XI |
La vita del poeta esule sino alla venuta in Italia di Arrigo VII |
|
Uscito adunque in cotal maniera Dante di quella città, della quale
egli non solamente era cittadino ma n'erano li suoi maggiori stati reedificatori, e
lasciatavi la sua donna, insieme con l'altra famiglia, male per picciola età alla fuga
disposta, di lei sicuro, perciò che di consanguinità la sapeva ad alcuno de' prencipi
della parte avversa congiunta, di se medesimo or qua or là incerto, andava vagando per
Toscana. Era alcuna particella delle sue possessioni dalla donna col titolo della sua dote
dalla cittadina rabbia stata con fatica difesa, de' frutti della quale essa sé e i
piccioli figliuoli di lui assai sottilmente reggeva; per la qual cosa povero, con
industria disusata gli convenia il sostentamento di se medesimo procacciare. Oh quanti
onesti sdegni gli convenne posporre, più duri a lui che morte a trapassare,
promettendogli la speranza questi dover esser brievi, e prossima la tornata! Egli, oltre
al suo stimare, parecchi anni, tornato da Verona (dove nel primo fuggire a messer Alberto
della Scala n'era ito, dal quale benignamente era stato ricevuto), quando col conte
Salvatico in Casentino, quando col marchese Morruello Malespina in Lunigiana, quando con
quegli della Faggiuola ne' monti vicini ad Orbino, assai convenevolmente, secondo il tempo
e secondo la loro possibilità, onorato si stette. Quindi poi se n'andò a Bologna, dove
poco stato n'andò a Padova, e quindi da capo si ritornò a Verona. Ma poi ch'egli vide da
ogni parte chiudersi la via alla tornata, e di dì in dì più divenire vana la sua
speranza, non solamente Toscana, ma tutta Italia abbandonata, passati i monti che quella
dividono dalla provincia di Gallia, come poté, se n'andò a Parigi; e quivi tutto si
diede allo studio e della filosofia e della teologia, ritornando ancora in sé dell'altre
scienzie ciò che forse per gli altri impedimenti avuti se ne era partito. E in ciò il
tempo studiosamente spendendo, avvenne che oltre al suo avviso, Arrigo, conte di
Luzimborgo, con volontà e mandato di Clemente papa V, il quale allora sedea, fu eletto in
re de' Romani, e appresso coronato imperadore. Il quale sentendo Dante della Magna
partirsi per soggiogarsi Italia, alla sua maestà in parte rebelle, e già con
potentissimo braccio tenere Brescia assediata, avvisando lui per molte ragioni dovere
essere vincitore, prese speranza con la sua forza e dalla sua giustizia di potere in
Fiorenza tornare, come che a lui la sentisse contraria. Per che ripassate l'Alpi, con
molti nemici di Fiorentini e di lor parte congiuntosi, e con ambascerie e con lettere
s'ingegnarono di tirare lo 'mperadore da l'assedio di Brescia, acciò che a Fiorenza il
ponesse, sì come a principale membro de' suoi nemici; mostrandogli che, superata quella,
niuna fatica gli restava, o piccola, ad avere libera ed espedita la possessione e il
dominio di tutta Italia. E come che a lui e agli altri a ciò tenenti venisse fatto il
trarloci, non ebbe perciò la sua venuta il fine da loro avvisato: le resistenze furono
grandissime, e assai maggiori che da loro avvisate non erano; per che, senza avere niuna
notevole cosa operata, lo 'mperadore, partitosi quasi disperato, verso Roma drizzò il suo
cammino. E come che in una parte e in altra più cose facesse, assai ne ordinasse e molte
di farne proponesse, ogni cosa ruppe la troppo avacciata morte di lui: per la qual morte
generalmente ciascuno che a lui attendea disperatosi, e massimamente Dante, sanza andare
di suo ritorno più avanti cercando, passate l'alpi d'Appennino, se ne andò in Romagna,
là dove l'ultimo suo dì, e che alle sue fatiche doveva por fine, l'aspettava. |
|
XII |
Dante ospite di Guido Novel da Polenta |
|
Era in que' tempi signore di Ravenna, famosa e antica città di
Romagna, uno nobile cavaliere, il cui nome era Guido Novel da Polenta; il quale, ne'
liberali studii ammaestrato, sommamente i valorosi uomini onorava, e massimamente quegli
che per iscienza gli altri avanzavano. Alle cui orecchie venuto Dante, fuori d'ogni
speranza, essere in Romagna, avendo egli lungo tempo avanti per fama conosciuto il suo
valore, in tanta disperazione, si dispose di riceverlo e d'onorarlo. Né aspettò di ciò
da lui essere richiesto, ma con liberale animo, considerata qual sia a' valorosi la
vergogna del domandare, e con proferte, gli si fece davanti, richiedendo di spezial grazia
a Dante quello ch'egli sapeva che Dante a lui dovea dimandare: cioè che seco li piacesse
di dover essere. Concorrendo adunque i due voleri ad un medesimo fine, e del domandato e
del domandatore, e piacendo sommamente a Dante la liberalità del nobile cavaliere, e
d'altra parte il bisogno strignendolo, senza aspettare più inviti che 'l primo, se
n'andò a Ravenna, dove onorevolmente dal signore di quella ricevuto, e con piacevoli
conforti risuscitata la caduta speranza, copiosamente le cose opportune donandogli, in
quella seco per più anni il tenne, anzi infino a l'ultimo della vita di lui. |
|
XIII |
Sua perseveranza al lavoro |
|
Non poterono gli amorosi disiri, né le dolenti lagrime, né la
sollecitudine casalinga, né la lusinghevole gloria de' publici ofici, né il miserabile
esilio, né la intollerabile povertà giammai con le lor forze rimuovere il nostro Dante
dal principale intento, cioè da' sacri studii; perciò che, sì come si vederà dove
appresso partitamente dell'opere da lui fatte si farà menzione, egli, nel mezzo di
qualunque fu più fiera delle passioni sopra dette, si troverà componendo essersi
esercitato. E se, ostanti cotanti e così fatti avversarii, quanti e quali di sopra sono
stati mostrati, egli per forza d'ingegno e di perseveranza riuscì chiaro qual noi
veggiamo, che si può sperare che esso fosse divenuto, avendo avuti altrettanti aiutatori,
o almeno niuno contrario, o pochissimi, come hanno molti? Certo, io non so; ma se licito
fosse a dire, io direi ch'egli fosse in terra divenuto uno Iddio. |
|
XIV |
Grandezza del poeta volgare - Sua morte |
|
Abitò adunque Dante in Ravenna, tolta via ogni speranza di ritornare
mai in Firenze, (come che tolto non fosse il disio), più anni sotto la protezione del
grazioso signore; e quivi con le sue dimostrazioni fece più scolari in poesia e
massimamente nella volgare; la quale, secondo il mio giudicio, egli primo non altramenti
fra noi Italici esaltò e recò in pregio, che la sua Omero tra' Greci o Virgilio tra'
Latini. Davanti a costui, come che per poco spazio d'anni si creda che innanzi trovata
fosse, niuno fu che ardire o sentimento avesse, dal numero delle sillabe e dalla
consonanza delle parti estreme in fuori, di farla essere strumento d'alcuna artificiosa
materia; anzi solamente in leggerissime cose d'amore con essa s'esercitavano. Costui
mostrò con effetto con essa ogni alta materia potersi trattare, e glorioso sopra ogni
altro fece il volgar nostro. |
|
Ma, poi che la sua ora venne segnata a ciascheduno, essendo egli già
nel mezzo o presso del cinquantesimo sesto suo anno infermato, e secondo la cristiana
religione ogni ecclesiastico sacramento umilmente e con divozione ricevuto, e a Dio per
contrizione d'ogni cosa commessa da lui contra al suo piacere, sì come da uomo,
riconciliatosi; del mese di settembre negli anni di Cristo MCCCXXI, nel dì che la
esaltazione della santa Croce si celebra dalla Chiesa, non sanza grandissimo dolore del
sopra detto Guido, e generalmente di tutti gli altri cittadini ravignani, al suo Creatore
rendé il faticato spirito; il quale non dubito che ricevuto non fosse nelle braccia della
sua nobilissima Beatrice, con la quale nel cospetto di Colui ch'è sommo bene, lasciate le
miserie della presente vita, ora lietissimamente vive in quella, alla cui felicità fine
giammai non s'aspetta. |
|
XV |
Sepoltura e onori funebri |
|
Fece il magnanimo cavaliere il morto corpo di Dante d'ornamenti poetici
sopra uno funebre letto adornare; e quello fatto portare sopra gli omeri de' suoi
cittadini più solenni infino al luogo de' frati minori in Ravenna, con quello onore che a
sì fatto corpo degno estimava, infino quivi quasi con publico pianto seguitolo, in una
arca lapidea, nella quale ancora giace, il fece porre. E, tornato alla casa nella quale
Dante era prima abitato, secondo il ravignano costume, esso medesimo, sì a commendazione
dell'alta scienzia e della vertù del defunto, e sì a consolazione de' suoi amici, li
quali egli avea in amarissima vita lasciati, fece uno ornato e lungo sermone; disposto, se
lo stato e la vita fossero durati, di sì egregia sepoltura onorarlo, che, se mai alcuno
altro suo merito non l'avesse memorevole renduto a' futuri, quella l'avrebbe fatto. |
|
XVI |
Gara di poeti per l'epitafio di Dante |
|
Questo laudevole proponimento infra brieve spazio di tempo fu manifesto
ad alquanti, li quali in quel tempo erano in poesì solennissimi in Romagna; per che
ciascuno sì per mostrare la sua sofficienzia, sì per rendere testimonianza della portata
benivolenzia da loro al morto poeta, sì per cattare la grazia e l'amore del signore, il
quale ciò sapevano disiderare, ciascuno per sé fece versi, li quali, posti per epitafio
alla futura sepultura, con debite lode facessero la posterità certa chi dentro da essa
giacesse; e al magnifico signore gli mandarono. Il quale con gran peccato della Fortuna,
non dopo molto tempo, toltogli lo Stato, si morì a Bologna; per la qual cosa e il fare il
sepolcro e il porvi li mandati versi si rimase. Li quali versi stati a me mostrati poi
più tempo appresso, e veggendo loro [non] avere avuto luogo per lo caso già dimostrato,
pensando le presenti cose per me scritte, come che sepoltura non sieno corporale, ma
sieno, sì come quella sarebbe stata, perpetue conservatrici della colui memoria; imaginai
non essere sconvenevole quegli aggiugnere a queste cose. Ma, perciò che più che quegli
che l'uno di coloro avesse fatti (che furon più) non si sarebbero ne' marmi intagliati,
così solamente quegli d'uno qui estimai che fosser da scrivere; per che, tutti meco
esaminatigli, per arte e per intendimento più degni estimai che fossero quattordici
fattine da maestro Giovanni del Virgilio bolognese, allora famosissimo e gran poeta, e di
Dante stato singularissimo amico; li quali sono questi appresso scritti: |
|
XVII |
Epitafio |
|
Theologus Dantes, nullius dogmatis expers, |
quod foveat claro philosophya sinu: |
gloria musarum, vulgo gratissimus auctor, |
hic iacet, et fama pulsat utrumque polum: |
qui loca defunctis gladiis regnumque gemellis |
distribuit, laycis rhetoricisque modis. |
Pascua Pyeriis demum resonabat avenis; |
Amtropos heu letum livida rupit opus. |
Huic ingrata tulit tristem Florentia fructum, |
exilium, vati patria cruda suo. |
Quem pia Guidonis gremio Ravenna Novelli |
gaudet honorati continuisse ducis, |
mille trecentenis ter septem Numinis annis, |
ad sua septembris ydibus astral redit. |
|
XVIII |
Rimprovero ai fiorentini |
|
Oh ingrata patria, quale demenzia, qual trascutaggine ti teneva, quando
tu il tuo carissimo cittadino, il tuo benefattore precipuo, il tuo unico poeta con
crudeltà disusata mettesti in fuga, o poscia tenuta t'ha? Se forse per la comune furia di
quel tempo mal consigliata ti scusi; ché, tornata, cessate l'ire, la tranquillità
dell'animo, ripentùtati del fatto, nol rivocasti? Deh! non ti rincresca lo stare con
meco, che tuo figliuol sono, alquanto a ragione, e quello che giusta indegnazione mi fa
dire, come da uomo che ti rammendi disidera e non che tu sii punita, piglierai. Parti egli
essere gloriosa di tanti titoli e di tali, che tu quello uno del quale non hai vicina
città che di simile si possa esaltare, tu abbi voluto da te cacciare? Deh! dimmi: di qua'
vittorie, di qua' triunfi, di quali eccellenzie, di quali valorosi cittadini se' tu
splendente? Le tue ricchezze, cosa mobile e incerta, le tue bellezze, cosa fragile e
caduca, le tue dilicatezze, cosa vituperevole e feminile, ti fanno nota nel falso giudicio
de' popoli, il quale più ad apparenza che ad esistenza sempre riguarda. Deh! gloriera'ti
tu dè' tuoi mercatanti e de' molti artisti, donde tu se' piena? Scioccamente farai: l'uno
fu, continuamente l'avarizia operando, lo mestiere servile; l'arte, la quale un tempo
nobilitata fu dagl'ingegni, intanto che una seconda natura la fecero, dall'avarizia
medesima è oggi corrotta, e niente vale. Gloriera'ti tu della viltà e ignavia di coloro
li quali, perciò che di molti loro avoli si ricordano, vogliono dentro da te della
nobiltà ottenere il principato, sempre con ruberie e con tradimenti e con falsità contra
quella operanti? Vana gloria sarà la tua, e da coloro, le cui sentenzie hanno fondamento
debito e stabile fermezza, schernita. Ahi! misera madre, apri gli occhi e guarda con
alcuno rimordimento a quello che tu facesti; e vergógnati almeno, essendo reputata savia
come tu se', d'avere avuta ne' falli tuoi falsa elezione! Deh! se tu da te non avevi tanto
consiglio, perché non imitavi tu gli atti di quelle città, le quali ancora per le loro
laudevoli opere son famose? Atene, la quale fu l'uno degli occhi di Grecia, allora che in
quella era la monarcia del mondo, per iscienzia, per eloquenzia e per milizia splendida
parimente; Argos, ancora pomposa per li titoli de' suoi re; Smirna a noi reverenda in
perpetuo per Niccolaio suo pastore; Pilos, notissima per lo vecchio Nestore; Chimi, Chios
e Colofon, città splendidissime per addietro, tutte insieme, qualora più gloriose
furono, non si vergognarono né dubitarono d'avere agra quistione della origine del divino
poeta Omero, affermando ciascuna lui di sé averla tratta; e sì ciascuna fece con
argomenti forte la sua intenzione, che ancora la quistion vive; né è certo donde si
fosse, perché parimente di cotal cittadino così l'una come l'altra ancor si gloria. E
Mantova, nostra vicina, di quale altra cosa l'è più alcuna fama rimasa, che l'essere
stato Virgilio mantovano? il cui nome hanno ancora in tanta reverenzia, e sì è appo
tutti accettevole, che non solamente ne' publici luoghi, ma ancora in molti privati si
vede la sua imagine effigiata; mostrando in ciò che, non ostante che il padre di lui
fosse lutifigolo, esso di tutti loro sia stato nobilitatore. Sulmona d'Ovidio, Venosa
d'Orazio, Aquino di Iovenale, e altre molte, ciascuna si gloria del suo, e della loro
sufficienzia fanno quistione. L'esemplo di queste non t'era vergogna di seguitare; le
quali non è verisimile sanza cagione essere state e vaghe e tènere di cittadini così
fatti. Esse conobbero quello che tu medesima potevi conoscere e puoi: cioè che le costoro
perpetue operazioni sarebbero ancora dopo la lor ruina ritenitrici eterne del nome loro:
così come al presente divulgate per tutto il mondo le fanno conoscere a coloro che non le
vider giammai. Tu sola, non so da qual cechità adombrata, hai voluto tenere altro
cammino, e, quasi molto da te lucente, di questo splendore non hai curato: tu sola, quasi
i Camilli, i Publicoli, i Torquati, i Fabrizi, i Catoni, i Fabii e gli Scipioni con le
loro magnifiche opere ti facessero famosa e in te fossero, non solamente, avendoti
lasciato l'antico tuo cittadino Claudiano cadere de le mani, non hai avuto del presente
poeta cura; ma l'hai da te cacciato, sbandito e privatolo, se tu avessi potuto, del tuo
sopranome. Io non posso fuggire di vergognarmene in tuo servigio. Ma ecco: non la Fortuna,
ma il corso della natura delle cose è stato al tuo disonesto appetito favorevole in
tanto, in quanto quello che tu volentieri, bestialmente bramosa, avresti fatto se nelle
mani ti fosse venuto, cioè uccisolo, egli con la sua etterna legge l'ha operato. Morto è
il tuo Dante Alighieri in quello esilio che tu ingiustamente, del suo valore invidiosa,
gli desti. Oh peccato da non ricordare, che la madre alle virtù d'alcuno suo figliuolo
porti livore! Ora adunque se' di sollicitudine libera, ora per la morte di lui vivi ne'
tuoi difetti sicura, e puoi alle tue lunghe e ingiuste persecuzioni porre fine. Egli non
ti può far, morto, quello che mai, vivendo, non t'avria fatto; egli giace sotto altro
cielo che sotto il tuo, né più dèi aspettar di vederlo giammai, se non quel dì, nel
quale tutti li tuoi cittadini veder potrai, e le lor colpe da giusto giudice esaminate e
punite. |
|
Adunque se gli odii, l'ire e le inimicizie cessano per la morte di
qualunque è che muoia, come si crede, comincia a tornare in te medesima e nel tuo diritto
conoscimento; comincia a vergognarti d'avere fatto contra la tua antica umanità; comincia
a volere apparire madre e non più inimica; concedi le debite lagrime al tuo figliuolo;
concedigli la materna pietà; e colui, il quale tu rifiutasti, anzi cacciasti vivo sì
come sospetto, disidera almeno di riaverlo morto; rendi la tua cittadinanza, il tuo seno,
la tua grazia alla sua memoria. In verità, quantunque tu a lui ingrata e proterva
fossi,egli sempre come figliuolo ebbe te in reverenza, né mai di quello onore che per le
sue opere seguire ti dovea, volle privarti, come tu lui della tua cittadinanza privasti.
Sempre fiorentino, quantunque l'esilio fosse lungo, si nominò e volle essere nominato,
sempre ad ogni altra ti prepose, sempre t'amò. Che dunque farai? starai sempre nella tua
iniquità ostinata? sarà in te meno d'umanità che ne' barbari, li quali troviamo non
solamente aver li corpi delli loro morti raddomandati, ma per riavergli essersi virilmente
disposti a morire? Tu vuogli che 'l mondo creda te essere nepote della famosa Troia e
figliuola di Roma: certo, i figliuoli deono essere a' padri e agli avoli simiglianti.
Priamo nella sua miseria non solamente raddomandò il corpo del morto Ettore, ma quello
con altrettanto oro ricomperò. Li Romani, secondo che alcuni pare che credano, feciono da
Miturna venire l'ossa del primo Scipione, da lui a loro con ragione nella sua morte
vietate. E come che Ettore fosse con la sua prodezza lunga difesa de' Troiani, e Scipione
liberatore non solamente di Roma, ma di tutta Italia (delle quali due cose forse così
propiamente niuna si può dire di Dante), egli non è perciò da posporre; niuna volta fu
mai che l'armi non dessero luogo alla scienzia. Se tu primieramente, e dove più si sarìa
convenuto, l'esemplo e l'opere delle savie città non imitasti, ammenda al presente,
seguendole. Niuna delle sette predette fu che o vera o fittizia sepultura non facesse ad
Omero. E chi dubita che i Mantovani, li quali ancora in Piettola onorano la povera casetta
e i campi che fûr di Virgilio, non avessero a lui fatta onorevole sepoltura, se Ottaviano
Augusto, il quale da Brandizio a Napoli le sue ossa avea trasportate, non avesse comandato
quello luogo dove poste l'avea, volere loro essere perpetua requie? Sermona niuna altra
cosa pianse lungamente, se non che l'isola di Ponto tenga in incerto luogo il suo Ovidio;
e così di Cassio Parma si rallegra tenendolo. Cerca tu adunque di volere essere del tuo
Dante guardiana; raddomandalo; mostra questa umanità, presupposto che tu non abbi voglia
di riaverlo; togli a te medesima con questa fizione parte del biasimo per addietro
acquistato: raddomandalo. Io son certo ch'egli non ti fia renduto; e ad una ora ti sarai
mostrata pietosa, e goderai, non riavendolo, della tua innata crudeltà. Ma a che ti
conforto io? Appena che io creda, se i corpi morti possono alcuna cosa sentire, che quello
di Dante si potesse partire di là dove è, per dovere a te tornare. Egli giace con
compagnia troppo più laudevole che quella che tu gli potessi dare. Egli giace in Ravenna,
molto più per età veneranda di te; e come che la sua vecchiezza alquanto la renda
deforme, ella fu nella sua giovanezza troppo più florida che tu non se'. Ella è quasi un
generale sepolcro di santissimi corpi, né niuna parte in essa si calca, dove su per
reverendissime ceneri non si vada. Chi dunque disidererebbe di tornare a te per dovere
giacere fra le tue, le quali si può credere che ancora servino la rabbia e l'iniquità
nella vita avute, e male concorde insieme si fuggano l'una da l'altra, non altramenti che
facessero le fiamme de' due Tebani? E come che Ravenna già quasi tutta del prezioso
sangue di molti martiri si bagnasse, e oggi con reverenzia servi le loro reliquie, e
similmente i corpi di molti magnifici imperadori e d'altri uomini chiarissimi e per
antichi avoli e per opere virtuose, ella non si rallegra poco d'esserle stato da Dio,
oltre a l'altre sue dote, conceduto d'essere perpetua guardiana di così fatto tesoro,
come è il corpo di colui, le cui opere tengono in ammirazione tutto il mondo, e del quale
tu non ti se' saputa far degna. Ma certo egli non è tanta l'allegrezza d'averlo, quanta
la invidia ch'ella ti porta che tu t'intitoli della sua origine, quasi sdegnando che dove
ella sia per l'ultimo dì di lui ricordata, tu allato a lei sii nominata per lo primo. E
perciò con la tua ingratitudine ti rimani, e Ravenna de' tuoi onori lieta si glorii tra'
futuri. |
|
XIX |
Breve ricapitolazione |
|
Cotale, quale di sopra è dimostrata, fu a Dante la fine della vita
faticata da' vari studii; e, perciò che assai convenevolmente le sue fiamme, la familiare
e la publica sollecitudine e il miserabile esilio e la fine di lui mi pare avere secondo
la mia promessa mostrate, giudico sia da pervenire a mostrare della statura del corpo,
dell'abito, e generalmente de' più notabili modi servati nella sua vita da lui; da quegli
poi immediatamente vegnendo all'opere degne di nota, compilate da esso nel tempo suo,
infestato da tanta turbine quanta di sopra brievemente è dichiarata. |
|
XX |
Fattezze e costumi di Dante |
|
Fu adunque questo nostro poeta di mediocre statura, e, poi che alla
matura età fu pervenuto, andò alquanto curvetto, e era il suo andare grave e mansueto,
d'onestissimi panni sempre vestito in quell'abito che era alla sua maturità convenevole.
Il suo volto fu lungo, e il naso aquilino, e gli occhi anzi grossi che piccioli, le
mascelle grandi, e dal labbro di sotto era quel di sopra avanzato; e il colore era bruno,
e i capelli e la barba spessi, neri e crespi, e sempre nella faccia malinconico e pensoso.
Per la qual cosa avvenne un giorno in Verona ,essendo già divulgata pertutto la fama
delle sue opere, e massimamente quella parte della sua Comedia, la quale egli intitola
Inferno, e esso conosciuto da molti e uomini e donne, che, passando egli davanti a una
porta dove più donne sedevano, una di quelle pianamente, non però tanto che bene da lui
e da chi con lui era non fosse udita, disse all'altre: <<Donne, vedete colui che va
nell'inferno, e torna quando gli piace, e qua su reca novelle di coloro che là giù
sono?>> Alla quale una dell'altre rispose semplicemente: <<In verità tu dèi
dir vero: non vedi tu com'egli ha la barba crespa e il color bruno per lo caldo e per lo
fummo che è là giù?>>. Le quali parole udendo egli dir dietro a sé, e conoscendo
che da pura credenza delle donne venivano, piacendogli, e quasi contento ch'esse in cotale
oppinione fossero, sorridendo alquanto, passò avanti. |
|
Ne' costumi domestici e publici mirabilemente fu ordinato e composto, e
in tutti più che alcuno altro cortese e civile. |
|
Nel cibo e nel poto fu modestissimo, sì in prenderlo all'ore ordinate
e sì in non trapassare il segno della necessità, quel prendendo; né alcuna curiosità
ebbe mai più in uno che in uno altro: li dilicati lodava, e il più si pasceva di grossi,
oltre modo biasimando coloro, li quali gran parte del loro studio pongono e in avere le
cose elette e quelle fare con somma diligenzia apparare; affermando questi cotali non
mangiare per vivere, ma più tosto vivere per mangiare. |
|
Niuno altro fu più vigilante di lui e negli studii e in qualunque
altra sollecitudine il pugnesse; intanto che più volte e la sua famiglia e la donna se ne
dolfono, prima che, a' suoi costumi adusate, ciò mettessero in non calere . |
|
Rade volte, se non domandato, parlava, e quelle pesatamente e con voce
conveniente alla materia di che diceva; non pertanto, là dove si richiedeva,
eloquentissimo fu e facundo, e con ottima e pronta prolazione. |
|
Sommamente si dilettò in suoni e in canti nella sua giovanezza, e a
ciascuno che a que' tempi era ottimo cantatore o sonatore fu amico e ebbe sua usanza; e
assai cose, da questo diletto tirato, compose, le quali di piacevole e maestrevole nota a
questi cotali facea rivestire. |
|
Quanto ferventemente esso fosse ad amor sottoposto, assai chiaro è
già mostrato. Questo amore è ferma credenza di tutti che fosse movitore del suo ingegno
a dovere, prima imitando, divenir dicitore in volgare; poi, per vaghezza di più
solennemente mostrare le sue passionie, di gloria, sollecitamente esercitandosi in quella,
non solamente passò ciascuno suo contemporaneo, ma intanto la dilucidò e fece bella, che
molti allora e poi di dietro a sé n'ha fatti e farà vaghi d'essere esperti. |
|
Dilettossi similemente d'essere solitario e rimoto dalle genti, acciò
che le sue contemplazioni non gli fossero interrotte; e se pure alcuna che molto piaciuta
gli fosse ne gli veniva, essendo esso tra gente, quantunque d'alcuna cosa fosse stato
addomandato, giammai infino a tanto che egli o fermata o dannata la sua imaginazione
avesse, non avrebbe risposto al dimandante: il che molte volte, essendo egli alla mensa, e
essendo in cammino con compagni, e in altre parti, domandato, gli avvenne. |
|
Ne' suoi studi fu assiduissimo, quanto è quel tempo che ad essi si
disponea, intanto che niuna novità che s'udisse da quegli il poteva rimuovere. E, secondo
che alcuni degni di fede raccontano di questo darsi tutto a cosa che gli piacesse, egli,
essendo una volta tra l'altre in Siena, e avvenutosi per accidente alla stazzone d'uno
speziale, e quivi statogli recato uno libretto davanti promessogli, e tra' valenti uomini
molto famoso, né da lui stato giammai veduto, non avendo per avventura spazio di portarlo
in altra parte, sopra la panca che davanti allo speziale era, si pose col petto, e,
messosi il libretto davanti, quello cupidissimamente cominciò a vedere. E come che poco
appresso in quella contrada stessa, e dinanzi da lui, per alcuna general festa de' Sanesi,
s' incominciasse da gentili giovani e facesse una grande armeggiata, e con quella
grandissimi romori da' circustanti (sì come in cotali casi con istrumenti varii e con
voci applaudenti suol farsi), e altre cose assai v'avvenissero da dover tirare altrui a
vedersi, sì come balli di vaghe donne e giuochi molti di giovani; mai non fu alcuno che
muovere quindi il vedesse, né alcuna volta levare gli occhi dal libro: anzi, postovisi
quasi ad ora di nona, prima fu passato vespro, e tutto l'ebbe veduto e quasi sommariamente
compreso, che egli da ciò si levasse; affermando poi ad alcuni, che il domandavano come
s'era potuto tenere di riguardare a così bella festa come davanti a lui s'era fatta, sé
niente averne sentito: per che alla prima maraviglia non indebitamente la seconda
s'aggiunse a' dimandanti. |
|
Fu ancora questo poeta di maravigliosa capacità e di memoria
fermissima e di perspicace intelletto, intanto che, essendo egli a Parigi, e quivi
sostenendo in una disputazione de quolibet che nelle scuole della teologia si facea,
quattordici quistioni da diversi valenti uomini e di diverse materie, con gli loro
argomenti pro e contra fatti dagli opponenti, senza mettere in mezzo raccolse, e
ordinatamente, come poste erano state, recitò; quelle poi, seguendo quello medesimo
ordine, sottilmente solvendo e rispondendo agli argomenti contrari. La qual cosa quasi
miracolo da tutti i circustanti fu reputata. |
|
D'altissimo ingegno e di sottile invenzione fu similmente, sì come le
sue opere troppo più manifestano agl'intendenti che non potrebbono fare le mie lettere. |
|
Vaghissimo fu e d'onore e di pompa per avventura più che alla sua
inclita virtù non si sarebbe richiesto. Ma che? qual vita è tanto umile, che dalla
dolcezza della gloria non sia tocca? E per questa vaghezza credo che oltre ad ogni altro
studio amasse la poesia, veggendo, come che la filosofia ogni altra trapassi di nobiltà,
la eccellenzia di quella con pochi potersi comunicare, e esserne per lo mondo molti
famosi; e la poesia più essere apparente e dilettevole a ciascuno, e li poeti rarissimi.
E perciò, sperando per la poesì allo inusitato e pomposo onore della coronazione
dell'alloro poter pervenire, tutto a lei si diede e istudiando e componendo. E certo il
suo disiderio veniva intero, se tanto gli fosse stata la Fortuna graziosa, che egli fosse
giammai potuto tornare in Firenze, nella quale sola sopra le fonti di San Giovanni s'era
disposto di coronare; acciò che quivi, dove per lo battesimo aveva preso il primo nome,
quivi medesimo per la coronazione prendesse il secondo. Ma così andò che, quantunque la
sua sufficienza fosse molta, e per quella in ogni parte, ove piaciuto gli fosse, avesse
potuto l'onore della laurea pigliare (la quale non iscienzia accresce, ma è
dell'acquistata certissimo testimonio e ornamento); pur, quella tornata, che mai non
doveva essere, aspettando, altrove pigliar non la volle; e cosi, senza il molto disiderato
onore avere, si morì. Ma, percio che spessa quistione si fa tra le genti, e che cosa sia
la poesì e che il poeta, e donde sia questo nome venuto e perché di lauro sieno coronati
i poeti, e da pochi pare essere stato mostrato; mi piace qui di fare alcuna
transgressione, nella quale io questo alquanto dichiari, tornando, come più tosto potrò,
al proposito. |