
I RIMEDII
Mio
caro Dina
I
rimedii repressivi di questo stato di cose sono tanto noti,
e
furono da noi tanto adoperati, da non esservi bisogno
di
parlarne ancora. Quali sono i rimedii preventivi,
quelli
che l’on. Castagnola chiamava i soli radicali?
L’immensità
della quistione spaventa, e l’audacia manca
non
solo ai nostri uomini politici; ma, quello che è più,
anche
ai nostri uomini di scienza, molti dei quali affermano
che
la speranza di mettervi mano è una illusione, e
delle
più pericolose. Se queste opinioni trovano appoggio
nell’ignoranza
e nell’egoismo di molti proprietarii, è
inutile
dirlo. La natura umana è sempre la stessa.
Il
mio amico di Chieti mi scriveva: «Il primo proprietario,
uomo
intelligente ed agiato, a cui mi rivolsi per cominciare
a
raccogliere le desiderate informazioni, arricciò
il
naso; corrugò la fronte; non seppe e non volle nascondere
il
suo malcontento, quando udì da me, che si
volevano
tutte le notizie che valessero a mettere in rilievo
la
poco prospera condizione dei contadini».
E
in fondo non è da meravigliarsene. Il proprietario
si
trova isolato in mezzo ad un esercito di contadini. La
sottomissione
di questi è immensa; ma è fondata solo sull’antica
persuasione
che il proprietario può tutto, che il
Governo,
i tribunali, la polizia dipendono da lui, o sono
una
sola cosa con lui. E però il contadino non osa far
nulla
senza sentire il padrone; non si presenta neppure
all’autorità
che lo invita, ne obbedisce agli ordini che riceve
da
essa, senza prima aver sentito l’avviso del padrone.
Ma
tutto ciò non nasce da affetto o da stima. Egli
si
potrebbe inginocchiare dinanzi al suo padrone con lo
stesso
sentimento con cui l’Indiano adora la tempesta o
il
fulmine. Il giorno in cui questo incanto fosse sciolto, il
contadino
sorgerebbe a vendicarsi ferocemente coll’odio
lungamente
represso, colle sue brutali passioni. Qualche
volta,
in fatti, si sono viste quelle orde di schiavi trasformarsi
istantaneamente
in orde di cannibali. Questo
ci
obbliga ad esser molto cauti, ma ci obbliga ancora a
meditare
sul cumulo di odii che andiamo raccogliendo,
e
sulle conseguenze morali e sociali che possono avere.
Noi
del resto possiamo liberamente ragionare di ciò, e
discuterne
nei libri o nei giornali, certi che non una parola
arriverà
insino a quella gente analfabeta, che neppure
intenderebbe
il nostro linguaggio. Per parte mia posso
dire,
che anche a me moltissimi proprietarii non seppero
nascondere
il loro malcontento, quando chiedevo
notizie
collo scopo che non celavo a nessuno. Ma da un
altro
lato le risposte non mancarono mai, e molti viaggiarono,
scrissero
ad amici, raccolsero notizie, opuscoli,
tutto
quello che potevo desiderare. La quistione preoccupa
seriamente
molti, sia per uno spirito di filantropia
e
di umanità, sia per la convinzione che sotto un governo
libero
l’antico stato di cose non può durare a lungo, e
che
è savio consiglio apparecchiarne la graduata trasformazione,
piuttosto
che aspettare il tempo in cui un’improvvisa
catastrofe
faccia, in un giorno, pagare le colpe
di
secoli.
La
quistione agraria l’ebbero i Romani, ed ognuno sa
con
quali terribili risultati. L’ebbero anche le nazioni
moderne.
Alcune ne uscirono per mezzo di sanguinose
rivoluzioni,
altre le prevenirono con una savia legislazione.
Fra
queste dobbiamo, prima di tutte, citare la
Prussia,
la quale, dopo le umiliazioni patite dalla Francia,
si
pose a ricostituire la propria potenza sopra tre basi:
istruzione
obbligatoria, servizio militare obbligatorio,
riforma
agraria. Le due leggi del 1807 e del 1811 costituiscono
ciò
che tutti i Trattati di economia politica chiamano
la
legislazione classica dello Stein
e dell’Hardenberg,
ciò
che le storie nazionali della Prussia chiamano una
delle
pietre angolari della forza del paese. La proprietà
fu
sciolta dai mille vincoli artificiali che l’inceppavano,
il
servaggio fu abolito, ed il servo non solo divenne
libero,
ma ancora proprietario d’un terzo e qualche volta
della
metà del suolo che coltivava, lasciando il resto in
proprietà
libera al padrone. Lo scopo che si voleva ottenere
era
chiaramente esposto nella legge stessa: creare
una
nuova classe di agricoltori che accrescesse forza
al
paese. E si ottenne. Senza quelle leggi, la Prussia non
avrebbe
potuto fare più tardi i prodigi che ha fatti.
Se
però la Prussia si fosse ristretta solo a quello che abbiamo
detto
più sopra, ne sarebbe seguito ciò che è avvenuto
nelle
province meridionali, colla divisione dei beni
demaniali.
Gli antichi proprietarii avrebbero ricomperata,
a
basso prezzo, la parte del contadino, che privo di
capitali,
non avrebbe potuto coltivarla, e sarebbero divenuti
padroni
assoluti della terra, coltivata da proletarii ridotti
ben
presto alla condizione poco meno che di schiavi.
Invece,
la Prussia aggiunse due cose di capitale so importanza:
una
magistratura locale, che decidesse sommariamente
e
paternamente le liti insorte fra gli agricoltori
ed
i ricchi proprietarii; un’istituzione mirabile di Banche
destinate
ad anticipare al contadino i capitali per coltivare
la
terra e fare nuovi acquisti, con un interesse così mite
che,
pagando il 5%, si ammortizzava il capitale in meno
di
50 anni. Per fare tutto ciò, occorse una serie di provvedimenti,
che,
incominciati nel 1807 e nel 1811, finirono
solo
nel 1850. Allora però la trasformazione fu compiuta,
e
la Prussia cominciò a sfidare il mondo, pel sentimento
cresciuto
della propria forza. La divisione delle
terre
divenne utile solamente per mezzo dell’istituzione
delle
Banche e delle magistrature speciali e locali.
L’impresa
colossale dell’abolizione del servaggio in
Russia
fu condotta coi medesimi principii, pigliando cioè
a
modello la classica legislazione della Prussia. Ma il
paese
che, per questo lato, più trova riscontro con le
nostre
province meridionali, è l’Irlanda, fatta eccezione,
ben
s’intende, della questione politica e religiosa, nella
quale
non v’è alcun riscontro possibile. Restringiamoci
perciò
alla sola questione agraria.
L’lrlanda
è un paese dedito all’agricoltura, senza alcuna
industria
d’importanza; un paese di proletarii oppressi
crudelmente
dai proprietarii, che non hanno o non vogliono
spendere
capitali per coltivare i loro fondi. I contratti
sono
in apparenza simili a quelli dell’Inghilterra,
ma
le condizioni e modificazioni speciali li avevano ridotti
a
tale, che il contadino emigrava o moriva di fame.
I
delitti agrarii moltiplicavano spaventosamente; i magistrati
non
erano sicuri; la pubblica opinione delle moltitudini
proteggeva
l’assassino, che riguardava come un
vendicatore
dei torti ricevuti dalla società.
Quando
l’Inghilterra fu costretta a sospendere in Irlanda
I’Habeas
corpus,
ed a venire a provvedimenti repressivi
pel
Fenianismo, che pigliava proporzioni gigantesche,
non
esitò punto ad adoperare il ferro ed il fuoco.
Ma
non si contentò di questo: – Noi abbiamo, ella disse,
un
debito d’onore verso l’Irlanda, dobbiamo pagarlo;
dobbiamo
riparare ai torti che essa ha ricevuti da noi.
–
Io lascio, per ora, da un lato la radicale riforma della
Chiesa
inglese in Irlanda, e mi restringo solo alla legge
agraria.
L’Inghilterra affrontò coraggiosamente il primo
problema
che si presentava: se lo Stato cioè abbia il diritto
di
limitare con norme legislative la libertà dei contratti.
Il
15 febbraio 1850, il Gladstone, primo ministro d’un
paese
che è più di tutti in Europa contrario all’ingerenza
dello
Stato, diceva, in mezzo all’assenso generale della
Camera
dei Comuni, queste memorabili parole:
«Nessuno
apprezza più altamente di noi la libertà dei
contratti;
essa è la radice di ogni condizione normale della
società.
Ma anche in quelle condizioni sociali, che noi
riconosciamo
come normali, non è possibile concedere
illimitata
libertà di contratto. La legislazione inglese è
piena
di queste ingerenze dello Stato, ed il Parlamento
ha
dimostrato una decisa tendenza a moltiplicarle. Voi
non
permettete nelle officine, che il padrone impieghi
l’operaio
con tutte le condizioni che questi accetterebbe;
voi
non permettete che lo shipmaster
trasporti
gli emigrati,
con
ogni specie di quei contratti che pure ambedue
accetterebbero.
E il caso dell’Irlanda è anco più grave,
perché
questi contratti, quantunque nominalmente liberi,
tali
non sono nel fatto, per le condizioni speciali del
paese.
Anche nei casi in cui la legge ha lasciato l’Irlandese
pienamente
libero, le condizioni in cui si trova lo hanno
privato
della sua libertà; ed è però divenuto
nostro
stretto
dovere l’intervenire
per difenderlo. In un paese
dove
le braccia abbondano, e non v’è altra industria che
l’agricoltura,
il contadino non è più libero nel fare il contratto
col
padrone. Può essere perciò necessario
di prescrivere
con
legge, fra certi limiti, i termini e le condizioni
dei
contratti agrarii».
E
la legge fu approvata. Per esporla minutamente, bisognerebbe
cominciare
col descrivere le condizioni speciali
dell’agricoltura
in Irlanda, e le forme dei contratti
agrarii,
che sono colà diversissimi dai nostri. Ma per ora
basti
osservare che la legge, senza seguire alcuna teoria,
prima
di tutto determina e sanziona una forma di contratto,
che
l’esperienza di secoli ha dimostrata vantaggiosa
al
contadino irlandese (Ulster
custom).
Sarebbe se
un
nostro legislatore sanzionasse le norme della mezzeria
toscana,
le quali ora sono anch’esse regolate solo dalla
consuetudine.
Ma il Parlamento inglese si guardò bene
dal
rendere obbligatoria per tutti una sola forma di
contratto.
Invece, lasciando libere quelle che esistevano,
si
restrinse ad annullare tutte le condizioni che giudicò
contrarie
alla giustizia ed al pubblico bene. I miglioramenti
portati
nel fondo dal contadino, che prima anda
vano
quasi sempre ad esclusivo vantaggio del proprietario,
debbono,
secondo la nuova legge, essere da questo
invece
pagati al contadino. Il contratto con cui questi facesse
rinunzia
d’un tale risarcimento, è nullo. Il proprietario
non
può, senza ragioni giustificate e determinate,
mandar
via il contadino che ha preso in affitto la terra,
ed
è tenuto a rifarlo dei danni che gli reca, licenziandolo
senza
ragione. La legge tende a prolungare i termini dell’affitto
sino
a 30 anni, risguardando quelli a breve scadenza
come
dannosi, e tende a spronare il contadino a
migliorare
la cultura dei campi, a suo proprio vantaggio.
Ma
anche qui il legislatore inglese capì, ed il Gladstone
dichiarò
in Parlamento, che tutto sarebbe stato inutile
senza
una magistratura speciale paterna, locale, che
decidesse
le mille liti che possono insorgere fra il proprietario
ed
il contadino, il quale non oserà mai chiamare
innanzi
ai tribunali ordinari il suo padrone, per muovergli
una
lite. E a ciò si aggiunse ancora l’anticipazione
fatta
dallo Stato al contadino, dei capitali necessarii, a
condizioni
non molto diverse che in Prussia.
I
tre cardini della riforma erano cosi solidamente posti,
e
poco dopo si vide, che nell’Associazione
per le scienze
sociali,
gli stessi Irlandesi dichiaravano, che la legge
aveva
subito cominciato a portare buoni frutti, e la loro
esperienza
suggeriva già alcuni modi per migliorarla.
Che
tutto ciò non valga a calmare gli odii e le passioni
politiche,
ben s’intende, perché altre ne sono le cagioni.
Ma
fra noi fortunamente questi odii non esistono.
Certo
non è solo l’ltalia meridionale quella in cui il
contadino
soffre ingiustamente. Dobbiamo far eccezione
della
Toscana, là dove le antiche repubbliche intelligenti,
democratiche
e civilissime lasciarono tali germi, che la
mezzeria
è divenuta un contratto che salva da ogni pericolo
sociale
nell’avvenire, e rende impossibile qualunque
diffusione
di teorie sovversive. Per la provincia di Venezia
basta
leggere il libro dell’avv. Carlo Stivanello (
Proprietarii
e Coltivator:
Venezia 1873), premiato dall’Istituto
Veneto,
per trovarvi la descrizione dei miseri casolari
di
canna e di loto, nei quali abita il bracciante.
«In
questi casolari, egli dice, si recluta la popolazione
dei
furti, necessario supplemento ai miseri guadagni, e
vivono
le torme dei poveri, che infestano i mercati e le
città,
e che sfilano in lunga processione, il sabato, dinanzi
alle
abitazioni». (Pag. 151).
Lo
stesso autore ci parla di quei contratti a fiamma
e
fuoco,
coi quali l’agricoltore è obbligato a rinunziare ad
ogni
ristoro
contro la
carestia, la grandine, la tempesta;
di
quelli coi quali rinunzia ad ogni compenso pei miglioramenti
recati
al fondo, e di molti altri contrarii alla giustizia,
al
bene generale, al progresso dell’agricoltura.
«Il
proprietario, nella stolta credenza che l’abilità dell’amministratore
avveduto
consista nello stipulare patti
che
strozzino l’altro contraente, ha inventato molte clausole,
le
quali aggravano la condizione del conduttore»
(Pag.
173-4).
Il
libro finisce col domandare un’inchiesta agraria,
la
quale, secondo l’autore, metterebbe in evidenza la
necessità
assoluta di provvedimenti legislativi in difesa
degli
agricoltori e dell’agricoltura, che egli chiama la
povera
Cenerentola del Regno d’Italia.
L’onorevole
Jacini fece nel 1855 una dolorosa descrizione
delle
popolazioni agrarie, specialmente nella Bassa
Lombardia,
dove intorno alla ricca, intelligente e patriottica
Milano,
vivono i più miseri contadini, fra i quali
le
febbri e la pellagra fanno stragi crudeli; dove s’è risoluto
il
singolare problema d’unire la più ricca produzione
colla
maggiore miseria del coltivatore. E nel descrivere
a
quali miserie esso è qualche volta ridotto dal
proprietario,
esclama:
«È
una tale iniquità che la sola giustizia umana non
basterebbe
a punirla» (Ediz. 1856, pag. 197).
Egli
proponeva allora un Codice
agrario e
la istituzione
dei
Probi
Viri. Ciò
risponderebbe in parte alle norme sui
contratti,
ed alla magistratura speciale stabilite dell’Inghilterra
in
Irlanda. Aggiungendovi le istituzioni efficaci
di
credito agrario, si avrebbero i capi principali della riforma
inglese.
Quel libro fu assai popolare, forse perché
appariva
come una protesta contro l’Austria. Quando il
Governo
è venuto nelle nostre mani, che cosa abbiamo
fatto?
Nulla e poi nulla.
E
quel che è peggio ancora, l’opinione di molti è contraria
ad
ogni riforma di questo genere. L’indifferenza
sulle
miserie dei milioni di uomini che lavorano la terra
in
campagna, e delle migliaia che si abbrutiscono nelle
città,
non è credibile. Eppure solo pensando ad essi
si
può crescere davvero la nostra produzione economica,
pareggiare
permanentemente le nostre finanze. Eppoi
non
sono essi che formano il nostro esercito, la nostra
marineria
militare? È cosa di poca importanza renderli
civili?
Quali sono i giornali, quanti i libri o gli opuscoli
che
parlano di loro? La nostra letteratura, la nostra
scienza
e la nostra politica sembrano del pari indifferenti
su
questo problema, che racchiude il nostro avvenire
economico
e morale. Il male esiste in molte province, ma
nelle
Meridionali ha proporzioni assai maggiori.
Per
parte mia sono convinto che la quistione, fra non
molto,
diverrà gravissima, e s’imporrà a tutti; che i provvedimenti
legislativi
saranno riconosciuti necessarii, se
non
si vorrà affrontare il pericolo d’una catastrofe sociale,
la
quale può nascere non solo da sommosse sfrenate,
ma
anche da inerzia ed abbandono prolungati.
Presto
si vedrà, io credo, che in alcune province occorre
proteggere
l’agricoltore col fissare norme pei contratti,
col
dichiarare in esse nulle alcune condizioni assolutamente
ingiuste
e dannose. E sarà necessario ancora,
colla
istituzione di arbitri o di una magistratura speciale,
assicurare
l’applicazione di quelle norme. Il credito agrario deve anch’essere
istituito efficacemente, se si
vuole
liberare il contadino dall’usura, e rendere possibile
una
classe di agricoltori proletarii.
Intanto
è utile illuminare la pubblica opinione, rivelando
le
nostre piaghe e le nostre vergogne, senza paura
del
ridicolo o del discredito, che si cercherà di gettare
su
quelli che oseranno parlare. La libera stampa e
la
scienza hanno da lungo tempo imparato ad affrontare
questi
ostacoli negli altri paesi, e debbono affrontarli anche
fra
noi. Quasi tutte le grandi verità sociali cominciarono
coll’essere
prima dichiarate assurde, per sembrare
poi
probabili, e divenire finalmente evidenti a tutti. Senza
il
coraggio di sfidare il ridicolo, o di esporsi alla taccia
di
visionarii, molti progressi sarebbero stati impossibili,
e
molte calamità non si sarebbero evitate. Del resto, basta
parlare
con gli uomini che conoscono appena lo stato
delle
cose, per convincersi come la necessità di una riforma
sia
già nella coscienza di molti, i quali ancora esitano
a
dirlo apertamente, quantunque convintissimi. È bene
di
certo che questa riforma venga dall’alto, prima che sia
richiesta
dalle moltitudini; è bene che il Governo la inizii
e
la diriga. Questo è il solo mezzo, a mio credere, con
cui
esso potrà vincere il sentimento di crescente opposizione
che
si è formato in quelle province, e che può nascere
da
ignoranza e da poco tatto politico; ma che certo
trascina
ancora molti uomini onesti, moderati e patriotti,
i
quali vedono che il Governo redentore non ha il coraggio
di
redimere, che il Governo della libertà lascia che
gli
oppressi siano calpestati. Senza l’aiuto del Parlamento,
senza
l’intervento dello Stato, non c’è virtù o iniziativa
privata
che basti a risolvere questi problemi colossali.
Molti
sono perciò coloro i quali non si peritano d’affermare,
che
il Governo presente sia tutto a benefizio d’una
sola
classe, e non la più numerosa, della società. E quando
si
dice loro: camorra,
mafia; rispondono: consorteria
.
Queste
opinioni bisogna coi fatti sradicarle.
Il
Tocqueville afferma che due cose fanno ai popoli
operare
grandi imprese: la religione ed il patriottismo.
La
religione si può dire quasi spenta in Italia; dove non è
superstizione,
è abito tradizionale, non è fede viva. E
quanto
al patriottismo, che forma esso deve prendere
ora,
a quale nobile scopo indirizzarsi? L’Italia è unita,
è
libera, è indipendente; conquiste non ne vogliamo, né
possiamo
farne; una guerra di difesa è impossibile, perché
nessuno
ci assale. Che cosa dunque vogliamo? Bisogna
rivolgere
tutta l’attenzione all’interno, ciò è ben chiaro;
ma
la vita di una nazione non può restringersi tutta
ai
soli computi del pareggio. Noi potremmo essere uniti,
liberi,
indipendenti, colle finanze in equilibrio, e pure
formare
una nazione senza significato nel mondo. Occorre
che
un nuovo spirito ci animi, che un nuovo ideale
baleni
dinanzi a noi. E questo ideale è la giustizia sociale,
che
dobbiamo compiere prima che ci sia domandata.
È
necessario ridestare in noi quella vita morale, senza cui
una
nazione non ha scopo, non esiste. Ed è necessario al
nostro
bene materiale e morale.
Senza
liberare gli oppressi, non aumenterà fra noi il
lavoro,
non crescerà la produzione, non avremo la forza
e
la ricchezza necessarie ad una grande nazione. L’uomo
che
vive in mezzo agli schiavi, accanto agli oppressi
e
corrotti, senza resistere, senza reagire, senza combattere,
è
un uomo immorale che ogni giorno decade. La camorra,
la
mafia ed il brigantaggio diventano inevitabili.
Sotto
una o un’altra forma salgono in alto, si diffondono
nel
paese, ne consumano la midolla spinale, demoralizzandolo.
Con
un governo dispotico le conseguenze del male
non
sono così gravi, perché gli ostacoli sono indipendenti
dalla
nostra volontà, perché c’è un altro nemico
da
combattere, un altro ideale a cui mirare. Chiunque,
infatti,
oggi esamina se stesso, s’accorgerà, se è stato patriotta,
che
la sua condizione nella società era nel passato
più morale che non è oggi. Allora c’erano una guerra,
una
speranza, un sacrifizio ed un pericolo continuo
che
sollevavano lo spirito nostro. Oggi è invece una lotta
di
partiti, e qualche volta d’interessi, senza un Dio a
cui
sacrificare la nostra esistenza. Questo Dio era allora
la
patria, che oggi sembra divenuta libera per toglierci il
nostro
ideale. Ciò vuol dire che la libertà non ha ancora
messo
radici abbastanza profonde in Italia, è rimasta
solo
alla superficie, solo nella vita politica, ancora non è
penetrata
nella vita sociale ed individuale.
Si
permetta a me, che sono insegnante, di citare un
esempio
cavato appunto dalla scuola, che infine è poi
l’officina
in cui si forma il cittadino. Molte volte mi è stato
chiesto:
Credete proprio che con tutti questi maestri
e
professori, con tutti questi metodi e programmi nuovi,
la
generazione che sorge saprà e varrà più di quella
che
la precedette? Sarebbe essa capace di far l’Italia, come
I’abbiam
fatta noi? lo non dubito che la nuova generazione
impari
più e meglio di noi. Ma se varrà di più,
è
una quistione assai diversa. I nostri professori, i nostri
libri
eran peggiori, e s’imparava meno. Ma nella nostra
scuola
v’era qualche cosa di sacro che manca oggi. Il
giorno
in cui capitava nelle nostre mani un Berchet, un
Colletta,
un Niccolini, quel giorno la nostra piccola stanza
s’illuminava,
e uno spirito ignoto ci rivelava cose che
non
sono in alcun programma. Tra professori e scolari
era
una segreta intelligenza, per la quale ciò che si taceva
valeva
più di ciò che si diceva. Questo incanto è oggi
sparito,
gli antichi Dei sono rovesciati sui loro altari,
senza
che alcuna nuova Divinità venga a prendere il loro
posto.
L’alunno non vede dinanzi a se che una professione
o
un impiego; i più eletti pensano alla scienza. Ma ciò
neppur
basta, perché la scienza stessa ha bisogno d’essere
destinata
a qualche cosa di più alto, da cui possa essere
come
santificata. Nella nostra vita tutto ciò che non
è
santificato, viene profanato. Il vuoto che io vedo nel
la
scuola, parmi che sia anche nella società, perché è nel
cuore
del cittadino. A noi manca come l’aria da respirare,
perché
dopo una vita di sacrifizii, non troviamo più
nulla
a cui sacrificarci. Eppure l’aiutar coloro che soffrono
vicino
a noi, è il nostro dovere; è il nostro interesse
supremo,
urgente, e ci restituirebbe l’ideale perduto.
Ed
ora mi resta solo di rispondere ad una obbiezione,
che
alcuni, per patriottismo, non fanno, ma che pure
tengono
celata nel loro cuore. – Fortunatamente, essi dicono
fra
se, non tutta l’Italia è nelle condizioni in cui sono
le
Province Meridionali. Se laggiù
il
contadino ed il
povero
sono in così pessimo stato, se la gente colta manca
al
suo dovere, non reagendo e non migliorando questo
stato
di cose, peggio per loro; resteranno ancora un
pezzo
nello stato di semibarbari. Nell’Italia centrale e superiore
saremo,
come siamo, civili. – lo lascio che molte
piaghe,
come ho già accennato, sono anche nell’Italia
centrale
e superiore. Voglio ammettere, per ipotesi, quel
che
non potrei discutere ne combattere ora, che l’Italia
cioè
sia divisa nel modo che i poco benevoli oppositori
pretendono.
Ma, per poter tirare da un tale stato di cose,
la
conseguenza a cui essi vorrebbero giungere, bisognavano
averci
pensato prima, lasciando intatto il muro
della
China, che avevano costruito i Borboni. Dopo l’unità
d’Italia,
tutto si è mescolato nell’esercito, nella marineria,
nella
magistratura, nell’amministrazione, ecc. La
colpa
delle province più civili che, a tutta possa, non aiutano
le
meno civili, è uguale a quella delle classi più colte
ed
agiate che, in una medesima società, abbandonano
a
se stesse le più ignoranti e derelitte. E le conseguenze
sono
le stesse. Oggi il contadino che va a morire nell’Agro
Romano,
o che soffre la fame nel suo paese, e il povero
che
vegeta nei tugurii di Napoli, possono dire a noi
ed
a voi: Dopo l’unità e la libertà d’Italia non avete più
scampo;
o voi riuscite a render noi civili, o noi riusciremo
a
render barbari voi, E noi uomini del Mezzogiorno
abbiamo
il diritto di dire a quelli dell’Italia superiore e
centrale:
La vostra e la nostra indifferenza sarebbero del
pari
immorali e colpevoli.
Ora
non mi resta che chiederti scusa delle troppe
parole,
e ringraziarti.
Addio
Roma,
20 marzo 1875.
Tuo affez. P.
VILLARI
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