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CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

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VITA

Di: Vittorio Alfieri

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EPOCA QUARTA - VIRILITA'

ABBRACCIA 30 E PIÙ ANNI CIRCA DI STUDI, E COMPOSIZIONI

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Ostinazione negli studi più ingrati.

Tornato nell'Ottobre in Torino, poichè non avea preso misure per istar di più, perché i cavalli lasciativi mi aspettavano, e perché insomma non era ancora talmente convertito allo studio, che non mi premesse anco talvolta il divertirmi, il che facea assai più a Torino che altrove, avendoci buona casa, e quindi amici, non discontinuai perciò lo studio, e sempre mi spingeva innanzi col latino. Più altri autori avea letti, da me; e tra gli altri in Firenze Sallustio, che con la sua brevità, ed eleganza mi avea rapito, talmente che in quell'inverno in Torino, con molta applicazione, ed impegno lo tradussi intero, per impadronirmi della dura lingua. Ed ho molto obbligo a quel lavoro; sul quale un giorno forse in vecchiaia ritornerò su con la lima, se a me parrà, come è sembrato a parecchi capaci di giudicarne, cosa degna di venir alla luce.

In quell'inverno parimente era ritornato di Portogallo, l'incomparabile Abate Tommaso di Caluso, e trovatomi contro la sua aspettativa, ingolfato nella letteratura italiana, e nello scabroso impegno di farmi autor tragico, mi secondò, e consigliò, e aiutò con amorevolezza indicibile. Così pure l'eruditissimo Conte di S. Rafaele, ed altri; i quali tutti superiori a me di età, di dottrina, e d' esperienza dell ' arte mi incoraggivano pure, benchè non ne avessi bisogno, e comportavano l'incompatibile mia petulanza, che per quanto si andasse mescendo ad una certa apparente docilità, pur mal mio grado schizzava fuori spessissimo. Ma quello in cui avea presa più confidenza per l'essere quasi coetanei, ed esserci conosciuti da ragazzi, era il già sopranominato da me Conte Agostino Tana; era questi dotato di somma acutezza, e si era andato formando da sè un ottimo gusto a parer mio; e dico da sè, perché disgraziatamente la di lui educazione paggesca quanto alle lettere era stata anche assai peggio dell'Accademia mia. Onde quanto egli era per natura e riflessione buon giudice della condotta, affetti, e sviluppo d'una tragedia, o commedia, come anche della invenzione, imagini, e leggiadria di qualunque altra poesia, altrettanto per mancanza di vere basi, egli era incerto poi nelle cose di purità, e gramaticali.

In questo amico aveva io posto tanta e si cieca fiducia, che su una sua parola avrei buttato al fuoco quanto aveva già scritto fin allora; e appena avea composto qualche cosa, subito correva palpitante e tremante a leggerglielo, e ne seguiva fedelmente i consigli. Ma fin allora io ne avea riportate lodi su i piani tragici, ma biasimi sinceri, e sagaci su tutte l'altre poesie; che benché il Tana non fosse da credersi su le cose pure pedantesche, lo era pur molto su l'eleganza presa in grande, essendosi egli da molti più anni dato a legger moltissimo i nostri poeti. Una mattina finalmente, dopo le replicate e continue afflizioni ch'io andava provando da lui nel leggergli le mie diverse poesie, me gli venne recitato un sonetto al quale pochissimo che dire trovò, e lo lodò molto come i primi versi ch'io facea che meritassero un tal nome. Ed in fatti, come il primo mio sonetto passabile, l'ho posto in testa delle mie rime; stampandolo più anni dopo. Era questo una descrizione del ratto di Ganimede; sonetto a imitazione dell'inimitabile del Cassiani sul ratto di Proserpina, che mi era stato dato in Modena nel ritornar di Toscana. E' ad imitazione di quello ne feci anche due altri di favola, che son collocati dopo; e se tutti tre si risentono un po' troppo della loro serva origine imitativa, hanno pure, per quanto mi pare, il merito di essere scritti con una certa eleganza; il che fin allora non m' era toccato mai. Gli ho voluti perciò conservare. E' in seguito poi di que' tre, come se mi si fosse aperta una nuova fonte, ne scaturii in quell'inverno molti altri amorosi senza amore; che avea preso a descrivere le bellezze ad una ad una di una leggiadrissima Signora, per cui pure non sentiva né una minima favilluzza nel cuore; ma come eleganza, ed alcuni bastantemente ingegnosi, ho pure dato loro luogo nelle rime in appresso.

In tal modo esercitandomi sempre al far versi, e tanti leggendone, ed avendo nell'estate in Firenze imparato fino a tre canti interi del Furioso a memoria, e tanti altri be' squarci di altri poeti, andava pure pigliando per forza la lingua, e cominciava a riuscire nelle rime, e bastantemente alla prosa pel dir brevemente, ma non pel dire chiaramente, nè con arte di variata armonia. In la tutta la mia poca nascente abilità si svaniva ogni qual volta io ripigliava la penna dei versi tragici. Nell'Aprile di quell'anno '77, verseggiai l'Antigone in 1l giorni, e mi parea di aver fatto gran cosa, e mi ci parve aver acquistata gran facilità. Altrimente poi ne giudicai 4 anni dopo in Roma, quando ripigliai que' versi a rifarli; e altrimente ancora in Parigi sei anni dopo quando ripigliai a rifar quei di Roma; e desidero di non dovere ancor altrimente giudicare di questi ultimi fra dieci altri anni quando li rileggerò con occhio imparziale e severo, ma certamente per non rifarli mai più.

Allora tuttavia contento della mia speditiva bravura, lessi la mia Antigone in un crochio letterario dove ci adunavamo quasi ogni sera. Ella fu applaudita, perché questa è sempre la conclusione di queste letture fra dilettanti; e forse lo meritava quanto alla tragedia, ma non certamente quanto alla locuzione. A dir il vero, il miglior giudice, allor che sente la prima volta una cosa che porta in sè interesse d'affetti, e commozione di animo, non può, e non vuole, e non deve badare soverchiamente allo stile, onde tutto quello che non è pessimo, passa.

Ma, benchè applaudito, e contento, io perciò non mi appagava ciecamente di me stesso, e sempre più convinto che la parte dov'io dovea battere il più era quella dell'espressione, vibrata, senza asprezza di S, mi affrettai di ritornare in Toscana, dove mi parea pel continuo parlare, ed udire, di potermi assai più presto innestare l'originalità del dire: che il nostro gergaccio piemontese, che solo ha corso in Torino, se non nuoce quanto il francese a chi vuol pensare in italiano, almeno almeno certo non giova. Partii ne' primi di Maggio, previa la consueta licenza, che bisogna ottenere dal Re, per via del ministro. Nel domandarla questa volta, mi rispose il ministro, ch'io c'era stato l'anno innanzi in Toscana; soggiunsi, che per ciò pensava di ritornarci in quell'anno. L'ottenni, ma quella parola mi fece far molti pensieri, e tra gli altri quello che effettuai poi indi a 6 mesi, e per cui quella licenza fu l'ultima ch'io chiedessi.

Andando in Toscana con l'idea di starvi più tempo, ed essendo in mezzo ai miei deliri di gloria ancora molto, e assai troppo vanagloriosa, io volli condurvi più cavalli, e più gente, parte per figurare stoltamente, parte perché con questo splendoruccio, io mi riprometteva di trarre miglior partito dai letterati toscani, che tutti per tutto hanno, ed avranno una natura stessa, finchè le lettere saranno purtroppo, un mestiere, e non il più grasso che si eserciti in questo venalissimo mondo.

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Edizione HTML a cura di: mail@debibliotheca.com
Ultimo Aggiornamento:08/02/2001 17.51

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