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CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

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VITA

Di: Vittorio Alfieri

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EPOCA PRIMA - PUERIZIA

ABBRACCIA I PRIMI NOVE ANNI NELLA CASA MATERNA

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Sviluppo dell'indole, indicato da alcuni fattarelli.

Circa all' indole poich' io andava manifestando in quei primi anni di ragione, era questa. Taciturno e placido per lo più, ma alle volte loquacissimo e vivacissimo, e quasi sempre negli estremi contrari; ostinato e restio contro alla forza, pieghevolissimo agli amorevoli avvisi, e temendo di essere sgridato più d'ogni cosa; capace di vergognarmi fino all'eccesso il più smisurato, e inflessibile se io veniva preso a ritroso. Ma per meglio dar conto a me stesso e ad altrui di quelle qualità primitive, che la natura mi avea improntate nell'animo, fra molte sciocche storiette di quella prima età, di cui mi ricordo, ne allegherò due o tre, che meglio assai ritrarranno il carattere mio. Di tutti i gastighi che mi si potessero dare, quello che mi dava dolore inspiegabile, e tale che mi facea ammalare, e che non mi fu dato perciò se non se due volte sole, e alla seconda credei di morirci, si era di farmi andare alla messa colla reticella in capo; assetto che usa nel mio paese per berretto da notte, che nasconde i capelli. La prima volta che ci fui condannato, non mi ricordo il perché, venni dunque condotto dal maestro per la mano alla vicina Chiesa del Carmine, chiesa abbandonata, dove non ci era mai 40 persone per volta, tuttavia sì fattamente sentii questo orribil gastigo, che per più mesi non feci né un minimo errore, ed era un modello di saviezza. Tra le ragioni, che ho cercato poi dopo in me stesso, del tanto effetto che potea produrre in me tal gastigo, ne trovai due, che mi diedero soluzione intera del dubbio. L'una si era ch'io credeva gli occhi di tutta la gente doversi portar su la mia reticella, e ch'io dovea esser molto brutto e sconcio a veder così, e che la gente penserebbe ch'io dovea aver fatto gran falli per meritar tal gastigo. L'altra, più strana ancora, si è che io temea che quegli amati novizi mi vedessero così. Oh mira che strana cosa è il cuoricino dell'uomo! L'effetto straordinario cagionato in me da quella punizione avea riempito di gioia i miei parenti e il maestro, onde ad ogni ombra di mancamento, minacciatami l'abborrita reticella, io tosto rientrava nel dovere tremando. Essendo pure poi caduto in un fallo a cui non era avvezzo, e fu di dire una non so quale solennissima bugia alla Sig.ra madre, mi fu sentenziata di nuovo la reticella, e di più, che in vece della vicina e deserta Chiesa del Carmine, sarei condotto a San Martino, a mezzo giorno, che è l'ora della messa di moda di tutti i signori di quella città. Oimè che dolore fu il mio, pregai, piansi, mi disperai, tutto invano: quella notte che mi credetti dover essere l'ultima della vita mia, non che chiuder occhio, non mi ricordo poi in nessun altro dolore di averne passata una peggio. Venne alfin l'ora, reticellato, piangente, ed urlante venni strascinato per mano del maestro, e sospinto dal servo per di dietro, e così traversai alcune strade che verso San Martino conducono; ma non sì tosto si entro nelle strade abitate, che s'avvicinano di quella chiesa e piazza, ch'io subito cessai i pianti, ed i gridi, e cessai di farmi strascinare; anzi camminai tacito, e forte, e ben rasente al prete Ivaldi affin di nascondermi un poco dalla parte sua. Arrivai nella piena chiesa, chiusi gli occhi all'entrarvi, fui condotto e collocato non so ben dove, né come; quanto potei tenni chiusi, o fitti in terra gli occhi, e tornai con la morte nel cuore, credendomi disonorato per sempre; non volli quel giorno, mangiare, né parlare, né studiare, né piangere; e tale insomma e tanto fu il dolore, e la contensione dell'animo, che mi ammalai per più giorni, né mai più poi se ne parlò; ma certo di gran tempo non dissi bugie; e sul totale son riuscito poi assai meno bugiardo che altr'uomo.

Altra istorietta. Era venuta in Asti la mia nonna materna, matrona in Torino di assai gran peso, vedova di uno dei barbassori di corte, e fornita di tutta quella pompa di cose che grand'impressione lasciano nei ragazzi. Questa dopo essere stata alcuni giorni con la madre mia, in cui per quanto mi accarezzasse, io non m'era per niente affratellato con lei, come selvatichetto ch'io era; stando ella poi per partire mi disse di chiederle quel che voleva che mi desse. Io, da principio per vergogna, e timidità, e incertezza, poi per ostinazione, e ritrosia, incoccio al rispondere sempre, la sola parola, niente; e per quante maniere diverse si provassero tutti a farmi dire altra cosa, non ci fu mai verso e poi mai di cavarmi altra cosa, che quel niente rozzissimo: che da principio usciva asciutto e tremante, e poi nel fine fra singhiozzi, e gemiti, e sospiri. Fui cacciato come si può credere; messo in penitenza, non ebbi niente, come ben meritava, e la nonna partì. Ma quell'istesso io che non avea voluto niente in dono dalla nonna, le aveva pochi giorni prima in un suo forzieretto aperto involato un ventaglio, che poi nascosi nel mio letto, mi fu ritrovato più giorni dopo, e dissi, ed in fatti era vero, che l'avea preso per darlo alla mia sorella. Ebbi gran punizione per questo, ma pure benché il ladro sia alquanto peggio del bugiardo, non mi venne data la reticella perciò; tanta dovea essere più la paura nella madre di vedermi morire di malattia di dolore, che non di vedermi un po' ladro; difetto del resto di cui non è difficile il guarirsi, quando non si ha per destino, il bisogno di esserlo.

E qui a guisa di storietta inserirò pure la mia prima confessione, che feci in età di 7, o d'otto anni. Mi furono suggeriti dal maestro i peccati di cui io appena sapeva i nomi; disobbedienza ai parenti, distrazioni, bugie ecc. Fatto questo mio esame col Don Ivaldi, si prese giorno perch'io portassi il mio fastelletto a' piedi del Padre Angelo, che era anche il confessore della Sig.ra madre. Andai, e non so quel che dissi, tanta era la ripugnanza, e il dolore di dover dire i miei segreti pensieri, ad uno che appena conosceva; credo che il frate facesse egli stesso la confessione per me; fatto si è che mi assolve, e m'ingiunge di prosternarmi alla madre prima di entrar in tavola, e di domandarle perdono in tal atto, di tutti i miei falli passati. Questa penitenza m'era dura, non che io avessi difficoltà di domandar perdono alla madre, ma quella prosternazione, ed in faccia di chiunque vi potrebbe essere, del Sig.r Padre, del maestro, de' servitori, quello m' era insoffribile, e non lo poteva ingoiare. Tornato in casa, salito per pranzo, messo in tavola, andati nella sala, tutti mi guardavano, ed io chinava gli occhi, ma pure non credeva che nessuno sapesse i segreti della mia confessione. Vo' per sedermi a tavola; la madre con occhio arcigno mi guarda, e domanda se io mi ci posso sedere; se ho fatto quel che dovea fare, se non ho niente da rimproverarmi; ed io duro a tacere: in somma non ci fu mezzo mai ch'io volessi dire qual penitenza m'era stata ingiunta, né la madre lo volea dire per non tradire il traditor confessore; onde la cosa finì ch'ella perdé la prosternazione, ed io il pranzo per quel giorno, e forse l'assoluzione del Padre Angelo. Io non ebbi con tutto ciò mai allora la sagacità di pensare che il Padre Angelo avesse detto alla madre qual penitenza m'ingiungerebbe, ma il core mi servì in ciò assai meglio che la mente, e contrassi d'allora in poi un odietto assai gagliardo pel Padre suddetto; che pure nelle seguenti confessioni non m'ingiunse mai più pene pubbliche.

 

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Edizione HTML a cura di: mail@debibliotheca.com
Ultimo Aggiornamento:08/02/2001 17.27

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