gli dissi che avrei desiderato comperare dalla signora marchesa le librerie del tuo antico studio di Cressogno. Il Bellini diventò giallo e partì mogio mogio come il nostro vecchio cane Patò di casa Rigey quando aveva rubato.

È certo che in questa immondizia vi ha un dito del signor Pasotti.

Ieri è venuto qua il prefetto della Caravina e ha raccontato che il 14 sera Pasotti è andato a Cressogno assai tardi ed è capitato in casa della nonna mentre si diceva il rosario, per cui gli toccò pure di rosarieggiare. Questo faceva ridere il prefetto; secondo lui il Pasotti va a messa perché è I. R. pensionato ma di preghiere dice solo "el Patèr d'i ratt", che io non so cosa sia. Soggiunse poi che quando gli altri partirono, Pasotti restò a confabulare con la nonna e che c'era anche il Bellini. Bellini era arrivato il 15 stesso, da Brescia. Probabilmente aveva recati i denari per te.

Fino all'ottobre, quando arriverà il denaro tuo, c'è da vivere. Altro non dico.

Il ciclamino che troverai qui dentro te lo manda Maria. Devo pure raccontarti questa cosa! Puoi pensare in quale stato d'animo ella mi vede. Mi ode anche spesso discorrere dell'argomento con lo zio. Lo zio è sempre lo zio. In vita sua ha solamente giudicato birbanti quegli appaltatori che gli offrivano quattrini e un altro zio, il suo antipodo, che dopo di essersi servito del nipote per anni, non gli ha lasciato un fico secco. Altri birbanti non ha mai voluto vedere e neanche adesso vuol vederne. Ora, quando io discorro con lui, Maria vorrebbe ascoltare sempre. Io la mando via ma poi tante volte mi accorgo che piano piano ritorna. Stamattina si mette a recitare le sue orazioni. Oh, Franco, tua figlia è ben religiosa nel senso tuo! L'ultima che recita è il requiem per la povera nonna Teresa. "Mamma", dice allora, "voglio recitare il requiem anche per la nonna di Cressogno." Ho risposto quel che ho risposto, parole amare; avrò fatto anche male, se vuoi, lo confesso. Maria mi guarda e fa: "È proprio cattiva la nonna di Cressogno?". "Sì." "E perché lo zio dice che non è proprio cattiva?" "Perché lo zio è tanto buono." "E tu, allora, non sei mica tanto buona?" Cara la mia innocente, me la mangiai di baci, non ne potei proprio a meno. Appena fu libera di parlare, riprese subito: "Non vai mica, sai, in Paradiso, se non sei tanto buona". Quella del Paradiso è la sua fissazione. Povero Franco, non averla con te, tu che saresti così contento di lei! Fai un gran sacrificio! Se ti può far piacere ti dirò che la sola possibilità per me di amare Iddio la trovo in questa bambina perché in essa Iddio mi diventa visibile, intelligibile.

Addio, Franco; ti abbraccio

Luisa

P.S. Sappi che ho licenziato la Veronica per il 1° ottobre. Per economia, prima; e poi perché mi sono accorta che fa all'amore con una guardia di finanza. Oh, mi scordavo quest'altra! Mezz'ora fa è venuta Ester a dirmi che si è decisa per il sì ma che desidera di aspettare ancora un giorno a vedere il professore. Si capisce che il naso è inghiottito ma non ancora passato giù nello stomaco.

Franco a Luisa

Torino, 12 settembre 1855

Iersera Dina mi ha mandato al d'Angennes dove si è data male un'opera vecchiotta che non mi garba, Marin Faliero. Aggiungi l'idea tormentosa di dover scrivere l'appendice e intenderai che non è stato un invitarmi a nozze. Un collega mi propose di presentarmi in un palco dov'erano due dame sfoggiatamente eleganti. Credo l'abbia fatto per desiderio del Dina perché esitava, gittava qualche rapida occhiata ai miei panni i quali mostrano aperto il canchero della borsa. Pensa se mi fu agevole il trarmi d'impaccio!

Panni vetusti

Fedeli e frusti

vi debbo anche per questo una gratitudine che non rifiuto.

In teatro non si parlava che di Sebastopoli. I più credono che la pace non si farà, che l'Inghilterra non vorrà posare le armi prima d'aver levato ai russi per cinquant'anni il prurito delle conquiste. Uscendo dal teatro udii il deputato B., un fiero avversario della spedizione, dire a qualcuno: "Hanno preso la loro tomba. Un piccolo Napoleone, una piccola Mosca!". Io dissi forte: "Hanno preso Verona". B. mi guardò con due occhi fulminei e io guardai lui senza abbassare i miei. Egli si strinse nelle spalle e se n'andò. Salii nella mia soffitta e mi posi a scrivere l'appendice sui margini di un giornale onde non sciupare carta.

Scrivi, cancella, riscrivi e ricancella, ne son venuto a capo alle quattro del mattino. Qui mi dicono che i miei periodi hanno una forma troppo classica e che adopero troppi vocaboli e modi toscani. "Già, Lei, col Suo Giusti!", mi ha detto D. Il guaio è ch'io non so scrivere un italiano piemontese come forse piacerebbe a lui. Intanto mi son buscato un bellissimo e lucentissimo scudo nuovo di zecca con un Vittorio Emanuele così parlante che potrebbe farvi svenire dalla commozione, come svenne ier l'altro all'hôtel della Liguria una signora veneta vedendo passare alla testa d'una colonna di fanteria il generale Giannotti che scambiò, in grazia de' baffi maiuscoli, per il Re. Io serberò lo scudo, ve lo porterò a Lugano, tu lo porrai da parte e sarà la prima pietra della dote di Ombretta. Va bene? L'idea me n'è venuta per un sogno che feci stamattina, appena addormentato, nell'ora in cui l'anima

Alle sue visïon quasi è divina.

Sognai ch'era nella chiesa di S. Sebastiano di Oria, con te e Maria, grande, bella, vestita da sposa; che lo sposo era Michele Steno e che lo zio Piero si stava mettendo cotta e stola per celebrar lui il matrimonio e che Michele Steno si alzò dall'inginocchiatoio per venirmi a dire: "Sì, tutto va bene, ma e la dote, e la dote?".

Maria mia dolcissima, verrà pure per te il gran giorno della dote; quand'anche tu tenessi allora in serbo molti pezzi d'oro sopra lo scudo d'argento, avresti tuttavia lo scudo più caro!

14

Il Fante di bastoni è in pericolo di essere licenziato dal suo principale per le condizioni veramente miserevoli del suo vestito. Il Fante è per verità uno sciupone e non ha ancora appreso, duris in rebus, a maneggiare una spazzola; ma insomma gli altri sapienti hanno deciso che non faranno colazione per una settimana ond'egli si possa rimpannucciare. Vedi bassezza del cuore umano! Il Fante si è sbracciato a ringraziare e poi si disponeva a far colazione lui, come se nulla fosse. Questo gliel'abbiamo proibito. Così oggi invece di andar al "Mal de stomi" passammo una mezz'oretta sulla via del Po, verso il Valentino, a veder l'acqua scendere. L'Udinese portò seco il flauto, perché ad una colazione ideale dove si offrivano le più trimalcioniane idee di cibi e di bevande, la musica non poteva mancare. Egli aveva una lettera de' suoi con magnifiche proposte di ritorno all'ovile. Persino il cavallo da sella gli offrono. Ci narrò di avere risposto che lo vedranno presto arrivare sopra un cavallo del Re Vittorio Emanuele. Allora il Padovano, gran motteggiatore, gli ha detto con tutta flemma: "Ciò, eroe, sonistu anca el trombon, ti?". (Vedi che t'imito, poiché la ferula de' pedanti mi è lontana, nelle tue scandalose familiarità col dialetto.) L'Udinese si è arrabbiato alquanto ma poi vi ha fatto su la sua brava sonatina di flauto. Il fatto strano è che nessuno di noi ha sentito fame. Però, levando la seduta, abbiamo deciso che l'abbigliamento del Fante verrà semplificato e ch'egli potrà benissimo fare a meno del giustacuore, modernamente detto sottoveste.

Ah noi faremmo a meno anche del pranzo per poter passare il Ticino col Re nell'aprile del 1856! Ne parlavamo tornando in città dalla colazione ideale. Il Padovano ha osservato che in aprile l'acqua è troppo fredda e che sarebbe meglio aspettare fino a giugno. Si diceva che gran cosa sarà l'Italia senza tedeschi. Ti assicuro ch'eravamo tutti entusiasti malgrado il vuoto dello stomaco. Tutti meno il Padovano, sempre; del quale va pur detto, a sua scusa, che patisce la fame, o quasi, per non vedere austriaci, e che quantunque bussi all'uscio de' quaranta si batterà meglio di qualche giovane che adesso si mangia un caiserlicchio a colazione e due a pranzo. Egli crede che torneremo un paese di cani e gatti. "Per esempio", diceva, "intendiamoci bene. Partiti i tedeschi, ciascuno a casa sua e guai a voi se venite a rompermi le scatole a Padova!". Mi pareva di udire lo zio Piero, quando noi pure, a Oria, s'è parlato della grandezza, dello splendore futuro d'Italia. "Eh sì sì!", diceva. "Eh sì sì! Il lago diventerà di latte e miele e la Galbiga de formagg de grana!"

Vedremo, vedremo!

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La tua lettera mi suscita un tumulto di sentimenti che non si scrivono.

Mi addolorano, senza dubbio, l'atto della nonna e la obliqua malevolenza del Pasotti ma più mi affligge lo sdegno tuo troppo forte. Quando un mio procuratore si presenterà a Brescia, il pagamento non potrà venire rifiutato. È vero, tu sei donna e non hai l'obbligo di conoscere queste cose. Anche la collera ti perdono poiché freddo non rimasi nemmeno io, da principio. Quindi mi son detto: Di che ti sdegni e che ti sorprende? Non conoscevi tu quel malanimo e non ne avesti offese maggiori?

Infinitamente mi rattrista che tu non abbia saputo celare i tuoi sentimenti a Maria, infinitamente mi commuove che tu ne sia pentita e infinitamente mi consola che tu ami il Signore nella bambina, che tu me lo scriva. A dir vero, cara, non dovrei appagarmene così perché ad amare Iddio ne invitano i cieli e la terra ed Egli ci è visibile in ogni luce, intelligibile in ogni vero! Ma insomma tu incominci a udire la voce Sua! Nelle mie lettere non ho mai toccato questo punto per sentirmi troppo inetto a parlartene degnamente, efficacemente. E ora lascio che Iddio ti parli nella bambina, torno nel mio silenzio. Sappi soltanto che ascolto palpitante, che prego e spero.

Posso io dirti quello che sento per Maria? Chi potrebbe dire questa commozione, questa tenerezza immensa, questo desiderio che mi strugge di tenermela almeno un momento, un solo momento, sul cuore? Credi tu che io possa attendere fino a novembre? No no no, scriverò appendici, copierò, monterò qualche guardia per altri ma verrò a Lugano prima! Coprila di baci per me, intanto, dille che Papà ha sempre nel cuore la sua Ombretta e che la benedice, domandale cosa le farebbe piacere ch'io le portassi e poi scrivimelo senza pensar poi troppo alla mia povertà.

Ti abbraccio, Luisa mia, con l'anima.

Franco

Luisa a Franco

24 settembre 1855

Finalmente! Da quando sei partito io desiderai sempre, che tu toccassi quel punto. Come mi sarò spiegata, quella notte, nella mia commozione dolorosa? Come mi avrai inteso tu nella tua? Da mesi e mesi sento il bisogno di parlarne con te e non l'ho fatto mai per mancanza di coraggio.

Vedi, per esempio. Tu mi hai accusata d'orgoglio, quella notte. Ti supplico di credere che non sono orgogliosa; non posso neanche comprendere un'accusa simile!

Mi par di capire dalla tua lettera che tu mi supponga ritornata alla fede in Dio. Ma t'ho io mai detto di non credere in Dio? Non posso averti detto questo perché la storia de' pensieri miei mi è tutta scritta nella mente, e lo spavento, l'angoscioso pensiero di non poter forse più credere in Dio mi son venuti dopo la tua partenza; ne so il giorno e l'ora. Avevo udito parlare a S. Mamette di un gran pranzo dato da tua nonna a Brescia e io non potevo assolutamente procurare al nostro diletto zio quel regime di cibi e di vino che il medico, temendo per l'occhio destro, prescriveva. Ho lottato con quelle tenebre spaventose, Franco, e ho vinto. È vero, la vittoria è in gran parte della nostra Maria. Vorrei dire che se tante nere nuvole mi nascondono l'esistenza di una Giustizia Superiore, me ne trapela però un raggio in Maria; e questo raggio mi fa credere e mi fa sperare nell'Astro. Perché sarebbe orribile che l'universo non avesse un governo di giustizia!

Quella notte, dunque, io ti ho potuto solamente dire che intendevo la religione in un modo diverso da te, che gli atti di fede cristiana e le preghiere non mi parevano essenziali all'idea religiosa ma l'amore e l'azione per quelli che soffrono, sì! Ma lo sdegno e l'azione contro coloro che fanno soffrire, sì!

E tu vuoi ritornare nel tuo silenzio? Ma no, non lo devi. Ti senti debole, dici. Debole te o il tuo Credo? Ragioniamo, discutiamo. Confessa che voialtri credenti amate le vostre credenze anche perché sono un comodo riposo dell'intelletto. Vi adagiate in esse come in un'amaca sospesa in aria per tante fila lavorate dagli uomini, annodate dagli uomini a diversi uncini. Voi vi state bene e se si va tentando, saggiando con la mano anche uno solo di questi fili, ve ne turbate e avete paura che si spezzi, perché poi molto facilmente si spezzerà il suo vicino e dopo questo un altro e tutto il vostro letto fragile rovinerà dall'aria in terra con vostro spavento e dolore. Conosco questo spavento e questo dolore, so che si paga così la compiacenza di camminar poi sul solido e perciò non mi trattiene dal discutere teco una pietà che sarebbe falsa. Ma forse mi inganno e sarai tu che mi solleverai a te nel tuo letto di fragili fili e d'aria. Maria non può far tanto. Se Maria mi fa credere in Dio non vuol dire che possa farmi credere anche nella Chiesa. E tu credi sopra tutto nella Chiesa, tu! Cerca di persuadermi dunque e io pure ti ascolterò palpitando; e se non prego, almeno spero, perché adesso più che mai desidero pienamente unirmi a te. Adesso con l'antico affetto sento per te un'ammirazione nuova, una gratitudine nuova.

Ti offenderai di questo mio sfogo? Pensa che otto mesi sono devi aver trovato una mia lettera nella tua borsa da viaggio e che da otto mesi aspettavo risposta!

Il professore ed Ester si vedono in casa nostra, oramai come fidanzati. Quelli son felici, almeno. Ella va in chiesa, egli non ci va, e né l'uno né l'altro si danno pensiero di ciò più che del colore diverso de' loro capelli. E così fanno novecentonovantanove sposi su mille, credo!

Ti abbraccio. Scrivi a lungo, a lungo.

Luisa

Questa lettera non partì da Lugano che il 26 settembre e Franco l'ebbe il 27. Il 29, alle otto della mattina, ricevette il seguente telegramma pure da Lugano:

Bambina malata gravemente. Vieni subito.

Zio

 

 

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Ultimo Aggiornamento: 13/07/05 23:57