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CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

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VITA

Di: Vittorio Alfieri

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EPOCA PRIMA - PUERIZIA

ABBRACCIA I PRIMI NOVE ANNI NELLA CASA MATERNA

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Reminiscenze dell'infanzia.

Ripigliando dunque a parlare di me nella mia infanzia, dico che di quella prima quasi stupida vegetazione de' bambini, non m'è rimasta altra memoria, se non se d'uno zio paterno, che in età di circa tre anni mi faceva por ritto sopra un cassettone e quivi molto mi accarezzava, e dava dei confetti. Null'altro mi ricordava io di lui, se non che portava le scarpe quadre in punta: ed era forse il solo che ancora le usasse. Molti anni dopo in Torino la prima volta che mi occorrevano agli occhi certi stivali a tromba,che portano la scarpa in punta quadrata come erano quelle dello zio già morto da un pezzo, e da me non più visto dacché aveva uso di ragione, la vista di quelle forme, mi richiamava ad un tratto tutte quelle sensazioni ch'io avea già provate ricevendo le carezze e i confetti dello zio. Questa puerilità mi son permesso di qui inserire, come non affatto inutile a chi specula sul meccanismo delle nostre idee, e sull'affinità dei pensieri colle sensazioni.

In età di circa cinque anni dal mal de' pondi fui ridotto a tutta estremità, e mi pare di avere un barlume nella mente di quello ch'io vi soffriva; e che senza avere idea nessuna della morte, pure la desiderava, come fine di dolore; perché quando era morto il mio fratello minore avea sentito dire ch'egli era diventato un angioletto.

Per quanti sforzi io abbia fatto spessissimo per raccogliere le idee primitive, e le sensazioni ricevute prima de' sei anni, nessun'altra ne ho ritrovata se non queste due.

La mia sorella ed io, seguitando il destino della madre, eramo dalla casa paterna passati ad abitare con lei in casa del patrigno, che a noi fu pure più che padre per quel tempo che ci stavamo. La sorella fu posta in monastero ch'io poteva avere appena sett'anni; e di questo mi ricordo benissimo, quante lagrime, e dolori mi costò quella separazione, benché rimanessimo nella stessa città. E speculando di poi su quegli effetti, e sintomi, trovo essere stati per l'appunto quelli che nella mia gioventù provai poscia quando mi trovai costretto ad abbandonare alcuna amata donna; ed anche qualche vero amico; prova che tutti gli amori hanno lo stesso motore. Fui dato in custodia ad un buon prete chiamato Don Ivaldi, il quale successivamente m'insegnò a leggere, e scrivere, fino alla terza, dove spiegava non male per quanto dicevano il Cornelio Nipote, e le favole di Fedro. Ma il buon prete era egli stesso ignorantissimo, e se dopo i nov'anni non fossi stato tolto da lui, non avrei più imparato nulla. I parenti erano anch'essi ignorantissimi, e spesso udiva loro ripetere, che a un signore non era necessario di diventare un dottore. Io aveva per natura piuttosto inclinazione allo studio, e massime dopo che rimasi senza la sorella, quella solitudine col mio maestro mi dava ad un tempo malinconia e raccoglimento.

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Edizione HTML a cura di: mail@debibliotheca.com
Ultimo Aggiornamento:08/02/2001 17.24

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