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Biblioteca Telematica

CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

Trattatello in laude di Dante

di Giovanni Boccaccio 

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XXI

Disgressione su''origine della poesia
La prima gente ne' primi secoli, come che rozzissima e inculta fosse, ardentissima fu di conoscere il vero con istudio, sì come noi veggiamo ancora naturalmente disiderare a ciascuno. La quale veggendo il cielo muoversi con ordinata legge continuo, e le cose terrene avere certo ordine e diverse operazioni in diversi tempi, pensarono di necessità dovere essere alcuna cosa, dalla quale tutte queste cose procedessero, e che tutte l'altre ordinasse, sì come superiore potenzia da niun'altra potenziata. E, questa investigazione seco diligentemente avuta, s'immaginarono quella, la quale <<divinità>> ovvero <<deità>> nominarono, con ogni cultivazione, con ogni onore e con più che umano servigio esser da venerare. E perciò ordinarono, a reverenza del nome di questa suprema potenzia, ampissime ed egregie case, le quali ancora estimarono fossero da separare così di nome, come di forma separate erano, da quelle che generalmente per gli uomini si abitavano; e nominaronle <<templi>>. E similmente avvisarono doversi ministri, li quali fossero sacri e, da ogni altra mondana sollecitudine rimoti, solamente a' divini servigi vacassero, per maturità, per età e per abito, più che gli altri uomini, reverendi; gli quali appellarono <<sacerdoti>>. E oltre a questo, in rappresentamento della immaginata essenzia divina, fecero in varie forme magnifiche statue, e a' servigi di quella vasellamenti d'oro e mense marmoree e purpurei vestimenti e altri apparati assai pertinenti a' sacrificii per loro istabiliti. E, acciò che a questa cotale potenzia tacito onore o quasi mutolo non si facesse, parve loro che con parole d'alto suono essa fosse da umiliare e alle loro necessità rendere propizia. E così come essi estimavano questa eccedere ciascuna altra cosa di nobilità, così vollono che, di lungi da ogni plebeio o publico stilo di parlare, si trovassero parole degne di ragionare dinanzi alla divinità, nelle quali le si porgessero sacrate lusinghe. E oltre a questo, acciò che queste parole paressero avere più d'efficacia, vollero che fossero sotto legge di certi numeri composte, per li quali alcuna dolcezza si sentisse, e cacciassesi il rincrescimento e la noia. E certo, questo non in volgar forma o usitata, ma con artificiosa ed esquisita e nuova convenne che si facesse. La qual forma li greci appellano poetes; laonde nacque, che quello che in cotale forma fatto fosse s'appellasse poesis; e quegli, che ciò facessero o cotale modo di parlare usassono, si chiamassero "poeti".
Questa adunque fu la prima origine del nome della poesia, e per consequente de' poeti, come che altri n'assegnino altre ragioni, forse buone: ma questa mi piace più.
Questa buona e laudevole intenzione della rozza età mosse molti a diverse invenzioni nel mondo multiplicante per apparere; e dove i primi una sola deità onoravano, mostrarono i seguenti molte esserne, come che quella una dicessono oltre ad ogni altra ottenere il principato; le quali molte vollero che fossero il Sole, la Luna, Saturno, Iove e ciascuno degli altri de' sette pianeti, dagli loro effetti dando argomento alla loro deità; e da questi vennero a mostrare ogni cosa utile agli uomini, quantunque terrena fosse, deità essere, sì come il fuoco, l'acqua, la terra e simiglianti. Alle quali tutte e versi e onori e sacrificii s'ordinarono. E poi susseguentemente cominciarono diversi in diversi luoghi, chi con uno ingegno, chi con un altro, a farsi sopra la moltitudine indòtta della sua contrada maggiori; diffinendo le rozze quistioni, non secondo scritta legge, ché non l'aveano ancora, ma secondo alcuna naturale equità della quale più uno che un altro era dotato; dando alla loro vita e alli loro costumi ordine, dalla natura medesima più illuminati; resistendo con le loro corporali forze alle cose avverse possibili ad avvenire; e a chiamarsi <<re>>, e mostrarsi alla plebe e con servi e con ornamenti non usati infino a que' tèmpi dagli uomini; a farsi ubbidire; e ultimamente a farsi adorare. Il che, solo che fosse chi 'l presumesse, sanza troppa difflcultà avvenia: perciò che a' rozzi popoli parevano, così vedendogli, non uomini ma iddii. Questi cotali, non fidandosi tanto delle lor forze, cominciarono ad aumentare le religioni, e con la fede di quelle ad impaurire i suggetti e a strignere con sacramenti alla loro obbedienza quegli li quali non vi si sarebbono potuti con forza costrignere. E oltre a questo diedono opera a deificare li lor padri, li loro avoli e li loro maggiori, acciò che più fossero e temuti e avuti in reverenzia dal vulgo. Le quali cose non si poterono comodamente fare senza l'oficio de' poeti, li quali, sì per ampliare la loro fama, sì per compiacere a' prencipi, sì per dilettare i sudditi, e sì per persuadere il virtuosamente operare, a ciascuno-quello che con aperto parlare saria suto della loro intenzione contrario- con fizioni varie e maestrevoli, male da' grossi oggi non che a quel tempo intese, facevano credere quello che li prencipi volevan che si credesse; servando negli nuovi iddii e negli uomini, gli quali degl'iddii nati fingevano, quello medesimo stile che nel vero Iddio solamente e nel suo lusingarlo avevan gli primi usato. Da questo si venne allo adequare i fatti de' forti uomini a quegli degl'iddii; donde nacque il cantare con eccelso verso le battaglie e gli altri notabili fatti degli uomini mescolatamente con quegli degl'iddii; il quale e fu ed è oggi, insieme con l'altre cose di sopra dette, uficio ed esercizio di ciascuno poeta. E perciò che molti non intendenti credono la poesia niuna altra cosa essere che solamente un fabuloso parlare, oltre al promesso mi piace brievemente quella essere teologia dimostrare, prima ch'io vegna a dire perché di lauro si coronino i poeti.
XXII
Difesa della poesia
Se noi vorremo por giù gli animi e con ragion riguardare, io mi credo che assai leggiermente potremo vedere gli antichi poeti avere imitate, tanto quanto a lo 'ngegno umano è possibile, le vestigie dello Spirito Santo; il quale, sì come noi nella divina Scrittura veggiamo, per la bocca di molti i suoi altissimi secreti revelò a' futuri, facendo loro sotto velame parlare ciò che a debito tempo per opera, senza alcuno velo, intendeva di dimostrare. Imperciò che essi, se noi ragguarderemo ben le loro opere, acciò che lo imitatore non paresse diverso dallo imitato, sotto coperta d'alcune fizioni, quello che stato era, o che fosse al loro tempo presente, o che disideravano o che presummevano che nel futuro dovesse avvenire, discrissono; per che, come che ad uno fine l'una scrittura e l'altra non riguardasse, ma solo al modo del trattare, al che più guarda al presente l'animo mio, ad amendune si potrebbe dare una medesima laude, usando di Gregorio le parole. Il quale della sacra Scrittura dice ciò che ancora della poetica dir si puote: cioè che essa in uno medesimo sermone, narrando, apre il testo e il misterio a quel sottoposto; e così ad un'ora coll'uno gli savi esercita e con l'altro gli semplici riconforta, e ha in publico donde li pargoletti nutrichi, e in occulto serva quello onde essa le menti de' sublimi intenditori con ammirazione tenga sospese. Perciò che pare essere un fiume, acciò che io così dica, piano e profondo, nel quale il piccioletto agnello con gli piè vada, e il grande elefante ampissimamente nuoti. Ma da procedere è al verificare delle cose proposte.
Intende la divina Scrittura, la qual noi <<teologia>> appelliamo, quando con figura d'alcuna istoria, quando col senso d'alcuna visione, quando con lo 'ntendimento d'alcun lamento, e in altre maniere assai, mostrarci l'alto misterio della incarnazione del Verbo divino, la vita di quello, le cose occorse nella sua morte, e la resurrezione vittoriosa, e la mirabile ascensione, e ogni altro suo atto, per lo quale noi ammaestrati, possiamo a quella gloria pervenire, la quale Egli e morendo e resurgendo ci aperse, lungamente stata serrata a noi per la colpa del primiero uomo. Così li poeti nelle loro opere, le quali noi chiamiamo <<poesia>>, quando con fizioni di vari iddii, quando con trasmutazioni d'uomini in varie forme, e quando con leggiadre persuasioni, ne mostrano le cagioni delle cose, gli effetti delle virtù e de' vizi, e che fuggire dobbiamo e che seguire, acciò che pervenire possiamo virtuosamente operando, a quel fine, il quale essi, che il vero Iddio debitamente non conosceano, somma salute credevano. Volle lo Spirito Santo mostrare nel rubo verdissimo, nel quale Moisè vide, quasi come una fiamma ardente, Iddio, la verginità di Colei che più che altra creatura fu pura, e che dovea essere abitazione e ricetto del Signore della natura, non doversi, per la concezione né per lo parto del Verbo del Padre, contaminare. Volle, per la visione veduta da Nabucodonosor, nella statua di più metalli abbattuta da una pietra convertita in monte, mostrare tutte le preterite età dalla dottrina di Cristo, il quale fu ed è viva pietra, dovere summergersi; e la cristiana religione, nata di questa pietra, divenire una cosa immobile e perpetua, sì come gli monti veggiamo. Volle nelle lamentazioni di Ieremia, l'eccidio futuro di Ierusalem dichiarare.
Similmente li nostri poeti, fingendo Saturno avere molti figliuoli, e quegli, fuori che quattro, divorar tutti, niuna altra cosa vollono per tale fizione farci sentire, se non per Saturno il tempo, nel quale ogni cosa si produce, e come ella in esso è prodotta, così è esso di tutte corrompitore, e tutte le riduce a niente. I quattro suoi figliuoli non divorati da lui, è l'uno Iove, cioè l'elemento del fuoco; il secondo è Iunone, sposa e sorella di Iove, cioè l'aere, mediante la quale il fuoco quaggiù opera li suoi effetti: il terzo è Nettunno, iddio del mare, cioè l'elemento dell'acqua; e il quarto e ultimo è Plutone, iddio del ninferno, cioè la terra, più bassa che alcuno altro elemento. Similemente fingono li nostri poeti Ercule d'uomo essere in dio trasformato, e Licaone in lupo. Moralmente volendo mostrarci che, virtuosamente operando, come fece Ercule, l'uomo diventa iddio per participazione in cielo; e, viziosamente operando, come Licaone fece, quantunque egli paia uomo, nel vero si può dire quella bestia, la quale da ciascuno si conosce per effetto più simile al suo difetto: sì come Licaone per rapacità e per avarizia, le quali a lupo sono molto conformi, si finge in lupo esser mutato. Similemente fingono li nostri poeti la bellezza de' Campi elisii, per la quale intendo la dolcezza del paradiso; e la oscurità di Dite, per la quale prendo l'amaritudine dello 'nferno; acciò che noi, tratti dal piacere dell'uno, e dalla noia dell'altro spaventati, seguitiamo le virtù che in Eliso ci meneranno, e i vizi fuggiamo che in Dite ci farieno trarupare. Io lascio il tritare con più particulari esposizioni queste cose, perciò che, se quanto si converrebbe e potrebbe le volessi chiarire, come che elle più piacevoli ne divenissero e più facessero forte il mio argomento, dubito non mi tirassero più oltre molto che la principale materia non richiede e che io non voglio andare. E certo, se più non se ne dicesse che quello ch'è detto, assai si dovrebbe comprendere la teologia e la poesia convenirsi quanto nella forma dell'operare, ma nel suggetto dico quelle non solamente molto essere diverse, ma ancora avverse in alcuna parte: perciò che il suggetto della sacra teologia è la divina verità, quello dell'antica poesì sono gl'iddii de' Gentili e gli uomini. Avverse sono, in quanto la teologia niuna cosa presuppone se non vera; la poesia ne suppone alcune per vere, le quali sono falsissime ed erronee e contra la cristiana religione. Ma, perciò che alcuni disensati si levano contra li poeti, dicendo loro sconce favole e male a niuna verità consonanti avere composte, e che in altra forma che con favole dovevano la loro sofficienzia mostrare e a' mondani dare la loro dottrina; voglio ancora alquanto più oltre procedere col presente ragionamento
Guardino adunque questi cotali le visioni di Danièllo, quelle d'Isaia, quelle d'Ezechiel, e degli altri del Vecchio Testamento con divina penna discritte, e da Colui mostrate al quale non fu principio né sarà fine. Guardinsi ancora nel Nuovo le visioni dello evangelista, piene agl'intendenti di mirabile verità; e, se niuna poetica favola si truova tanto di lungi dal vero o dal verisimile, quanto nella corteccia appaiono queste in molte parti, concedasi che solamente i poeti abbiano dette favole da non potere dare diletto né frutto. Senza dire alcuna cosa alla riprensione che fanno de' poeti, in quanto la loro dottrina in favole ovvero sotto favole hanno mostrata, mi potrei passare; conoscendo che, mentre che essi mattamente gli poeti riprendono di ciò, incautamente caggiono in biasimare quello Spirito, il quale nulla altra cosa è che via, vita e verità; ma pure alquanto intendo di soddisfargli.
Manifesta cosa è che ogni cosa, che con fatica s'acquista, avere alquanto più di dolcezza che quella che vien senza affanno. La verità piana, perciò ch'è tosto compresa con piccole forze, diletta e passa nella memoria. Adunque, acciò che con fatica acquistata fosse più grata, e perciò meglio si conservasse, li poeti sotto cose molto ad essa contrarie apparenti, la nascosero; e perciò favole fecero, più che altra coperta, perché la bellezza di quelle attraesse coloro, li quali né le dimostrazion filosofiche, né le persuasioni avevano potuto a sé tirare. Che dunque direm de' poeti? terremo ch'essi sieno stati uomini insensati, come li presenti dissensati, parlando e non sappiendo che, gli giudicano? Certo no; anzi furono nelle loro operazioni di profondissimo sentimento, quanto è nel frutto nascoso, e d'eccellentissima e d'ornata eloquenzia nelle cortecce e nelle frondi apparenti. Ma torniamo dove lasciammo.
Dico che la teologia e la poesia quasi una cosa si possono dire, dove uno medesimo sia il suggetto; anzi dico più: che la teologia niun'altra cosa è che una poesia di Dio. E che altra cosa è che poetica fizione, nella Scrittura, dire Cristo essere ora leone e ora agnello e ora vermine, e quando drago e quando pietra, e in altre maniere molte, le quali voler tutte raccontare sarebbe lunghissimo? che altro suonano le parole del Salvatore nello evangelio, se non uno sermone da' sensi alieno? il quale parlare noi con più usato vocabolo chiamiamo <<allegoria>>. Dunque bene appare, non solamente la poesì essere teologia, ma ancora la teologia essere poesia. E certo, se le mie parole meritano poca fede in sì gran cosa, io non me ne turberò; ma credasi ad Aristotile, degnissimo testimonio ad ogni gran cosa, il quale afferma sé aver trovato li poeti essere stati li primi teologizzanti. E questo basti quanto a questa parte; e torniamo a mostrare perché a' poeti solamente, tra gli scienziati, l'onore della corona dell'alloro conceduto fosse.
XXIII
Dell'alloro conceduto ai poeti
Tra l'altre nazioni, le quali sopra il circuito della terra son molte, li Greci si crede che sieno quegli alli quali primieramente la filosofia sé e li suoi segreti aprisse; de' tesori della quale essi trassero la dottrina militare, la vita politica e altre care cose assai, per le quali essi oltre a ogni altra nazione divennero famosi e reverendi. Ma intra l'altre, tratte del costei tesoro da loro, fu la santissima sentenzia di Solone nel principio posta di questa operetta; e acciò che la loro republica, la quale più che altra allora fioriva, diritta e andasse e stesse sopra due piedi, e le pene a' nocenti e i meriti a' valorosi magnificamente ordinarono e osservarono. Ma, intra gli altri meriti stabiliti da loro a chi bene adoperasse, fu questo il precipuo: di coronare in publico, e con publico consentimento, di frondi d'alloro li poeti dopo la vittoria delle loro fatiche, e gl'imperadori, li quali vittoriosamente avessero la republica aumentata; giudicando che igual gloria si convenisse a colui per la cui virtù le cose umane erano e servate e aumentate, che a colui da cui le divine eran trattate. E come che di questo onore li Greci fossero inventori, esso poi trapassò a' Latini, quando la gloria e l'arme parimente di tutto il mondo diedero luogo al romano nome; e ancora, almeno nelle coronazioni de' poeti, come che rarissimamente avvenga, vi dura. Ma, perché a tale coronazione più il lauro che altra fronda eletto sia, non dovrà essere a veder rincrescevole.
XXIV
Origine di questa usanza
Sono alcuni li quali credono, perciò che sanno Danne amata da Febo e in lauro convertita, essendo Febo e il primo auttore e fautore de' poeti stato e similmente triunfatore, per amore a quelle frondi portato, di quelle le sue cetere e i triunfi aver coronati; e quinci essere stato preso esemplo dagli uomini, e per conseguente essere quello, che da Febo fu prima fatto, cagione di tale coronazione e di tai frondi infino a questo giorno a' poeti e agl'imperadori. E certo tale oppinione non mi spiace, né nego così poter essere stato; ma tuttavia me muove altra ragione, la quale è questa. Secondo che vogliono coloro, li quali le virtù delle piante ovvero la loro natura investigarono, il lauro tra l'altre più sue proprietà n'ha tre laudevoli e notevoli molto. La prima si è, come noi veggiamo, che mai egli non perde né verdezza, né fronda; la seconda si è che non si truova questo àlbore mai essere stato fulminato, il che di niuno altro leggiamo essere avvenuto; la terza, che egli è odorifero molto, sì come noi sentiamo: le quali tre proprietà estimarono gli antichi inventori di questo onore convenirsi con le virtuose opere de' poeti e de' vittoriosi imperadori. E primieramente la perpetua viridità di queste frondi dissono dimostrare la fama delle costoro opere, cioè di coloro che d'esse si coronavano o coronerebbono nel futuro, sempre dovere stare in vita. Appresso estimarono l'opere di questi cotali essere di tanta potenzia, che né il fuoco della invidia, né la folgore della lunghezza del tempo, la quale ogni cosa consuma, dovesse mai queste potere fulminare, se non come quello albero fulminava la celeste folgore. E oltre a questo diceano queste opere de' già detti per lunghezza di tempo mai dover divenire meno piacevoli e graziose a chi l'udisse o le leggesse, ma sempre dovere essere accettevoli e odorose. Laonde meritamente si confaceva la corona di cotai frondi, più ch'altra, a cotali uomini, gli cui effetti, in tanto quanto vedere possiamo, erano a lei conformi. Per che non senza cagione il nostro Dante era ardentissimo disideratore di tale onore ovvero di cotale testimonia di tanta vertù, quale questa è a coloro li quali degni si fanno di doversene ornare le tempie. Ma tempo è di tornare là onde, intrando in questo ci dipartimmo.
XXV
Carattere di Dante
Fu il nostro poeta, oltre alle cose predette, d'animo alto e disdegnoso molto; tanto che, cercandosi per alcun suo amico, il quale ad istanzia de' suoi prieghi il facea, che egli potesse ritornare in Fiorenza, il che egli oltre ad ogni altra cosa sommamente disiderava, né trovandosi a ciò alcuno modo con coloro li quali il governo della republica allora aveano nelle mani, se non uno, il quale era questo: che egli per certo spazio stesse in prigione, e dopo quello in alcuna solennità publica fosse misericordievolmente alla nostra principale ecclesia offerto, e per conseguente libero e fuori d'ogni condennagione per addietro fatta di lui; la qual cosa parendogli convenirsi e usarsi in qualunque e depressi e infami uomini, e non in altri; per che, oltre al suo maggiore disiderio, preelesse di stare in esilio, anzi che per cotal via tornare in casa sua. Oh isdegno laudevole di magnanimo, quanto virilmente operasti, reprimendo l'ardente disio del ritornare per via meno che degna ad uomo nel grembo della filosofia nutricato!
Molto simigliantemente presunse di sé, né gli parve meno valere, secondo che i suoi contemporanei rapportano, che el valesse; la qual cosa, tra l'altre volte, apparve una notabilmente, mentre che egli era con la sua setta nel colmo del reggimento della republica. Ché, con ciò fosse cosa che per coloro li quali erano depressi fosse chiamato, mediante Bonifazio papa VIII, a ridirizzare lo stato della nostra città, uno fratello ovvero congiunto di Filippo allora re di Francia, il cui nome fu Carlo, si ragunarono ad uno consiglio per provedere a questo fatto tutti li prencipi della setta con la quale esso tenea; e quivi tra l'altre cose providero che ambasceria si dovesse mandare al papa, il quale allora era a Roma, per la quale s'inducesse il detto papa a dovere ostare alla venuta del detto Carlo, ovvero lui, con concordia della setta, la quale reggeva, far venire. E venuto al diliberare chi dovesse esser prencipe di cotale legazione, fu per tutti detto che Dante fosse desso. Alla quale richiesta Dante, alquanto sopra sé stato, disse: <<Se io vo, chi rimane? se io rimango, chi va?>>, quasi esso solo fosse colui che tra tutti valesse, e per cui tutti gli altri valessero. Questa parola fu intesa e raccolta, ma quello che di ciò seguisse non fa al presente proposito, e però, passando avanti, il lascio stare.
Oltre a queste cose, fu questo valente uomo in tutte le sue avversità fortissimo: solo in una cosa non so se io mi dica fu impaziente o animoso, cioè in opera pertenente a parte, poi che in esilio fu, troppo più che alla sua sufficienzia non appartenea, e ch'egli non volea che di lui per altrui si credesse. E acciò che a qual parte fosse così animoso e pertinace appaia, mi pare sia da procedere alquanto più oltre scrivendo.
Io credo che giusta ira di Dio permettesse, già è gran tempo, quasi tutta Toscana e Lombardia in due parti dividersi; delle quali, onde cotali nomi s'avessero, non so; ma l'una si chiamò e chiama <<parte guelfa>>, e l'altra fu <<ghibellina>> chiamata. E di tanta efficacia e reverenzia furono negli stolti animi di molti questi due nomi, che, per difendere quello che alcuno avesse eletto per suo contra il contrario, non gli era di perdere gli suoi beni e ultimamente la vita, se bisogno fosse fatto, malagevole. E sotto questi titoli molte volte le città italiche sostennero di gravissime pressure e mutamenti; e intra l'altre la nostra città, quasi capo e dell'uno nome e dell'altro, secondo il mutamento de' cittadini; intanto che gli maggiori di Dante per guelfi da' ghibellini furono due volte cacciati di casa loro, e egli similemente, sotto il titolo di guelfo, tenne i freni della republica in Firenze. Della quale cacciato, come mostrato è, non da' ghibellini ma da' guelfi, e veggendo sé non potere ritornare, in tanto mutò l'animo, che niuno più fiero ghibellino e a' guelfi avversario fu come lui; e quello di che io più mi vergogno in servigio della sua memoria è che publichissima cosa è in Romagna, lui ogni feminella, ogni piccol fanciullo ragionante di parte e dannante la ghibellina, l'avrebbe a tanta insania mosso, che a gittare le pietre l'avrebbe condotto, non avendo taciuto. E con questa animosità si visse infino alla morte.
Certo, io mi vergogno dovere con alcuno difetto maculare la fama di cotanto uomo; ma il cominciato ordine delle cose in alcuna parte il richiede; perciò che, se nelle cose meno che laudevoli in lui mi tacerò, io torrò molta fede alle laudevoli già mostrate. A lui medesimo adunque mi scuso, il quale per avventura me scrivente con isdegnoso occhio d'alta parte del cielo ragguarda.
Tra cotanta virtù, tra cotanta scienzia, quanta dimostrato è di sopra essere stata in questo mirifico poeta, trovò ampissimo luogo la lussuria, e non solamente ne' giovani anni, ma ancora ne' maturi. Il quale vizio, come che naturale e comune e quasi necessario sia, nel vero non che commendare, ma scusare non si può degnamente. Ma chi sarà tra' mortali giusto giudice a condennarlo? Non io. Oh poca fermezza, oh bestiale appetito degli uomini, che cosa non possono le femmine in noi, s'elle vogliono, che, eziandio non volendo, posson gran cose? Esse hanno la vaghezza, la bellezza e il naturale appetito e altre cose assai continuamente per loro ne' cuori degli uomini procuranti; e che questo sia vero, lasciamo stare quello che Giove per Europa, o Ercule per Iole, o Paris per Elena facessero, ché, perciò che poetiche cose sono, molti di poco sentimento le dirien favole; ma mostrisi per le cose non convenevoli ad alcuno di negare. Era ancora nel mondo più che una femina quando il nostro primo padre lasciato il comandamento fattogli dalla propia bocca di Dio, s'accostò alle persuasioni di lei? Certo no. E David, non ostante che molte n'avesse, solamente veduta Bersabè per lei dimenticò Iddio, il suo regno, sé e la sua onestà, e adultero prima e poi omicida divenne: che si dee credere che egli avesse fatto, se ella alcuna cosa avesse comandato? E Salomone al cui senno niuno, dal figliuolo di Dio in fuori, aggiunse mai, non abbandonò colui che savio l'aveva fatto, e per piacere a una femmina s'inginocchiò e adorò Baalim? Che fece Erode? che altri molti, da niuna altra cosa tirati che dal piacer loro? Adunque tra tanti e tali non iscusato, ma, accusato con assai meno curva fronte che solo, può passare il nostro poeta. E questo basti al presente de' suoi costumi più notabili avere contato.
XXVI
Delle opere composte da Dante
Compose questo glorioso poeta più opere ne' suoi giorni, delle quali fare ordinata memoria credo che sia convenevole, acciò che né alcuno delle sue s'intitolasse, né a lui fossero per avventura intitolate l'altrui. Egli primieramente, duranti ancora le lagrime della morte della sua Beatrice, quasi nel suo ventesimosesto anno compose in un volumetto, il quale egli intitolò Vita nova, certe operette, sì come sonetti e canzoni, in diversi tempi davanti in rima fatte da lui, maravigliosamente belle; di sopra da ciascuna partitamente e ordinatamente scrivendo le cagioni che a quelle fare l'avea[n] mosso, e di dietro ponendo le divisioni delle precedenti opere. E come che egli d'avere questo libretto fatto, negli anni più maturi si vergognasse molto, nondimeno, considerata la sua età, è egli assai bello e piacevole, e massimamente a' volgari .
Appresso questa compilazione più anni, ragguardando egli della sommità del governo della republica, sopra la quale stava, e veggendo in grandissima parte, sì come di così fatti luoghi si vede, qual fosse la vita degli uomini, e quali fossero gli errori del vulgo, e come fossero pochi i disvianti da quello, e di quanto onore degni fossero, e quegli, che a quello s'accostassero, di quanta confusione, dannando gli studii di questi cotali e molto più li suoi commendando, gli venne nell'animo uno alto pensiero, per lo quale ad una ora, cioè in una medesima opera, propose, mostrando la sua sofficienzia, di mordere con gravissime pene i viziosi, e con altissimi premii li valorosi onorare, e a sé perpetua gloria apparecchiare. E, perciò che, come già è mostrato, egli aveva a ogni studio preposta la poesia, poetica opera estimò di comporre. E, avendo molto davanti premeditato quello che fare dovesse, nel suo trentacinquesimo anno si cominciò a dare al mandare ad effetto ciò che davanti premeditato avea, cioè a volere secondo i meriti e mordere e premiare, secondo la sua diversità, la vita degli uomini. La quale, perciò che conobbe essere di tre maniere, cioè viziosa, o da' vizii partentesi e andante alla vertù, o virtuosa, quella in tre libri, dal mordere la viziosa cominciando e finendo nel premiare la virtuosa, mirabilmente distinse in un volume, il quale tutto intitolò Comedia. De' quali tre libri egli ciascuno distinse per canti e i canti per rittimi, sì come chiaro si vede; e quello in rima volgare compose con tanta arte, con sì mirablle ordine e con sì bello, che niuno fu ancora che giustamente quello potesse in alcuno atto riprendere. Quanto sottilmente egli in esso poetasse pertutto, coloro, alli quali è tanto ingegno prestato che 'ntendano, il possono vedere. Ma, sì come noi veggiamo le gran cose non potersi in brieve tempo comprendere, e per questo conoscer dobbiamo così alta, così grande, così escogitata impresa,come fu tutti gli atti degli uomini e i loro meriti poeticamente volere sotto versi volgari e rimati racchiudere, non essere stato possibile in picciolo spazio avere al suo fine recata, e massimamente da uomo, il quale da molti e varii casi della Fortuna, pieni tutti d'angoscia e d'amaritudine venenati, sia stato agitato (come di sopra mostrato è che fu Dante): per che dall'ora che di sopra è detta che egli a cosi alto lavorio si diede infino allo stremo della sua vita, come che altre opere, come apparirà, non ostante questa, componesse in questo mezzo, gli fu fatica continua. Né fia di soperchio in parte toccare d'alcuni accidenti intorno al principio e alla fine di quella avvenuti.
Dico che, mentre che egli era più attento al glorioso lavoro, e già della prima parte di quello, la quale intitola Inferno, aveva composti sette canti, mirabilmente fingendo, e non miga come gentile, ma come cristianissimo poetando, cosa sotto questo titolo mai avanti non fatta, sopravvenne il gravoso accidente della sua cacciata, o fuga che chiamar si convegna, per lo quale egli e quella e ogni altra cosa abbandonata, incerto di se medesimo, più anni con diversi amici e signori andò vagando. Ma, come noi dovemo certissimamente credere a quello che Iddio dispone niuna cosa contraria la Fortuna potere operare, per la quale, se forse vi può porre indugio, istôrla possa dal debito fine, avvenne che alcuno per alcuna sua scrittura forse a lui opportuna, cercando fra cose di Dante in certi forzieri state fuggite subitamente in luoghi sacri, nel tempo che tumultuosamente la ingrata e disordinata plebe gli era, più vaga di preda che di giusta vendetta, corsa alla casa, trovò li detti sette canti stati da Dante composti, gli quali con ammirazione, non sappiendo che si fossero, lesse, e piacendogli sommamente, e con ingegno sottrattigli del luogo dove erano, gli portò ad un nostro cittadino, il cui nome fu Dino di messer Lambertuccio, in quegli tempi famosissimo dicitore per rima in Firenze, e mostrogliele. Li quali veggendo Dino, uomo d'alto intelletto, non meno che colui che portati gliele avea, si maravigliò sì per lo bello e pulito e ornato stile del dire, sì per la profondità del senso, il quale sotto la bella corteccia delle parole gli pareva sentire nascoso: per le quali cose agevolmente insieme col portatore di quegli, e sì ancora per lo luogo onde tratti gli avea, estimò quegli essere, come erano, opera stata di Dante. E, dolendosi quella essere imperfetta rimasa, come che essi non potessero seco presummere a qual fine fosse il termine suo, fra loro diliberarono di sentire dove Dante fosse, e quello, che trovato avevan mandargli, acciò che, se possibile fosse, a tanto principio desse lo 'mmaginato fine. E, sentendo dopo alcuna investigazione lui essere appresso il marchese Morruello, non a lui, ma al marchese scrissono il loro disiderio, e mandarono li sette canti; gli quali poi che il marchese, uomo assai intendente, ebbe veduti e molto seco lodatigli, gli mostrò a Dante, domandandolo se esso sapea cui opera stati fossero; li quali Dante riconosciuti subito, rispose che sua. Allora il pregò il marchese che gli piacesse di non lasciare senza debito fine sì alto principio. <<Certo>> disse Dante <<io mi credea nella ruina delle mie cose questi con molti altri miei libri avere perduti, e perciò, sì per questa credenza e sì per la moltitudine dell'altre fatiche per lo mio esilio sopravvenute, del tutto avea l'alta fantasia, sopra quest'opera presa, abbandonata; ma, poi che la Fortuna inopinatamente me gli ha ripinti dinanzi, e a voi aggrada, io cercherò di ritornarmi a memoria il primo proposito, e procederò secondo che data mi fia la grazia>>. E reassunta non sanza fatica, dopo alquanto tempo la fantasia lasciata, seguì: <<Io dico, seguitando, ch'assai prima>> etc.; dove assai manifestamente, chi ben riguarda, può la ricongiunzione dell'opera intermessa conoscere.
Ricominciata adunque da Dante la magnifica opera, non, forse secondo che molti estimerebbono, senza più interromperla la perdusse alla fine; anzi più volte, secondo che la gravità de' casi sopravvegnenti richiedea, quando mesi e quando anni, senza potervi operare alcuna cosa, mise in mezzo; né tanto si poté avacciare, che prima nol sopraggiugnesse la morte, che egli tutta publicare la potesse. Egli era suo costume, quale ora sei o otto o più o meno canti fatti n'avea, quegli, prima che alcuna altro gli vedesse, donde che egli fosse, mandare a messer Cane della Scala, il quale egli oltre a ogni altro uomo avea in reverenza; e, poi che da lui eran veduti, ne facea copia a chi la ne volea. E in così fatta maniera avendogliele tutti fuori che gli ultimi tredici canti, mandati, e quegii avendo fatti, né ancora mandatigli; avvenne che egli, senza avere alcuna memoria di lasciargli, si morì. E, cercato da que' che rimasero, e figliuoli e discepoli, più volte e in più mesi, fra ogni sua scrittura, se alla sua opera avesse fatta alcuna fine, né trovandosi per alcun modo li canti residui, essendone generalmente ogni suo amico cruccioso, che Iddio non l'aveva almeno tanto prestato al mondo ch'egli il picciolo rimanente della sua opera avesse potuto compiere, dal più cercare, non trovandogli, s'erano, disperati, rimasi.
Eransi Iacopo e Piero, figliuoli di Dante, de' quali ciascuno era dicitore in rima, per persuasioni d'alcuni loro amici, messi a volere, in quanto per loro si potesse, supplire la paterna opera, acciò che imperfetta non procedesse; quando a Iacopo, il quale in ciò era molto più che l'altro fervente, apparve una mirabile visione, la quale non solamente dalla stolta presunzione il tolse, ma gli mostrò dove fossero li tredici canti, li quali alla divina Comedia mancavano, e da loro non saputi trovare.
Raccontava uno valente uomo ravignano, il cui nome fu Piero Giardino, lungamente discepolo stato di Dante, che, dopo l'ottavo mese della morte del suo maestro, era una notte, vicino all'ora che noi chiamiamo <<matutino>>, venuto a casa sua il predetto Iacopo, e dettogli sé quella notte, poco avanti a quell'ora, avere nel sonno veduto Dante suo padre, vestito di candidissimi vestimenti e d'una luce non usata risplendente nel viso, venire a lui; il quale gli parea domandare s'egli vivea, e udire da lui per risposta di sì, ma della vera vita, non della nostra; per che, oltre a questo, gli pareva ancora domandare, se egli avea compiuta la sua opera anzi il suo passare alla vera vita, e, se compiuta l'avea, dove fosse quello che vi mancava, da loro giammai non potuto trovare. A questo gli parea la seconda volta udire per risposta: <<Sì, io la compie'>>; e quinci gli parea che 'l prendesse per mano e menasselo in quella camera dove era uso di dormire quando in questa vita vivea; e, toccando una parte di quella, dicea: <<Egli è qui quello che voi tanto avete cercato>>. E questa parola detta, ad una ora il sonno e Dante gli parve che si partissono. Per la qual cosa affermava sé non avesse potuto stare senza venirgli a significare ciò che veduto avea, acciò che insieme andassero a cercare nel luogo mostrato a lui, il quale egli ottimamente nella memoria aveva segnato, a vedere se vero spirito o falsa delusione questo gli avesse disegnato. Per la quale cosa, restando ancora gran pezzo di notte, mossisi insieme, vennero al mostrato luogo, e quivi trovarono una stuoia, al muro confitta, la quale leggiermente levatane, videro nel muro una finestretta, da niuno di loro mai più veduta, né saputo ch'ella vi fosse, e in quella trovarono alquante scritte, tutte per l'umidità del muro muffate e vicine al corrompersi se guari più state vi fossero; e quelle pianamente dalla muffa purgate, leggendole, videro contenere li tredici canti tanto da loro cercati. Per la qual cosa lietissimi, quegli riscritti, secondo l'usanza dell'autore prima gli mandarono a messer Cane, e poi alla imperfetta opera ricongiunsono come si convenia. In cotale maniera l'opera, in molti anni compilata, si vide finita.
Muovono molti, e intra essi alcuni savi uomini, generalmente una quistione così fatta: che con ciò fosse cosa Dante fosse in iscienzia solennissimo uomo, perché a comporre così grande, di sì alta materia e sì notabile libro, come è questa sua Comedia, nel fiorentino idioma si disponesse; perché non più tosto in versi latini, come gli altri poeti precedenti hanno fatto. A così fatta domanda rispondere, tra molte ragioni, due a l'altre principali me ne occorrono. Delle quali la prima è per fare utilità più comune a' suoi cittadini e agli altri Italiani: conoscendo che, se metricamente in latino, come gli altri poeti passati, avesse scritto, solamente a' letterati avrebbe fatto utile; scrivendo in volgare fece opera mai più non fatta, e non tolse il non potere esser inteso da' letterati, e mostrando la bellezza del nostro idioma e la sua eccellente arte in quello, e diletto e intendimento di sé diede agl'idioti, abbandonati per addietro da ciascheduno. La seconda ragione, che a questo il mosse, fu questa. Vedendo egli li liberali studii del tutto abbandonati, e massimamente da' prencipi e dagli altri grandi uomini, a' quali si soleano le poetiche fatiche intitolare, e per questo e le divine opere di Virgilio e degli altri solenni poeti non solamente essere in poco pregio divenute, ma quasi da' più disprezzate; avendo egli incominciato, secondo che l'altezza della materia richiedea, in questa guisa:
Ultima regna canam, fluido contermina mundu
spiritibus quae lata patent, quae premia solvunt
pro meritis cuicumque suis, etc.
i lasciò istare; e, immaginando invano le croste del pane porsi alla bocca di coloro che ancora il latte suggano, in istile atto a' moderni sensi ricominciò la sua opera e perseguilla in volgare.
Questo libro della Comedia, secondo il ragionare d'alcuno, intitolò egli a tre solennissimi uomini italiani, secondo la sua triplice divisione, a ciascuno la sua, in questa guisa: la prima parte, cioè lo 'Nferno, intitolò a Uguiccione della Faggiuola, il quale allora in Toscana signore di Pisa era mirabilmente glorioso; la seconda parte, cioè il Purgatoro, intitolò al marchese Moruello Malespina; la terza parte, cioè il Paradiso, a Federigo III re di Cicilia. Alcuni vogliono dire lui averlo intitolato tutto a messer Cane della Scala; ma, quale si sia di queste due la verità, niuna cosa altra n'abbiamo che solamente il volontario ragionare di diversi; né egli è sì gran fatto che solenne investigazione ne bisogni.
Similemente questo egregio autore nella venuta d'Arrigo VII imperadore fece un libro in latina prosa, il cui titolo è Monarchia, il quale, secondo tre quistioni le quali in esso ditermina, in tre libri divise. Nel primo loicalmente disputando, pruova che a ben essere del mondo sia di necessità essere imperio: la quale è la prima quistione. Nel secondo, per argomenti istoriografi procedendo, mostra Roma di ragione ottenere il titolo dello imperio: ch'è la seconda quistione. Nel terzo, per argomenti teologi pruova l'autorità dello 'mperio immediatamente procedere da Dio, e non mediante alcuno suo vicario, come li chierici pare che vogliano; ch'è la terza quistione.
Questo libro più anni dopo la morte dell'auttore fu dannato da messer Beltrando cardinale del Poggetto e legato di papa nelle parti di Lombardia, sedente Giovanni papa XXII. E la cagione fu perciò che Lodovico, duca di Baviera, dagli elettori della Magna eletto in re de' Romani, e venendo per la sua coronazione a Roma, contra il piacere del detto Giovanni papa essendo in Roma, fece, contra gli ordinamenti ecclesiastici, uno frate minore, chiamato frate Pietro della Corvara, papa, e molti cardinali e vescovi; e quivi a questo papa si fece coronare. E, nata poi in molti casi della sua auttorità quistione, egli e' suoi seguaci, trovato questo libro, a difensione di quella e di sé molti degli argomenti in esso posti cominciarono a usare; per la qual cosa il libro, il quale infino allora appena era saputo, divenne molto famoso. Ma poi, tornatosi il detto Lodovico nella Magna, e li suoi seguaci, e massimamente i cherici, venuti al dichino e dispersi, il detto cardinale, non essendo chi a ciò s'opponesse, avuto il soprascritto libro, quello in publico, sì come cose eretiche contenente, dannò al fuoco. E il simigliante si sforzava di fare dell'ossa dell'auttore a etterna infamia e confusione della sua memoria, se a ciò non si fosse opposto un valoroso e nobile cavaliere fiorentino, il cui nome fu Pino della Tosa, il quale allora a Bologna, dove ciò si trattava, si trovò, e con lui messer Ostagio da Polenta, potente ciascuno assai nel cospetto del cardinale di sopra detto.
Oltre a questi compose il detto Dante due egloge assai belle, le quali furono intitolate e mandate da lui, per risposta di certi versi mandatigli, a maestro Giovanni del Virgilio, del quale di sopra altra volta è fatta menzione.
Compuose ancora uno comento in prosa in fiorentino volgare sopra tre delle sue canzoni distese, come che egli appaia lui avere avuto intendimento, quando il cominciò, di commentarle tutte, bene che poi, o per mutamento di proposito o per mancarnento di tempo che avvenisse, più commentate non se ne truovano da lui; e questo intitolò Convivio, assai bella e laudevole operetta.
Appresso, già vicino alla sua morte, compuose uno libretto in prosa latina, il quale egli intitolò De vulgari eloquentia, dove intendea di dare dottrina, a chi imprendere la volesse, del dire in rima; e come che per lo detto libretto apparisca lui avere in animo di dovere in ciò comporre quattro libri, o che più non ne facesse dalla morte soprapreso, o che perduti sieno gli altri, più non appariscono che due solamente.
Fece ancora questo valoroso poeta molte pístole prosaice in latino, delle quali ancora appariscono assai. Compuose molte canzoni distese, sonetti e ballate assai e d'amore e morali, oltre a quelle che nella sua Vita nova appariscono: delle quali cose non curo di fare speziale menzione al presente.
In così fatte cose, quali di sopra sono dimostrate, consumò il chiarissimo uomo quella parte del suo tempo, la quale egli agli amorosi sospiri, alle pietose lacrime, alle sollecitudini private e pubblice e a' varii fluttuamenti della iniqua Fortuna poté imbolare: opere troppo più a Dio e agli uomini accettevoli che gl'inganni, le fraudi, le menzogne, le rapine e' tradimenti, li quali la maggior parte degli uomini usano oggi, cercando per diverse vie uno medesimo termine, cioè il divenire ricco, quasi in quelle ogni bene, ogni onore, ogni beatitudine stea. O menti sciocche, una brieve particella d'una ora separarà dal caduco corpo lo spirito, e tutte queste vituperevoli fatiche annullerà, e il tempo, nel quale ogni cosa suol consumarsi, o annullerà prestamente la memoria del ricco, o quella per alcuno spazio con gran vergogna di lui serverà! Che del nostro poeta certo non avverrà; anzi, sì come noi veggiamo degli strumenti bellici addivenire, che per l'usargli diventan più chiari, così avverrà del suo nome: egli, per essere stropicciato dal tempo, sempre diventerà più lucente. E perciò fatichi chi vuole nelle sue vanità, e bastigli l'esser lasciato fare, senza volere, con riprensione da se medesimo non intesa, l'altrui virtuoso operare andar mordendo.
XXVII
Ricapitolazione
Mostrato è sommariamente qual fosse l'origine, gli studi e la vita e' costumi, e quali sieno l'opere state dello splendido uomo Dante Alighieri, poeta chiarissimo, e con esse alcuna altra cosa, facendo transgressione, secondo che conceduto m'ha Colui che d'ogni grazia è donatore. Ben so: per molti altri molto meglio e più discretamente si saria potuto mostrare; ma chi fa quel che sa, più non gli è richiesto. Il mio avere scritto come io ho saputo, non toglie il poter dire ad uno altro, che meglio ciò creda di scrivere che io non ho fatto; anzi forse, se io in parte alcuna ho errato, darò materia altrui di scrivere, per dire il vero, del nostro Dante, ove infino a qui niuno truovo averlo fatto. Ma la mia fatica non è ancora alla sua fine. Una particella, nel processo promessa di questa operetta, mi resta a dichiarare, cioè il sogno della madre del nostro poeta, quando in lui era gravida, veduto da lei; del quale io, quanto più brievemente saprò e potrò, intendo di dilivrarmi, e porre fine al ragionare.
XXVIII
Ancora il sogno della madre di Dante
Vide la gentil donna nella sua gravidezza sé a piè d'uno altissimo alloro, allato a una chiara fontana, partorire uno figliuolo, il quale di sopra altra volta narrai, in brieve tempo, pascendosi delle bache di quello alloro cadenti e dell'onde della fontana, divenire un gran pastore e vago molto delle frondi di quello alloro sotto il quale era; a le quali avere mentre che egli si sforzava, le parea che egli cadesse; e subitamente non lui, ma di lui uno bellissimo paone le parea vedere. Dalla quale maraviglia la gentil donna commossa, ruppe, senza vedere di lui più avanti, il dolce sonno.
XXIX
Spiegazione del sogno
La divina bontà, la quale ab ecterno, sì come presente, ogni cosa futura previde, suole, da sua propia benignità mossa, quale ora la natura, sua generale ministra, è per producere alcuno inusitato effetto infra' mortali, di quello con alcuna dimostrazione o in segno o in sogno o in altra maniera farci avveduti, acciò che dalla predimostrazione argomento prendiamo ogni conoscenza consistere nel Signore della natura producente ogni cosa; la quale predimostrazione, se bene si riguarda, ne fece nella venuta del poeta, del quale tanto di sopra è parlato, nel mondo. E a quale persona la poteva egli fare che con tanta affezione e veduta e servata l'avesse, quanto colei che della cosa mostrata doveva essere madre, anzi già era? Certo a niuna. Mostrollo dunque a lei, e quello che egli a lei mostrasse ci è già manifesto per la scrittura di sopra; ma quello che egli intendesse con più aguto occhio è da vedere. Parve adunque alla donna partorire un figliuolo, e certo così fece ella infra picciolo termine dalla veduta visione. Ma che vuole significare l'alto alloro sotto il quale il partorisce, è da vedere.
Oppinione è degli astrologi e di molti naturali filosofi, per la vertù e influenzia de' corpi superiori gl'inferiori e producersi e nutricarsi, e, se potentissima ragione da divina grazia illuminata non resiste, guidarsi. Per la qual cosa, veduto quale corpo superiore sia più possente nel grado che sopra l'orizzonte sale in quella ora che alcun nasce, secondo quello cotale corpo più possente, anzi secondo le sue qualità, dicono del tutto il nato disporsi . Per che per lo alloro, sotto il quale alla donna pareva il nostro Dante dare al mondo, mi pare che sia da intendere la disposizione del cielo la quale fu nella sua natività, mostrante sé essere tale che magnanimità e eloquenzia poetica dimostrava; le quali due cose significa l'alloro, àlbore di Febo, e delle cui frondi li poeti sono usi di coronarsi, come di sopra è già mostrato assai.
Le bache, delle quali nutrimento prendeva il fanciullo nato, gli effetti da così fatta disposizione di cielo, quale è dimostrata, già proceduti, intendo; li quali sono i libri poetici e le loro dottrine, da' quali libri e dottrine fu altissimamente nutricato, cioè ammaestrato il nostro Dante.
Il fonte chiarissimo, de la cui acqua le parea che questi bevesse, niuna altra cosa giudico che sia da intendere se non l'ubertà della filosofica dottrina morale e naturale; la quale si come dalla ubertà nascosa nel ventre della terra procede, così e queste dottrine dalle copiose ragioni dimostrative, che terrena ubertà si possono dire, prendono essenza e cagione; senza le quali, così come il cibo non può bene disporsi, senza bere, negli stomaci di chi 'l prende, non si può alcuna scienzia bene negl'intelletti adattare di nessuno, se dalli filosofici dimostramenti non v'è ordinata e disposta. Per che ottimamente possiamo dire, lui con le chiare onde, cioè con la filosofia, disporre nel suo stomaco, cioè nel suo intelletto, le bache delle quali si pasce, cioè la poesia, la quale, come già è detto, con tutta la sua sollecitudine studiava.
Il divenire subitamente pastore ne mostra la eccellenzia del suo ingegno, in quanto subitamente; il quale fu tanto e tale, che in brieve spazio di tempo comprese per istudio quello che opportuno era a divenire pastore, cioè datore di pastura agli altri ingegni di ciò bisognosi. E sì come assai leggermente ciascuno può comprendere, due maniere sono di pastori: l'una sono pastori corporali, l'altra spirituali. Li corporali pastori sono di due maniere, delle quali la prima è quella di coloro che volgarmente da tutti sono appellati <<pastori>>, cioè i guardatori delle pecore o de' buoi o di qualunque altro animale; la seconda maniera sono i padri delle famiglie, dalla sollecitudine de' quali convegnono essere e pasciuti e guardati e governati la gregge de' figliuoli e de' servidori e degli altri suggetti di quegli. Li spirituali pastori similmente si possono dire di due maniere, delle quali l'una è quella di coloro li quali pascono l'anime de' viventi della parola di Dlo; e questi sono li prelati, i predicatori e' sacerdoti, nella cui custodia sono commesse l'anime labili di qualunque sotto il governo a ciascuno ordinato dimora; l'altra è quella di coloro li quali, d'ottima dottrina, o leggendo quello che gli passati hanno scritto, o scrivendo di nuovo ciò che loro pare o non tanto chiaro mostrato o omesso, informano e l'anime e gl'intelletti degli ascoltanti o de' leggenti, li quali generalmente dottori, in qual che facultà si sia, sono appellati. Di questa maniera di pastori subitamente, cioè in poco tempo, divenne il nostro poeta. E che ciò sia vero, lasciando stare l'altre opere compilate da lui, riguardisi la sua Commedia, la quale con la dolcezza e bellezza del testo pasce non solamente gli uomini, ma i fanciulli e le femine; e con mirabile soavità de' profondissimi sensi sotto quella nascosi, poi che alquanto gli ha tenuti sospesi, ricrea e pasce gli solenni intelletti.
Lo sforzarsi ad avere di quelle frondi, il frutto delle quali l'ha nutricato, niuna altra cosa ne mostra che l'ardente disiderio avuto da lui, come di sopra si dice, della corona laurea; la quale per nulla altro si disidera, se non per dare testimonianza del frutto. Le quali frondi mentre che egli più ardentemente disiderava, lui dice che vide cadere; il quale cadere niuna altra cosa fu se non quello cadimento che tutti facciamo senza levarci, cioè il morire; il quale, se bene si ricorda di ciò che di sopra è detto, gli avvenne quando più la sua laureazione disiava.
Seguentemente dice che di pastore subitamente il vide divenuto un paone: per lo qual mutamento assai bene la sua posterità comprendere possiamo, la quale, come che nell'altre sue opere stea, sommamente vive nella sua Commedia, la quale, secondo il mio giudicio, ottimamente è conforme al paone, se le propietà de l'uno e de l'altra si guarderanno. Il paone tra l'altre sue propietà per quello che appaia, n'ha quattro notabili. La prima si è ch'egli si ha penna angelica, e in quella ha cento occhi; la seconda si è che egli ha sozzi piedi e tacita andatura; la terza si è ch'egli ha voce molto orribile a udire; la quarta e ultima si è che la sua carne è odorifera e incorruttibile. Queste quattro cose pienamente ha in sé la Comedia del nostro poeta; ma, perciò che acconciamente l'ordine posto di quelle non si può seguire, come verranno più in concio or l'una ora l'altra le verrò adattando, e comincerommi da l'ultima.
Dico che il senso della nostra Comedia è simigliante alla carne del paone, perciò che esso, o morale o teologo che tu il dèi a quale parte più del libro ti piace, è semplice e immutabile verità, la quale non solamente corruzione non può ricevere, ma quanto più si ricerca, maggiore odore della sua incorruttibile soavità porge a' riguardanti. E di ciò leggiermente molti esempli si mostrerebbero, se la presente materia il sostenesse; e però, senza porne alcuno, lascio il cercarne agl'intendenti.
Angelica penna dissi che copria questa carne; e dico <<angelica>>, non perché io sappia se così fatte o altramenti gli angeli n'abbiano alcuna, ma, congetturando a guisa de' mortali, udendo che gli angeli volino, avviso loro dovere avere penne; e, non sappiendone alcuna fra questi nostri uccelli più bella, né più peregrina, né così come quella del paone, imagino loro così doverle avere fatte; e però non quelle da queste, ma queste da quelle dinomino perché più nobile uccello è l'angelo che 'l paone. Per le quali penne, onde questo corpo si cuopre, intendo la bellezza della peregrina istoria, che nella superficie della lettera della Comedia suona: sì come l'essere disceso in inferno e veduto l'abito del luogo e le varie condizioni degli abitanti; essere ito su per la montagna del purgatorio, udite le lagrime e i lamenti di coloro che sperano d'essere santi; e quindi salito in paradiso e la ineffabile gloria de' beati veduta. Istoria tanto bella e tanto peregrina, quanto mai da alcuno più non fu pensata non che udita, distinta in cento canti, sì come alcuni vogliono il paone avere nella coda cento occhi. Li quali canti così provvedutamente distinguono le varietà del trattato opportune, come gli occhi distinguono i colori o la diversità delle cose obiette. Dunque bene è d'angelica penna coperta la carne del nostro paone.
Sono similmente a questo paone li piè sozzi e l'andatura queta: le quali cose ottimumente alla Comedia del nostro auttore si confanno, perciò che, sì come sopra i piedi pare che tutto il corpo si sostenga, così prima facie pare che sopra il modo del parlare ogni opera in iscrittura composta si sostenga; e il parlare volgare, nel quale e sopra il quale ogni giuntura della Comedia si sostiene, a rispetto dell'alto e maestrevole stilo letterale che usa ciascun altro poeta, è sozzo, come che egli sia più che gli altri belli agli odierni ingegni conforme. L'andar queto significa l'umiltà dello stilo, il quale nelle commedie di necessità si richiede, come color sanno che intendono che vuole dire <<comedia>>.
Ultimamente dico che la voce del paone è orribile: la quale, come che la soavità delle parole del nostro poeta sia molta quanto alla prima apparenza, sanza niuno fallo a chi bene le medolle dentro ragguarderà, ottimamente a lui si confà. Chi più orribilmente grida di lui, quando con invenzione acerbissima morde le colpe di molti viventi, e quelle de' preteriti gastiga? Qual voce è più orrida che quella del gastigante a colui ch'è disposto a peccare? Certo niuna. Egli ad una ora colle sue dimostrazioni spaventa i buoni e contrista i malvagi; per la qual cosa quanto in questo adopera, tanto veramente orrida voce si può dire avere. Per la qual cosa, e per l'altre di sopra toccate, assai appare, colui, che fu vivendo pastore, dopo la morte essere divenuto paone, sì come credere si puote essere stato per divina spirazione nel sonno mostrato alla cara madre.
Questa esposizione del sogno della madre del nostro poeta conosco essere assai superficialmente per me fatta; e questo per più cagioni. Primieramente, perché forse la sufficienzia, che a tanta cosa si richiederebbe, non c'era; appresso, posto che stata ci fosse, la principale intenzione nol patia; ultimamente, quando e la sufficienzia ci fosse stata e la materia l'avesse patito, era ben fatto da me non essere più detto che detto sia, acciò che ad altrui più di me sofficiente e più vago alcuno luogo si lasciasse di dire. E perciò quello, che per me detto n'è, quanto a me dee convenevolmente bastare; e quel, che manca, rimanga nella sollecitudine di chi segue.
XXX
Conclusione
La mia piccioletta barca è pervenuta al porto, al quale ella dirizzò la proda partendosi dallo opposito lito: e come che il peleggio sia stato picciolo, e il mare, il quale ella ha solcato, basso e tranquillo, nondimeno, di ciò che senza impedimento è venuta, ne sono da rendere grazie a Colui che felice vento ha prestato alle sue vele. Al quale con quella umiltà, con quella divozione, con quella affezione che io posso maggiore, non quelle, né così grandi come si converrieno, ma quelle che io posso, rendo, benedicendo in etterno il suo nome e 'l suo valore.
DE ORIGINE, VITA, STUDIIS ET MORIBUS CLARISSIMI VIRI DANTIS ALIGERII FIORENTINI, POETE ILLUSTRIS, ET DE OPERIBUS COMPOSITIS AB EODEM, EXPLICIT

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Ultimo Aggiornamento: 18/07/05 01.28.48