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De Bibliotheca

Biblioteca Telematica

CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

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Appendice seconda

(contiene frammenti e pagine di commedie incompiute)

ITALO SVEVO

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PRIMO

 

VELA OLGA LETIZIA NICO BORIS MIRKO ELSA

 

VELA.                  Cari fratelli, sorelle e cugini e cugine.

NIKO.                   Cugini intanto no ghe ne vedo.

LETIZIA.              Ben fa niente! Son mi mezzo omo: Papà disi sempre che zà che la cicogna no ga volesto portar un mascio i me tien a mi per mascio e per femina.

VELA.                  Zitti dài che go da dirve qualche cossa de serio. La nonna ga telegrafà che la parti con non so che vapor per Trieste.

OLGA.                  Per Cherbourg cioè.

VELA.                  Ben! No fa niente! Ma per vegnir a Trieste insomma.

OLGA.                  Ma no xe lo stesso.

VELA.                  Uff! Insomma la vien a Trieste e xe nostro dover de farghe una bela festa quando che l'arriva. Mi diria de mandarghe uno de noi incontro…

OLGA.                  Dove? A Cherbourg?

VELA.                  Ma no! Qua! Alla porta! Questa che ne rappresenteria doveria dirghe un bel verso.

LETIZIA.              Versi no! Alla nonna ghe seca! Ghe piase piú la prosa.

VELA.                  Come ti lo sa?

LETIZIA.              Go visto le lettere della nonna. No ghe xe mai rime.

VELA.                  Insomma versi o prosa fa lo stesso. Adesso se tratta de veder chi che dirà sto complimento.

TUTTI.                  Mi!

VELA.                  Come voi altri! Non son mi la piú vecia?

LETIZIA.              Tropo vecia per dir ben un complimento che ghe fazza piazèr alla nonna.

VELA.                  Eh! tropo vecia! Per ti che ti spuzzi de late!

LETIZIA.              Vecia o giovine per dir ben un complimento bisogna aver la mia statura.

VELA.                  Ben, femo cussí! Ognidun de noi dirà perché ch'el crede de aver sto diritto e dopo anderemo a voti. Elsa! Perché ti vol parlar ti?

ELSA.                   Perché voio.

VELA.                  Che bela ragion. E ti Mirko?

MIRKO.                Perché voio.

VELA.                  E ti Boris?

BORIS.                 E perché no me tocheria a mi?

VELA.                  Vederemo! E ti Niko?

NIKO.                   Toca a mi perché son l'unico che va al Ginnasio e saveria dir el complimento anche in latin. Rosa, Rosae.

VELA.                  E ti Letizia?

LETIZIA.              Perché quando la nona me vederà la dirà: Che Letizia! e sarà un segno che la xe contenta.

VELA.                  E ti Olga?

OLGA.                  Perché me ciamo come ela. Mi son la Olga che resta in Europa ela quella che va in America.

VELA.                  E adesso ve dirò le mie ragioni: Mi no son solo la piú vecia fra voi altri ma son anche la fia della fia piú vecia.

LETIZIA.              E mi del piú vecio.

VELA.                  Andemo a voti. Chi che xe per mi alzi la man. (Nessuno alza la mano.) E allora fè soli. Mi vado a legger.

OLGA.                  Ma no Vela! Femo cussí! Ghe andemo tutti insieme incontro e ghe diremo ognidun la nostra.

TUTTI.                  D'accordo!

MIRKO.                Tutti con Athos, Argo e Lady e el gato bianco.

VELA.                  Ma almeno sentimo quel che ghe dirè. Femo le prove! Parla ti Elsa!

ELSA.                   Buon giorno, nonna!

VELA.                  E poi!

ELSA.                   Buon giorno, nonna cara!

VELA.                  Ben! No ghe ze mal! Toca a ti Mirko!

MIRKO.                Ben arrivata, nonna mia! E cossa ti me ga portà dall'America?

TUTTI.                  Bravo!

VELA.                  A ti Boris!

BORIS.                 Ben arrivata, nonna mia!

VELA.                  Ga za dito Mirko!

BORIS.                 Ma mi ghe lo digo meio.

VELA.                  Toca a ti Nico.

NICO.                   Nona mia! Voria dirte el ben che te voio in latin ma mi no lo so e ti no ti lo capissi. Cussí te lo digo in bon triestin. Se ti vol viaggiar no andar piú tanto lontan. Va a Bologna e non a Nuova York.

TUTTI.                  Bravo!

OLGA.                  Nonna cara! A nome de tutti te digo la benvenuta in casa tua. Che l'affetto di tutti ti faccia dimenticare le noie e le fatiche avute.

LETIZIA.              Nonnetta benedetta!

VELA.                  Non rime!

LETIZIA.              Nonna mia! Tutti ga tanto ben dito tutto che a mi non me resta che far un vero complimento. (Balla e salta.) Benvenuta!

VELA.                  Ben tutto xe sta detto. Mi come la piú vecia propongo che quando uno de noi fa el suo complimento tutti i altri ghe buti basi. Cussí.

 

SECONDO

 

SCENA PRIMA

ROSA alla finestra poi RICCARDO

 

RICCARDO         (guarda la moglie ch'è alla finestra). Credo che saranno subito qui.

ROSA                   (in grande ansia). Sono già le undici e non si vedono. (Ritorna alla finestra.)

RICCARDO         (le si accosta). Abbi pazienza, Rosa. Non è possibile che sia già qui. Passai per via della Valle. Sono delle migliaia che aspettavano il loro turno. Col certificato ch'egli ha in mano del dottor Setzer sarà certamente scartato.

ROSA.                  Se ne vedono tante in queste leve. Ieri fu preso il giovine Sanzin, il figlio di Alberto ed ha il braccio sinistro paralizzato. (Piangendo.) E mi pare di aspettare il risultato della leva del mio povero Roberto.

RICCARDO.        Roberto era sano e forte come me. Mentre Paolo…

ROSA.                  È malato! Ma non si può mica vedere che sia malato. Ha tutta l'apparenza di un uomo sano e forte.

RICCARDO.        Anche loro prima di prenderlo guarderanno un poco. Non è neppure per loro molto utile di assumersi degli ammalati. Forse gli toccherà restare per qualche giorno all'ospitale militare.

ROSA                   (piangendo). Sarebbe già molto male per lui. Cosí impressionabile come è.

RICCARDO.        Dovrà adattarcisi lieto che non gli tocchi di peggio. Basta che si guardi d'intorno e capirà di potersi dire fortunato.

 

 

TERZO

 

I. Stanza da pranzo di borghesi non ricchi. Mobili acquistati all'occasione. Il tavolo in mezzo abbastanza grande per sei persone. Una porta d'uscita al fondo. Due porte laterali. Di tempo in tempo, lontanissimo, si sente il cupo suono del cannone. È una bella mattina d'aprile dell'anno 1916.

 

SCENA PRIMA

 

Alberto Polli vestito da ufficiale austriaco ed Emilio Mark. Alberto è vestito piuttosto trascuratamente. Una piccola baionetta al fianco. Emilio Mark ha circa 50 anni. Le preoccupazioni e i dolori gli danno un aspetto di persona piú vecchia della sua età.

Parla bene l'italiano ma con leggerissimo accento tedesco.

 

ALBERTO.          Lei vuol dire che la signora Maria sopportò la notizia della morte del figlio meglio di quanto si sarebbe potuto sperare?

MARK                  (con tristezza). Sí, meglio di quanto si poteva sperare. Sa il tedesco, lei?

ALBERTO.          Un pochino. L'ho appreso durante la guerra.

MARK.                 Noi tedeschi diciamo che quando il bisogno è piú forte Dio è piú vicino. Ora io penso che perché Maria non muoia di dolore Dio le mandò la malattia di Guido. Ciò avvenne sei mesi dopo quel fiero colpo. Fu la sua salvezza. Il dottore impone a Guido una quantità di cure. Cosí essa è continuamente occupata e distratta.

ALBERTO.          Il signor Iddio avrebbe però potuto mandare qualche distrazione un poco piú piacevole?

MARK.                 Certo! Ma io non credo che Guido sia molto malato. Il dottore dice che guarirà. Io ho fiducia nella mia buona razza e non credo sia gravemente malato lui tanto giovine. Per ammazzare suo fratello Giovanni vi fu bisogno di una granata. Quanti giorni di permesso avete ottenuto?

ALBERTO.          Potrò fermarmi qui per 15 giorni se non mi richiamano prima.

MARK.                 E che ne dite della guerra? Siamo stati castigati abbastanza!

ALBERTO           (seccato). Visto che m'hanno obbligato di farla, io, della guerra, non parlo mai.

MARK.                 Già! Non ne parlo neppur io, mai. Certo nel mio animo c'è ancora l'odio per chi la provocò.

ALBERTO           (c.s.). Da me neppur quello.

MARK.                 E vi battete spesso?

ALBERTO.          Si fa, naturalmente, meno che si può. Io fungo da qualche tempo quale interprete. Sono incaricato di esaminare i prigionieri di guerra. Intanto non ammazzo nessuno e consolo come meglio posso, nella loro lingua, i poverini che ci cascano in mano.

MARK.                 Avete anche il nastro della medaglia al petto. Come ve la siete meritata?

ALBERTO.          Io, davvero, non lo so. Era una bella giornata d'estate. Il sole splendeva in Oslavia e…

MARK.                 Raccontate, raccontate.

ALBERTO.          Mi diedero la medaglia. Non c'è altro da dire.

MARK.                 Siete sempre pronto alla facezia. Se ricordate in altra epoca anch'io ero tanto disposto a ridere. Poi la morte di Giovanni, la malattia di Guido…

ALBERTO.          Che non ha importanza…

MARK.                 Ma costa tanti denari! E gli affari…

ALBERTO.          Fate degli affari? Beato voi. Tutti si arricchiscono oggidí.

MARK.                 Sí! La gente priva di scrupoli. La mia fabbrica è chiusa da sei mesi. I saponi, in Austria, non si fanno che sotto sorveglianza. Preferii chiudere. Ho liquidato tutto. Vendetti prima il grasso che grattai dal pavimento. Ma adesso mi mangio tutti gli utili e anche il capitale. Io so esattamente quanti giorni potrò ancora campare con quello che ho.

ALBERTO.          Eh! via! Darei subito la mia paga di tenente vita natural durante coi denari che voi avete in tasca. Non sarei piú tenente cioè nulla-tenente.

 

 

QUARTO

 

ATTO PRIMO

Albergo di prim'ordine. Stanza della table d'hôte.

 

CAMERIERE e DR. EMILIO RICCIOLI poi DR. ALFONSO SPENS

 

DR. RICCIOLI     (entrando a furia). Nessuno ancora. Diavolo! Io finisco col perdere il momento del mio appetito. (Esita, poi deciso al cameriere.) Dica, la lista. (Cameriere gliel'offre.) Che c'è di pronto? Ma prontissimo veh! Pronto per i denti dico, non mica per la pentola, sa!

CAMERIERE.      Prontissimo ci sarebbe del prosciutto, dello stufato…

DR. RICCIOLI. Buonissima idea! Del prosciutto! M'accontenterò dell'antipasto. Con una boccettina di Chablis. Mi sento snervato dalla fame. (Guardando l'orologio.) Che giornata! Non finisce piú! Qualche Giosuè deve aver fermato il sole. (Con dubbio subitaneo.) Era poi proprio Giosuè? (Il cameriere gli porta il Chablis; egli versa e beve avidamente.) Uff! Battistrada! Fa largo! Sveglia i dormenti! (Resta incantato a guardare la boccetta semivuota, poi la vuota nel bicchiere e beve; a metà del bicchiere vede entrare il Dr. Spens, si sorprende, esita, si ferma, poi beve tutto in fretta, si pulisce la bocca, s'alza.) Lei! Tu, Alfonso, qui, ai bagni? Oh! che piacere! Dopo tanti anni.

SPENS                  (dopo di aver esitato per un istante). Ah! sei tu! Emilio Riccioli! L'eterno studente!

RICCIOLI.           Eterno! No! non eterno! Purtroppo non lo sono piú! Sono dottore in medicina! Specialista per le malattie nervose e vicedirettore di un ospitale presso Milano.

SPENS                  (stupefatto). Di quale?

RICCIOLI             (ridendo). Che t'importa di saperlo? Vorresti forse portarmi via il posto?

SPENS.                 Oh! no! Come potrei? Bisognerebbe dimenticare ogni riguardo ai tuoi ammalati. Il buon umore fa tanto bene ai nervosi!

RICCIOLI             (adirato). Va là! va là! I miei clienti stanno molto meglio dei tuoi! Sai! Da studenti si sopportavano certi frizzi che adesso sono fuori di luogo. Io non studiai prima dell'esame, è vero. Studiai dopo. A me mancano gli studii dell'adolescente. Ho quelli della maturità. (Rasserenandosi da un momento all'altro, ridendo eccessivamente.) Non nego però che la tua idea non è cattiva. Infatti i miei clienti ridono molto. Una cosa però che non posso capire, è come avvenga che io che rido sempre, soffra tanto di nervi! Allora la cura non serve a farla in me. (Il cameriere serve.) Senta! (Dopo una lunga occhiata alla boccettina vuota.) Porti un'altra piccola, piccola boccettina di Chablis. (A Spens.) Vuoi farmi compagnia? (Siede e mangia voracemente.) Ohè! Questo Chablis! Un servizio infame, ti dico!

SPENS.                 Soffri di nervi, tu?

RICCIOLI.           Non prenderla tanto seriamente, sai e non credere di aver trovato in me un tuo cliente. Soffro di nervi quanto mi pare e piace. Come vedi non mi manca l'appetito. (Dopo una breve pausa.) Dimmi un poco, ci credi tu alla medicina?

SPENS.                 Io, sí.

RICCIOLI.           Anch'io, naturalmente! Come si farebbe non crederci? Dati i miracoli cui oggidí assistiamo (correggendosi) anzi che noi medici ci facciamo, non si può non crederci. Però…

SPENS.                 Però?

RICCIOLI             (esitante). Non c'è però. Però sarebbe meglio che certe malattie si sapessero guarire piú sicuramente.

SPENS.                 Certe! E le altre?

RICCIOLI.           Delle altre non m'importa! Io penso alla mia malattia. Nevrastenia! La nemesi moderna! Parlano di progresso! Quale progresso? Quello della nevrastenia? Non miete vittime quella malattia. Sei nevrastenico, tu?

SPENS.                 Non credo.

RICCIOLI.           Si può esserlo senza saperlo. Beati i nevrastenici ignoranti. Oh! avessi studiato legge anziché non studiare la medicina! (Ride di cuore.) Bada che questi frizzi restano fra di noi! Diavolo, io vivo della medicina e - parola d'onore! - faccio del mio meglio acciocché gli altri non ne muoiano.

SPENS.                 Sei qui per curarti?

RICCIOLI.           Io, curarmi? Non ci ho mai pensato. Sono tanto in dubbio per i dispareri patenti delle varie scuole in fatto di nevrastenia che non voglio espormi a rovinarmi di piú con delle medicine.

SPENS.                 E che cosa fai qui.

RICCIOLI.           Accompagno ai bagni un ricchissimo cliente. (Spens ride.) Ti prego di smettere quel tuo riso impertinente. (Adirato, poi subito lieto.) Sta' a sentire cosa sono a questo mondo i casi! Sono di mattina d'ispezione alla porta del mio ospitale di… sí… presso Milano. Capita correndo una servetta, un bocconcino ti dico ed io comincio subito col supplire al portiere che - per rispetto - resta nel suo casotto e a dirle tante spiritosità da farla sganasciare dalle risa. Il visetto era tanto bello che valeva davvero la pena d'essere spiritoso. Fui molto spiritoso e, come sai, alle donne il mio fare piace molto. Perché fai quella faccia d'incredulo? Per convincerti dirò che la servetta durò mezz'ora a rimettersi dalla sorpresa d'aver trovato un tipo quale io mi sono. Appena allora arrivò a dirmi ch'era corsa a chiamarmi perché il suo padrone era moribondo.

SPENS.                 Diavolo!

RICCIOLI.           Non spaventarti! La vita è meno tragica di quanto voialtri medici ve la figurate e… la fate. (Ride eccessivamente.) Buona! eh? Io arrivai troppo tardi. L'ammalato era bello e ristabilito. (Ride di nuovo.) Anzi se tu mi chiedessi come sia potuto avvenire che un uomo sano e forte con cuore e polmoni sanissimi abbia potuto avere un deliquio di un buon quarto d'ora, io, con la mia solita sincerità, ti direi che non lo so. Sapresti dirmelo tu?

SPENS.                 Senza vedere il cliente è impossibile.

RICCIOLI.           Lo vedrai ma a cura finita; prima, in nessun caso. Un pezzo d'uomo forte, di bell'aspetto, un gigante anzi, ma un gigante tarlato. Forse pensando al tarlo io precorro la medicina futura che - sicuramente - troverà il microbo della nevrastenia. Un bambino senza forza di volontà, con l'intelligenza resa piú greve dalla malattia e dalla preoccupazione. Nel suo piccolo un caso tragico. Il mio cliente era forse sul punto di divenire celebre. Un suo romanzo era stato tradotto in tedesco e in francese. Non ne pubblicò piú altri e, in fede mia, credo che ad onta delle mie piú assidue cure, non ne pubblicherà mai piú. Soffre di notte di una insonnia condita da incubi; di giorno ha sensazioni curiose di affanni di cui non si riscontra alcuna causa oggettiva. E poi si rammarica di non lavorare, di non pensare, di non sentire e che so io. Un funerale d'uomo. Conosci la mia teoria sulla nevrastenia? Ne esistono di gravi e di leggere. Le leggere sono quelle che colpiscono le persone d'energia le quali resistono, trovano un cantuccio di salute nel proprio organismo e sanno goderne. Le nevrastenie gravi sono quelle che colpiscono gl'inerti, quelli che non sanno reagire e che s'abbattono ad ogni piú lieve sintomo di questa malattia che in fondo somiglia piú ad un'occupazione che ad una malattia. Io curo le due forme in modo differente. A quelli che l'hanno leggera, dico: Ma perché curarla? Le jeu ne vaut pas la chandelle. Conservatevela, vivete voi ed essa lungamente. A quelli che l'hanno grave invece, lascio la malattia e cerco di curare il carattere. Insonnia? Cloralio. Rumori nelle orecchie? Fate conto d'esser in parlamento. Affanno? Credetemelo non è affanno e mi farete il piacere di non chiamarlo mai piú cosí. Spossatezza? Badate non accattar briga con nessuno e non avrete bisogno di forza.

SPENS.                 Non è mica mal pensata.

RICCIOLI.           Meno male che incominci a riconoscere i miei meriti. Col mio cliente non si poteva procedere cosí perché egli non cerca e non vuole altro che cure. Chiamai in consulto il direttore del mio ospitale di… presso Milano e m'accertai che nel mio cliente gli organi che fanno respirare, mangiare e digerire erano in quella regola che può vigere nell'organismo di un nevrastenico. Niente paura! dissi a lui e a me. Io ti curerò. E pensarsi che nessuno s'è mai pensato di chiedermi come, sapendo curare io i mali nervosi, non incominci dal curare i miei. (Ride.) Insomma, cominciammo a viaggiare. Ottenni - senza dirlo al mio cliente - un permesso di sei mesi per malattia e andai con lui al mare Baltico d'onde ritornai or ora con lunghe tappe, al mio vecchio, caro Adriatico. Fra tre o quattro settimane - sí, quattro - lascio il mio cliente e ritorno alla mia pratica. Io ho visto dei paesi bellissimi e lui non ha peggiorato. Vero è che neppure io non ho migliorato. Mi darai - in tutta segretezza - qualche buon consiglio?

SPENS.                 Per te o pel tuo amico?

RICCIOLI.           Per ambedue. Non hai un'idea quanto le due malattie si somigliano. Quando egli mormora: Non ne posso piú, sono spossato, io non potrei sostenerlo perché sono spossato anch'io. C'è persino una somiglianza nei nostri polsi irrequieti a certe ore. Egli crede che esamini il suo e sorveglio invece il mio. Quando mi descrive i suoi sogni affannosi, i rumori strani che sente sto a sentire col massimo interessamento perché descrive la mia malattia. Con la differenza che da lui tutto è tragico, da me tutto lieto. Egli non può lavorare e ne piange. Io non lavoro e ne godo. Quando mi darai la tua cura la provo subito… su lui. E con tanta somiglianza di malattia egli non può soffrirmi. Guai se non ci fosse sua madre! Non sarei partito da… presso Milano.

SPENS.                 Ah! c'è una madre?

RICCIOLI.           Sí una vecchia signora isterica che conquistai del tutto facendole fare la cura Kneipp. Voleva farla da anni e non trovava mai un medico che gliela ordinasse. Non voleva altro, povera vecchia! La cura Kneipp! Dio mio! Come sono crudeli gli altri medici. Io le feci fare la cura Kneipp e mi conquistai la sua eterna riconoscenza. Almeno a questo mondo la povera vecchia fa qualche cosa. Quando sente parlare di una malattia essa pensa subito: Ecco una malattia che bisogna evitare. Viene da me col libro di Kneipp e cerchiamo la pagina. Acqua! acqua! e la malattia è evitata. Credo in tutta Italia non ci sia altro medico che conosca tanto bene la cura Kneipp. Vero è che a me non serví gran fatto.

SPENS.                 Ah! la facesti anche tu!

RICCIOLI.           Pestai dell'acqua con un accanimento come se avessi voluto ridurla a polvere. Ne ebbi una flussione al petto che mi fece perdere tutto il rispetto pel buon parroco. Adesso il mio cliente tenta una cura definitiva per mio consiglio. Il re dei tonici, dei calmanti, dei sonniferi. Una cura drastica!

SPENS.                 E sarebbe?

RICCIOLI.           Si sposa! Cura maritalis!

SPENS.                 Cioè maritale.

RICCIOLI             (adirato). Tu sei ancora purista, capisco. Io non piú, sai. La vita è tanto seria che non c'è tempo di curarsi delle inezie. (Con aria superiore.) Quelle le lasciamo agli uomini… che non hanno meglio da fare. (Poi, subito ridendo.) Ti assicuro che tale cura l'ho iniziata sotto i migliori auspicii. Trovai al mio Creso un tale brillante ch'egli non merita. Una povera orfana che finora fece l'infermiera di un suo zio… ah! ah! un bellissimo destino, visto che continuerà a fare l'infermiera. Veramente da prima mi parve avesse un debole per me. Ma io non sono ancora tanto maturo in nevrastenia da abbisognare di una cura tanto drastica. La piccola Teresa mi guardava. Mi scansai… ella aveva già preso lo slancio e andò a cadere proprio addosso a chi stava dietro di me. Non credere che io intenda di restare l'amico di casa del mio cliente. Sarebbe difficile perché ho paura che il mio regno è finito.

 

 

 

 

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Edizione HTML a cura di: mail@debibliotheca.com
Ultimo Aggiornamento:14/07/2005 00.14

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