De Bibliotheca

Biblioteca Telematica

CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

Piccolo mondo antico

Di: Antonio Fogazzaro

PARTE SECONDA

Cap. 4 Cap.5 Cap.6

4. Con gli artigli

L'ingegnere in capo non si accorse di nulla, e due giorni dopo, spirata la sua licenza, se n'andò via in barca, pacifico nel suo soprabitone grigio da viaggio, insieme alla Cia, la sua governante. Passarono altri dieci giorni senza novità alcuna, cosicché Franco e Luisa si persuasero che proprio fosse stato teso loro un tranello e che la Polizia non si lascerebbe vedere. La sera del primo ottobre fecero allegramente il tarocco con Puttini e Pasotti e, partiti gli ospiti per tempo, andarono a letto. Luisa, nel baciar la bambina che dormiva, la sentì calda. Le toccò le mani e le gambe. "Maria ha la febbre", diss'ella.

Franco pigliò la candela e guardò. Maria dormiva con la testina piegata sulla spalla sinistra secondo il suo solito. Il bel visetto, sempre accigliato nel sonno, era un po' acceso, la respirazione un po' frequente. Franco si spaventò, immaginò in un momento il morbillo, la scarlattina, il gastrico, l'infiammazione cerebrale. Luisa, più tranquilla, pensò ai vermi, preparò la santonina sul tavolino da notte. Poi padre e madre si coricarono senza rumore, spensero il lume, stettero ad ascoltar con pena il sottile respiro breve della piccina. Si assopirono e furono svegliati intorno alla mezzanotte, da Maria che piangeva. Accesero il lume e Maria si chetò, prese la santonina. Poi uscì da capo a piangere, volle esser portata nel letto grande, fra la mamma e il papà e in breve vi pigliò sonno; ma era un sonno inquieto, interrotto da pianti.

Franco tenne il lume acceso per poterla osservare meglio.

Pendevano, egli e sua moglie, sulla loro creatura quando all'uscio di strada furono precipitosamente battuti due colpi. Franco balzò a sedere sul letto. "Hai udito?", diss'egli. "Zitto!", fece Luisa afferrandogli un braccio e tendendo l'orecchio.

Due altri colpi, più forti. Franco esclamò: "La Polizia!", e saltò a terra. "Va', va'!", supplicò lei, sottovoce. "Non lasciarti prendere! Passa dal cortiletto! Scavalca il muro!"

Egli non rispose, si vestì a mezzo, in furia, e si slanciò fuori della camera, risoluto di non lasciar volontariamente la sua Luisa, la sua Maria malata, sdegnoso del pericolo. Discese le scale a salti. "Chi è?", diss'egli, prima di aprire. "La Polizia!", si rispose. "Aprite subito!"

"A quest'ora non apro a chi non vedo."

Si udì un breve dialogo nella strada. La voce di prima disse: "Parli lei", e la voce che parlò poi era ben conosciuta da Franco.

"Apra, signor Maironi."

Era la voce del Ricevitore. Franco aperse. Entrò un signore vestito di nero, in occhiali; dopo di lui, il bestione; dopo il bestione un gendarme con una lanterna; poi tre altri gendarmi armati, due semplici e un graduato che portava un gran sacco di cuoio. Qualcuno rimase fuori.

"Lei è il signor Maironi?", disse quel dagli occhiali, un aggiunto della Polizia di Milano. "Venga di sopra con me". E tutta la compagnia si avviò sulle scale con uno strepito di passi pesanti, di ferramenta soldatesche.

Non erano ancora al primo piano che la scala si illuminò in alto, singhiozzi e gemiti scoppiarono al secondo piano.

"Questa è Sua moglie?", chiese l'aggiunto.

"Crede?", rispose Franco, ironico. Il Ricevitore mormorò: "Sarà la domestica". L'aggiunto si voltò a dare un ordine, due gendarmi si fecero avanti, salirono in fretta al secondo piano. Il poliziotto domandò a Franco, più aspramente di prima: "Sua moglie è a letto?".

"Naturalmente."

"Dove? Bisogna che si alzi!"

L'uscio dell'alcova si aperse, comparve Luisa, in veste da camera con i capelli sciolti e con una candela in mano, mentre un gendarme si affacciava al ripiano superiore della scala a dir che la serva era mezzo svenuta e non poteva venir giù. L'aggiunto gli ordinò di lasciar il suo compagno presso la donna e di scendere. Poi salutò la signora che non rispose al saluto. Sperando che Franco fuggisse, ella si era affrettata di uscir di camera per trattenere, per ingannare, se possibile, la Polizia. Vide suo marito, trasalì, palpitò, ma si rimise subito.

L'aggiunto si avanzò per entrar in camera. "No!", esclamò Franco. "C'è un'ammalata!" Luisa impugnò la maniglia dell'uscio chiuso guardando colui in faccia.

"Questa malata chi è?", domandò l'aggiunto.

"Una bambina."

"Eh, cosa vogliono che le facciamo?"

"Scusi", disse Luisa scotendo nervosamente la maniglia quasi in atto di sfida. "Hanno bisogno d'entrare tutti?"

"Tutti."

Al rumore delle voci e della maniglia la piccola Maria si mise a piangere un pianto di stanchezza desolata, che faceva male al cuore.

"Luisa", disse Franco, "lascia che questi signori facciano la loro parte!"

L'aggiunto era un giovane, alquanto elegante, dalla fisonomia fine e cattiva. Lanciò a Franco una occhiata sinistra. "Ascolti Suo marito, signora", diss'egli tanto per mordere di rimando, a qualche modo. "Lo trovo prudente."

"Meno di lei che si fa scortare da un esercito!", rispose Luisa aprendo l'uscio. Quegli la guardò, si strinse nelle spalle e passò oltre, seguito dagli altri.

"Aprano tutto, qui!", diss'egli forte, ruvidamente, indicando la scrivania. I grandi occhi cilestrini di Franco lampeggiarono. "Parli sottovoce!", diss'egli. "Non mi spaventi la bambina!"

"Silenzio a Lei!", tuonò l'aggiunto calando un pugno sulla scrivania. "Apra!"

La bambina, a quello strepito, si mise a singhiozzare disperatamente. Franco, furibondo, scagliò la chiave sulla scrivania.

"A Lei!", diss'egli.

"Ella è in arresto!", gridò l'aggiunto.

"Va bene!"

Mentre Franco rispondeva così, Luisa, che si era chinata tutta sulla sua creatura per cercar di quietarla, rialzò impetuosamente il viso.

"Ci ho diritto anch'io, a quest'onore", diss'ella con la sua bella voce vibrante.

L'aggiunto non degnò rispondere, fece aprire e rovistare da un gendarme tutti i cassetti della scrivania, levarne lettere e carte ch'egli esaminava rapidamente e buttava parte a terra, parte nel gran sacco di cuoio. Dopo la scrivania venne la volta dei cassettoni dove tutto fu messo sossopra. Dopo i cassettoni fu visitato il lettuccio di Maria. L'aggiunto ordinò a Luisa di levar la bambina dal letto grande ch'egli intendeva pure di visitare.

"Mi metta il lettuccio in ordine", rispose Luisa fremente. Fino a quel momento il bestione Carlascia era sempre stato lì muto e duro dietro i suoi baffi, come se quella bisogna, forse da lui desiderata in astratto, non fosse stata poi, in pratica, interamente di suo gusto. Adesso si mosse e, senza parlare, si pose ad accomodar con le sue manacce enormi le materasse e le lenzuola del lettuccio. Luisa vi posò la bambina e anche il letto grande fu sfatto e frugato senza frutto. Maria non piangeva più, guardava quella baraonda con tanto d'occhi spalancati.

"Adesso vengano con me", disse l'aggiunto. Luisa si tenne sicura d'esser condotta via con suo marito e chiese che si facesse scendere la sua domestica per affidarle la bambina. All'idea che Luisa pure fosse tratta in arresto, che si volesse togliere a Maria malata anche la madre, Franco, fuori di sé dalla collera e dal dolore, mise un grido di protesta:

"Questo non è possibile! Lo dica!"

L'aggiunto non degnò rispondergli, ordinò che si facesse venir la fantesca. La fantesca, mezza morta di paura, entrò fra i gendarmi, gemendo e singhiozzando.

"Stupida!", mormorò Franco, fra i denti.

"La donna starà qui con la bambina", disse l'aggiunto. "Loro vengano con me. Devono assistere alla perquisizione." Fece prendere dei lumi, lasciò un gendarme nell'alcova e passò in sala, seguito dagli altri gendarmi, dal Bianconi, da Franco e Luisa.

"Prima di continuar la perquisizione", diss'egli, "domanderò Loro ciò che avrei domandato prima se il Loro contegno fosse stato migliore. Mi dicano se tengono armi o pubblicazioni sediziose o carte, sia stampate che manoscritte, ostili all'Imperial Regio Governo."

Franco rispose forte:

"No".

"È quello che vedremo", fece l'aggiunto.

"Si accomodi."

Mentre l'aggiunto faceva scostar i mobili dalle pareti, guardare e frugare dappertutto, venne in mente a Luisa che otto o dieci anni prima lo zio le aveva fatto vedere, nel cassettone di una camera del secondo piano, una vecchia sciabola che vi stava sin dal 1812. Era la sciabola di un altro Pietro Ribera, tenente di cavalleria, caduto a Malojaroslavetz. In quella camera, che stava sopra la cucina, non ci dormiva mai nessuno, non ci si andava quasi mai; era come se non ci fosse. Luisa aveva dimenticato del tutto la vecchia sciabola dell'Impero. Dio, le veniva in mente adesso! Se anche lo zio l'avesse dimenticata! Se non l'avesse consegnata nel '48, dopo la guerra; quando tutte le armi si dovevano consegnare, pena la vita! Avrà pensato, lo zio, nella sua semplicità patriarcale, che quel ricordo di famiglia, giacente da trentasei anni nel fondo d'un cassettone, era pure diventato un arnese pericoloso e proibito? E Franco, Franco che non sapeva niente! Luisa teneva le mani sulla spalliera d'una seggiola; la seggiola scricchiolò tutta sotto una stretta convulsa; ell'alzò le mani, atterrita come se avesse parlato.

Vedeva il poliziotto passar di camera in camera con i suoi gendarmi, giungere a quella, aprire il cassettone, frugare, trovar la sciabola. Faceva ogni sforzo di ricordar il posto preciso dove l'aveva veduta, d'immaginar una via di scampo, e taceva seguendo con gli occhi, macchinalmente, la candela che un gendarme accostava, secondo i cenni del suo capo, ora ad un cassetto aperto, ora ad una cantoniera, ora ad un quadro che colui alzava per guardarvi dietro. Non le veniva in mente nessun rimedio. Se lo zio non aveva pensato di levar la sciabola, c'era solo da sperare che non si visitasse anche quella camera.

Franco, appoggiato alla stufa, seguiva, scuro nella fronte, ogni atto di quella gente. Quando cacciavano le mani nei cassetti, gli si vedeva la collera nel giuoco muto delle mascelle. Non si udiva che qualche ordine tronco dell'aggiunto, qualche risposta sommessa dei gendarmi. Nulla si moveva intorno ad essi se non le loro grandi ombre traballanti per le pareti. Il silenzio del Ricevitore, di Franco e di Luisa pareva, in una sala da giuoco proibito, intorno alle voci brevi dei giuocatori, il silenzio di coloro che hanno puntato forte. La sinistra faccia, la sinistra voce dell'aggiunto, quantunque nulla si trovasse, non cambiavano mai. A Luisa egli pareva un uomo sicuro d'arrivare al suo scopo. E non poter far niente, neppur avvertire Franco! Ma forse era meglio che non lo sapesse, forse quest'ignoranza poteva salvarlo.

Visitate la sala e la loggia, l'aggiunto passò nel salotto. Pigliò la candela dalle mani del gendarme e fece una rapida rassegna dei piccoli uomini illustri. "Il signor ingegnere in capo Ribera", diss'egli vedendo i ritratti di Gouvion Saint-Cyr, di Marmont e di altri generali napoleonici, "avrebbe fatto molto meglio a tener il ritratto di S. E. il feld-maresciallo Radetzky. Non c'è?"

"No", rispose Franco.

"Che razza d'impiegati!", fece colui con un disprezzo, con un'arroganza da non dire.

"Hanno gl'impiegati il dovere", scattò Franco, "di tenere ritratti..."

"Non sono qui", lo interruppe l'aggiunto, "per discutere con Lei!"

Franco voleva replicare. "Citto, Lei, con quella lingua lunga quatter brazza!", fece il Ricevitore, burbero.

L'aggiunto uscì dal salotto nel corridoio che conduce alla scala. Salirebbe, pensava Luisa, o non salirebbe? Salì ed ella gli tenne dietro senza tremare ma immaginando con una rapidità vertiginosa tante cose diverse che potevano accadere. Rotavano, per così dire, nella sua mente tutte le possibilità del momento, le sciagurate e le prospere. Se si fermava sulle prime, l'orrore la portava di slancio alle seconde; se si fermava su queste, la fantasia ritornava con avidità perversa alle prime.

Prima ancora di porre il piede nel corridoio del secondo piano, udì Maria piangere. Franco chiese all'aggiunto che permettesse a sua moglie di scendere dalla bambina ma ella protestò che voleva restare. L'idea di non essere con lui quando si scoprisse l'arma, l'atterriva. Intanto l'aggiunto entrò in uno stanzino dov'erano parecchi libri, trovò un'opera stampata a Capolago col titolo Scritti letterari di un italiano vivente e domandò:

"Chi è quest'italiano vivente?"

"Il padre Cesari", rispose Franco, audacemente. L'altro, ingannato da quella prontezza e da quel nome di frate, si diede l'aria dell'uomo colto, disse: "Ah, conosco!", e ripose il libro, chiese dove dormisse l'ingegnere in capo.

Luisa era troppo soggiogata da un'angoscia sola per sentir altro, ma Franco, a veder entrare il birro e i suoi nella camera dello zio così pulita e ordinata, così piena del suo buono, pacifico spirito, a pensar che colpo sarebbe per il povero vecchio una notizia siffatta, si sentì uno struggimento, una rabbia da piangerne. "Mi pare", diss'egli, "che almeno questa camera dovrebb'essere rispettata."

"Ella si tenga le Sue osservazioni", rispose l'aggiunto, e incominciò con far buttare all'aria coperte e materasse. Poi volle la chiave del cassettone. L'aveva Franco, che discese, accompagnato da un gendarme, a prenderla nella sua camera. Lo zio gliel'aveva consegnata prima di partire dicendogli che, ad un bisogno, avrebbe trovato un po' di cum quibus nel primo cassetto. Aprirono. V'era un rotolo di svanziche, alcune lettere e carte, dei portafogli e dei taccuini vecchi, dei compassi, delle matite, una scodellina di legno con varie monete.

L'aggiunto esaminò ogni cosa minutamente, scoperse fra le monete della scodellina uno scudo di Carlo Alberto e un pezzo di quaranta lire del Governo Provvisorio di Lombardia. "Il signor ingegnere in capo", disse l'aggiunto, "ha conservato queste monete con una cura straordinaria! D'ora in poi le conserveremo noi." Chiuse il cassetto e restituì la chiave senza aprire gli altri.

Uscì poi nel corridoio e si fermò, incerto. Il Ricevitore lo credette disposto a scendere e siccome il corridoio era quasi buio e la scala non si vedeva, s'incamminò egli, come più pratico, a destra, verso la scala, dicendo: "Di qua". La stanza della sciabola era a sinistra.

"Aspetti", disse l'aggiunto. "Guardiamo anche qui dentro." E voltosi a sinistra spinse quel tale uscio. Luisa, ch'era rimasta l'ultima del seguito, giunto il momento supremo, si fece avanti. Il cuore, che durante l'indecisione dell'aggiunto le aveva martellato a furia, si chetò come per miracolo. Ora ella era fredda, intrepida e pronta.

"Chi dorme qui?", le chiese l'aggiunto.

"Nessuno. Dormivano qui i genitori di mio zio che sono morti da quarant'anni. Dopo non vi ha più dormito nessuno."

Nella camera v'erano due letti, un canapè, un cassettone. L'aggiunto accennò ai gendarmi di aprire il cassettone. Si provarono; era chiuso a chiave. "Debbo averla io, la chiave", disse Luisa con perfetta indifferenza. Discese accompagnata da un gendarme e risalì con un cestellino pieno di chiavi, lo porse all'aggiunto.

"Non la conosco", disse, "non si adopera mai. Dev'essere una di queste."

Colui le provò tutte inutilmente. Poi le provò il Ricevitore, poi Franco. La buona non c'era.

"Mandi a S. Mamette, faccia venire il fabbro", disse Luisa tranquillamente. Il Ricevitore guardò l'aggiunto come per dirgli: "Mi pare inutile". Ma l'aggiunto gli voltò le spalle ed esclamò volto a Luisa: "Questa chiave ci dev'essere".

Il cassettone, un vecchio mobile rococò, aveva maniglie di metallo ad ogni cassetto. Uno dei gendarmi, il più robusto, si provò di aprire a forza. Non gli riuscì né col primo né col secondo cassetto. In quel punto Luisa si risovvenne che aveva veduto la sciabola nel terzo, insieme a certi disegni arrotolati. Il gendarme afferrò le maniglie del terzo cassetto. "Questo non è chiuso", diss'egli. Infatti il cassetto si aperse facilmente. L'aggiunto pigliò il lume e si chinò a guardarvi dentro.

Franco si era seduto sul canapè e guardava i travicelli del soffitto. Sua moglie, quando vide il cassetto aperto, gli sedette accanto, gli prese e gli strinse una mano spasmodicamente. Udì sfogliar carte e il Ricevitore mormorar con voce benigna: "Disegni". Poi l'aggiunto fece: "Oh!". I satelliti si chinarono a guardare; Franco trasalì. Ella ebbe la forza di levarsi per vedere e dire: "Cosa c'è?". L'aggiunto aveva in mano una lunga, curva busta di cartone, che portava un biglietto scritto. Egli lo aveva prima letto silenziosamente e ora lo lesse forte con un accento inesprimibile di soddisfazione e di sarcasmo. "Sciabola del tenente Pietro Ribera ucciso a Malojaroslavetz, 1812." Franco balzò in piedi, sorpreso, incredulo, e in pari tempo l'aggiunto aperse la busta. Franco non la poteva vedere; guardò sua moglie, che la vedeva. Sua moglie aveva le labbra bianche. Lo credette spavento e non gli pareva possibile.

Era gioia: la busta non conteneva che un fodero vuoto. Luisa si trasse nell'ombra precipitosamente, cadde a sedere sul canapè, lottò contro un violento tremito interno, s'irritò con se stessa, si disprezzò e lo vinse. Intanto l'aggiunto, preso il fodero e guardatolo per ogni verso, chiese a Franco dove fosse l'arma. Franco fu per rispondere che non lo sapeva com'era vero. Ma questa potendo parere una giustificazione personale, rispose invece:

"In Russia".

La sciabola non era in Russia, era confitta nella melma, in fondo al lago, dove l'aveva segretamente gittata lo zio Piero, invece di consegnarla.

"E perché hanno scritto sciabola?", fece il Ricevitore tanto per mostrare un po' di zelo anche lui.

"Chi ha scritto è morto", disse Franco.

"Questa chiave subito!", esclamò rabbiosamente il Commissario. Stavolta Luisa la trovò e gli altri due cassetti furono aperti; uno era vuoto, l'altro conteneva delle coperte di lana e della lavanda.

La perquisizione finì qui. L'aggiunto discese in sala e intimò a Franco di prepararsi a seguirlo dentro un quarto d'ora. "Ma ci arresti tutti, dunque!", esclamò Luisa.

L'aggiunto si strinse nelle spalle e ripeté a Franco: "Dentro un quarto d'ora. Lei! Vada pure nella Sua camera". Franco trascinò via Luisa, la supplicò di tacere, di rassegnarsi per amor di Maria. Egli pareva un altro, non mostrava né dolore né collera, aveva nel viso e nella voce una dolcezza seria, una virile tranquillità.

Mise nella valigia poca biancheria, un Dante e un Almanach du jardinier che aveva sul tavolino da notte, si chinò un momento su Maria che dormiva e non le diede un bacio per non svegliarla, baciò invece Luisa e, poiché stavano sotto gli occhi dei gendarmi posti alle due uscite della camera, si sciolse presto dalle sue braccia dicendole in francese che non conveniva dare spettacolo a quei signori. Prese la valigia, andò a porsi agli ordini dell'aggiunto.

Questi aveva la barca a cinquanta passi da casa Ribera, verso Albogasio, all'approdo che chiamano del Canevaa. Uscendo dal sottoportico cavalcato dalla casa, Franco si udì sopra la testa uno strepito d'imposte, vide batter sulla faccia bianca della chiesa il lume della sua camera e si voltò a dir verso la finestra:

"Manda a chiamar il medico, domattina! Addio!"

Luisa non rispose.

Quando i gendarmi arrivarono con l'arrestato presso il Canevaa, l'aggiunto comandò loro di fermarsi.

"Signor Maironi", diss'egli, "Ella ha avuto la sua lezione. Per questa volta ritorni a casa Sua e impari a rispettare le Autorità."

Meraviglia, gioia, sdegno scoppiarono nel cuore di Franco. Si contenne, però, si morse le labbra e si avviò a casa senza fretta. Non aveva ancora girato il canto della chiesa, che Luisa lo riconobbe al passo e chiamò:

"Franco?". Egli saltò avanti, fu visto, vide l'ombra di lei sparire dalla finestra, entrò in casa di corsa, si slanciò sulla scala gridando "libero, libero!" mentre sua moglie la scendeva a precipizio con una furia di "come come come?". Si cercarono con le braccia avide, si afferrarono, si strinsero, non parlarono più.

Parlarono poi, in loggia, per due ore continue di tutto che avevano visto, udito e provato, ritornando sempre alla sciabola, alle carte, alle monete, non senza fermarsi su tante inezie, sull'accento veneto che aveva l'aggiunto, sul gendarme bruno che pareva un buon diavolo e sul gendarme biondo che doveva essere un cane. Di quando in quando tacevano, gustavano il silenzio sicuro e la dolcezza della casa; poi ricominciavano. Prima di andar a letto uscirono sulla terrazza. La notte era scura e tepida, il lago immobile. L'afa, le tenebre, le forme vaghe, mostruose delle montagne pigliavano nella immaginazione una mortale pesantezza austriaca; l'aria stessa ne pareva grave. Non avevano sonno, né Luisa né Franco, ma conveniva pure andar a letto per la fantesca che vegliava Maria. Entrarono in camera in punta di piedi. La bambina dormiva, aveva il respiro quasi regolare.

Cercarono di dormire anch'essi e non ci riuscirono.

Non potevano a meno, specialmente Franco, di parlare. Egli domandava sottovoce: "Dormi?". Ella rispondeva "no" e allora tornavano in campo le monete o le carte o la sciabola o lo sgherro dall'accento veneto. Oramai non erano più davvero cose nuove e siccome sull'alba Maria si agitava, dava segno di svegliarsi, avendo Franco sussurrato da capo "dormi?" Luisa rispose "sì" ed egli tacque definitivamente, come se ne fosse persuaso.

Il giorno dopo la perquisizione, Oria, Albogasio, San Mamette, furono pieni di bisbigli: "Avii sentii?". "Oh car Signor!". "Avii sentii?". "Oh cara Madonna!" I bisbigli più sonori, per forza, furono quelli che appresero il fatto alla Barborin Pasotti. Suo marito le gridò in bocca: "Maironi! Polizia! Gendarmi! Arresto!". La povera donna credette che un esercito avesse spazzato via i suoi amici e si mise a sbuffare "oh! oh!" come una locomotiva. Gemette, pianse, domandò a Pasotti della bambina. Pasotti, che non voleva assolutamente permetterle di scendere a Oria, di mostrare in quelle circostanze affetto ai Maironi, rispose con un gesto che pareva un colpo di scopa. Via. Via anche quella!. "E la serva? Ci sarà la serva?" Il perfido uomo menò in aria un altro colpo di scopa e la Barborin capì che Sua Maestà I. R. A. avesse fatto portar via anche la serva.

Ma i bisbigli più maligni suonarono assai lontano dalla Valsolda, in una sala del Palazzo Maironi a Brescia. Dieci giorni dopo la perquisizione, il cavaliere Greisberg di S. Giustina, cugino del Maironi, addetto al governo del feld-maresciallo Radetzky in Verona sino al 1853 e passato poi col padrone a Milano, scendeva a casa Maironi dalla carrozza dell'I. R. Delegato di Brescia, del quale era ospite da poche ore. Il cavaliere, un bell'uomo sulla quarantina, azzimato e profumato, non aveva un'aria molto gaia mentre, ritto in mezzo alla sala di ricevimento, stava guardando gli antichi stucchi del soffitto in aspettazione della marchesa, loro contemporanea. Però, quando l'uscio in faccia, spalancato da mano servile, lasciò passar lentamente la grossa persona, il viso marmoreo e la parrucca nera di Madama, il cavaliere si trasfigurò e baciò con fervore la mano grinzosa della vecchia. Una dama lombarda devota all'Austria era un animale raro e di gran pregio agli occhi dell'Imperial Regio Governo: ogni leale funzionario le doveva la più ossequiosa galanteria. La marchesa ricevette gli omaggi del cugino cavaliere con la solita flemmatica dignità e, fattolo sedere, gli domandò notizie dei suoi, lo ringraziò della visita, sempre nello stesso tono gutturale e dormiglioso. Finalmente, posatesi le mani sul ventre, ansando un poco per la fatica di tante parole, mostrò di star ad aspettare quelle del cugino.

Aspettava che le parlasse della perquisizione e dell'ingegnere Ribera. Ella gli aveva espresso in passato il suo dispiacere che Franco subisse la influenza di sua moglie e del Ribera, il suo stupore che il Governo tenesse al proprio stipendio uno che nel 1848 aveva fatto apertamente il liberale e la cui famiglia, specialmente quella signorina della trappola, professava il più sfacciato liberalismo. Il cavaliere Greisberg le aveva risposto che di queste sue sagge osservazioni si sarebbe tenuto conto. Poi la marchesa aveva istigato il Commissario Zérboli contro il povero ingegnere in capo. Sapeva dallo Zérboli della perquisizione; perciò, quando vide Greisberg, intese ch'era venuto a parlarle di questo. Ora ella voleva bene servirsi del Governo per i suoi rancori privati, ma, per principio, non si riconosceva obbligata mai di gratitudine a nessuno. Il governo austriaco, saggiando un impiegato malfido, aveva fatto il proprio interesse. Ella non aveva sollecitato nulla, non toccava a lei di chieder nulla; toccava al cavaliere di parlare per primo. Ma il signor cavaliere, furbo, maligno e orgoglioso la sua parte, non la intendeva così. La vecchia voleva un favore e per averlo doveva piegarsi a baciar le unghie benefiche del Governo.

Tacque alquanto per raccogliersi e vedere se l'altra cedesse. Visto che stava muta e dura, si fece a un tratto molle egli stesso, sorridente, grazioso, le disse che veniva da Verona, le propose d'indovinar il giro che aveva fatto. Era passato per un paese così carino, aveva veduto una villa così deliziosa, così splendida, un paradiso! Indovinare non era il forte della marchesa; gli domandò s'era stato in Brianza. No, da Verona a Brescia per la Brianza non c'era venuto. Tornò a descriver la villa così minutamente che la marchesa non poté a meno di riconoscere il suo possesso di Monzambano. Allora il cavaliere le propose d'indovinare perché mai fosse andato a veder la villa. Ella indovinò subito, indovinò tutta la tela della commedia che le si recitava, ma il suo viso melenso non ne disse nulla. Il Delegato di Brescia l'aveva tastata un'altra volta per sapere se appigionerebbe la villa a S. E. il Maresciallo; ed ella, minacciata segretamente d'incendi e di morte dai liberali di Brescia, aveva preso delle rispettose scappatoie. Sentì ora nel discorso del Greisberg la tacita offerta di un contratto e si pose in guardia. Confessò al cugino che non sapeva indovinare neppur questo. Già le pareva di diventare ogni giorno più stupida. Anni e dispiaceri! "Ne ho avuto uno grosso anche di questi giorni!", diss'ella. "Ho saputo che la Polizia ha fatto una perquisizione in casa di mio nipote a Oria."

Il Greisberg, sentendosi sfuggire la vecchia ipocrita, buttò via i guanti e la fermò con gli artigli. "Marchesa", diss'egli prendendo un tono che non ammetteva repliche, "Ella non deve parlare di dispiaceri. Ella ha fornito per mezzo mio e per mezzo del signor Commissario di Porlezza preziose informazioni al Governo, il quale Le tien conto delle Sue benemerenze. A Suo nipote non fu torto un capello né si torcerà se avrà giudizio. Mi rincresce invece che non si avrà modo, forse, di prendere provvedimenti severi contro un'altra persona che ha dei torti privati verso di Lei. Per trovar modo di colpire questa persona il signor Commissario di Porlezza ha fatto anche più del suo dovere. Ella deve capire senz'altro, marchesa, che non è il caso di dispiaceri e che anzi ha un obbligo particolare verso il Governo." La marchesa non s'era mai udita parlare così alto e con tanta formidabile autorità. Era forse ai battiti dispettosi del cuore che rispondeva sopra al suo rigido busto il visibile ondulamento continuo del collo e del capo; ma pareva proprio il moto d'un animale che lavorasse faticosamente a ingoiar un boccone enorme. A ogni modo ella non piegò fino a dire una parola d'acquiescenza. Solamente, quando riprese la sua placidezza obesa, osservò che non aveva mai domandato di prendere provvedimenti contro nessuno, che se nella perquisizione non si era trovato niente a carico dell'ingegnere Ribera, ne aveva piacere; che del resto in casa Ribera se n'eran dette di tutti i colori e che i discorsi era difficile trovarli. Il cavaliere rispose, più mansueto, che non poteva dire se si fosse trovato niente o no e che l'ultima parola sarebbe stata pronunciata dal maresciallo, il quale intendeva occuparsi personalmente della cosa. Ciò gli diede modo di ritornar al discorso della villa di Monzambano. La chiese formalmente per Sua Eccellenza che intendeva venirci dentro otto giorni. La marchesa ringraziò dell'onor grande, disse che la sua villa non meritava tanto, che le pareva troppo angusta, che aveva bisogno di riparazioni, che bisognava dirlo a Sua Eccellenza. Avrebbe voluto differire, aspettar il prezzo sciagurato della sua condiscendenza, ma il cavaliere diede un altro colpo di artiglio e dichiarò che bisognava risponder subito, risponder netto, sì o no, e convenne bene che la vecchia piegasse il capo. "Per compiacere a Sua Eccellenza", diss'ella. Greisberg tornò subito amabile, scherzò sulle misure che si potrebbero prendere contro quel signor ingegnere. Non c'era da sparger sangue, c'era da spargere, tutt'al più, un po' d'inchiostro; non c'era da togliergli la libertà, c'era da rendergliela intera! La marchesa non fiatò. Fece portare due limonate e sorbì lentamente la sua a piccoli sorsi, non senza una fioca espressione di contentezza fra un sorso e l'altro, come se ci fosse nella limonata un sapore nuovo e squisito. Il cavaliere avrebbe pur voluto da lei una parola esplicita su questo punto del Ribera, una confessione del suo desiderio, e posando sul vassoio la tazza vuotata rapidamente, le disse: "Mi ci metterò io, sa, e ci riusciremo a questo. È contenta?".

La marchesa continuò a sorseggiare la limonata, piano, piano, guardando nel bicchiere.

"Non va bene?", domandò ancora il cugino dopo una inutile attesa.

"Sì, è buona", rispose il sonnolento naso. "Bevo adagio per i denti."

Gli ultimi bisbigli non furono umani. Luisa e Franco erano seduti sull'erba di Looch, presso al cimitero. Parlavano della bontà grande e squisita della mamma, la paragonavano alla bontà grande e semplice dello zio notandone le somiglianze e le differenze. Non dicevano quale delle due bontà paresse loro superiore nell'insieme, ma dai loro giudizi s'indovinavano le inclinazioni diverse. Franco preferiva la bontà tutta penetrata di fede nel soprannaturale e Luisa preferiva l'altra. Egli soffriva di questa contraddizione segreta pur esitando di rilevarla, temendo di premere il tasto che poteva dare una nota troppo penosa. Ma la fronte sua n'era adombrata e a un certo punto gli sfuggì di dire: "Quante disgrazie, quante amarezze ha sopportato tua madre, con che rassegnazione, con che forza, con che pace! Credi tu che una pura bontà naturale le avrebbe potute sopportare così?". "Non lo so", rispose Luisa. "La povera mamma aveva vissuto, io credo, in un mondo superiore prima che in questo: aveva sempre il cuore là." Ella non disse tutto il suo pensiero. Pensava che se le anime buone di questo mondo fossero simili nella mansuetudine religiosa a sua madre, la terra diventerebbe il regno dei bricconi e dei prepotenti. E quanto ai dolori che non vengono dagli uomini ma dalle condizioni stesse della vita umana, le pareva di ammirar coloro che vi resistono per una forza loro propria sopra quegli altri che invocano e ottengono aiuto dallo stesso Essere onde furono percossi. Ma ella non voleva confessar questi sentimenti a suo marito. Espresse invece la speranza che lo zio non avesse a incontrar mai afflizioni gravi. Possibile che il Signore volesse far soffrire un uomo tale? "No no no!", esclamò Franco, che in un altro momento non avrebbe osato, forse, ammonire Iddio a questo modo. Un soffio del Boglia calò per la gola di Muzài, agitò le frondi alte dei noci. A Luisa quello stormire parve legarsi con le ultime parole di Franco: le parve che il vento e i grandi alberi sapessero qualche cosa del futuro e ne bisbigliassero insieme.

5. Il segreto del vento e dei noci

La febbre di Maria non durò che otto giorni, eppure quando la piccina si alzò i suoi genitori la trovarono mutata nel viso e nello spirito più che se gli otto giorni fossero stati otto mesi. Gli occhi avevan preso un colore più oscuro, una singolare espressione di serietà e di maturità precoce. Parlava più chiaro e spedito, ma con le persone che non le garbavano non parlava affatto; neanche le salutava. Ciò spiaceva più a Franco che a Luisa. Franco la voleva gentile e Luisa temeva di guastarle la sincerità. Maria aveva per sua madre un affetto non tanto espansivo ma violento: fiero, quasi, e geloso. Voleva molto bene anche a suo padre; però si capiva che lo sentiva diverso da sé. Franco aveva trasporti di passione per essa, l'afferrava all'impensata, la stringeva, la divorava di baci ed ella allora gittava il capo all'indietro puntando una manina sul viso di suo padre e guardandolo scura come se qualche cosa in lui le fosse straniero e ripugnante. Spesso Franco la sgridava con ira e Maria piangeva, lo fissava attraverso le lagrime senza muoversi, come affascinata, ancora con quella espressione di persona che non comprende. Egli vedeva la predilezione della bambina per sua madre e se ne compiaceva, gli pareva una preferenza giusta, non dubitava che Maria, più tardi, avrebbe teneramente amato anche lui. A Luisa dispiaceva molto, per amore del marito, che la bambina dimostrasse maggior affetto a lei, però questo sentimento suo non era vivo e schietto come la compiacenza generosa di Franco. A Luisa pareva in fondo che Franco malgrado tanti trasporti, amasse sua figlia come un essere distinto da lui; mentre lei, che trasporti esteriori di tenerezza non ne aveva, amava la bambina come una parte vitale di se stessa; perciò non poteva trovare ingiusto d'esserne preferita. Poi ell'aveva in cuore una Maria futura probabilmente diversa da quella che aveva in cuore Franco. Anche per questo non le poteva rincrescere di avere un predominio morale sulla figliuola. Vedeva il pericolo che Franco favorisse uno sviluppo forte del sentimento religioso; pericolo gravissimo, secondo lei; perché Maria, piena di curiosità, avida di racconti, aveva i germi d'un'immaginazione assai viva, assai propizia alle fantasie religiose e ne poteva venire uno squilibrio morale. Non si trattava di sopprimere il sentimento religioso; questo, Luisa non l'avrebbe fatto mai, non foss'altro per rispetto a Franco; ma occorreva che Maria, fatta donna, sapesse trovare il perno della propria vita in un senso morale sicuro e forte per sé, non appoggiato a credenze che finalmente erano ipotesi e opinioni, e potevano un giorno o l'altro mancarle. Serbar fede al Giusto, al Vero, fuor di qualsiasi altra fede, di qualsiasi speranza e paura, pareva a lei lo stato più sublime della coscienza umana. A una tale perfezione si figurava aver rinunciato per sé poiché andava a messa e due volte l'anno ai sacramenti, e intendeva rinunciarvi per Maria, ma come uno che rinuncia alla perfezione cristiana perché si trova aver moglie e figliuoli; a malincuore e il meno possibile.

A Maria poteva essere serbata in sorte la ricchezza. Bisognava impedire assolutamente che accettasse una vita di frivolezze, compensate dalla messa alla mattina, dal rosario alla sera e da elemosine. Luisa si era provata qualche volta di tastar Franco su questo terreno di dare all'educazione di Maria un indirizzo morale disgiunto dall'indirizzo religioso e il tasto aveva sempre risposto male. Che non si credesse nella religione Franco lo capiva; che qualcuno la potesse trovare insufficiente come norma della vita, gli riusciva affatto inconcepibile. Che tutti poi dovessero aspirare alla santità, che non fosse buon cristiano chi amasse il tarocco, la primiera, la caccia, la pesca, i buoni pranzetti e le bottiglie fini, neanche gli passava per il capo. E questo indirizzo morale dell'educazione disgiunto dall'indirizzo religioso gli pareva una fisima perché secondo lui i galantuomini senza fede erano galantuomini per natura o per abitudine, non per un ragionamento morale o filosofico. Non c'era dunque modo per Luisa d'intendersi con suo marito circa questo delicato punto. Doveva operare da sé e con molta cautela per non offenderlo né affliggerlo. Se Franco mostrava alla bambina le stelle e la luna, i fiori e le farfalle come opere mirabili di Dio e le faceva della poesia religiosa buona per una ragazza di dodici anni, Luisa taceva; se invece gli avveniva di dire a Maria: "Bada, Iddio non vuole che tu faccia questo, Iddio non vuole che tu faccia quello", Luisa soggiungeva subito: "Questo è male, quello è male, non si deve mai far il male". Qui però non poteva a meno di aprirsi qualche screzio visibile fra il padre e la madre perché non sempre il giudizio morale dell'uno si accordava col giudizio morale dell'altra. Una volta erano insieme alla finestra della sala mentre Maria giuocava sul sagrato con una bambina di Oria presso a poco della sua età. Passa un fratello di questa, un prepotentone di otto anni e intima alla sorellina di seguirlo. Questa rifiuta e piange. Maria, seria seria, affronta il prepotente con i pugni. Franco la trattiene con una chiamata imperiosa; la piccina si volta a guardarlo e scoppia in lagrime mentre quell'altro si trascina via la sua vittima. Luisa lasciò la finestra dicendo sottovoce a suo marito: "Scusa, questo non è giusto". "Come non è giusto?" Franco si riscaldò, alzò la voce, chiese a sua moglie se voleva una Maria violenta e manesca. Ella rispondeva con dolcezza e con fermezza, senza risentirsi di qualche parola pungente, sosteneva che il sentimento di Maria era buono, che opporsi alla prepotenza e all'ingiustizia era il compito migliore per tutti, che se un bambino vi adoperava le mani, fatto adulto vi avrebbe adoperato mezzi più civili, ma che se si reprimeva in lui la espressione naturale dell'animo, si correva il rischio di schiacciare con essa anche il buon sentimento nascente.

Franco non si persuase. Secondo lui era molto dubbio che in Maria vi fossero di quei sentimenti eroici. Ella si era arrabbiata di vedersi portar via la sua compagna di giuoco e niente altro. Ma poi, la parte della donna non era forse di opporre alle ingiustizie e alle prepotenze una dolcezza mansueta, di mitigare ed emendare gli offensori piuttosto che di respinger con la forza l'offesa? Luisa diventò rossa e rispose che ad alcune donne, forse alle migliori, questa parte conveniva, ma che non poteva convenire a tutte perché tutte non potevano essere tanto miti e umili. "E tu sei di quelle altre?", esclamò Franco.

"Credo di sì."

"Bella cosa!"

"Ti rincresce molto?"

"Moltissimo."

Luisa gli pose le mani sulle spalle. "Ti rincresce molto?", diss'ella fissandolo negli occhi, "che io m'irriti come te d'aver questi padroni in casa, che io desideri come te di aiutare anche con le mie mani a cacciarli via o preferiresti che io cercassi di emendare Radetzky e di mitigare i croati?"

"Questa è un'altra cosa!"

"Come un'altra cosa? No, è la stessa cosa!"

"È un'altra cosa!", ripeté Franco; e non seppe dimostrare che fosse un'altra cosa. Gli pareva di aver torto secondo un raziocinio superficiale e di avere ragione secondo una verità profonda che non riusciva ad afferrare. Non parlò più, fu pensieroso tutto quel giorno e si vedeva che cercava la sua risposta. Ci pensò anche la notte, gli parve di averla trovata e chiamò sua moglie che dormiva.

"Luisa!", diss'egli. "Luisa! Quella è un'altra cosa."

"Cos'è stato?", fece Luisa svegliandosi di soprassalto.

Egli aveva pensato che la offesa del dominio straniero non era personale come le offese private e che procedeva dalla violazione d'un principio di giustizia generale; ma nell'atto di spiegar ciò a sua moglie, gli venne in mente che anche nelle offese private aveva sempre luogo la violazione d'un principio di giustizia generale, si figurò di avere sbagliato.

"Niente", diss'egli.

Sua moglie credette che sognasse e, posatogli il capo sopra una spalla, si riaddormentò. Se vi erano argomenti capaci di convertire Franco alle idee di sua moglie, erano quel dolce contatto, quel dolce respiro vicino al suo petto, che gli avevan fatto tante altre volte deliziosamente sentire un reciproco abbandono delle anime. Ora non fu così. Gli passò anzi nel cervello, come una lama rapida e fredda, il pensiero che questo latente antagonismo fra le idee di sua moglie e le sue avesse un giorno o l'altro a scoppiare in qualche doloroso modo e se la strinse atterrito nelle braccia come per difender sé e lei contro i fantasmi della propria mente.

Il sei novembre, dopo colazione, Franco prese le sue grosse forbici da giardiniere per fare il solito sterminio di seccumi nel giardinetto e sulla terrazza. Era un'ora di tanta bellezza, di tanta pace da stringere il cuore. Non una foglia che si muovesse; purissima, cristallina l'aria da ponente; sfumanti a levante, dentro lievi vapori, le montagne fra Osteno e Porlezza; la casa sfolgorata dal sole e dai riverberi tremoli del lago; il sole assai caldo ma i crisantemi del giardinetto, gli ulivi, gli allori della costa più visibili fra il rosseggiar delle foglie caduche, certa segreta frescura dell'aria imbalsamata d'olea fragrans, il silenzio d'ogni vento, le aeree montagne del lago di Como bianche di neve accordantisi malinconicamente a dire che la cara stagione moriva. Sterminati i seccumi, Franco propose a sua moglie di andar in barca a Casarico per riportare all'amico Gilardoni i due primi volumi dei Mystères du Peuple, divorati avidamente in pochi giorni, e averne il terzo. Fu deciso di partire a mezzogiorno, dopo aver posto a letto Maria. Ma prima che Maria fosse a letto comparve tutta ansante, col cappello e la mantiglia a sghimbescio, la Barborin Pasotti. Era salita dal cancello del giardinetto e si fermò sulla soglia della sala. Veniva per la prima volta dopo la perquisizione; vide i suoi amici, giunse le mani, ripeté sottovoce: "Ah Signor, ah Signor, ah Signor!", si precipitò su Luisa, la coperse di baci.

"Cara la mia tosa! Cara la mia tosa!". Avrebbe volentieri fatto altrettanto con Franco, ma Franco non gradiva certe espansioni, aveva una faccia poco incoraggiante, per cui la povera donna si accontentò di prendergli e scuotergli ambedue le mani. "Car el mè don Franco! Car el mè don Franco!". Si raccolse finalmente in braccio la Maria che le puntò le manine al petto facendo un viso simile a quello di suo padre. "Son vègia, neh? Son brutta, neh? Te piasi no? L'è nient, l'è nient, l'è nient!". E si mise a baciarle umilmente le braccia e le spalle, non osando affrontare il visetto acerbo. Poi disse ai suoi amici che aveva portato loro una bella notizia e gli occhi le brillavano di questo mistero gaudioso. La marchesa aveva scritto a Pasotti e nella lettera c'era un periodo che la Barborin aveva imparato a mente: "Ho appreso con vivo dispiacere (vivo dispiacere, gh'è sü inscì) il triste fatto di Oria... di Oria... (spètta!) il triste fatto di Oria... (ah!) e benché mio nipote nulla meriti, (ciào, quell pacienza!) desidero non abbia cattive conseguenze". Il periodo non ebbe un gran successo. Luisa fece il viso scuro e non parlò; Franco guardò sua moglie e non osò metter fuori il commento favorevole che aveva nella bocca ma non, per verità, nel cuore. La povera Barborin che aveva approfittato della andata di suo marito a Lugano per correre a portar il suo zuccherino, rimase assai mortificata, guardava contrita ora Luisa ora Franco e finì col togliersi di tasca uno zuccherino vero e proprio onde darlo a Maria. Poi, avendo capito che gli sposi desideravano partire in barca e struggendosi di stare un po' con Maria, tanto disse e fece che quelli se ne andarono lasciando l'incarico alla Veronica di metter la bambina a letto un po' più tardi.

Maria non parve gradir molto la compagnia della sua vecchia amica. Taceva, taceva ostinatamente e non andò molto che spalancò la bocca e scoppiò in lagrime. La povera Pasotti non sapeva che Santi invocare. Invocò la Veronica, ma la Veronica discorreva con una guardia di finanza e non udì o non volle udire. Offerse anelli, braccialetti, l'orologio, persino il cappellone da viceregina Beauharnais, ma nulla riuscì gradito. Maria continuava a piangere. Ebbe allora l'idea di mettersi al piano e si mise a picchiare e ripicchiare otto o dieci battute d'una monferrina antidiluviana. Allora la principessina Maria si mansuefece, si lasciò pigliar dalla sua musicista di camera così delicatamente come se le sue braccine fossero state ali di farfalla e posar sulle ginocchia così piano come se vi fosse stato pericolo di far cader in polvere le vecchie gambe.

Udite cinque o sei repliche della monferrina, Maria fece un visino annoiato, si provò di strappar dal piano le mani rugose della suonatrice e disse sottovoce: "Cantami una canzonetta". Poi, non ottenendo risposta, si voltò a guardarla in faccia, le gridò a squarciagola:

"Cantami una canzonetta!".

"Non capisco", rispose la Pasotti, "sono sorda."

"Perché sei sorda?"

"Sono sorda", replicò l'infelice, sorridendo.

"Ma perché sei sorda?"

La Pasotti non poteva immaginare cosa chiedesse la bambina.

"Non capisco", diss'ella.

"Allora", fece Maria con un'aria molto grave, "sei stupida."

Dopo di che aggrottò le ciglia e riprese piagnucolando:

"Voglio una canzonetta!"

Qualcuno disse dal giardinetto:

"Eccolo, quel delle canzonette!"

Maria alzò il viso, s'illuminò tutta. "Missipipì", diss'ella e scivolò giù dalle ginocchia della Pasotti, corse incontro allo zio Piero ch'entrava. Si alzò anche la Pasotti, stese le braccia, tutta sorpresa e ridente, verso il vecchio inaspettato amico. "Tè chì, tè chì, tè chì!". E corse a salutarlo. La Maria strillò tanto forte "Missipipì, Missipipì!", e si avvinghiò tanto stretta alle gambe dello zio che questi, quantunque paresse non averne voglia, dovette pur sedere sul canapè, pigliarsi la bambina sulle ginocchia e ripeterle la vecchia canzone:

Ombretta sdegnosa...

Dopo quattro o cinque Missipipì la Pasotti, temendo che suo marito ritornasse, prese congedo. La Veronica voleva porre Maria a letto. La piccina si crucciò, lo zio intervenne: "Oh lasciatela un po' qui!", e uscì con lei sulla terrazza per vedere se il papà e la mamma ritornassero.

Nessuna barca veniva da Casarico. La piccina ordinò allo zio di sedere e gli si arrampicò sulle ginocchia.

"Perché sei venuto?", diss'ella. "Non c'è mica, sai, il pranzo per te."

"Me lo farai tu, il pranzo. Sono venuto per star con te."

"Sempre?"

"Sempre."

"Proprio sempre sempre sempre?"

"Proprio sempre."

Maria tacque, pensierosa. Poi domandò:

"E cosa mi hai portato?"

Lo zio si levò di tasca un fantoccio di gomma. Se Maria avesse potuto sapere, intendere con quale animo, sotto qual colpo lo zio fosse andato a prender per lei quel fantoccino avrebbe pianto di tenerezza.

"È brutto questo regalo", diss'ella, ricordando gli altri dello zio. "E se resti qui, non mi porti più niente?"

"Più niente."

"Va' via, zio", diss'ella.

Egli sorrise.

Adesso Maria volle sapere dallo zio se, quando era bambino lui, suo zio gli portasse regali. Ma questo zio dello zio, per quanto la cosa paresse impossibile a Maria, non era mai esistito. E allora chi gli portava regali? Ed era egli un buon bambino? Piangeva? Lo zio si mise a raccontarle cose della sua infanzia, cose di sessant'anni prima, quando la gente portava parrucca e codino. Si compiaceva di ricordare alla nipotina quel tempo lontano, di farla vivere per un momento insieme ai suoi vecchi, e parlava con gravità triste, come avendo presenti quei cari morti, come parlando più per essi che per lei. Ella gli fissava in viso gli occhi spalancati, non batteva palpebra. Né lui né lei s'accorgevano che intanto passava il tempo, né lui né lei pensavano più alla barca che doveva venire.

E la barca venne, Luisa e Franco salirono senza sospettare di nulla, pensando che la bambina dormisse. Franco fu il primo che vide sotto i rami cadenti delle passiflore lo zio seduto, curvo su Maria che gli stava sulle ginocchia. Mise una gran voce di sorpresa e corse là seguito da Luisa, con l'idea che fosse successo qualche cosa. "Tu qui?", diss'egli correndo. Luisa, pallida, non disse nulla. Lo zio alzò il capo, li vide: essi compresero subito che vi era una brutta novità, non gli avevano mai veduto una faccia così seria.

"Addio", diss'egli.

"Cosa è stato?", sussurrò Franco.

Egli fe' cenno ad ambedue di ritirarsi dalla terrazza nella loggia, ve li seguì, allargò le braccia, povero vecchio, come un crocifisso e disse con voce triste ma tranquilla:

"Destituito".

Franco e Luisa lo guardarono un momento come istupiditi. Poi Franco esclamò: "Oh zio, zio!", e lo abbracciò. Vedendo quell'atto e il viso di sua madre, Maria scoppiò in lagrime. Luisa cercò di farla tacere, ma ella stessa, la donna forte, aveva il pianto alla gola.

Seduto sul canapè della sala lo zio raccontò che l'I. R. Delegato di Como lo aveva fatto chiamare per dirgli che la perquisizione operata nella sua casa di Oria aveva dati risultati dolorosi e inattesi; quali, non aveva voluto assolutamente dire. Aveva poi soggiunto che s'era voluto iniziare un processo contro di lui ma che in vista dei lunghi e lodevoli servigi prestati al Governo si limitava a togliergli l'ufficio. Lo zio aveva insistito per conoscere le accuse e colui l'aveva licenziato senza rispondere.

"E allora?", disse Franco.

"E allora...". Lo zio tacque un poco e poi pronunciò una frase sacramentale d'ignota origine che egli stesso e i suoi compagni tarocchisti solevano ripetere quando il giuoco andava disperatamente male: "Siamo arcifritti, o Regina".

Vi fu un lungo silenzio; poi Luisa si buttò al collo del vecchio. "Zio, zio", gli sussurrò, "ho paura che sia stato per causa nostra!"

Ella pensava alla nonna e lo zio intese che accusasse Franco e sé di qualche imprudenza.

"Sentite, cari amici", diss'egli con un tono bonario che aveva pure qualche recondito sapore di rimprovero, "questi sono discorsi inutili. Adesso la frittata è fatta e bisogna pensare al pane. Fate conto su questa casa, su qualche piccolo risparmio che mi frutta circa quattro svanziche al giorno e su due bocche di più: la mia e quella della Cia; la mia, speriamo per poco tempo." Franco e Luisa protestarono. "Ci vuol altro! Ci vuol altro!", fece lo zio agitando le braccia, come a dispregio di un sentimentalismo irragionevole. "Viver bene e crepare a tempo. Questa è la regola. La prima parte l'ho fatta, adesso mi tocca di fare la seconda. Intanto mandatemi dell'acqua in camera e aprite la mia borsa. Vi troverete dieci polpette che la signora Carolina dell'Agria mi ha voluto dare per forza. Vedete che le cose non vanno poi troppo male."

Ciò detto lo zio si alzò e se n'andò per l'uscio del salotto con passo franco, mostrando anche da tergo la sua faccia eretta, il suo modesto ventre pacifico, la sua serenità di filosofo antico. Franco, ritto sul limitare della terrazza, con le braccia incrociate sul petto e le sopracciglia aggrottate, guardava verso Cressogno. Se in quel momento egli avesse avuto fra le mascelle un fascio di Delegati, di Commissari, di birri e di spie, avrebbe tirato tale un colpo di denti da farne una melma sola.

6. L'asso di danari spunta

"La barca è pronta", disse Ismaele, entrando senza complimenti con la pipa nella sinistra e una lanterna nella destra.

"Che ore sono?", domandò Franco.

"Undici e mezzo."

"Il tempo?"

"Nevica."

"Bene", esclamò lo zio, ironicamente, allargando le gambe davanti alla vampa del ginepro che scoppiettava nel caminetto.

Nel minuscolo salottino assediato dall'inverno Luisa stava mettendo, ginocchioni, un fazzoletto al collo di Maria, Franco aspettava col cappuccio di sua moglie in mano e la Cia, la vecchia governante, col cappello in testa e le mani nel manicotto, andava brontolando al suo padrone: "Che signore è mai Lei! Cosa vuol fare qui solo a casa?".

"Per dormire non ho bisogno di nessuno", rispose l'ingegnere, "e se sono matti gli altri non sono matto io. Mettetemi qua il mio latte e il mio lume."

Era la vigilia di Natale e l'idea pazza di quella gente savia, la risoluzione che pareva incredibile all'ingegnere era di andare a S. Mamette per assistervi alla messa solenne di mezzanotte.

"E quella povera vittima!", diss'egli guardando la bambina.

Franco diventò rosso, osservò che desiderava prepararle dei ricordi preziosi, questa partenza notturna in barca, il lago oscuro, la neve, la chiesa piena di lumi e di gente, l'organo, i canti, la santità del Natale. Egli parlava con calore non tanto per lo zio, forse, quanto per un'altra persona che taceva.

"Sì sì sì sì", fece lo zio, come se si fosse aspettata questa rettorica, questa poesia buona a niente.

"Anch'io, sai, il punch!", gli disse la piccina. Lo zio sorrise: manco male! Quello sarà proprio un ricordo prezioso. Franco, sentendosi così demolire la sua sottile preparazione di ricordi religiosi e poetici, si fece scuro. "E questo Gilardoni?", chiese Luisa. "Sono qui adesso", fece Ismaele uscendo con la sua lanterna.

Il professore Gilardoni aveva invitato i Maironi e donna Ester Bianchi a prendere il punch in casa sua dopo la messa. Lo si aspettava dal Niscioree dov'era andato a pigliare la signorina che ci viveva sola con due vecchie serve, dopo la morte del padre avvenuta nel 1852. L'ottimo professore aveva pianto segretamente la signora Teresa per uno spazio di tempo ragionevole. Durante quella pessima convalescenza del cuore che lo tiene debole e molle, in continuo pericolo di ricadere, egli si era troppo poco guardato dal bel visino brioso, dagli occhi vivaci, dalla gaiezza scintillante della principessina del Niscioree, come la chiamavano i Maironi. Ella era così diversa nello spirito e nel corpo dalla signora Teresa, la sua persona vigorosa nelle forme della grazia più squisita suggeriva l'idea di un amore così lontano da quell'altro, che al professore pareva di poterle volere bene senza offendere la santa immagine della madre di Luisa. Infatti egli santificò sempre maggiormente questa immagine, la spinse in su in su verso il cielo, tanto in su che qualche nuvola cominciò a passare fra lui e lei; prima eran cirri, adesso eran cumuli e stava per giungere uno strato definitivo. Egli era più timido ancora con donna Ester che non lo fosse stato con la signora Teresa. Aveva del resto un inconscio bisogno di amare senza speranza per potersi poi compiangere, per la voluttà di un doppio intenerimento, verso una bella creatura e verso se stesso. E la sua timidezza era pure contenta di possedere una scusa in quella gran differenza d'età e di aspetto. Però col non far alcuna difesa contro gli occhi maliziosi, i folti capelli biondi, il sottile collo di neve, col bersi e ribersi nel cuore la voce fresca, il riso d'argento, l'uomo si metteva in pericolo di cuocere intollerabilmente.

Ester, che a ventisette anni ne mostrava venti salvo che nella morbidezza delle movenze e in una certa occulta, deliziosa scienza degli occhi, non aveva desiderato di pescar quell'amante rispettabile ma lo sentiva preso e se ne compiaceva, stimandolo un grande ingegno, un sapientone. Che egli osasse parlarle d'amore, ch'ella potesse sposar quella sapienza giallognola, rugosa e secca, neppure le veniva in mente; ma neanche avrebbe voluto spegnere un focherello così discreto che faceva onore a lei e, probabilmente, piacere a lui. S'ella ne rideva qualche volta con Luisa, non era però mai la prima a ridere e soggiungeva subito: "Povero signor Gilardoni! Povero professore!".

Ella entrò frettolosa, con la testolina bionda chiusa in un gran cappuccio nero, come una primavera travestitasi, per chiasso, da dicembre. Dicembre le veniva dietro, affagottato il collo in una gran sciarpa sulla quale si porgeva, lucente e rosso, il naso professorale irritato dalla neve. Era tardi, tutti si accomiatarono dallo zio ed egli rimase solo con il suo lume e il suo latte, davanti alle ultime brage moribonde del ginepro.

Gli restava sul viso una leggera ombra di disapprovazione. Franco faceva troppo il poeta! Adesso la vita era dura in casa Maironi. Si faceva colazione con una tazza di latte e cicoria adoperando certo zucchero rosso che puzzava di farmacia. Non si mangiava carne che la domenica e il giovedì. Una bottiglia di vin Grimelli veniva ogni giorno in tavola per lo zio, il quale non voleva saperne di privilegi. Ogni giorno, per questa bottiglia, sorgevano le stesse nubi, scoppiava la stessa piccola burrasca e si scioglieva secondo il volere dello zio, con una brevissima pioggerella di decotto in ciascuno dei cinque bicchieri. La serva era stata licenziata; restava la Veronica per le faccende grosse, per la polenta, e qualche volta per badare a Maria. Malgrado queste ed altre economie, malgrado che la Cia avesse rinunciato al suo salario, malgrado i doni di ricotta, di mascherpa, di formaggio di capra, di castagne, di noci, che piovevano dalla gente del paese, Luisa non riusciva a tener la spesa dentro l'entrata. Si era procacciato qualche lavoro di copiatura da un notaio di Porlezza; molta fatica e miserabilissimi guadagni. Franco aveva cominciato a copiar con ardore anche lui, ma ci reggeva meno di sua moglie e poi non c'era lavoro per due. Avrebbe dovuto darsi le mani attorno, cercar un impiego privato, ma di questo lo zio non vedeva indizio; per cui?

Per cui, questo pensare a spedizioni poetiche gli pareva anche più fuor di luogo. Dopo aver meditato alquanto sulla triste situazione e sulla poca probabilità che Franco sapesse uscirne, trovò che dal canto suo la prima cosa a fare era di bere il suo latte e la seconda di andarsene a letto. Ma no, gli venne un altro pensiero. Aperse l'uscio della sala, e, visto tutto buio, andò in cucina, accese una lanterna, la portò in loggia, spalancò una finestra e, poiché nevicava senza vento, posò il lume sul davanzale, onde quella gente poetica potesse dirigersi ritornando a casa per il lago tenebroso. Dopo di che se n'andò a dormire.

Nella vecchia barca di casa l'ingegnoso Franco aveva architettato una specie di felze per l'inverno con due finestrini ai lati e un usciolino a prora. Ora i sei viaggiatori vi stavano attorno a un minuscolo tavolino, sul quale ardeva una candela. Vedendo l'espressione estatica del professore ch'era seduto in faccia a Ester, Franco si divertì a spegner il lume e osservò che la filosofia poteva trovarsi male al buio, ma che la poesia ci si trovava benissimo.

Infatti i pensieri suoi e de' suoi compagni, prima raccolti intorno al lume, uscivano adesso per il vetro dell'usciolino dietro un chiaror fioco dove si vedeva la prora della barca, già biancastra di neve sul lago immobile e nero. E le immaginazioni lavoravano. A chi pareva di andar verso Osteno, a chi pareva di andar verso la Caravina, a chi pareva di andar verso Cadate; e ciascuno diceva i propri dubbi parlando piano come per non svegliare il lago addormentato. Un po' alla volta si misero a discutere, ma le sei teste, ad ogni colpo dei remi, facevano un cenno di completo accordo. Così ciascuno dei critici saliti nella navicella d'un grande poeta si crede fare una via differente. Chi stima dirigersi verso un ideale, chi verso un altro, chi stima accostarsi a un modello, chi a un altro, chi andar avanti, chi tornar indietro; e il poeta li commove, li scuote col suo verso tutti insieme, li porta sulla propria via.

Ismaele portò fedelmente il suo carico a S. Mamette. La neve cadeva sempre grossa e placida. Sotto i portici della piazza v'era molta gente e un viavai di lanterne. C'era pure il preposto che arringava un gruppo di fedeli disposti a disertar la chiesa per l'osteria. Egli stava dimostrando che il Paradiso è difficile a guadagnare e che bisogna pensarci per tempo: "Vialter credii che andà in Paradis el sia giusta come andà in la barca del Parella. E sü gent! E sü gent! Gh'è semper post! Avii capì che l'è minga inscì?". Sulla scalinata che sale alla chiesa Ester domandò a Luisa se il paradiso fosse proprio così piccolo. Il professore che accompagnava Ester con l'ombrello ebbe un'idea, palpitò, tremò e, fattosi un coraggio leonino, la mise fuori; disse che il paradiso era più piccolo ancora e poteva stare sotto un ombrello. La cosa passo liscia, Ester non rispose e tutta la compagnia entrò, mista a una frotta di donne, nelle tenebre della chiesa.

Il professore si fermò sulla porta, incerto fra l'amore e la filosofia. La filosofia lo tirava indietro con un filo e l'amore lo tirava avanti con una fune; egli entrò e si pose accanto a Ester. Franco ebbe per un momento la crudele idea di trascinarlo avanti, fra i banchi degli uomini; ma poi mutò pensiero e si pose anche lui presso sua moglie. Giovò poco, perché Ester, fingendo voler dire qualche cosa a Luisa, le si avvicinò e spinse maliziosamente la vecchia Cia verso il professore. Questi, ancora palpitante per quella sua disperata audacia del paradiso sotto l'ombrello, alla mossa di Ester si turbò, pensò di averla offesa, si diede dell'asino e dell'asino e dell'asino.

La chiesa era già tutta piena e anche le signore dovettero star in piedi dietro la spalliera del primo banco. Ester s'incaricò di Maria, la pose a sedere sulla spalliera mentre il sagrestano accendeva le candele dell'altar maggiore. La Cia tormentava il professore, credendolo un sant'uomo, con mille domande sulle differenze tra il rito romano e il rito ambrosiano, e Maria teneva occupata Ester con altre domande ancora più straordinarie.

"Per chi si accendono quei lumi?"

"Per il Signore."

"Va' a letto adesso, il Signore?"

"No, taci."

"E il bambino Gesù è già a letto?"

"Sì, sì", rispose Ester storditamente, per finirla.

"Col mulo?"

Lo zio aveva portato una volta a Maria un brutto muletto di legno ch'ella odiava; e, quando si ostinava in qualche capriccio, sua madre la poneva a letto con quel mulo sotto il guanciale, sotto la testolina troppo dura.

"Citto, ciallina!", fece Ester.

"Io no, a letto col mulo. Io dico scusa."

"Zitto! Ascolta l'organo, adesso."

Tutti i ceri erano ormai accesi e l'organista salito al suo posto andava stuzzicando, come per risvegliarlo, il suo vecchio strumento che pareva mettere grugniti di corruccio. Nel punto in cui un campanello suonò e l'organo alzò tutte le sue gran voci e uscirono i chierici e uscì il sacerdote, Luisa prese di soppiatto, come un'amante, la mano di suo marito.

Quelle due mani, stringendosi furtivamente, parlavano di un prossimo avvenimento, di una risoluzione grave che conveniva tener segreta e che non ancora era presa in modo irrevocabile. La piccola mano nervosa disse "coraggio!". La mano virile rispose "l'avrò". Bisognava decidersi. Franco doveva partire, lasciar sua moglie, la bambina, il vecchio zio, forse per qualche mese, forse per qualche anno; doveva lasciar Valsolda, la casetta cara, i suoi fiori, forse per sempre, emigrare in Piemonte, cercar lavoro e guadagno con la speranza di poter chiamare a sé la famiglia quando le altre grandi speranze nazionali sfumassero. Contento che sua moglie avesse scelto la chiesa e quel momento solenne per incoraggiarlo al sacrifizio, non lasciò più la dolce mano, la tenne egli pure come l'avrebbe tenuta un amante, non guardando mai Luisa, serbando impassibile il viso e rigida la persona. Parlava con la mano sola, con l'anima nel palmo e nelle dita, il più vario appassionato linguaggio misto di blande carezze e di strette, di tenerezze e di ardori. Qualche volta ella si provava di ritirarsi dolcemente ed egli la tratteneva allora violento. Guardava l'altare col viso alzato, come assorto nel suono dell'organo, nella voce del sacerdote, nel canto del popolo. In fatto non seguiva le preghiere, ma sentiva la Divina Presenza, un rapimento, una effervescenza di amore, di dolore, di speranza in Dio. Luisa gli aveva presa la mano indovinando ch'egli pregava, che tutte le sue angustie, tutte le sue dubbiezze gli si agitavano nel cuore. Avea realmente voluto infondergli coraggio, convinta ch'era bene per lui di prender questo partito doloroso. Fraintese la stretta che le rispose; le parve un'appassionata protesta contro la separazione, e non la potendo, quantunque le fosse dolce, approvare, accennava ogni tanto a ritrar la mano. Fu lui che all'Elevazione ritrasse, per rispetto, la propria. Egli dovette quindi prendersi in braccio Maria che s'era addormentata e continuò a dormire con la testa sulla spalla di suo padre, mostrando un bel mezzo visino pacifico. Non lo sapeva, lei, cara, che il suo papà sarebbe andato lontano lontano e il suo papa aveva il cuore tutto molle di quel piccolo tesoro caldo che vi respirava su, di quella testina dall'odore di uccelletto del bosco. Gli pareva già di essere partito e che lo cercasse, che piangesse, e allora gli correva nelle braccia un desiderio di stringerla forte, fermato subito dal timor di destarla.

Il Gilardoni era uscito il primo e stava sul sagrato ad aspettare donna Ester con l'ombrello aperto. Ella venne a braccetto di Luisa, e la perfida Luisa, malgrado il pregar sommesso della compagna, disse al professore: "Ecco la Sua dama". Ester non ebbe il coraggio di rifiutar il braccio del Gilardoni ma gli osservò ridendo che splendevano mille stelle.

Il Gilardoni guardò il cielo, mise fuori due o tre frasi senza senso comune e chiuse l'ombrello. Non nevicava più, sopra il Boglia il cielo era lucido, s'udiva in alto un rombo continuo. "Vento, vento!", disse Ismaele raggiungendo la comitiva. "Vado a piedi! Vado a piedi!", gemette allora la Cia che aveva una gran paura del lago. Intanto la gente, uscendo di chiesa, urtò e scompose il gruppo, lo trasse giù per la scalinata. I sei viaggiatori e il barcaiuolo si riunirono da capo sulla piazza di S. Mamette e lì donna Ester dichiarò che non si sentiva troppo bene, che rinunciava al punch e che sarebbe andata a casa a piedi con la Cia.

Il professore taceva in disparte.

Franco e Luisa capirono che non c'era da insistere e le due donne s'avviarono a Oria con la scorta d'Ismaele il quale doveva ritornar poi a prendere i Maironi e la barca.

Una lucerna modérateur era accesa nel salotto del Gilardoni, un bel fuoco ardeva nel caminetto, il Pinella aveva preparato ogni cosa per il punch e chi lo fece fu Luisa perché il professore pareva aver perduto la testa, non faceva che darsi dello stupido e della bestia. Sulle prime non gli si poté cavar niente; poi vennero fuori, poco a poco, la storia del paradiso sotto l'ombrello e certe infernali conseguenze di quel paradiso. Nello scendere la scalinata della chiesa c'era stato fra lui ed Ester questo dialogo: "Sa, donna Ester, temevo quasi di averla offesa". "Come?" "Con quell'affare dell'ombrello." "Che ombrello?" Qui il professore non era stato buono di ripetere il suo complimento. "Sa, Le avevo detto qualche cosa..." "Che cosa?" "Si parlava del Paradiso..." Silenzio di Ester. "... e io quando mi trovo con una persona che stimo, che stimo proprio di tutto cuore, dico facilmente degli spropositi. Vorrei quasi dirne uno anche adesso, donna Ester." "Spropositi mai, sa", aveva risposto Ester e s'era staccata da lui per andare a Oria con la Cia. Veramente il dialogo non fu riferito così. Il Gilardoni raccontò che aveva fatto capire la sua gran passione e che donna Ester si era sdegnata. Franco aveva una gran voglia di ridere; Luisa disse scherzando: "Lasci fare a me, lasci fare a me che farò il punch e la pace e tutto; e Lei, un'altra volta, non sia un seduttore così terribile!". Il povero professore per poco non si inginocchiò a baciarle uno scarpino e, rifatto animo, riprese le sue funzioni di ospite, servì il punch agli amici.

"Guardate Maria", disse Franco, sottovoce. La piccina si era addormentata sulla poltrona del professore, presso la finestra.

Franco prese la lucerna e l'alzò per vederla meglio. Pareva una piccola creatura del cielo, caduta lì col lume delle stelle, assopita, soffusa nel viso di una dolcezza non terrena, di una solennità piena di mistero. "Cara!", diss'egli. Raccolse sua moglie a sé con un braccio, sempre guardando Maria. Il Gilardoni venne loro alle spalle, mormorò "che bellezza!" e tornò al caminetto sospirando "beati voi!".

Allora Franco, intenerito, sussurrò all'orecchio di sua moglie: "Glielo diciamo?". Ella non capì, lo guardò negli occhi. "Che parto", diss'egli, sempre sottovoce. Luisa trasalì, rispose "sì, sì" tutta commossa perché non l'attendeva a questo, avendolo in chiesa creduto incerto. La sorpresa di lei non sfuggì a Franco. Ne fu turbato, si sentì scosso nel suo proposito ed ella intese, ripeté impetuosamente "sì, sì" e lo spinse verso il Gilardoni.

"Caro amico", diss'egli, "Le debbo dir una cosa."

Il professore, assorto nella contemplazione del fuoco, non rispondeva. Franco gli posò una mano sulla spalla. "Ah!", fece quegli trasalendo. "Scusi. Che cosa?"

"Le debbo raccomandare qualcuno."

"A me? Chi?"

"Un vecchio, una signora e una bambina."

I due uomini si guardarono in silenzio, uno commosso, l'altro stupefatto.

"Non capisce?", sussurrò Luisa.

No, non capiva, non rispondeva.

"Le raccomando", riprese Franco, "mia moglie, mia figlia e il nostro vecchio zio."

"Oh!", esclamò il professore, guardando ora Luisa ora Franco.

"Vado via", disse questi con un sorriso che fece doler il cuore al Gilardoni. "Allo zio non l'abbiamo ancora detto ma è cosa necessaria. Nelle nostre condizioni non posso star qui a far niente. Dirò che vado a Milano, crederà chi vorrà; invece sarò in Piemonte."

Gilardoni giunse le mani silenziosamente, sbalordito. Luisa abbracciò Franco, lo baciò, gli tenne il capo sul petto, ad occhi chiusi. Il professore s'immaginò ch'ella piegasse con dolore alla volontà di suo marito. "Oh senta", diss'egli, volto a Franco. "Se ci fosse la guerra, capirei; ma così, se dà una tale afflizione a Sua moglie per ragioni economiche, ha torto!"

Luisa, tenendosi sempre al collo di suo marito con un braccio, agitò in silenzio l'altra mano verso Gilardoni per farlo tacere.

"No, no, no", mormorò, ricongiungendo le braccia intorno al collo di Franco, "fai bene, fai bene", e perché il Gilardoni insisteva, si staccò da suo marito. "Oh, ma professore!", diss'ella scotendogli le mani incontro, "se glielo dico io che fa bene di partire, se glielo dico io che sono sua moglie! Ma caro professore!"

"Oh infine, signora!", proruppe il Gilardoni. "Bisogna poi anche sapere..."

Franco stese impetuoso le braccia verso di lui, gridò: "Professore!"

"Fa male!", gli rispose questi. "Fa male! Fa male!"

"Cosa c'è, Franco?", dimandò Luisa, meravigliata. "C'è qualche cosa che io non so?"

"C'è che devo andar via, che andrò via e non c'è altro!"

Maria s'era svegliata di soprassalto a quel grido di suo padre: "Professore!", poi, vedendo la mamma così agitata, si dispose a piangere. Finalmente scoppiò in lagrime dirotte: "No papà, no via papà, no via papà!".

Franco se la tolse in braccio, la baciò, l'accarezzò. Ella andava ripetendo fra i singhiozzi "papà mio, papà mio" con una voce accorata e grave che faceva male al cuore. Suo padre se ne struggeva tutto, le protestava di voler star sempre con lei e piangeva per il dolore d'ingannarla, per la commozione di quella tenerezza nuova che veniva proprio adesso.

Luisa pensava al grido di suo marito. Il Gilardoni s'accorse ch'era in sospetto di un segreto e le domandò, per toglierla da quel pensiero, se Franco intendesse partire presto. Fu questi che rispose. Dipendeva da una lettera di Torino. Fra una settimana, forse; tutt'al più fra quindici giorni. Luisa taceva e il discorso cadde. Franco parlò allora di politica, delle probabilità che la guerra scoppiasse a primavera. Anche questo discorso morì presto. Pareva che il Gilardoni e Luisa pensassero ad altro, che ascoltassero il batter delle onde ai muri dell'orto. Finalmente Ismaele ritornò, ebbe il suo punch, assicurò che il lago non era troppo cattivo, che si poteva partire.

Appena i Maironi furono in barca, appena Maria vi riprese il sonno, Luisa domandò a suo marito se vi fosse una cosa ch'ella non sapeva e che il Gilardoni non doveva dire.

Franco tacque.

"Basta", diss'ella. Allora suo marito le passò un braccio al collo, la strinse a sé, protestando contro parole che ella non aveva dette: "Oh Luisa, Luisa!".

Luisa si lasciò abbracciare ma non rispose all'abbraccio; onde suo marito, disperato, le promise subito di dirle tutto, tutto. "Mi credi curiosa?", sussurrò ella fra le sue braccia. No, no, egli voleva raccontarle ogni cosa subito, dirle perché non avesse parlato prima. Ella si oppose; preferiva che parlasse più tardi, spontaneamente.

Avevano il vento in favore e il lume che brillava ad una finestra della loggia serviva bene di mira a Ismaele. Franco tenne sempre abbracciato il collo di sua moglie e guardava tacendo quel punto lucente. Né l'uno né l'altra pensarono alla mano amorosa e prudente che lo aveva acceso. Vi pensò Ismaele, affermò che né la Veronica né la Cia eran capaci di un simile tratto di genio e benedisse la faccia del signor ingegnere.

Nell'uscire di barca Maria si svegliò e gli sposi non parvero pensar più che a lei. Quando furono a letto, Franco spense il lume.

"Si tratta della nonna", diss'egli. La voce era commossa, rotta. Luisa mormorò "caro" e gli prese una mano, affettuosamente. "Non ho mai parlato", riprese Franco, "per non accusar la nonna e poi anche..." Qui seguì una pausa; quindi fu egli che mescolò al suo dire le più tenere carezze mentre sua moglie, invece, non vi rispondeva più. "Temevo", disse, "l'impressione tua, i tuoi sentimenti, le idee che ti potevano venire..." Più le parole avevano questo dubbio sapore, più la voce era tenera.

Luisa sentiva avvicinarsi, non un alterco, ma un contrasto più durevole e grave; non avrebbe voluto, adesso, che suo marito parlasse, e suo marito, sentendola diventar fredda, non proseguì. Ella gli posò la fronte alla spalla e disse sottovoce, malgrado se stessa: "Racconta".

Allora Franco, parlandole nei capelli, le ripeté il racconto fattogli dal professore nella notte del suo matrimonio. Nel riferire a memoria la lettera e il testamento di suo nonno, temperò alquanto le frasi ingiuriose verso suo padre e la nonna. A mezzo il racconto, Luisa, che non si aspettava una rivelazione simile, alzò il capo dalla spalla di suo marito. Questi s'interruppe.

"Avanti", diss'ella.

Finito ch'egli ebbe, gli domandò se si potesse dimostrare che il testamento del nonno era stato soppresso. Franco rispose prontamente di no. "Ma", diss'ella, "perché allora parlavi delle idee che mi potevan venire?". Il suo pensiero era subito corso al probabile delitto della nonna, alla possibilità di un'accusa.

Ma se l'accusa non era possibile?

Franco non rispose ed ella, dopo aver pensato un poco, esclamò: "Ah, la copia del testamento? Adoperarla? Quello è un testamento che potrebbe valere?"

"Sì"

"E tu non l'hai voluto far valere?"

"No."

"Perché, Franco?"

"Ecco!", esclamò Franco, pigliando fuoco. "Vedi? Lo sapevo! No, non lo voglio far valere, no, no, assolutamente, no!"

"Ma le ragioni?"

"Dio, le ragioni! Le ragioni si sentono, le devi sentire senza che io te le dica!"

"Non le sento. Non credere ch'io pensi ai denari. Non pigliamoli i denari, dalli a chi vuoi tu. Io sento le ragioni della giustizia. C'è la volontà di tuo nonno da rispettare, c'è un delitto che tua nonna ha commesso. Tu sei tanto religioso, devi riconoscere che questa carta l'ha fatta venir fuori la giustizia divina. Tu ti vuoi mettere fra la giustizia divina e questa donna?"

"Lascia stare la giustizia divina!", rispose Franco, violento. "Cosa sappiamo noi delle vie che prende la giustizia divina? Vi è anche la misericordia divina! Si tratta della madre di mio padre, sai! E non li ho disprezzati sempre questi maledetti denari? Cosa ho fatto quando la nonna mi ha minacciato di non lasciarmi un soldo se sposavo te?"

La tenerezza e la collera, miste insieme, gli fecero groppo alla gola. Non potendo parlare, afferrò il capo di Luisa, se lo strinse sul petto.

"Ho disprezzato i denari per aver te", riprese con voce soffocata. "Come vuoi che adesso cerchi di riprenderli con dei processi?"

"Ma no!", lo interruppe Luisa rialzando il capo. "I denari li darai a chi vorrai! È della giustizia che parlo io! Ma non la senti, tu, la giustizia?"

"Dio mio!", diss'egli mettendo un profondo sospiro. "Era meglio che non t'avessi parlato neanche stasera!"

"Forse sì. Se non volevi rinunciare in nessun caso ai tuoi propositi, forse era meglio."

La voce di Luisa, dicendo questo, esprimeva tristezza, non collera.

"Del resto", soggiunse Franco, "quella carta non esiste più."

Luisa trasalì. "Non esiste più?", diss'ella sottovoce, con ansia.

"No. Il professore deve averla distrutta, per ordine mio."

Seguì un lungo silenzio. Luisa ritirò il capo adagio adagio, lo posò sul guanciale proprio. Poi Franco uscì a dir forte: "Un processo! Con quei documenti! Con quelle ingiurie! Alla madre di mio padre! Per i denari!"

"Ma non ripetere questa cosa!", esclamò sua moglie, sdegnata. "Perché la ripeti sempre? Sai pure che non è vera!"

Parlavano concitati l'uno e l'altra; si capiva che durante il silenzio di prima avevano continuato a lavorar forte col pensiero su questo punto.

Egli si irritò del rimprovero e rispose alla cieca:

"Non so niente".

"Oh Franco!", disse Luisa, addolorata. Egli si era già pentito dell'oltraggio e le domandò perdono, accusò il proprio temperamento che gli faceva dire cose non pensate, implorò una parola buona. Luisa gli rispose sospirando "sì, sì" ma egli non fu contento, volle che dicesse proprio "ti perdono", che lo abbracciasse. Il tocco delle care labbra non lo ristorò come al solito. Passarono alcuni minuti ed egli stette in ascolto per capire se sua moglie si fosse addormentata. Udì il vento` il respiro lieve di Maria, il fragor delle onde, qualche tremolìo dei vetri, non altro. Sussurrò: "Mi hai proprio perdonato?", e udì rispondersi con dolcezza: "Sì, caro". Andò poco e fu lei che stette in ascolto, che udì, insieme al vento, alle onde, agli scricchiolii delle imposte, il respiro uguale, regolare della piccina, il respiro uguale, regolare del marito. Allora mise un altro gran sospiro, un sospiro desolato. Dio, come poteva Franco essersi condotto così? Ciò che la feriva nel più vivo del cuore era ch'egli paresse sentir poco le offese fatte alla povera mamma e allo zio. Ma su questo pensiero non voleva fermarsi, almeno prima di aver considerato il torto di lui altrove, di fronte all'idea di giustizia; e là lo sentiva, con amarezza eppur non senza compiacimento, inferiore a sé, governato da sentimenti che procedevano dalla fantasia, mentre il sentimento suo proprio era penetrato di ragione. Aveva tanto del bambino, Franco. Ecco, egli poteva già dormire ed ella si teneva sicura di non chiuder occhio fino alla mattina. A lei pareva di non aver fantasia perché non se la sentiva muovere, accendere così facilmente. Chi le avesse detto che la fantasia poteva in lei più che in suo marito, l'avrebbe fatta ridere. Eppure era così. Solamente, per dimostrarlo, occorreva capovolgere ambedue le anime, perché Franco aveva la sua fantasia visibile a fior d'anima e tutta la sua ragione al fondo, mentre Luisa aveva la fantasia al fondo e la ragione, molto visibilmente, a fior d'anima. Ella non dormì infatti e pensò per tutta la notte, con la sua fantasia del fondo dell'anima, come la religione favorisca i sentimentalismi deboli, com'essa che predica la sete della giustizia sia incapace di formare negl'intelletti devoti a lei il vero concetto di giustizia.

Anche il professore, che aveva infiltrazioni sierose di fantasia nelle cellule raziocinanti del cervello come nelle cellule amorifiche del cuore, spenta la lucerna, passò gran parte della notte davanti al caminetto lavorando con le molle e con la fantasia, pigliando, guardando, lasciando cader brage e progetti fino a che gli restarono un ultimo carbone lucente e un'ultima idea. Prese allora uno zolfino e accostatolo alla bragia ne riaccese la lucerna, prese l'idea pure luminosa e scottante, se la portò a letto.

Era questa: partire, all'insaputa di tutti, per Brescia, presentarsi alla marchesa con i terribili documenti, ottenere una capitolazione.

 

 

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Ultimo Aggiornamento: 14/07/05 00:04