XXI |
Disgressione su''origine della poesia |
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La prima gente ne' primi secoli, come che rozzissima e inculta fosse,
ardentissima fu di conoscere il vero con istudio, sì come noi veggiamo ancora
naturalmente disiderare a ciascuno. La quale veggendo il cielo muoversi con ordinata legge
continuo, e le cose terrene avere certo ordine e diverse operazioni in diversi tempi,
pensarono di necessità dovere essere alcuna cosa, dalla quale tutte queste cose
procedessero, e che tutte l'altre ordinasse, sì come superiore potenzia da niun'altra
potenziata. E, questa investigazione seco diligentemente avuta, s'immaginarono quella, la
quale <<divinità>> ovvero <<deità>> nominarono, con ogni
cultivazione, con ogni onore e con più che umano servigio esser da venerare. E perciò
ordinarono, a reverenza del nome di questa suprema potenzia, ampissime ed egregie case, le
quali ancora estimarono fossero da separare così di nome, come di forma separate erano,
da quelle che generalmente per gli uomini si abitavano; e nominaronle
<<templi>>. E similmente avvisarono doversi ministri, li quali fossero sacri
e, da ogni altra mondana sollecitudine rimoti, solamente a' divini servigi vacassero, per
maturità, per età e per abito, più che gli altri uomini, reverendi; gli quali
appellarono <<sacerdoti>>. E oltre a questo, in rappresentamento della
immaginata essenzia divina, fecero in varie forme magnifiche statue, e a' servigi di
quella vasellamenti d'oro e mense marmoree e purpurei vestimenti e altri apparati assai
pertinenti a' sacrificii per loro istabiliti. E, acciò che a questa cotale potenzia
tacito onore o quasi mutolo non si facesse, parve loro che con parole d'alto suono essa
fosse da umiliare e alle loro necessità rendere propizia. E così come essi estimavano
questa eccedere ciascuna altra cosa di nobilità, così vollono che, di lungi da ogni
plebeio o publico stilo di parlare, si trovassero parole degne di ragionare dinanzi alla
divinità, nelle quali le si porgessero sacrate lusinghe. E oltre a questo, acciò che
queste parole paressero avere più d'efficacia, vollero che fossero sotto legge di certi
numeri composte, per li quali alcuna dolcezza si sentisse, e cacciassesi il rincrescimento
e la noia. E certo, questo non in volgar forma o usitata, ma con artificiosa ed esquisita
e nuova convenne che si facesse. La qual forma li greci appellano poetes; laonde nacque,
che quello che in cotale forma fatto fosse s'appellasse poesis; e quegli, che ciò
facessero o cotale modo di parlare usassono, si chiamassero "poeti". |
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Questa adunque fu la prima origine del nome della poesia, e per
consequente de' poeti, come che altri n'assegnino altre ragioni, forse buone: ma questa mi
piace più. |
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Questa buona e laudevole intenzione della rozza età mosse molti a
diverse invenzioni nel mondo multiplicante per apparere; e dove i primi una sola deità
onoravano, mostrarono i seguenti molte esserne, come che quella una dicessono oltre ad
ogni altra ottenere il principato; le quali molte vollero che fossero il Sole, la Luna,
Saturno, Iove e ciascuno degli altri de' sette pianeti, dagli loro effetti dando argomento
alla loro deità; e da questi vennero a mostrare ogni cosa utile agli uomini, quantunque
terrena fosse, deità essere, sì come il fuoco, l'acqua, la terra e simiglianti. Alle
quali tutte e versi e onori e sacrificii s'ordinarono. E poi susseguentemente cominciarono
diversi in diversi luoghi, chi con uno ingegno, chi con un altro, a farsi sopra la
moltitudine indòtta della sua contrada maggiori; diffinendo le rozze quistioni, non
secondo scritta legge, ché non l'aveano ancora, ma secondo alcuna naturale equità della
quale più uno che un altro era dotato; dando alla loro vita e alli loro costumi ordine,
dalla natura medesima più illuminati; resistendo con le loro corporali forze alle cose
avverse possibili ad avvenire; e a chiamarsi <<re>>, e mostrarsi alla plebe e
con servi e con ornamenti non usati infino a que' tèmpi dagli uomini; a farsi ubbidire; e
ultimamente a farsi adorare. Il che, solo che fosse chi 'l presumesse, sanza troppa
difflcultà avvenia: perciò che a' rozzi popoli parevano, così vedendogli, non uomini ma
iddii. Questi cotali, non fidandosi tanto delle lor forze, cominciarono ad aumentare le
religioni, e con la fede di quelle ad impaurire i suggetti e a strignere con sacramenti
alla loro obbedienza quegli li quali non vi si sarebbono potuti con forza costrignere. E
oltre a questo diedono opera a deificare li lor padri, li loro avoli e li loro maggiori,
acciò che più fossero e temuti e avuti in reverenzia dal vulgo. Le quali cose non si
poterono comodamente fare senza l'oficio de' poeti, li quali, sì per ampliare la loro
fama, sì per compiacere a' prencipi, sì per dilettare i sudditi, e sì per persuadere il
virtuosamente operare, a ciascuno-quello che con aperto parlare saria suto della loro
intenzione contrario- con fizioni varie e maestrevoli, male da' grossi oggi non che a quel
tempo intese, facevano credere quello che li prencipi volevan che si credesse; servando
negli nuovi iddii e negli uomini, gli quali degl'iddii nati fingevano, quello medesimo
stile che nel vero Iddio solamente e nel suo lusingarlo avevan gli primi usato. Da questo
si venne allo adequare i fatti de' forti uomini a quegli degl'iddii; donde nacque il
cantare con eccelso verso le battaglie e gli altri notabili fatti degli uomini
mescolatamente con quegli degl'iddii; il quale e fu ed è oggi, insieme con l'altre cose
di sopra dette, uficio ed esercizio di ciascuno poeta. E perciò che molti non intendenti
credono la poesia niuna altra cosa essere che solamente un fabuloso parlare, oltre al
promesso mi piace brievemente quella essere teologia dimostrare, prima ch'io vegna a dire
perché di lauro si coronino i poeti. |
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XXII |
Difesa della poesia |
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Se noi vorremo por giù gli animi e con ragion riguardare, io mi credo
che assai leggiermente potremo vedere gli antichi poeti avere imitate, tanto quanto a lo
'ngegno umano è possibile, le vestigie dello Spirito Santo; il quale, sì come noi nella
divina Scrittura veggiamo, per la bocca di molti i suoi altissimi secreti revelò a'
futuri, facendo loro sotto velame parlare ciò che a debito tempo per opera, senza alcuno
velo, intendeva di dimostrare. Imperciò che essi, se noi ragguarderemo ben le loro opere,
acciò che lo imitatore non paresse diverso dallo imitato, sotto coperta d'alcune fizioni,
quello che stato era, o che fosse al loro tempo presente, o che disideravano o che
presummevano che nel futuro dovesse avvenire, discrissono; per che, come che ad uno fine
l'una scrittura e l'altra non riguardasse, ma solo al modo del trattare, al che più
guarda al presente l'animo mio, ad amendune si potrebbe dare una medesima laude, usando di
Gregorio le parole. Il quale della sacra Scrittura dice ciò che ancora della poetica dir
si puote: cioè che essa in uno medesimo sermone, narrando, apre il testo e il misterio a
quel sottoposto; e così ad un'ora coll'uno gli savi esercita e con l'altro gli semplici
riconforta, e ha in publico donde li pargoletti nutrichi, e in occulto serva quello onde
essa le menti de' sublimi intenditori con ammirazione tenga sospese. Perciò che pare
essere un fiume, acciò che io così dica, piano e profondo, nel quale il piccioletto
agnello con gli piè vada, e il grande elefante ampissimamente nuoti. Ma da procedere è
al verificare delle cose proposte. |
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Intende la divina Scrittura, la qual noi <<teologia>>
appelliamo, quando con figura d'alcuna istoria, quando col senso d'alcuna visione, quando
con lo 'ntendimento d'alcun lamento, e in altre maniere assai, mostrarci l'alto misterio
della incarnazione del Verbo divino, la vita di quello, le cose occorse nella sua morte, e
la resurrezione vittoriosa, e la mirabile ascensione, e ogni altro suo atto, per lo quale
noi ammaestrati, possiamo a quella gloria pervenire, la quale Egli e morendo e resurgendo
ci aperse, lungamente stata serrata a noi per la colpa del primiero uomo. Così li poeti
nelle loro opere, le quali noi chiamiamo <<poesia>>, quando con fizioni di
vari iddii, quando con trasmutazioni d'uomini in varie forme, e quando con leggiadre
persuasioni, ne mostrano le cagioni delle cose, gli effetti delle virtù e de' vizi, e che
fuggire dobbiamo e che seguire, acciò che pervenire possiamo virtuosamente operando, a
quel fine, il quale essi, che il vero Iddio debitamente non conosceano, somma salute
credevano. Volle lo Spirito Santo mostrare nel rubo verdissimo, nel quale Moisè vide,
quasi come una fiamma ardente, Iddio, la verginità di Colei che più che altra creatura
fu pura, e che dovea essere abitazione e ricetto del Signore della natura, non doversi,
per la concezione né per lo parto del Verbo del Padre, contaminare. Volle, per la visione
veduta da Nabucodonosor, nella statua di più metalli abbattuta da una pietra convertita
in monte, mostrare tutte le preterite età dalla dottrina di Cristo, il quale fu ed è
viva pietra, dovere summergersi; e la cristiana religione, nata di questa pietra, divenire
una cosa immobile e perpetua, sì come gli monti veggiamo. Volle nelle lamentazioni di
Ieremia, l'eccidio futuro di Ierusalem dichiarare. |
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Similmente li nostri poeti, fingendo Saturno avere molti figliuoli, e
quegli, fuori che quattro, divorar tutti, niuna altra cosa vollono per tale fizione farci
sentire, se non per Saturno il tempo, nel quale ogni cosa si produce, e come ella in esso
è prodotta, così è esso di tutte corrompitore, e tutte le riduce a niente. I quattro
suoi figliuoli non divorati da lui, è l'uno Iove, cioè l'elemento del fuoco; il secondo
è Iunone, sposa e sorella di Iove, cioè l'aere, mediante la quale il fuoco quaggiù
opera li suoi effetti: il terzo è Nettunno, iddio del mare, cioè l'elemento dell'acqua;
e il quarto e ultimo è Plutone, iddio del ninferno, cioè la terra, più bassa che alcuno
altro elemento. Similemente fingono li nostri poeti Ercule d'uomo essere in dio
trasformato, e Licaone in lupo. Moralmente volendo mostrarci che, virtuosamente operando,
come fece Ercule, l'uomo diventa iddio per participazione in cielo; e, viziosamente
operando, come Licaone fece, quantunque egli paia uomo, nel vero si può dire quella
bestia, la quale da ciascuno si conosce per effetto più simile al suo difetto: sì come
Licaone per rapacità e per avarizia, le quali a lupo sono molto conformi, si finge in
lupo esser mutato. Similemente fingono li nostri poeti la bellezza de' Campi elisii, per
la quale intendo la dolcezza del paradiso; e la oscurità di Dite, per la quale prendo
l'amaritudine dello 'nferno; acciò che noi, tratti dal piacere dell'uno, e dalla noia
dell'altro spaventati, seguitiamo le virtù che in Eliso ci meneranno, e i vizi fuggiamo
che in Dite ci farieno trarupare. Io lascio il tritare con più particulari esposizioni
queste cose, perciò che, se quanto si converrebbe e potrebbe le volessi chiarire, come
che elle più piacevoli ne divenissero e più facessero forte il mio argomento, dubito non
mi tirassero più oltre molto che la principale materia non richiede e che io non voglio
andare. E certo, se più non se ne dicesse che quello ch'è detto, assai si dovrebbe
comprendere la teologia e la poesia convenirsi quanto nella forma dell'operare, ma nel
suggetto dico quelle non solamente molto essere diverse, ma ancora avverse in alcuna
parte: perciò che il suggetto della sacra teologia è la divina verità, quello
dell'antica poesì sono gl'iddii de' Gentili e gli uomini. Avverse sono, in quanto la
teologia niuna cosa presuppone se non vera; la poesia ne suppone alcune per vere, le quali
sono falsissime ed erronee e contra la cristiana religione. Ma, perciò che alcuni
disensati si levano contra li poeti, dicendo loro sconce favole e male a niuna verità
consonanti avere composte, e che in altra forma che con favole dovevano la loro
sofficienzia mostrare e a' mondani dare la loro dottrina; voglio ancora alquanto più
oltre procedere col presente ragionamento |
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Guardino adunque questi cotali le visioni di Danièllo, quelle d'Isaia,
quelle d'Ezechiel, e degli altri del Vecchio Testamento con divina penna discritte, e da
Colui mostrate al quale non fu principio né sarà fine. Guardinsi ancora nel Nuovo le
visioni dello evangelista, piene agl'intendenti di mirabile verità; e, se niuna poetica
favola si truova tanto di lungi dal vero o dal verisimile, quanto nella corteccia appaiono
queste in molte parti, concedasi che solamente i poeti abbiano dette favole da non potere
dare diletto né frutto. Senza dire alcuna cosa alla riprensione che fanno de' poeti, in
quanto la loro dottrina in favole ovvero sotto favole hanno mostrata, mi potrei passare;
conoscendo che, mentre che essi mattamente gli poeti riprendono di ciò, incautamente
caggiono in biasimare quello Spirito, il quale nulla altra cosa è che via, vita e
verità; ma pure alquanto intendo di soddisfargli. |
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Manifesta cosa è che ogni cosa, che con fatica s'acquista, avere
alquanto più di dolcezza che quella che vien senza affanno. La verità piana, perciò
ch'è tosto compresa con piccole forze, diletta e passa nella memoria. Adunque, acciò che
con fatica acquistata fosse più grata, e perciò meglio si conservasse, li poeti sotto
cose molto ad essa contrarie apparenti, la nascosero; e perciò favole fecero, più che
altra coperta, perché la bellezza di quelle attraesse coloro, li quali né le
dimostrazion filosofiche, né le persuasioni avevano potuto a sé tirare. Che dunque direm
de' poeti? terremo ch'essi sieno stati uomini insensati, come li presenti dissensati,
parlando e non sappiendo che, gli giudicano? Certo no; anzi furono nelle loro operazioni
di profondissimo sentimento, quanto è nel frutto nascoso, e d'eccellentissima e d'ornata
eloquenzia nelle cortecce e nelle frondi apparenti. Ma torniamo dove lasciammo. |
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Dico che la teologia e la poesia quasi una cosa si possono dire, dove
uno medesimo sia il suggetto; anzi dico più: che la teologia niun'altra cosa è che una
poesia di Dio. E che altra cosa è che poetica fizione, nella Scrittura, dire Cristo
essere ora leone e ora agnello e ora vermine, e quando drago e quando pietra, e in altre
maniere molte, le quali voler tutte raccontare sarebbe lunghissimo? che altro suonano le
parole del Salvatore nello evangelio, se non uno sermone da' sensi alieno? il quale
parlare noi con più usato vocabolo chiamiamo <<allegoria>>. Dunque bene
appare, non solamente la poesì essere teologia, ma ancora la teologia essere poesia. E
certo, se le mie parole meritano poca fede in sì gran cosa, io non me ne turberò; ma
credasi ad Aristotile, degnissimo testimonio ad ogni gran cosa, il quale afferma sé aver
trovato li poeti essere stati li primi teologizzanti. E questo basti quanto a questa
parte; e torniamo a mostrare perché a' poeti solamente, tra gli scienziati, l'onore della
corona dell'alloro conceduto fosse. |
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XXIII |
Dell'alloro conceduto ai poeti |
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Tra l'altre nazioni, le quali sopra il circuito della terra son molte,
li Greci si crede che sieno quegli alli quali primieramente la filosofia sé e li suoi
segreti aprisse; de' tesori della quale essi trassero la dottrina militare, la vita
politica e altre care cose assai, per le quali essi oltre a ogni altra nazione divennero
famosi e reverendi. Ma intra l'altre, tratte del costei tesoro da loro, fu la santissima
sentenzia di Solone nel principio posta di questa operetta; e acciò che la loro
republica, la quale più che altra allora fioriva, diritta e andasse e stesse sopra due
piedi, e le pene a' nocenti e i meriti a' valorosi magnificamente ordinarono e
osservarono. Ma, intra gli altri meriti stabiliti da loro a chi bene adoperasse, fu questo
il precipuo: di coronare in publico, e con publico consentimento, di frondi d'alloro li
poeti dopo la vittoria delle loro fatiche, e gl'imperadori, li quali vittoriosamente
avessero la republica aumentata; giudicando che igual gloria si convenisse a colui per la
cui virtù le cose umane erano e servate e aumentate, che a colui da cui le divine eran
trattate. E come che di questo onore li Greci fossero inventori, esso poi trapassò a'
Latini, quando la gloria e l'arme parimente di tutto il mondo diedero luogo al romano
nome; e ancora, almeno nelle coronazioni de' poeti, come che rarissimamente avvenga, vi
dura. Ma, perché a tale coronazione più il lauro che altra fronda eletto sia, non dovrà
essere a veder rincrescevole. |
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XXIV |
Origine di questa usanza |
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Sono alcuni li quali credono, perciò che sanno Danne amata da Febo e
in lauro convertita, essendo Febo e il primo auttore e fautore de' poeti stato e
similmente triunfatore, per amore a quelle frondi portato, di quelle le sue cetere e i
triunfi aver coronati; e quinci essere stato preso esemplo dagli uomini, e per conseguente
essere quello, che da Febo fu prima fatto, cagione di tale coronazione e di tai frondi
infino a questo giorno a' poeti e agl'imperadori. E certo tale oppinione non mi spiace,
né nego così poter essere stato; ma tuttavia me muove altra ragione, la quale è questa.
Secondo che vogliono coloro, li quali le virtù delle piante ovvero la loro natura
investigarono, il lauro tra l'altre più sue proprietà n'ha tre laudevoli e notevoli
molto. La prima si è, come noi veggiamo, che mai egli non perde né verdezza, né fronda;
la seconda si è che non si truova questo àlbore mai essere stato fulminato, il che di
niuno altro leggiamo essere avvenuto; la terza, che egli è odorifero molto, sì come noi
sentiamo: le quali tre proprietà estimarono gli antichi inventori di questo onore
convenirsi con le virtuose opere de' poeti e de' vittoriosi imperadori. E primieramente la
perpetua viridità di queste frondi dissono dimostrare la fama delle costoro opere, cioè
di coloro che d'esse si coronavano o coronerebbono nel futuro, sempre dovere stare in
vita. Appresso estimarono l'opere di questi cotali essere di tanta potenzia, che né il
fuoco della invidia, né la folgore della lunghezza del tempo, la quale ogni cosa consuma,
dovesse mai queste potere fulminare, se non come quello albero fulminava la celeste
folgore. E oltre a questo diceano queste opere de' già detti per lunghezza di tempo mai
dover divenire meno piacevoli e graziose a chi l'udisse o le leggesse, ma sempre dovere
essere accettevoli e odorose. Laonde meritamente si confaceva la corona di cotai frondi,
più ch'altra, a cotali uomini, gli cui effetti, in tanto quanto vedere possiamo, erano a
lei conformi. Per che non senza cagione il nostro Dante era ardentissimo disideratore di
tale onore ovvero di cotale testimonia di tanta vertù, quale questa è a coloro li quali
degni si fanno di doversene ornare le tempie. Ma tempo è di tornare là onde, intrando in
questo ci dipartimmo. |
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XXV |
Carattere di Dante |
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Fu il nostro poeta, oltre alle cose predette, d'animo alto e disdegnoso
molto; tanto che, cercandosi per alcun suo amico, il quale ad istanzia de' suoi prieghi il
facea, che egli potesse ritornare in Fiorenza, il che egli oltre ad ogni altra cosa
sommamente disiderava, né trovandosi a ciò alcuno modo con coloro li quali il governo
della republica allora aveano nelle mani, se non uno, il quale era questo: che egli per
certo spazio stesse in prigione, e dopo quello in alcuna solennità publica fosse
misericordievolmente alla nostra principale ecclesia offerto, e per conseguente libero e
fuori d'ogni condennagione per addietro fatta di lui; la qual cosa parendogli convenirsi e
usarsi in qualunque e depressi e infami uomini, e non in altri; per che, oltre al suo
maggiore disiderio, preelesse di stare in esilio, anzi che per cotal via tornare in casa
sua. Oh isdegno laudevole di magnanimo, quanto virilmente operasti, reprimendo l'ardente
disio del ritornare per via meno che degna ad uomo nel grembo della filosofia nutricato! |
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Molto simigliantemente presunse di sé, né gli parve meno valere,
secondo che i suoi contemporanei rapportano, che el valesse; la qual cosa, tra l'altre
volte, apparve una notabilmente, mentre che egli era con la sua setta nel colmo del
reggimento della republica. Ché, con ciò fosse cosa che per coloro li quali erano
depressi fosse chiamato, mediante Bonifazio papa VIII, a ridirizzare lo stato della nostra
città, uno fratello ovvero congiunto di Filippo allora re di Francia, il cui nome fu
Carlo, si ragunarono ad uno consiglio per provedere a questo fatto tutti li prencipi della
setta con la quale esso tenea; e quivi tra l'altre cose providero che ambasceria si
dovesse mandare al papa, il quale allora era a Roma, per la quale s'inducesse il detto
papa a dovere ostare alla venuta del detto Carlo, ovvero lui, con concordia della setta,
la quale reggeva, far venire. E venuto al diliberare chi dovesse esser prencipe di cotale
legazione, fu per tutti detto che Dante fosse desso. Alla quale richiesta Dante, alquanto
sopra sé stato, disse: <<Se io vo, chi rimane? se io rimango, chi va?>>,
quasi esso solo fosse colui che tra tutti valesse, e per cui tutti gli altri valessero.
Questa parola fu intesa e raccolta, ma quello che di ciò seguisse non fa al presente
proposito, e però, passando avanti, il lascio stare. |
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Oltre a queste cose, fu questo valente uomo in tutte le sue avversità
fortissimo: solo in una cosa non so se io mi dica fu impaziente o animoso, cioè in opera
pertenente a parte, poi che in esilio fu, troppo più che alla sua sufficienzia non
appartenea, e ch'egli non volea che di lui per altrui si credesse. E acciò che a qual
parte fosse così animoso e pertinace appaia, mi pare sia da procedere alquanto più oltre
scrivendo. |
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Io credo che giusta ira di Dio permettesse, già è gran tempo, quasi
tutta Toscana e Lombardia in due parti dividersi; delle quali, onde cotali nomi
s'avessero, non so; ma l'una si chiamò e chiama <<parte guelfa>>, e l'altra
fu <<ghibellina>> chiamata. E di tanta efficacia e reverenzia furono negli
stolti animi di molti questi due nomi, che, per difendere quello che alcuno avesse eletto
per suo contra il contrario, non gli era di perdere gli suoi beni e ultimamente la vita,
se bisogno fosse fatto, malagevole. E sotto questi titoli molte volte le città italiche
sostennero di gravissime pressure e mutamenti; e intra l'altre la nostra città, quasi
capo e dell'uno nome e dell'altro, secondo il mutamento de' cittadini; intanto che gli
maggiori di Dante per guelfi da' ghibellini furono due volte cacciati di casa loro, e egli
similemente, sotto il titolo di guelfo, tenne i freni della republica in Firenze. Della
quale cacciato, come mostrato è, non da' ghibellini ma da' guelfi, e veggendo sé non
potere ritornare, in tanto mutò l'animo, che niuno più fiero ghibellino e a' guelfi
avversario fu come lui; e quello di che io più mi vergogno in servigio della sua memoria
è che publichissima cosa è in Romagna, lui ogni feminella, ogni piccol fanciullo
ragionante di parte e dannante la ghibellina, l'avrebbe a tanta insania mosso, che a
gittare le pietre l'avrebbe condotto, non avendo taciuto. E con questa animosità si visse
infino alla morte. |
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Certo, io mi vergogno dovere con alcuno difetto maculare la fama di
cotanto uomo; ma il cominciato ordine delle cose in alcuna parte il richiede; perciò che,
se nelle cose meno che laudevoli in lui mi tacerò, io torrò molta fede alle laudevoli
già mostrate. A lui medesimo adunque mi scuso, il quale per avventura me scrivente con
isdegnoso occhio d'alta parte del cielo ragguarda. |
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Tra cotanta virtù, tra cotanta scienzia, quanta dimostrato è di sopra
essere stata in questo mirifico poeta, trovò ampissimo luogo la lussuria, e non solamente
ne' giovani anni, ma ancora ne' maturi. Il quale vizio, come che naturale e comune e quasi
necessario sia, nel vero non che commendare, ma scusare non si può degnamente. Ma chi
sarà tra' mortali giusto giudice a condennarlo? Non io. Oh poca fermezza, oh bestiale
appetito degli uomini, che cosa non possono le femmine in noi, s'elle vogliono, che,
eziandio non volendo, posson gran cose? Esse hanno la vaghezza, la bellezza e il naturale
appetito e altre cose assai continuamente per loro ne' cuori degli uomini procuranti; e
che questo sia vero, lasciamo stare quello che Giove per Europa, o Ercule per Iole, o
Paris per Elena facessero, ché, perciò che poetiche cose sono, molti di poco sentimento
le dirien favole; ma mostrisi per le cose non convenevoli ad alcuno di negare. Era ancora
nel mondo più che una femina quando il nostro primo padre lasciato il comandamento
fattogli dalla propia bocca di Dio, s'accostò alle persuasioni di lei? Certo no. E David,
non ostante che molte n'avesse, solamente veduta Bersabè per lei dimenticò Iddio, il suo
regno, sé e la sua onestà, e adultero prima e poi omicida divenne: che si dee credere
che egli avesse fatto, se ella alcuna cosa avesse comandato? E Salomone al cui senno
niuno, dal figliuolo di Dio in fuori, aggiunse mai, non abbandonò colui che savio l'aveva
fatto, e per piacere a una femmina s'inginocchiò e adorò Baalim? Che fece Erode? che
altri molti, da niuna altra cosa tirati che dal piacer loro? Adunque tra tanti e tali non
iscusato, ma, accusato con assai meno curva fronte che solo, può passare il nostro poeta.
E questo basti al presente de' suoi costumi più notabili avere contato. |
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XXVI |
Delle opere composte da Dante |
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Compose questo glorioso poeta più opere ne' suoi giorni, delle quali
fare ordinata memoria credo che sia convenevole, acciò che né alcuno delle sue
s'intitolasse, né a lui fossero per avventura intitolate l'altrui. Egli primieramente,
duranti ancora le lagrime della morte della sua Beatrice, quasi nel suo ventesimosesto
anno compose in un volumetto, il quale egli intitolò Vita nova, certe operette, sì come
sonetti e canzoni, in diversi tempi davanti in rima fatte da lui, maravigliosamente belle;
di sopra da ciascuna partitamente e ordinatamente scrivendo le cagioni che a quelle fare
l'avea[n] mosso, e di dietro ponendo le divisioni delle precedenti opere. E come che egli
d'avere questo libretto fatto, negli anni più maturi si vergognasse molto, nondimeno,
considerata la sua età, è egli assai bello e piacevole, e massimamente a' volgari . |
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Appresso questa compilazione più anni, ragguardando egli della
sommità del governo della republica, sopra la quale stava, e veggendo in grandissima
parte, sì come di così fatti luoghi si vede, qual fosse la vita degli uomini, e quali
fossero gli errori del vulgo, e come fossero pochi i disvianti da quello, e di quanto
onore degni fossero, e quegli, che a quello s'accostassero, di quanta confusione, dannando
gli studii di questi cotali e molto più li suoi commendando, gli venne nell'animo uno
alto pensiero, per lo quale ad una ora, cioè in una medesima opera, propose, mostrando la
sua sofficienzia, di mordere con gravissime pene i viziosi, e con altissimi premii li
valorosi onorare, e a sé perpetua gloria apparecchiare. E, perciò che, come già è
mostrato, egli aveva a ogni studio preposta la poesia, poetica opera estimò di comporre.
E, avendo molto davanti premeditato quello che fare dovesse, nel suo trentacinquesimo anno
si cominciò a dare al mandare ad effetto ciò che davanti premeditato avea, cioè a
volere secondo i meriti e mordere e premiare, secondo la sua diversità, la vita degli
uomini. La quale, perciò che conobbe essere di tre maniere, cioè viziosa, o da' vizii
partentesi e andante alla vertù, o virtuosa, quella in tre libri, dal mordere la viziosa
cominciando e finendo nel premiare la virtuosa, mirabilmente distinse in un volume, il
quale tutto intitolò Comedia. De' quali tre libri egli ciascuno distinse per canti e i
canti per rittimi, sì come chiaro si vede; e quello in rima volgare compose con tanta
arte, con sì mirablle ordine e con sì bello, che niuno fu ancora che giustamente quello
potesse in alcuno atto riprendere. Quanto sottilmente egli in esso poetasse pertutto,
coloro, alli quali è tanto ingegno prestato che 'ntendano, il possono vedere. Ma, sì
come noi veggiamo le gran cose non potersi in brieve tempo comprendere, e per questo
conoscer dobbiamo così alta, così grande, così escogitata impresa,come fu tutti gli
atti degli uomini e i loro meriti poeticamente volere sotto versi volgari e rimati
racchiudere, non essere stato possibile in picciolo spazio avere al suo fine recata, e
massimamente da uomo, il quale da molti e varii casi della Fortuna, pieni tutti d'angoscia
e d'amaritudine venenati, sia stato agitato (come di sopra mostrato è che fu Dante): per
che dall'ora che di sopra è detta che egli a cosi alto lavorio si diede infino allo
stremo della sua vita, come che altre opere, come apparirà, non ostante questa,
componesse in questo mezzo, gli fu fatica continua. Né fia di soperchio in parte toccare
d'alcuni accidenti intorno al principio e alla fine di quella avvenuti. |
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Dico che, mentre che egli era più attento al glorioso lavoro, e già
della prima parte di quello, la quale intitola Inferno, aveva composti sette canti,
mirabilmente fingendo, e non miga come gentile, ma come cristianissimo poetando, cosa
sotto questo titolo mai avanti non fatta, sopravvenne il gravoso accidente della sua
cacciata, o fuga che chiamar si convegna, per lo quale egli e quella e ogni altra cosa
abbandonata, incerto di se medesimo, più anni con diversi amici e signori andò vagando.
Ma, come noi dovemo certissimamente credere a quello che Iddio dispone niuna cosa
contraria la Fortuna potere operare, per la quale, se forse vi può porre indugio,
istôrla possa dal debito fine, avvenne che alcuno per alcuna sua scrittura forse a lui
opportuna, cercando fra cose di Dante in certi forzieri state fuggite subitamente in
luoghi sacri, nel tempo che tumultuosamente la ingrata e disordinata plebe gli era, più
vaga di preda che di giusta vendetta, corsa alla casa, trovò li detti sette canti stati
da Dante composti, gli quali con ammirazione, non sappiendo che si fossero, lesse, e
piacendogli sommamente, e con ingegno sottrattigli del luogo dove erano, gli portò ad un
nostro cittadino, il cui nome fu Dino di messer Lambertuccio, in quegli tempi famosissimo
dicitore per rima in Firenze, e mostrogliele. Li quali veggendo Dino, uomo d'alto
intelletto, non meno che colui che portati gliele avea, si maravigliò sì per lo bello e
pulito e ornato stile del dire, sì per la profondità del senso, il quale sotto la bella
corteccia delle parole gli pareva sentire nascoso: per le quali cose agevolmente insieme
col portatore di quegli, e sì ancora per lo luogo onde tratti gli avea, estimò quegli
essere, come erano, opera stata di Dante. E, dolendosi quella essere imperfetta rimasa,
come che essi non potessero seco presummere a qual fine fosse il termine suo, fra loro
diliberarono di sentire dove Dante fosse, e quello, che trovato avevan mandargli, acciò
che, se possibile fosse, a tanto principio desse lo 'mmaginato fine. E, sentendo dopo
alcuna investigazione lui essere appresso il marchese Morruello, non a lui, ma al marchese
scrissono il loro disiderio, e mandarono li sette canti; gli quali poi che il marchese,
uomo assai intendente, ebbe veduti e molto seco lodatigli, gli mostrò a Dante,
domandandolo se esso sapea cui opera stati fossero; li quali Dante riconosciuti subito,
rispose che sua. Allora il pregò il marchese che gli piacesse di non lasciare senza
debito fine sì alto principio. <<Certo>> disse Dante <<io mi credea
nella ruina delle mie cose questi con molti altri miei libri avere perduti, e perciò, sì
per questa credenza e sì per la moltitudine dell'altre fatiche per lo mio esilio
sopravvenute, del tutto avea l'alta fantasia, sopra quest'opera presa, abbandonata; ma,
poi che la Fortuna inopinatamente me gli ha ripinti dinanzi, e a voi aggrada, io cercherò
di ritornarmi a memoria il primo proposito, e procederò secondo che data mi fia la
grazia>>. E reassunta non sanza fatica, dopo alquanto tempo la fantasia lasciata,
seguì: <<Io dico, seguitando, ch'assai prima>> etc.; dove assai
manifestamente, chi ben riguarda, può la ricongiunzione dell'opera intermessa conoscere. |
|
Ricominciata adunque da Dante la magnifica opera, non, forse secondo
che molti estimerebbono, senza più interromperla la perdusse alla fine; anzi più volte,
secondo che la gravità de' casi sopravvegnenti richiedea, quando mesi e quando anni,
senza potervi operare alcuna cosa, mise in mezzo; né tanto si poté avacciare, che prima
nol sopraggiugnesse la morte, che egli tutta publicare la potesse. Egli era suo costume,
quale ora sei o otto o più o meno canti fatti n'avea, quegli, prima che alcuna altro gli
vedesse, donde che egli fosse, mandare a messer Cane della Scala, il quale egli oltre a
ogni altro uomo avea in reverenza; e, poi che da lui eran veduti, ne facea copia a chi la
ne volea. E in così fatta maniera avendogliele tutti fuori che gli ultimi tredici canti,
mandati, e quegii avendo fatti, né ancora mandatigli; avvenne che egli, senza avere
alcuna memoria di lasciargli, si morì. E, cercato da que' che rimasero, e figliuoli e
discepoli, più volte e in più mesi, fra ogni sua scrittura, se alla sua opera avesse
fatta alcuna fine, né trovandosi per alcun modo li canti residui, essendone generalmente
ogni suo amico cruccioso, che Iddio non l'aveva almeno tanto prestato al mondo ch'egli il
picciolo rimanente della sua opera avesse potuto compiere, dal più cercare, non
trovandogli, s'erano, disperati, rimasi. |
|
Eransi Iacopo e Piero, figliuoli di Dante, de' quali ciascuno era
dicitore in rima, per persuasioni d'alcuni loro amici, messi a volere, in quanto per loro
si potesse, supplire la paterna opera, acciò che imperfetta non procedesse; quando a
Iacopo, il quale in ciò era molto più che l'altro fervente, apparve una mirabile
visione, la quale non solamente dalla stolta presunzione il tolse, ma gli mostrò dove
fossero li tredici canti, li quali alla divina Comedia mancavano, e da loro non saputi
trovare. |
|
Raccontava uno valente uomo ravignano, il cui nome fu Piero Giardino,
lungamente discepolo stato di Dante, che, dopo l'ottavo mese della morte del suo maestro,
era una notte, vicino all'ora che noi chiamiamo <<matutino>>, venuto a casa
sua il predetto Iacopo, e dettogli sé quella notte, poco avanti a quell'ora, avere nel
sonno veduto Dante suo padre, vestito di candidissimi vestimenti e d'una luce non usata
risplendente nel viso, venire a lui; il quale gli parea domandare s'egli vivea, e udire da
lui per risposta di sì, ma della vera vita, non della nostra; per che, oltre a questo,
gli pareva ancora domandare, se egli avea compiuta la sua opera anzi il suo passare alla
vera vita, e, se compiuta l'avea, dove fosse quello che vi mancava, da loro giammai non
potuto trovare. A questo gli parea la seconda volta udire per risposta: <<Sì, io la
compie'>>; e quinci gli parea che 'l prendesse per mano e menasselo in quella camera
dove era uso di dormire quando in questa vita vivea; e, toccando una parte di quella,
dicea: <<Egli è qui quello che voi tanto avete cercato>>. E questa parola
detta, ad una ora il sonno e Dante gli parve che si partissono. Per la qual cosa affermava
sé non avesse potuto stare senza venirgli a significare ciò che veduto avea, acciò che
insieme andassero a cercare nel luogo mostrato a lui, il quale egli ottimamente nella
memoria aveva segnato, a vedere se vero spirito o falsa delusione questo gli avesse
disegnato. Per la quale cosa, restando ancora gran pezzo di notte, mossisi insieme,
vennero al mostrato luogo, e quivi trovarono una stuoia, al muro confitta, la quale
leggiermente levatane, videro nel muro una finestretta, da niuno di loro mai più veduta,
né saputo ch'ella vi fosse, e in quella trovarono alquante scritte, tutte per l'umidità
del muro muffate e vicine al corrompersi se guari più state vi fossero; e quelle
pianamente dalla muffa purgate, leggendole, videro contenere li tredici canti tanto da
loro cercati. Per la qual cosa lietissimi, quegli riscritti, secondo l'usanza dell'autore
prima gli mandarono a messer Cane, e poi alla imperfetta opera ricongiunsono come si
convenia. In cotale maniera l'opera, in molti anni compilata, si vide finita. |
|
Muovono molti, e intra essi alcuni savi uomini, generalmente una
quistione così fatta: che con ciò fosse cosa Dante fosse in iscienzia solennissimo uomo,
perché a comporre così grande, di sì alta materia e sì notabile libro, come è questa
sua Comedia, nel fiorentino idioma si disponesse; perché non più tosto in versi latini,
come gli altri poeti precedenti hanno fatto. A così fatta domanda rispondere, tra molte
ragioni, due a l'altre principali me ne occorrono. Delle quali la prima è per fare
utilità più comune a' suoi cittadini e agli altri Italiani: conoscendo che, se
metricamente in latino, come gli altri poeti passati, avesse scritto, solamente a'
letterati avrebbe fatto utile; scrivendo in volgare fece opera mai più non fatta, e non
tolse il non potere esser inteso da' letterati, e mostrando la bellezza del nostro idioma
e la sua eccellente arte in quello, e diletto e intendimento di sé diede agl'idioti,
abbandonati per addietro da ciascheduno. La seconda ragione, che a questo il mosse, fu
questa. Vedendo egli li liberali studii del tutto abbandonati, e massimamente da' prencipi
e dagli altri grandi uomini, a' quali si soleano le poetiche fatiche intitolare, e per
questo e le divine opere di Virgilio e degli altri solenni poeti non solamente essere in
poco pregio divenute, ma quasi da' più disprezzate; avendo egli incominciato, secondo che
l'altezza della materia richiedea, in questa guisa: |
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Ultima regna canam, fluido contermina mundu |
spiritibus quae lata patent, quae premia solvunt |
pro meritis cuicumque suis, etc. |
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i lasciò istare; e, immaginando invano le croste del pane porsi alla
bocca di coloro che ancora il latte suggano, in istile atto a' moderni sensi ricominciò
la sua opera e perseguilla in volgare. |
|
Questo libro della Comedia, secondo il ragionare d'alcuno, intitolò
egli a tre solennissimi uomini italiani, secondo la sua triplice divisione, a ciascuno la
sua, in questa guisa: la prima parte, cioè lo 'Nferno, intitolò a Uguiccione della
Faggiuola, il quale allora in Toscana signore di Pisa era mirabilmente glorioso; la
seconda parte, cioè il Purgatoro, intitolò al marchese Moruello Malespina; la terza
parte, cioè il Paradiso, a Federigo III re di Cicilia. Alcuni vogliono dire lui averlo
intitolato tutto a messer Cane della Scala; ma, quale si sia di queste due la verità,
niuna cosa altra n'abbiamo che solamente il volontario ragionare di diversi; né egli è
sì gran fatto che solenne investigazione ne bisogni. |
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Similemente questo egregio autore nella venuta d'Arrigo VII imperadore
fece un libro in latina prosa, il cui titolo è Monarchia, il quale, secondo tre quistioni
le quali in esso ditermina, in tre libri divise. Nel primo loicalmente disputando, pruova
che a ben essere del mondo sia di necessità essere imperio: la quale è la prima
quistione. Nel secondo, per argomenti istoriografi procedendo, mostra Roma di ragione
ottenere il titolo dello imperio: ch'è la seconda quistione. Nel terzo, per argomenti
teologi pruova l'autorità dello 'mperio immediatamente procedere da Dio, e non mediante
alcuno suo vicario, come li chierici pare che vogliano; ch'è la terza quistione. |
|
Questo libro più anni dopo la morte dell'auttore fu dannato da messer
Beltrando cardinale del Poggetto e legato di papa nelle parti di Lombardia, sedente
Giovanni papa XXII. E la cagione fu perciò che Lodovico, duca di Baviera, dagli elettori
della Magna eletto in re de' Romani, e venendo per la sua coronazione a Roma, contra il
piacere del detto Giovanni papa essendo in Roma, fece, contra gli ordinamenti
ecclesiastici, uno frate minore, chiamato frate Pietro della Corvara, papa, e molti
cardinali e vescovi; e quivi a questo papa si fece coronare. E, nata poi in molti casi
della sua auttorità quistione, egli e' suoi seguaci, trovato questo libro, a difensione
di quella e di sé molti degli argomenti in esso posti cominciarono a usare; per la qual
cosa il libro, il quale infino allora appena era saputo, divenne molto famoso. Ma poi,
tornatosi il detto Lodovico nella Magna, e li suoi seguaci, e massimamente i cherici,
venuti al dichino e dispersi, il detto cardinale, non essendo chi a ciò s'opponesse,
avuto il soprascritto libro, quello in publico, sì come cose eretiche contenente, dannò
al fuoco. E il simigliante si sforzava di fare dell'ossa dell'auttore a etterna infamia e
confusione della sua memoria, se a ciò non si fosse opposto un valoroso e nobile
cavaliere fiorentino, il cui nome fu Pino della Tosa, il quale allora a Bologna, dove ciò
si trattava, si trovò, e con lui messer Ostagio da Polenta, potente ciascuno assai nel
cospetto del cardinale di sopra detto. |
|
Oltre a questi compose il detto Dante due egloge assai belle, le quali
furono intitolate e mandate da lui, per risposta di certi versi mandatigli, a maestro
Giovanni del Virgilio, del quale di sopra altra volta è fatta menzione. |
|
Compuose ancora uno comento in prosa in fiorentino volgare sopra tre
delle sue canzoni distese, come che egli appaia lui avere avuto intendimento, quando il
cominciò, di commentarle tutte, bene che poi, o per mutamento di proposito o per
mancarnento di tempo che avvenisse, più commentate non se ne truovano da lui; e questo
intitolò Convivio, assai bella e laudevole operetta. |
|
Appresso, già vicino alla sua morte, compuose uno libretto in prosa
latina, il quale egli intitolò De vulgari eloquentia, dove intendea di dare dottrina, a
chi imprendere la volesse, del dire in rima; e come che per lo detto libretto apparisca
lui avere in animo di dovere in ciò comporre quattro libri, o che più non ne facesse
dalla morte soprapreso, o che perduti sieno gli altri, più non appariscono che due
solamente. |
|
Fece ancora questo valoroso poeta molte pístole prosaice in latino,
delle quali ancora appariscono assai. Compuose molte canzoni distese, sonetti e ballate
assai e d'amore e morali, oltre a quelle che nella sua Vita nova appariscono: delle quali
cose non curo di fare speziale menzione al presente. |
|
In così fatte cose, quali di sopra sono dimostrate, consumò il
chiarissimo uomo quella parte del suo tempo, la quale egli agli amorosi sospiri, alle
pietose lacrime, alle sollecitudini private e pubblice e a' varii fluttuamenti della
iniqua Fortuna poté imbolare: opere troppo più a Dio e agli uomini accettevoli che
gl'inganni, le fraudi, le menzogne, le rapine e' tradimenti, li quali la maggior parte
degli uomini usano oggi, cercando per diverse vie uno medesimo termine, cioè il divenire
ricco, quasi in quelle ogni bene, ogni onore, ogni beatitudine stea. O menti sciocche, una
brieve particella d'una ora separarà dal caduco corpo lo spirito, e tutte queste
vituperevoli fatiche annullerà, e il tempo, nel quale ogni cosa suol consumarsi, o
annullerà prestamente la memoria del ricco, o quella per alcuno spazio con gran vergogna
di lui serverà! Che del nostro poeta certo non avverrà; anzi, sì come noi veggiamo
degli strumenti bellici addivenire, che per l'usargli diventan più chiari, così avverrà
del suo nome: egli, per essere stropicciato dal tempo, sempre diventerà più lucente. E
perciò fatichi chi vuole nelle sue vanità, e bastigli l'esser lasciato fare, senza
volere, con riprensione da se medesimo non intesa, l'altrui virtuoso operare andar
mordendo. |
|
XXVII |
Ricapitolazione |
|
Mostrato è sommariamente qual fosse l'origine, gli studi e la vita e'
costumi, e quali sieno l'opere state dello splendido uomo Dante Alighieri, poeta
chiarissimo, e con esse alcuna altra cosa, facendo transgressione, secondo che conceduto
m'ha Colui che d'ogni grazia è donatore. Ben so: per molti altri molto meglio e più
discretamente si saria potuto mostrare; ma chi fa quel che sa, più non gli è richiesto.
Il mio avere scritto come io ho saputo, non toglie il poter dire ad uno altro, che meglio
ciò creda di scrivere che io non ho fatto; anzi forse, se io in parte alcuna ho errato,
darò materia altrui di scrivere, per dire il vero, del nostro Dante, ove infino a qui
niuno truovo averlo fatto. Ma la mia fatica non è ancora alla sua fine. Una particella,
nel processo promessa di questa operetta, mi resta a dichiarare, cioè il sogno della
madre del nostro poeta, quando in lui era gravida, veduto da lei; del quale io, quanto
più brievemente saprò e potrò, intendo di dilivrarmi, e porre fine al ragionare. |
|
XXVIII |
Ancora il sogno della madre di Dante |
|
Vide la gentil donna nella sua gravidezza sé a piè d'uno altissimo
alloro, allato a una chiara fontana, partorire uno figliuolo, il quale di sopra altra
volta narrai, in brieve tempo, pascendosi delle bache di quello alloro cadenti e dell'onde
della fontana, divenire un gran pastore e vago molto delle frondi di quello alloro sotto
il quale era; a le quali avere mentre che egli si sforzava, le parea che egli cadesse; e
subitamente non lui, ma di lui uno bellissimo paone le parea vedere. Dalla quale
maraviglia la gentil donna commossa, ruppe, senza vedere di lui più avanti, il dolce
sonno. |
|
XXIX |
Spiegazione del sogno |
|
La divina bontà, la quale ab ecterno, sì come presente, ogni cosa
futura previde, suole, da sua propia benignità mossa, quale ora la natura, sua generale
ministra, è per producere alcuno inusitato effetto infra' mortali, di quello con alcuna
dimostrazione o in segno o in sogno o in altra maniera farci avveduti, acciò che dalla
predimostrazione argomento prendiamo ogni conoscenza consistere nel Signore della natura
producente ogni cosa; la quale predimostrazione, se bene si riguarda, ne fece nella venuta
del poeta, del quale tanto di sopra è parlato, nel mondo. E a quale persona la poteva
egli fare che con tanta affezione e veduta e servata l'avesse, quanto colei che della cosa
mostrata doveva essere madre, anzi già era? Certo a niuna. Mostrollo dunque a lei, e
quello che egli a lei mostrasse ci è già manifesto per la scrittura di sopra; ma quello
che egli intendesse con più aguto occhio è da vedere. Parve adunque alla donna partorire
un figliuolo, e certo così fece ella infra picciolo termine dalla veduta visione. Ma che
vuole significare l'alto alloro sotto il quale il partorisce, è da vedere. |
|
Oppinione è degli astrologi e di molti naturali filosofi, per la
vertù e influenzia de' corpi superiori gl'inferiori e producersi e nutricarsi, e, se
potentissima ragione da divina grazia illuminata non resiste, guidarsi. Per la qual cosa,
veduto quale corpo superiore sia più possente nel grado che sopra l'orizzonte sale in
quella ora che alcun nasce, secondo quello cotale corpo più possente, anzi secondo le sue
qualità, dicono del tutto il nato disporsi . Per che per lo alloro, sotto il quale alla
donna pareva il nostro Dante dare al mondo, mi pare che sia da intendere la disposizione
del cielo la quale fu nella sua natività, mostrante sé essere tale che magnanimità e
eloquenzia poetica dimostrava; le quali due cose significa l'alloro, àlbore di Febo, e
delle cui frondi li poeti sono usi di coronarsi, come di sopra è già mostrato assai. |
|
Le bache, delle quali nutrimento prendeva il fanciullo nato, gli
effetti da così fatta disposizione di cielo, quale è dimostrata, già proceduti,
intendo; li quali sono i libri poetici e le loro dottrine, da' quali libri e dottrine fu
altissimamente nutricato, cioè ammaestrato il nostro Dante. |
|
Il fonte chiarissimo, de la cui acqua le parea che questi bevesse,
niuna altra cosa giudico che sia da intendere se non l'ubertà della filosofica dottrina
morale e naturale; la quale si come dalla ubertà nascosa nel ventre della terra procede,
così e queste dottrine dalle copiose ragioni dimostrative, che terrena ubertà si possono
dire, prendono essenza e cagione; senza le quali, così come il cibo non può bene
disporsi, senza bere, negli stomaci di chi 'l prende, non si può alcuna scienzia bene
negl'intelletti adattare di nessuno, se dalli filosofici dimostramenti non v'è ordinata e
disposta. Per che ottimamente possiamo dire, lui con le chiare onde, cioè con la
filosofia, disporre nel suo stomaco, cioè nel suo intelletto, le bache delle quali si
pasce, cioè la poesia, la quale, come già è detto, con tutta la sua sollecitudine
studiava. |
|
Il divenire subitamente pastore ne mostra la eccellenzia del suo
ingegno, in quanto subitamente; il quale fu tanto e tale, che in brieve spazio di tempo
comprese per istudio quello che opportuno era a divenire pastore, cioè datore di pastura
agli altri ingegni di ciò bisognosi. E sì come assai leggermente ciascuno può
comprendere, due maniere sono di pastori: l'una sono pastori corporali, l'altra
spirituali. Li corporali pastori sono di due maniere, delle quali la prima è quella di
coloro che volgarmente da tutti sono appellati <<pastori>>, cioè i guardatori
delle pecore o de' buoi o di qualunque altro animale; la seconda maniera sono i padri
delle famiglie, dalla sollecitudine de' quali convegnono essere e pasciuti e guardati e
governati la gregge de' figliuoli e de' servidori e degli altri suggetti di quegli. Li
spirituali pastori similmente si possono dire di due maniere, delle quali l'una è quella
di coloro li quali pascono l'anime de' viventi della parola di Dlo; e questi sono li
prelati, i predicatori e' sacerdoti, nella cui custodia sono commesse l'anime labili di
qualunque sotto il governo a ciascuno ordinato dimora; l'altra è quella di coloro li
quali, d'ottima dottrina, o leggendo quello che gli passati hanno scritto, o scrivendo di
nuovo ciò che loro pare o non tanto chiaro mostrato o omesso, informano e l'anime e
gl'intelletti degli ascoltanti o de' leggenti, li quali generalmente dottori, in qual che
facultà si sia, sono appellati. Di questa maniera di pastori subitamente, cioè in poco
tempo, divenne il nostro poeta. E che ciò sia vero, lasciando stare l'altre opere
compilate da lui, riguardisi la sua Commedia, la quale con la dolcezza e bellezza del
testo pasce non solamente gli uomini, ma i fanciulli e le femine; e con mirabile soavità
de' profondissimi sensi sotto quella nascosi, poi che alquanto gli ha tenuti sospesi,
ricrea e pasce gli solenni intelletti. |
|
Lo sforzarsi ad avere di quelle frondi, il frutto delle quali l'ha
nutricato, niuna altra cosa ne mostra che l'ardente disiderio avuto da lui, come di sopra
si dice, della corona laurea; la quale per nulla altro si disidera, se non per dare
testimonianza del frutto. Le quali frondi mentre che egli più ardentemente disiderava,
lui dice che vide cadere; il quale cadere niuna altra cosa fu se non quello cadimento che
tutti facciamo senza levarci, cioè il morire; il quale, se bene si ricorda di ciò che di
sopra è detto, gli avvenne quando più la sua laureazione disiava. |
|
Seguentemente dice che di pastore subitamente il vide divenuto un
paone: per lo qual mutamento assai bene la sua posterità comprendere possiamo, la quale,
come che nell'altre sue opere stea, sommamente vive nella sua Commedia, la quale, secondo
il mio giudicio, ottimamente è conforme al paone, se le propietà de l'uno e de l'altra
si guarderanno. Il paone tra l'altre sue propietà per quello che appaia, n'ha quattro
notabili. La prima si è ch'egli si ha penna angelica, e in quella ha cento occhi; la
seconda si è che egli ha sozzi piedi e tacita andatura; la terza si è ch'egli ha voce
molto orribile a udire; la quarta e ultima si è che la sua carne è odorifera e
incorruttibile. Queste quattro cose pienamente ha in sé la Comedia del nostro poeta; ma,
perciò che acconciamente l'ordine posto di quelle non si può seguire, come verranno più
in concio or l'una ora l'altra le verrò adattando, e comincerommi da l'ultima. |
|
Dico che il senso della nostra Comedia è simigliante alla carne del
paone, perciò che esso, o morale o teologo che tu il dèi a quale parte più del libro ti
piace, è semplice e immutabile verità, la quale non solamente corruzione non può
ricevere, ma quanto più si ricerca, maggiore odore della sua incorruttibile soavità
porge a' riguardanti. E di ciò leggiermente molti esempli si mostrerebbero, se la
presente materia il sostenesse; e però, senza porne alcuno, lascio il cercarne
agl'intendenti. |
|
Angelica penna dissi che copria questa carne; e dico
<<angelica>>, non perché io sappia se così fatte o altramenti gli angeli
n'abbiano alcuna, ma, congetturando a guisa de' mortali, udendo che gli angeli volino,
avviso loro dovere avere penne; e, non sappiendone alcuna fra questi nostri uccelli più
bella, né più peregrina, né così come quella del paone, imagino loro così doverle
avere fatte; e però non quelle da queste, ma queste da quelle dinomino perché più
nobile uccello è l'angelo che 'l paone. Per le quali penne, onde questo corpo si cuopre,
intendo la bellezza della peregrina istoria, che nella superficie della lettera della
Comedia suona: sì come l'essere disceso in inferno e veduto l'abito del luogo e le varie
condizioni degli abitanti; essere ito su per la montagna del purgatorio, udite le lagrime
e i lamenti di coloro che sperano d'essere santi; e quindi salito in paradiso e la
ineffabile gloria de' beati veduta. Istoria tanto bella e tanto peregrina, quanto mai da
alcuno più non fu pensata non che udita, distinta in cento canti, sì come alcuni
vogliono il paone avere nella coda cento occhi. Li quali canti così provvedutamente
distinguono le varietà del trattato opportune, come gli occhi distinguono i colori o la
diversità delle cose obiette. Dunque bene è d'angelica penna coperta la carne del nostro
paone. |
|
Sono similmente a questo paone li piè sozzi e l'andatura queta: le
quali cose ottimumente alla Comedia del nostro auttore si confanno, perciò che, sì come
sopra i piedi pare che tutto il corpo si sostenga, così prima facie pare che sopra il
modo del parlare ogni opera in iscrittura composta si sostenga; e il parlare volgare, nel
quale e sopra il quale ogni giuntura della Comedia si sostiene, a rispetto dell'alto e
maestrevole stilo letterale che usa ciascun altro poeta, è sozzo, come che egli sia più
che gli altri belli agli odierni ingegni conforme. L'andar queto significa l'umiltà dello
stilo, il quale nelle commedie di necessità si richiede, come color sanno che intendono
che vuole dire <<comedia>>. |
|
Ultimamente dico che la voce del paone è orribile: la quale, come che
la soavità delle parole del nostro poeta sia molta quanto alla prima apparenza, sanza
niuno fallo a chi bene le medolle dentro ragguarderà, ottimamente a lui si confà. Chi
più orribilmente grida di lui, quando con invenzione acerbissima morde le colpe di molti
viventi, e quelle de' preteriti gastiga? Qual voce è più orrida che quella del
gastigante a colui ch'è disposto a peccare? Certo niuna. Egli ad una ora colle sue
dimostrazioni spaventa i buoni e contrista i malvagi; per la qual cosa quanto in questo
adopera, tanto veramente orrida voce si può dire avere. Per la qual cosa, e per l'altre
di sopra toccate, assai appare, colui, che fu vivendo pastore, dopo la morte essere
divenuto paone, sì come credere si puote essere stato per divina spirazione nel sonno
mostrato alla cara madre. |
|
|
Questa esposizione del sogno della madre del nostro poeta conosco
essere assai superficialmente per me fatta; e questo per più cagioni. Primieramente,
perché forse la sufficienzia, che a tanta cosa si richiederebbe, non c'era; appresso,
posto che stata ci fosse, la principale intenzione nol patia; ultimamente, quando e la
sufficienzia ci fosse stata e la materia l'avesse patito, era ben fatto da me non essere
più detto che detto sia, acciò che ad altrui più di me sofficiente e più vago alcuno
luogo si lasciasse di dire. E perciò quello, che per me detto n'è, quanto a me dee
convenevolmente bastare; e quel, che manca, rimanga nella sollecitudine di chi segue. |
|
XXX |
Conclusione |
|
La mia piccioletta barca è pervenuta al porto, al quale ella dirizzò
la proda partendosi dallo opposito lito: e come che il peleggio sia stato picciolo, e il
mare, il quale ella ha solcato, basso e tranquillo, nondimeno, di ciò che senza
impedimento è venuta, ne sono da rendere grazie a Colui che felice vento ha prestato alle
sue vele. Al quale con quella umiltà, con quella divozione, con quella affezione che io
posso maggiore, non quelle, né così grandi come si converrieno, ma quelle che io posso,
rendo, benedicendo in etterno il suo nome e 'l suo valore. |
|
DE ORIGINE, VITA, STUDIIS ET MORIBUS CLARISSIMI VIRI DANTIS ALIGERII
FIORENTINI, POETE ILLUSTRIS, ET DE OPERIBUS COMPOSITIS AB EODEM, EXPLICIT |