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CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

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VITA

Di: Vittorio Alfieri

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EPOCA PRIMA - PUERIZIA

ABBRACCIA I PRIMI NOVE ANNI NELLA CASA MATERNA

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Ultima storietta.

Era venuto in vacanza a villeggiare in Asti, il mio fratello maggiore, fratel di madre soltanto, il Marchesino di Caccherano, che da lungo tempo si educava in collegio de' Gesuiti a Torino. Egli potea aver circa 14 anni; ed io 8 al più. Quella specie di compagnia mi sollevava ad un tempo, e m'angustiava. Io per non averlo mai visto non avea per natura nessuno amore per lui; pure siccome egli andava pur ruzzando con me, io un cotal poco lo amava: ma egli era tanto più grande di me, ed avea più libertà, più denari, più carezze dai genitori, avea già visto Torino, avea spiegato Virgilio, e che so io, tante altre coserelle avea più di me, che io per la prima volta allora conobbi l'invidia; non era però atroce, poiché non mi facea odiare quell'individuo che avea tante più cose di me; ma mi facea ardentissimamente desiderare d'averle ancor io, non già di toglierle a lui. E questa, credo, è la diramazione delle due invidie; di quella che negli animi rei diventa odio di chi ha il bene, e desiderio di impedirglielo; e nei non rei diventa sotto il nome di emulazione, o di gara, un ardente desiderio di aver quelle date cose in maggior copia, e migliori di quelle dell'altro. Oh quanto è sottile, e invisibile quasi la differenza che passa fra il seme delle nostre virtù, e dei nostri vizi! Con questo fratello dunque, ora per metà ruzzando insieme con esso, ora per metà disputando, e cavandone qualche pugno, tanto quell'estate si passava più divertita per me, che sempre era stato solo. Un giorno caldissimo, che tutti su la nona faceano la siesta, noi due stavamo facendo l'esercizio alla prussiana, che egli m'insegnava; io nel marciare, in una voltata cado, e della testa percoto su un alare del camminetto che per essere scassinato, e senza pomo su una di quelle punte che avanzano quasi dentro alla camera, m'inchiodò il capo di quella punta, su l'occhio sinistro, un dito scarso sopra l'occhio, e di così lunga ferita, che ancora ne porto la cicatrice visibilissima e la porterò nella tomba. Dalla caduta mi rizzai subito da me stesso, e anzi gridai al fratello di non dir niente, e posso assicurare che in quel primo primo impeto non avea sentito nessunissimo dolore; ma già il fratello era corso ad isvegliare il maestro, e il romore era giunto su alla madre, e tutta la casa era sottosopra. In quel frattempo io che nulla avea gridato cadendo, né rizzandomi, quando fui ritto, e camminati alcuni passi verso la tavola, al sentirmi lungo il viso scorrere una cosa caldissima, portatevi tosto le mani, e vistele piene di sangue mi misi allora ad urlare; di paura dovea essere, perché mi ricordo perfettamente che dolore nessuno non sentii, finché non venne il chirurgo, e cominciò a lavare, tastare, e medicare la piaga. Alcune settimane durò questa piaga, e per più giorni dovei stare in letto, ed al buio, perché si temeva per l'occhio, stante la infiammazione e gonfiezza smisurata che vi s'era messa. Stando poi nella convalescenza, ed avendo ancora impiastri, e fasciature, non mi fu per ciò discaro di essere condotto a spasso, e alla messa: benché certo quell'assetto spedalesco mi sfigurasse assai più che la reticella verde e pulita; la quale nella Spagna poi viaggiando portai per civetteria più volte a imitazione dei zerbini di codeste contrade. Pure quella fasciatura non mi dispiacque niente a mostrarla; o fosse che l'idea di un passato pericolo mi lusingasse alquanto, o che per un misto d'idee ancora deformi nel mio capicino, annettessi qualche idea di gloria a questa ferita; e così dovea essere, perché, senza aver presente i moti dell'animo mio in quel punto, mi ricordo bensì, che ogniqualvolta s'incontrava qualcuno che domandava al Prete Ivaldi cosa io avessi, rispondendo egli, caduto, io subito soggiungeva, facendo l'esercizio. Ed ecco come nei giovenissimi petti, chi ben gli studiasse, Si scorgono i diversi semi dei vizi o delle virtù; e questo era certamente un seme di amor di gloria; ma né l'Ivaldi, né quanti mi attorniavano, non faceano per certo queste riflessioni.

Circa un anno dopo, quello stesso mio fratello, tornato in quel frattempo a Torino in Collegio, infermò di petto e morì: e in quel tempo stesso il mio zio paterno, al quale era stata data la tutela de' miei beni, sin dalla morte del padre, e che allora ritornava di un suo viaggio in Francia, Olanda, e Inghilterra, passato in Asti, mi vide, e accortosi forse, come uomo di sommo ingegno ch'egli era, ch'io non imparerei gran cosa continuando quel sistema, tornato a Torino, di lì a pochi mesi, scrisse alla madre che bisognava mettermi in Accademia a Torino. La mia partenza si trovò dunque così coincidere con la nuova della morte del fratello; onde avrò sempre presente l'aspetto, i gesti, e le parole di quella madre addoloratissima, che diceva m'è tolto l'uno da Dio e per sempre, e questo chi sa per quanto. Ella non avea allora dal terzo marito se non se una femina; i due maschi nacquero poi successivamente mentre io era in Accademia a Torino. Quel suo dolore mi addolorò moltissimo; ma pure la brama di veder cose nuove, l'idea di dover viaggiare in posta, e cento altre ideuzze che mi si andavan creando, me lo rendevano più leggiero. Ma quando però si venne all'atto del partire, ebbi quasi a svenirmi, e del maestro mi rincrebbe per lo meno quanto della madre.

Incalessato quasi per forza dal mio fattore ch'era un vecchio, destinato a condurmi a Torino in casa dello zio dove andava da prima, scortato dal mio solito servitore, un Andrea, alessandrino, giovine di molta sagacità, e di bastante educazione secondo il nostro paese; sapendo egli ben leggere e scrivere. Credo che fosse nell'Agosto del 1758, ch'io lasciai la casa materna, la mattina di buonissima ora. Piansi per tutta la prima posta, benché il vecchio fattore mi raccontasse le gran meraviglie ch'io avrei viste a Torino. Al primo mutar di cavalli volli scendere nel cortile della posta, e sentendomi molto assetato, senza voler domandare un bicchiere né far attinger dell'acqua, accostatomi all'abbeveratoio de' cavalli, e tuffatovi subito il maggior corno del cappello, quanta ne attinsi, tanta ne bevvi. Il fattore avvisato dai postiglioni v'accorse, sgridandomi, ma io dissi che chi girava il mondo dovea farsi a tai cose, e ch'un buon soldato beve così. Dove diavolo avessi pescato queste idee non lo so; perché anzi la madre mi avea educato sempre mollemente assai, e con riguardi risibili; era dunque in me un impetino di natura gloriosa anche questo, il quale si sviluppava appena era uscito dall'oppressione sotto cui si giaceva. E qui do fine alla mia puerizia; entrando ora in un mondo alquanto men ristretto, e potendo con maggior brevità, spero, dipingermi meglio. Questa prima epoca d'una vita, ch'è tutta inutile a sapersi, sarà inutilissima per tutti coloro che stimandosi uomini si vanno scordando che l'uomo è una continuazione del bambino.

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Edizione HTML a cura di: mail@debibliotheca.com
Ultimo Aggiornamento:08/02/2001 17.30

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