De Bibliotheca
La biblioteca di Babele
CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

Della Ragion di Stato

di: Ludovico Zuccolo

Tyrannus suam, rex subditorum utilitatem spectat Aristotele

Aristotele

Chi mai non solcò il mare, non presume di saper l’arte di navigare; chi non diede opera alla musica, non fa professione d’intender le note e i tuoni. Ma pochi sono quegli uomini i quali, benché non governasser mai, non pretendano di saper dar giudicio della amministrazione delle republiche e degli imperi. Tale è che non fu mai nel foro e non vide mai né leggi né statuti, e nondimeno ha opinione di poter meglio decidere le liti che non fanno i giudici piú scienziati e piú vecchi. Altri che non pose mai piede in curia, né mai lesse politica né istoria, si crede d’essere atto a consultar del pari delle publiche bisogne coi senatori e coi principi. E quindi nasce che non pure i consiglieri nelle corti e i dottori nelle scuole, ma i barbieri eziandio e gli altri piú vili artefici nelle boteghe e nei ritrovi loro discorrono e questionano della ragione di stato e si dánno a credere di conoscere quali cose si facciano per ragione di stato e quali no.

Tuttavia, niuno fin ora anco degli uomini piú saggi e piú letterati ha saputo, a giudicio mio, ben dichiarare che cosa sia ragione di stato e in che consista. Chi la confonde con la politica; chi la fa una parte di quella, e poi non sa dire com’ella sia dal tutto differente; chi la pone nel contravenire alle leggi; chi con le leggi a pieno l’accorda; chi la fonda in tutto sullo interesse e sulla ingiustizia; chi dall’onestá non la scompagna mai. E chi parte ne crede rea e tirannica, parte buona e giusta, benché non sappia darle sì evidente contrasegno che l’una si riconosca con agevolezza dall’altra.

Ma forse il nome stesso della ragione di stato e il fine al quale communemente risguarda ne può senza molta difficoltá far conoscere la natura sua. La politica pare che miri principalmente al ben publico, e la ragione di stato piú al bene di coloro che sono capi della republica; e in conseguenza la prima ci si mostra con faccia onesta e pia, e questa altra con apparenza ben spesso malvagia ed empia. Quella rassembra che abbracci tutto il corpo della republica, e questa pare che non si adoperi se non in certi pochi casi particolari. Sicché la ragione di stato, o sia membro della politica o arte o facoltá a quella subalternata, doverassi restringere tra confini assai piú angusti che la politica non si ristringe. Verrá poi anche ad essere diversa dalle leggi, perché le leggi piú sono maneggiate dai giudici che da coloro i quali sono supremi nel governo. La ragione di stato all’incontro non dai giudici, ma dai prencipi e dai senatori viene amministrata. Le leggi risguardano principalmente al bene de’ privati, e la ragione di stato piú a quello di chi regge. Non però consiste nel contravenire alle leggi, avvengadioché per accidente alcuna volta il faccia. Perché delle cose spettanti alla ragione di stato si possono eziandio dar leggi, e le medesime cose, le quali si fanno per ragione di stato, si possono anco talora far per leggi. Sicché gl’istituti in Roma, che la dittatura non passasse sei mesi, e che il tribuno della plebe fosse sacro e inviolabile, e che l’uno dei due consoli dovesse essere sempre plebeo, erano insieme sulle leggi e sulla ragione di stato fondati. Né le leggi Valeria e Orazia, né l’Emilia o le Publie o l’Annaria o l’Ortensia o la Puerizia o 1’Icilia e Duillia o la Canuleia o la Claudia o l’Oguinia o la Manilia, ebber quasi altra mira che regolare interessi pertinenti a ragione di stato. Non sono, dunque, le leggi e la ragione di stato incompatibili, come si credette Scipione Ammirato, ancorché alcuna volta per accidente l’una ripugni all’altre. Ma questo apparirà meglio quando averemo veduto un poco piú dappresso che cosa sia ragione di stato: il che l’istesso suo nome ed il fine, dove ella mira, ci fará in gran parte manifesto. Che il Turco per ragione di stato uccida, per esempio, i fratelli ed i nipoti, o ch’egli appoggi tutta la sua potenza sul numero e sul valore de’ suoi schiavi, non vuole, a giudicio mio, altro significare se non che la natura, l’essenza e la forma dello stato suo così richiede. Onde l’operare per ragione di stato non verrá altro a dire che un operare conforme all’essenza o forma di quello stato che l’uomo si ha proposto di conservare o di costituire. Però gli ateniesi per mantenimento della democrazia inventarono l’ostracismo e i fiorentini l’ammonizione, che era pure una maniera d’ostracismo, quantunque piú crudele ed iniqua dell’ateniese. Tarquinio Superbo, mentre, lasciato di communicare le publiche bisogne co’ senatori, come fu stile degli altri re, si mise a governar la republica con domestici consigli, diè saggio di volere essere piú tosto tiranno che re. Cosi Ottavio, col disarmare il popolo romano, finite ch’ebbe le guerre civili, allettandolo con l’abbondanza e coi giochi teatrali alle commoditá e all’ozio, fondò quella tirannide, la quale fu poi ridotta a compiuta forma da Tiberio con la legge della maestá praticata con interpretazioni troppo sottili e cautelose, e con altri modi scelerati. Gli svizzeri, col tagliare a pezzi la nobiltá che, altiera e superba, opprimeva la gente piú bassa, istituirono la democrazia. Alcuni, col levar l’arme di mano ai popoli sotto pretesto che possano meglio attendere ai loro mestieri, hanno dirizzate in piede le oligarchie. Altri, col farsi capi della plebe per liberarla dalla oppressione de’ nobili, sono divenuti tiranni. Le quali tutte sono operazioni fatte per ragione di stato, e tutte per appunto indirizzate a pro di chi dee governare.
Ma perché il fin prossimo di chi dee reggere è d’introdurre e di conservare quella particolar forma di republica la quale si ha proposta per iscopo, ne avviene che la ragione di stato tutta si rivolga intorno al conoscere quersquo mezzi e a valersene, i quali siano opportuni per ordinare o per conservare qualsivoglia costituzione di republica, qualunque ella si sia. Quersquo mezzi dunque, i quali sono opportuni per istituire o per conservare il regno, si diranno di ragione di stato regio; e quei che sono utili per introdurre o per conservare la forma tirannica, si chiameranno di ragione di stato tirannico, ed il simile possiamo discorrere per tutte l’altre spezie di governo. Però, se buona sará la forma della republica, giusta sará la ragione di stato die la risguarda; e, se la forma della republica sará mala, ingiusta doverá dirsi la ragione di stato, ch’a quella è indirizzata. Perché, dunque, la forma della republica veneziana è buona, il procurar che gli onori si compartano con tal misura che gli onorati si ammirino tra gli altri, né possano sopra gli altri insuperbirsi gran fatto, e il fare un prencipe die in apparenza tenga maestá di re e in fatto sia poco piú che un semplice senatore, i quali sono istituti accomodati al mantenimento di quella forma, non si possono se non lodare ed ammirare. Dall’altra parte, perché il governo del turco è tirannico, le regole di ragione di stato, delle quali si serve, come l’opprimer la nobiltá, il togliere i figli ai propri padri per allevarli a suo gusto, il privar le cittá di consigli e di senati, sono perverse e inique. Però, benché sieno utili a chi regge, sono, come ingiuste e ree, dannose ai popoli soggetti. Non è tuttavia inconveniente che a governo pravo si addatti talora alcuna regola di ragione di stato non perversa. Perché anco l’iniqua costituzione della republica non è priva in tutto di qualche scintilla di bene. Ma nersquo governi retti gl’istituti di ragione di stato del pari sono utili a chi commanda e a chi ubbidisce, poiché all’uno arrecano onore, all’altro giovamento, e sicurezza a tutti due. Bene è vero che, quando chi regge sia uomo o mal pratico o poco avveduto, potrá bene spesso valersi di regole di ragione di stato non bene accommodate alla forma del suo governo. Ma questo è un non sapere accordare i mezzi col fine, e in conseguenza uno uscir fuori de’ limiti dell’arte, come farebbe colui il quale o non sapesse tagliar le scarpe che si addattassero al piede o non le sapesse cucire a proposito, che però o non calzolaio o mal calzolaio avrebbe a nominarsi. Laonde, siccome i lavori di colui non caderebbero propriamente sotto la considerazione di chi trattasse dell’arte del fare le scarpe; cosi le regole di prencipe o di senato poco atto al governo non vengono per appunto sotto la considerazione di chi discorre della ragione di stato, se non forse come da fuggirsi o da migliorarsi.

Giá abbiamo come disegnata l’imagine della ragione di stato: ora fia bene che cominciamo a darle il colore e i lumi, acciocché piú bella e piú perfetta appaia. E, per meglio conseguir l’intento nostro, dobbiamo in prima supporre che nelle attive e nelle fattive arti, o professioni o facoltá che si abbiano a nominare, si dánno due abiti: l’uno de’ quali insegna a conoscere i mezzi e i modi per conseguire il fine, e l’altro conforme agli insegnamenti di quel primo se ne vale. Quello che ‘l retorico insegna per ben persuadere, l’oratore il pone in opera. Secondo gli ammaestramenti dello scrittore della poetica, ordina il poeta i suoi componimenti. L’istorico compone le sue istorie conforme ai precetti d’uno artefice, che con lui tiene quella proporzione che ha il retorico all’oratore. Ma perché l’operante non può bene operare, se prima non conosce, e perché la povertá delle lingue ci costringe il piú delle volte ad esprimer questi due abiti con un sol nome, ne avviene che communemente si reputano un solo. Ma veramente sono due e tra di loro differenti, come la retorica dall’arte oratoria; e l’operativo, come piú nobile, è fine dell’altro ed anco in sé l’include. Perché il poeta è insieme poeta e poetico; ma non chi è poetico sempre viene ad essere poeta. Quindi possiamo venire in cognizione, che anco la ragione di stato è di due sorti: l’una, che insegna i mezzi atti per introdurre e per conservare la forma della Republica, e l’altra che gli mette in opera. Ma, conosciuta l’una, non è difficile l’intender l’altra, sì come, conosciuta l’essenza della retorica, si può agevolmente conoscere quella dell’arte oratoria. E, per contrario, dal ben sapere la natura dell’arte oratoria con poca fatica si può della retorica comprendere l’essenza. La ragione di stato, che risponde alla retorica, sará un’arte o facoltá di conoscere i mezzi e i modi atti ad introdurre in uno stato e conservar qualsivoglia forma di republica. E quella, che risponde all’arte oratoria, non sará altro che un’arte o facoltá di mettere in opera sì fatti mezzi e modi.

Dalle cose discorse possiamo agevolmente venire in cognizione di qualsivoglia particolare spezie di ragione di stato. Perché quella, la quale risguarda al tiranno, sará un’arte di conoscere i mezzi e i modi atti a costituire e conservare il governo tirannico; e quella, che mira al re, sará arte di conoscere i mezzi e i modi atti a costituire e conservare il governo regio. E, così discorrendo per l’altre spezie di republica, ci sará facile il diffinire la ragione di stato a ciascheduna appartenente. Se poi a qualsivoglia spezie di ragione conoscitiva ne faremo rispondere un’altra operativa, avremo, a giudicio mio, intiera contezza della ragione di stato.

Io mi sono valuto nelle diffinizioni delle voci «arte» e «facoltá» per non mettere in vilipendio il bello e onorato nome di «prudenza»; ma veramente nelle buone republiche la ragione di stato non è altro che la prudenza intorno a quersquo mezzi e modi che detto abbiamo; e nelle male, una tale avvedutezza, la quale con esso loro ha quella proporzione che la prudenza ha con le buone. Ma, siccome quella poca ombra di giustizia ch’è tra corsari e altri ladroni, pur suole anco nominarsi giustizia, forse anco non sarebbe disdicevole il chiamar prudenza la ragione di stato del tiranno e de’ pochi potenti, per la somiglianza che tengono con quella prudenza, la quale è nelle buone republiche della forma introduttrice e conservatrice: ché così verrebbesi a diffinire per un genere piú prossimo e piú proprio. E questo sia detto acciocché si penetri piú al vivo la ragione di stato, lasciando tuttavia in suo arbitrio ciascuno d’appigliarsi alla voce o «facoltá» o «arte» o «prudenza», come piú gli piace, che nei generi degli accidenti non sì rivede si a minuto come in quei delle sostanze.

Si sono alcuni dato a credere che la ragione di stato supponga il prencipe e lo stato giá in essere e che però non si travagli intorno alla costituzione della republica, attendendo solamente alla conservazione e allo accrescimento; ma sono in grave errore caduti. Perché, quantunque non possa la ragione di stato porsi in uso, quando manchi o l’operante o lo stato, intorno al quale egli faccia le sue operazioni, può nondimeno, verbigrazia, la ragione di stato regia porsi in opera prima che altri sia re o che sia in essere il regno; e così la tirannica, e tutto l’altre. Perche Dionisio e Pisistrato e Cesare, innanzi che introducessero la tirannide in Siracusa, in Atene, in Roma, si valsero di quersquo mezzi e di quersquo modi di ragione tirannica che gli potevano sublimare all’imperio della patria. Come il medico introduce nel corpo la sanitá e introdotta la conserva, così chi opera per ragione di stato può nella republica nuova forma introdurre o conservar l’introdotta. Però diceva anco Aristotele: «Quaedam artes distinguuntur, nec est eiusdem fecisse ac facto uti, quemadmodum lyra et fistulis, sed reipublicae disciplinae est civitatem ab initio constituisse et constituta bene uti». L’accrescimento poi del dominio non pare che troppo bene si accomodi con la ragione di stato, che non si direbbe se non molto impropriamente accrescere la forma. Ma. perché i mezzi e i modi della costituzione e dell’accrescimento d’uno imperio quasi affatto sono i medesimi, chi sa costituire una republica saprá anco ampliarla. E così nella costituzione verremo in un certo modo ad includere l’accrescimento. O forse chi corrobora o migliora lo stato ch’egli tiene in mano, in quanto appartiene alla ragione di stato non fa altro che perfezionare e affinar la costituzione della republica, e negli acquisti nuovi, quando sian fatti con accortezza e con prudenza, v’entrerá la ragione di stato pur come di forma introduttiva. Sicché, quando la sappiamo ben distinguere da quelle cose che sono proprie della guerra, vedremo che sempre ella sará introduttiva o conservativa di forma. Ma però sopra questo capo favelleremo anco un poco piú a minuto nel fine del discorso.

Ora con grande agevolezza potremo a pieno conoscere che differenza sia tra la politica e la ragione di stato. Abbraccia la politica, come si disse fin da principio, tutto il corpo della republica, e in conseguenza ha l’occhio al ben publico ed al privato, valendosi in parte delle leggi, come di sue ministre, in parte adoperando ella stessa per conseguir l’intento suo. Ma la ragione di stato non s’intromette se non in quei mezzi e modi, i quali si aspettano all’introdurre e al conservare formo particolari di republiche. E, per levar via ogni ambiguitá, la quale potesse nascere nelle parole, dico che la ragione di stato non considera quello che assolutamente convenga alla republica, né quello che del pari si appartenga alla tirannide e al regno, o pure alla oligarchia e aristocrazia, ma si travaglia intorno a quelle ultime differenze, per le quali formalmente si distingue l’una spezie di governo dall’altra; né pure, verbigrazia, considera come la costituzion regia sia differente dalla tirannica o l’aristocratica dall’oligarchica, ma anco piú precisamente come la forma regia di Francia sia diversa dalla regia di Spagna o la popolare svizzera dalla olandese. Né perché le medesime regole di reggimento si addattino talora a piú spezie di governo, la ragione di stato tuttavia poco le risguarda, se non quanto servono a quella spezie precisa e individua di republica che altri vuole introdurre o conservare. Però, quando si dice che la ragione di stato mira alla introduzione e conservazione della forma di qualsivoglia spezie di republica, si debbono pigliar quelle parole in un tal sentimento disgiuntivo, che meglio s’intende da quello che pur ora abbiamo detto, che forse non farebbe se piú a lungo con altri termini si dichiarasse, per aver la lingua nostra strettezza di voci accommodate alla espressione di simili concetti, ad ispiegare i quali quasi si mostra ancor fanciulla. Qui non voglio rimanermi di avvertire chi leggerá, le forme propriamente essere a guisa d’unitá, le quali, aggiunte ai numeri, gli fanno riuscir diversi di spezie l’uno dall’altro. Ma io non mi attengo, mentre ragiono d’introduzione e di conservazione di forma, a sì ristretto significato; ma sotto nome di forma intendo quella disposizione e costituzione di cose, dalle quali immediatamente ne risulta la forma specifica insieme con l’istessa forma, aggiunta quasi unitá a siffatta costituzione. E però il nome di costituzione e di forma della republica a me significano quasi il medesimo. E così a punto nelle morali dottrine, dove non si procede con quella strettezza di termini che si usa nelle matematiche e nelle naturali, pare a me che si soglia per lo piú intendere la forma.

Un’altra non minore differenza resta tra la politica e la ragione di stato. Conciosiacosaché la politica mai non leva l’occhio dalla onestá e, quantunque ci disegni ora la licenza popolare, ora il dominio di pochi potenti, ora la tirannia, il fa non perché le abbracciamo, ma perché o le schifiamo affatto o perché le moderiamo almeno. E questo a punto volle accennarci Aristotele, quando doppo l’aver trattato del regno, degli ottimati e di piú altre spezie di governo, cosi scrisse: «merito postremo loco tyrannidem reservavimus, propterea quod ista minime est respublica: nostra vero materia est de republica tractare». Ma la ragione di stato sì non meno risguarda al brutto che all’onesto, non manco va dietro all’ingiusto che al giusto, in quel sentimento disgiuntivo però del quale favellai poco a dietro. E quindi è nata l’opinione di coloro i quali si sono dati a credere che ogni ragione di stato sia perversa, non si accorgendo che, se quella delle male republiche è rea, buona sará quella delle rette. Perché i modi e i mezzi i quali di loro natura sono rivolti al bene, di necessitá sono buoni. Ben è vero che, per esser radi i buoni governi, ne nasce che la ragione di stato, la quale si pratica, si mostri quasi sempre iniqua e rea. E per questo rispetto forse anco è piaciuto ai prencipi il nome di ragione di stato, acciocché sotto la coperta di vocabolo onesto si potesse in qualche parte occoltare la malvagitá della cosa. Non si toglie tuttavia, che non sia qualche ragione di stato di sua natura buona. Ma, perché conforma nel fine con la politica, come parte non discordante dal suo tutto o germoglio non dissimile alla sua pianta, ne avviene che il piú delle volte col nome commune di politica si chiami. La ragione di stato poi de’ cattivi governi, perché discorda nel fine dalla politica, si è introdotto di chiamarla con particolar nome. Ma risolutamente, perché niun dominio può costituirsi

o conservarsi senza qualche spezial forma di republica, niuno potrá anco mancare della sua ragione di stato, di sì fatta forma introduttrice e conservatrice.

Ora non è difficile il conoscere come e perché la ragione di stato il piú delle volte contravenga alle leggi. Conciosiacosaché nella piú parte de’ governi, come rei, mirandosi piú all’interesse di chi regge che al commodo de’ sudditi, non può la ragione di stato se non malamente accordarsi con le leggi, le quali hanno per lor fine principalmente il bene de’ privati. Sia il governo o tirannico o di pochi potenti o di sfrenata moltitudine, le leggi, che sono poste da osservare ai popoli, quasi sempre risultano a commodo loro: altramente la compagnia civile si disertarebbe e ninno si sentirebbe volentieri porre il giogo sul collo. Però, quando uno s’intirannisce d’uno stato, non pure non isprezza le buone leggi del viver civile, ma le fa far a punto osservare e le migliora, se fa di mestiere. E per questo rispetto Hierone fu sì caro ai siragusani ed Augusto al popolo di Roma, ch’ebbe a dire alla morte di lui: – Utinam aut non nasceretur aut non moreretur!

– . E chi è piú giudicioso in sapersi valere di questo artificio, meglio si stabilisce nella tirannide, e con piú agevolezza si assicura delle volontá de’ sudditi, come accortamente notò anco Aristotile nell’undecimo della Politica. Ma perché finalmente il tiranno ha piú a cuore l’interesse proprio che ‘l commodo de’ soggetti, osserva le leggi fin a un certo termine che a lui non tornino in pregiudicio. Quando poi avvenga caso dove l’osservanza delle leggi possa arrecarli detrimento, alterando o distruggendo la costituzione del suo governo, allora, gettando per terra le leggi e calpestando la giustizia, si lascia reggere affatto dalla ragione di stato. Ma perché i casi che cadono sotto le leggi sono infiniti e i capi della ragione di stato non sono molti, il tiranno fa il fatto suo, e nondimeno alla moltitudine male accorta pare buono e giusto. Cosi camina anco la ragione di stato nella oligarchia; ma nella licenza popolare le leggi e la ragione di stato riescono quasi lo stesso. E per questo rispetto pare che la licenza popolare sia il peggiore di tutti i governi, per esser ivi e la ragione di stato e le leggi e tutti gli istituti e le regole del viver civile piú rivolte all’interesse privato che ad alcun publico bene. Ma questa non è questione da questo luogo; però, ripigliando il filo del primo ragionamento, dico che solamente nelle rette republiche la ragione di stato affatto con le leggi si conforma, e l’una e l’altra d’accordo fanno poi una perfetta armonia insieme con la forma del governo, sendo tutte del pari rivolte al giusto e all’onesto e mirando ugualmente alla felicitá di chi ubbidisce e di chi commanda. E questo fu che volle dir Plinio il giovane in lode del governo di Traiano, quando egli scrisse: «Fuit tempus, ac nimium diu fuit, quo alia adversa, alia secunda principi et nobis. Nunc communia tibi nobiscum tam laeta quam tristia, nec magis sine te nos esse felices, quam tu sine nobis potes» Ma, perché nelle cose umane non si dá l’intieramente perfetto se non per imaginazione e per desiderio, quel dominio dove non sia gran fatto apparente disonanza tra le leggi e la ragione di stato si doverá sommamente lodare e tenere in pregio. Tale fu Sparta per lungo spazio di anni, e altresì Roma fin alla terza guerra cartaginese. Tale è stata Venezia non pochi secoli, e così il regno di Francia e alcuni altri prencipati e republiche d’Europa.

Dubitano alcuni se gli antichi conoscessero la ragione di stato, e nasce la difficoltá principalmente dall’esser nuovo il nome di ragione di stato. Ma chi legge attentamente il quinto della Politica di Aristotele, e principalmente l’undecimo capo, e chi diligentemente esamina le azioni di Filippo Macedone e di Alessandro il figlio, e di Ottavio e di Tiberio, e di cento altri sì fatti, dove si vede al vivo espressa quella ragione di stato, della quale abbiamo oggidì si fini maestri in Italia e in Ispagna, si accorgerá che ‘l dubbio è da fanciulli. Nè fa caso che gli antichi non avessero nome proprio da isprimerla, poiché non l’abbiamo ancor noi, e però la circoscriviamo con questi due termini: «ragione di stato», come la circoscrissero eglino con altri, che pur denotavano il medesimo, valendosi quando delle voci «vis dominationis» o «arcana imperii», quando di quel modo di dire «est, vel non est, e republica» (che però s’intende in piú d’un sentimento), e quando d’altri tali. Così fecero pur anco i greci, die o denotarono con piú parole quello che non seppero con una sola esprimere, o pur, ampliando il significato della voce «politica», compresero anco con essa ogni spezie di ragione di stato.

Maggior difficoltá porta seco il saper ben discernere se la ragione di stato sia parte della politica overo sia arte o facoltá a quella subalternata, come la musica all’aritmetica e l’optica alla geometria, o pur sia in tutto dalla politica diversa. Ma chi bene ricordasi delle cose le quali si sono addietro divisate, potrá agevolmente sciogliere questo nodo. Poiché, sendosi detto che nelle buone republiche la ragione di stato risguarda al bene di chi commanda e di chi ubbidisce, né si discosta dal giusto e dall’onesto, è necessario a concludere ch’ella sia parte della politica, convenendo con esso lei nel soggetto e nel fine. Nelle prave republiche poi, le quali la politica propriamente non si propone per iscopo, non potrá dirsi a modo alcuno che la ragione di Stato sia parte della politica; ma né forse anco si doverá ammettere che sia ad essa subalternata, ché da subalternante buona non è facile a capire come subalternata malvagia derivi. E così la ragione di stato, per esempio, del tiranno o dei pochi potenti averanno quella somiglianza con la politica, che l’amore reciproco tra i giovani e le femine del mondo tiene con la onesta e perfetta amicizia. Sì che tra la ragione di stato de’ domini malvagi e la politica non sará altra congiunzione che di somiglianza e di analogia. Perché la ragione di stato fará quello ufficio nelle prave republiche che quella parte di politica, la qual mira all’introdurre ed al conservar la forma, fa nelle buone e rette forme di governo.

Potrebbe forse alcuno notarmi d’aver piú d’una volta asserito in questo discorso che la ragione di stato de’ buoni governi miri al bene di chi commanda e di chi ubbidisce, con dire che Aristotele distingue i buoni dai rei governi dal risguardar questi al commodo di chi regge e quegli altri al bene di chi ubbidisce. Sì che queste per dottrina di Aristotele vengono ad essere ultime differenze, le quali rendono diverse le buone dalle prave republiche; però non sará ben detto che nersquo retti governi si abbia l’occhio al bene di chi commanda e di chi ubbidisce. «Tyrannus enim», diceva pur Aristotele, «suam, rex subditorum utilitatem spectat». Ma questa difficoltá la spiana il medesimo filosofo nel quinto della Politica, dove così favella: «Vult autem rex esse custos, ut qui divitias habent, nihil iniustum patiantur, nec etiam populus afficiatur contumeliis. Tyrannus autem ad nullam communem respicit utilitatem, nisi gratia proprii commodi. Est autem scopus tyranni quod placeat, regis, quod honestum sit. Quamombrem et illa, in quibus plus habent, sunt tyrannis quidem pecuniae, regibus autem honores». Nelle quali parole chiaramente si scorge, che il buon prencipe eziandio procura il proprio bene insieme con quello de’ sudditi, ma diversa sorte di bene, e con altra maniera che non fa il tiranno, il quale principalmente mira all’utile proprio, taglieggiando e angariando i popoli, lá dove il prencipe, aspirando all’onore, si affatica per lo commodo de’ sudditi, come richiede il giusto e l’onesto. Quindi possiamo chiaramente vedere come la ragione di stato de’ buoni governi sia indirizzata al bene di chi commanda e di chi ubbidisce, con tutto che il re si distingua dal tiranno, perché questi «suam, rex subditorum utilitatem spectat».

Questo è il semplice disegno della natura della ragione di stato, la quale io non penso per ora di dovere esprimere piú al vivo, additando i mezzi de’ quali ella si vale e insegnando i modi di cui si serve per conseguire il suo fine. Poiché i capi particolari di ragione di stato, i quali appartengono ai buoni governi, gli possiamo intieramente apprendere dalla Politica di Aristotele, dalle Leggi di Platone, dagli insegnamenti di Senofonte nella Pedia di Ciro, dalla orazione di Isocrate a Nicocle re di Cipri, e da piú altri nobili scrittori antichi e moderni. Quelli poi delle prave spezie di republiche sarebbe sceleratezza e impietá l’insegnarli. Tre pensieri (disse Aristotele) ha il tiranno. Il primo è «ut animos imminuat civium. Nemo enim parvi animi contr tyrannum insurgit. Secundum, ut cives inter se diffidentes reddat. Non evertitur enim tyrannus, nisi civium aliqui inter se fidem habeant. Quapropter et bonos viros persequitur, quasi pestiferos et adversos dominationi suae: non solum quia non acquiescunt in servitute vivere, verum etiam quia fides eis etinter se et aliis plurima adhibetur, neque accusant alios neque ipsi inter se accusantur. Tertium, impotentia agendi. Nemo enim sibi impossibilia aggreditur. Itaque neque tyrannidem tollere, si potentia desit». Ora, quale uomo sì d’ogni sentimento di giustizia e d’ogni umanitá privo vorrá mostrare i modi al tiranno di adempire questi suoi malvagi pensieri? E quale empio scrittore averá fronte di farsi maestro d’insegnare agli uomini della popolar licenza come si abbiano ad assicurar nello stato, «tollendo eos qui super eminent et in exilium pellendo?» Chi vorrá suggerire ai pochi potenti le vie di tenere basso e di opprimere gli altri cittadini per poter essi lungo tempo conservarsi nella signoria? So bene che Aristotele discese a molti particolari della ragione di stato di tutti i pravi governi; ma tuttavia non per insegnare dogmi iniqui, ma piú tosto acciocché i popoli e le cittá conoscessero quelle macchine, le quali dai mali prencipi e dagli scelerati governatori delle republiche vengono fabricate a loro ruina per poterle evitare; come ancora perché, dal contraposto de’ mali governi, piú desiderabili e piú cari apparissero i buoni e a maggior compiutezza potessero ridursi. Ma l’insegnare ex professo i modi e i mezzi d’operare per ragione di stato nersquo rei governi è opera non da uomini onorati ma da scrittori iniqui ed empi, come il Machiavello e i seguaci suoi. Però non volendo io farmi maestro d’ingiustizia nersquo pravi governi, e gli avvertimenti, i quali per ragione di stato appartengono alle buone republiche, potendosi dagli autori della politica dedurre di colá dove insegnano come s’introduca e si conservi la forma e la costituzione del regno o degli ottimali o della amministrazione popolare, basterammi per ora di aver così semplicemente accennata la natura della ragione di stato, della quale per l’adietro n’è da altri stato discorso con imaginazioni poco conformi, a giudicio mio, al vero. Se l’abbia poi bene inteso io, giudice ne sará chi legge.

Tuttavia, se la ragione di stato è diversa in tutto o in parte dalla politica, l’intelletto umano non potrá manco per l’imaginazione ponerla in altro che nell’adoperarsi intorno alla forma della republica, onde ne riceve anco il nome, non volendo dire altro l’operare per ragione di stato, che il far quello che la costituzione e la forma della republica, o giá introdotta o da introdursi, richiede. Però facilmente mi movo a credere che Scipione Ammirato e gli altri, i quali si hanno imaginato che la ragione di stato voglia dire «ius dominationis», in quel sentimento nel quale diciamo «ius gentium» o «ius civile», che altro non vuoi significare che un giusto, abbiano preso errore; ché così quasi sempre verressimo a dare luogo alle iniquitá ed alle sceleratezze tra le operazioni oneste e giuste, benché ai prencipi cattivi non possono tuttavia dispiacere, come accennossi anco piú addietro, le maschere de’ bei nomi per coprir la bruttezza delle azioni. Quegli ancora i quali stimano di ragione di stato il valersi di tutte le occasioni utili allo accrescimento dello imperio, pare a me che trasportino la voce assai fuore del suo proprio significato. Perché questo è un favellare della ragione dell’utile, il quale si contraddistingue all’onesto e al giocondo e può aver luogo in tutti gli umani affari, e non d’una ragione la quale sia propria dello stato solo, como credo io che si abbia ad intendere la ragione di stato, se vogliamo prenderla nel suo vero e nativo sentimento: tutte avvertenze le quali vengono sempre a stabilire piú l’opinion mia, che la ragione di stato si maneggi solo intorno a quegli interessi, i quali toccano la costituzione e la forma della republica. Poiché quella prudenza o avvedutezza, la quale ci serve agli acquisti, rassembra bene spesso, se attentamente si considera, equivoca con la perizia della quale ci vagliamo per costituire o per mantenere uno stato. Laonde, o sia veramente che il mirare alla utilitá non sempre appartenga alla ragione di stato, o sia che i prencipi facciano il piú delle volte mossi o dall’ira o dall’odio o dalla ingordigia o dall’ambizione o da sì fatti altri affetti quelle medesime operazioni o somiglianti, le quali si sogliono fare per ragione di stato, e però non le sappiamo bene spesso per a punto discernere l’une dall’altre: certo è che la ragione di stato, se vogliamo propriamente intenderla, non abbraccerá tutte le azioni che toccano l’interesse de’ prencipi, ma quelle solamente le quali sono precisamente indirizzate a ben costituire o mantenere in essere quella spezie di governo, la quale si averanno proposta per iscopo. Però male accorti sono coloro i quali si credono che le azioni di Tiberio, per esempio, sieno regole infallibili di ragione di stato, poiché la piú parte miravano ad isfogare la libidine, l’avarizia, la crudeltá di sì fiero mostro, il quale fin da fanciullo fango col sangue macerato fu detto, e non ad interesse di stato, quantunque vi potesse anco questo concorrere accidentalmente di quando in quando. «Multa secundum imaginationes (scrisse Aristotele) operantur animalia; alia quidem, quia non habent intellectum, ut bestiae; alia vero quia obruitur aliquando intellectus passione, aut aegritudine, aut somno, ut homines». Hanno i fanciulli dalla nascita e dal temperamento loro certe attitudini ed inclinazioni d’essere crudeli o miti, forti o codardi, liberali od ingordi; e perché «ex similibus operationibus (come pure diceva Aristotele) habitus fiunt, unde operationes qualitate quadam praeditas oportet reddere», se l’educazione non è buona e accurata, si avvezzeranno affatto a governarsi nelle operazioni loro conforme alla propria natura, la quale quando inclini alle rapine, al sangue, alla crudeltá, diverranno talora peggiori delle fiere e delle vipere. E questo piú facilmente avverrá quando sian prencipi, i quali hanno piú ampla licenza degli altri di peccare e piú occasioni di sfogare le perverse lor voglie. Però, mentre esaminiamo le azioni de’ prencipi, avendo risguardo alla natura e complession loro, alla educazione, agli abiti, alle congiunture de’ tempi e de’ luoghi, ne troveremo la minor parte essere fatte per ragione di stato, quantunque molto tocchino gl’interessi del governo. Aggiungi di piú che il volersi aggiustare, levati anco tutti gl’intoppi o della natura o dell’affetto o della assuetudine, ad operare per a punto conforme a quello che ricerca forma individua di governo, è pensiero da uomo nella accortezza e nella prudenza oltre modo raro ed esquisito, come si può credere che fossero giá Pericle in Atene e Lorenzo de’ Medici in Fiorenza, i quali, vivendo in apparenza da gentiluomini privati, sapevano però tener grado di prencipi, e, mostrando di amar la libertá della patria, avezzavano destramente il popolo ad ubbidire a un solo, riducendo con modi si occolti, die appena erano darsquo piú saggi a conosciuti, l’ammnistrazion popolare a quella forma di governo, la quale si avevano essi per iscopo prefissa.

Poche, dunque, per ultima conclusione, verranno ad essere quelle operazioni, le quali sian fatte per vera ragione di stato; pratica ammirar per Argo, si lascia piú tosto conoscere per talpa.

 


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Ultimo Aggiornamento:
17/07/2005 18.06