
LA
CAMORRA

Mio
caro Dina
Negli
scorsi mesi raccolsi
alcune notizie intorno
allo stato delle classi
più povere,
specialmente nelle
province meridionali.
Se
a te non pare inutile
affatto, ti pregherei di
concedermi
che le pubblichi nel tuo
giornale, tanto pregiato
in
Italia. Debbo però
dire, innanzi tutto, che
nel
raccogliere
queste notizie io ho
avuto lo scopo di
provare
che
la camorra, il
brigantaggio, la mafia
sono la conseguenza
logica,
naturale, necessaria di
un certo stato sociale,
senza
modificare il quale è
inutile sperare di poter
distruggere
quei mali. So che molti
lo ammettono, ma
pochi
se ne formano un
concetto chiaro. Sono
ben lontano
dallo
sperare di potere, con
alcune lettere,
risolvere
problemi
d’una sì grande
importanza e difficoltà.
Credo
però
che anche pochi fatti ed
esempi possano spronare
ad
altre nuove ricerche.
A
che gioveranno queste
ricerche? Sarà
sperabile portare
qualche
rimedio ai mali? Lo
vedremo in appresso.
Intanto,
per cominciare dalla
camorra, noterò che
la
legge di sicurezza
pubblica suppone che il
camorrista
non
faccia altro che
guadagnare indebitamente
sul lavoro
altrui.
Invece esso minaccia ed
intimidisce, né sempre
per
solo guadagno; impone
tasse; prende l’altrui
senza
pagare;
ma ancora impone ad
altri il commetter
delitti;
ne
commette egli stesso,
obbligando altri a
dichiararsene
autore;
protegge i colpevoli
contro la giustizia;
esercita
il
suo mestiere, se così
può chiamarsi, su
tutto: nelle
vie,
nelle case, nei ridotti,
sul lavoro, sui delitti,
sul gioco.
L’organizzazione
più perfetta della
camorra trovasi nelle
carceri,
dove il camorrista
regna. E così, spesso
si crede
di
punirlo, quando gli si dà
solo il modo di
continuare meglio
l’opera sua. Ma quello
ancora che la legge non
sembra
sospettare, e che molti
ignorano, si è che la
camorra
non
si esercita solo negli
ordini inferiori della
società:
vi
sono anche camorristi in
guanti bianchi ed abito
nero,
i cui nomi e i cui
delitti da molti
pubblicamente
si
ripetono. Le forme che
la camorra piglia nei
diversi
luoghi
e fra le diverse persone
che la esercitano, sono
infinitamente
varie.
Non
è lungo tempo io
scrissi ad un
vice-sindaco di
Napoli,
amante del suo paese,
antico liberale,
patriotta
provato:
– Mi dici qualche cosa
della camorra? Va essa
avanti
o indietro; comincia ad
essere davvero
estirpata?
–
Egli mi fece una
risposta che non
riferisco tutta, perché
a
molti parrebbe una
dipintura esagerata dei
fatti. Copio
solo
la conclusione della
lettera.
«Moltissime
ordinanze municipali non
possono qui attecchire
,
se non convengono
agl’interessi della
camorra.
Napoli
comincia a ripulirsi
dacché la camorra con i
suoi
appaItatori
ne trae guadagno. Ed io,
come vice-sindaco
di
..., ho potuto obbligare
1.157 proprietarii a
restaurare
ed
imbiancare le loro case
e le ville, che sono
cinte di
mura,
dacché, senza che
sapessi, la camorra
locale ha diretto,
di
comune accordo col mio
usciere l’operazione».
Questo
stato di cose fa paura,
spaventa sempre più,
quando
si esamina più da
vicino, e se ne vede
tutta
l’estensione.
Perché
la camorra divenga
possibile, occorre che
vi sia
un
certo numero di
cittadini, o anche una
classe intera,
che
si pieghi alle minacce
di pochi o di molti, che
siano
organizzati.
Una volta che questo
fatto, per qualche
tempo,
si
avvera in proporzioni
abbastanza larghe,
riesce facile
assai
capire in che modo la
malattia si estenda a
poco
a
poco, e pigli forme
diverse, secondo che
penetra nei
diversi
ordini della società.
Il male è contagioso
come il
bene,
e l’oppressione,
specialmente quella
esercitata dalla
camorra,
corrompe l’oppresso e
l’oppressore, e
corrompe ancora chi
resta lungamente
spettatore di questo
stato
di cose, senza reagire
con tutte le sue forze.
Perciò
importa
conoscere dove questa
oppressione comincia e
si
può esercitare più
impunemente, perché ivi
è la prima
radice
del male, dalla quale
tutto il resto deriva,
perché
ivi,
se è possibile, bisogna
portare il rimedio.
La
città di Napoli è, fra
molte, quella in cui la
bassa
plebe
si trova, non voglio
dire nella maggiore
miseria,
perché
ciò non è il peggio;
ma nel più grande
abbandono,
nel
maggiore avvilimento,
nel più doloroso
abbrutimento.
Contro
di essa tutto era
permesso sotto il regime
borbonico,
Il galantuomo poteva,
senza temer nulla,
quando
era di giorno e nella
pubblica via, usare il
suo bastone,
perché
la polizia pigliava in
queste occasioni sempre
le
sue parti. Le limosine
date a larga mano dai
privati;
dai
conventi, che
distribuivano la
minestra; dalle Opere
pie;
anche dal Governo, che
distribuiva pane,
alimentavano
la
miseria e la rendevano
permanente. La camorra
cosi
nasceva naturalmente in
mezzo a questi uomini;
era
il
loro governo naturale,
ed era perciò favorita,
sostenuta dai
Borboni, come un mezzo
di ordine.
Qui il camorrista
atterriva,
minacciava e regnava.
Qui egli prendeva i
giovanetti
di
14 o 16 anni, per
insegnar loro a rubare
il fazzoletto,
che
restava a lui, dando in
cambio, e come per
favore,
qualche soldo. Qui egli
poteva fare degli uomini
e
delle donne quello che
voleva. E siccome spesso
faceva
con
le sue anche le altrui
vendette, così qualche
volta non
solo
incuteva terrore, ma
ispirava ammirazione ed
affetto
in
quegli stessi che
opprimeva. Cominciata la
malattia, si
poté
subito diffondere. Una
volta che questo
spettacolo
non
disgustò più,
l’oppressione e la
violenza non parvero
un
delitto, e le
esercitarono molti che
in altre condizioni
sociali
avrebbero trovato nella
loro coscienza un
ostacolo
invincibile.
Per
comprendere la verità
di quello che dico, e
per
poter
ragionare in buona fede
su questi fatti,
occorrerebbe prima di
tutto andare a vedere
coi propri occhi dove
e
come vivono le più
povere famiglie. Si
tratta d’una
popolazione
enorme, che si divide in
categorie diverse,
ciascuna
delle quali ha
caratteri, costumi,
sventure proprie.
Cito
degli esempi, ed il
lettore non si stanchi
se, pur
avendo
io stesso veduto molti
fatti, riferisco le
parole di
alcuni
che andarono
espressamente a visitare
i poveri.
Lo
scorso dicembre io
scrissi ad un
architetto, che era
stato
più volte adoperato dal
Municipio di Napoli,
pregandolo
che
mi dicesse qualche cosa
di quelli che si
chiamano colà
i fondaci,
nei quali abita la più
misera gente, e che
sono disprezzati dalle
donne stesse del popolo.
Per ingiuriarsi
fra loro, l’una chiama
l’altra funnachéra
(abitante dei
fondaci).
«Questi
fondaci (egli
rispondeva) hanno
generalmente
un
androne, senza uscio di
strada, ed un piccolo
cortiletto,
ambedue
sudicissimi, i quali
mettono in una
grandissima
quantità
di pessime abitazioni,
molto al di sotto
degli
stessi canili, le quali
tutte, e specialmente
quelle in
terreno,
sono prive di aria, di
luce, ed umidissime. In
essi
vivono
ammonticchiate parecchie
migliaia di persone,
talmente
avvilite dalla miseria,
che somigliano più a
bruti
che
ad uomini. In quei covi,
nei quali non si può
entrare
per
il puzzo che tramandano
immondizie ammassate da
tempi
immemorabili, si vede
spesso solamente un
mucchio
di
paglia, destinata a far
dormire un’intera
famiglia,
maschi
e femmine tutti insieme.
Di cessi non se ne
parla,
perché
a ciò bastano le strade
vicine ed i cortili.
Solamente
in due o tre fondaci,
dei molti visitati da
me,
le donne esercitano la
miserabile arte di fare
stuoie,
o
impagliare sedie; negli
altri tutti non si vede
nessuno
a
lavorare, ma solo
spettri seminudi ed
oziosi. A me
accadde
d’incontrare in
parecchi fondaci, donne
che
vagano
per i cortili, con la
sola camicia indosso,
che
pur
veniva giù a brani.
Infine la più terribile
miseriatrova ricetto in
questi fabbricati, dove
non manca mai
qualcuna
delle più abbiette e
luride case di
prostituzione.
Nella
nostra città sono n°
94 fondaci, come potrai
vedere
dall’elenco
che t’invio; sicché,
calcolando che ognuno
sia
abitato da n° 100
persone (e con questo
numero
mi
metto al disotto del
vero), sarebbero circa
9.400 questi
esseri
infelici. I peggiori
fondaci sono quelli che
si
trovano
nei quartieri di Pendino,
Porto e Mercato, 51 in
tutto.
Gli altri sono migliori,
ma di poco. Ognuno di
essi
ha il suo proprio nome:
Barettari, Tentella, S.
Crispino,
Scanna-sorci,
Divino Amore, Presèpe,
Pisciavino,
Del
Pozzillo, Abate,
Crocefisso, Degli
schiavi, ecc. L’ultimo
parmi
il nome più adatto».
Il
lettore ha mai sentito
parlare degli spagari di
Napoli,
e
delle grotte in cui
abitavano? Questa gente
forma una
classe
numerosa, non chiede la
limosina, lavora, ha un
mestiere.
Nel tempo del colera,
pochi anni sono, furono
chiuse
quelle luride tane, che
erano la loro unica
dimora.
Tuttavia,
mesi sono, pregai una
persona amica di andare
colà
dov’erano una volta le
grotte, e vedere;
trovandole
ancora
chiuse, cercasse dove
abitavano gli spagari, e
li
visitasse.
Riferisco qui due delle
lettere ricevute. Sono
dello
scorso novembre.
«Ieri
trovai una delle così
dette grotte degli
spagari, la
più
parte essendo ormai
chiuse. Essa sta in sul
principio
delle
Rampe di Brancaccio,
quando si discende. Il
suo
ingresso
non annunzia l’orrore
che vi si trova.
Somiglia
alle
catacombe di S. Gennaro,
se non che è assai più
lurida
e meschina. Vi si
cammina col lume, e solo
di
tanto
in tanto, ma assai di
rado, vi sono delle
aperture,
balconcini
e finestre, che mettono,
due nei giardini di
Francavilla,
altre in umide corti.
Tutta
questa grotta è gremita
di letti, l’uno
dall’altro
poco
più discosti di quel
che sono nelle sale
dell’ospedale
degl’Incurabili.
Ad eccezione di
qualcuno, sono tutti
letti
assai grandi, da
contenere più persone.
Sarebbe impossibile
descriverne il sudiciume
e la povertà. Una
perfetta
armonia è tra quei
luridi canili,
l’orribile grotta
e
gli abbrutiti abitanti,
e tutti insieme sembrano
formare
un
mondo a parte, che non
possa andare altrimenti
da
quello
che va. Fra gli abitanti
v’è una certa
gerarchia.
Accanto
alle poche finestre, là
dove arriva qualche
raggio
di
sole, si trova un poco
meno di miseria; dove
però non
arriva
la luce, ivi chi si
avanza col lume, vede
una miseria
indescrivibile.
Ed è singolare come
anche qui, quelli che
stanno
meglio compatiscano e
quasi disprezzino quelli
che
stanno peggio.
Vivono
in questo luogo
famiglie, e sono circa
100
persone
il sudiciume è tale,
che la vista colà
d’una conca
col
bucato, mi rallegrò in
modo che mi parve
un’oasi
nel
deserto. Vicino alle
finestre si paga sino a
10 lire
il
mese, dove manca la luce
si discende fino a 25
soldi.
Hanno
l’aria, più che di
gente infelice, di gente
abbrutita.
Quando
fa bel tempo, escono a
guisa di formiche, e si
spandono
al sole.
Tutta
questa gentemi piativano
d’intorno, domandando
misericordia,
e dicendo che erano
obbligati a restar lì
senza
luce, senz’aria, senza
medici. Quando sono
ammalati,
essi
dicono, restano
abbandonati fino a che
muoiono
o
vanno all’ospedale. La
persona che subaffitta
questo
locale,
e vi fa su un buonissimo
guadagno, si è persino
ricusata
di fare le più
necessarie riparazioni,
e così
non
di rado la pioggia
inonda la grotta».
Aggiungo
una seconda lettera
della stessa persona.
«Andai
in un altro luogo, che
è una volta al di sotto
del
Corso Vittorio Emanuele,
con mura che la chiudono
dai
due lati, e formano così
uno strano ricovero. Ivi
erano
molti
a lavorare lo spago, la
più parte giovani
figlie di
capispagari,
le quali però non vi
dormivano. Una grande
e
commoventissima miseria
mi colpì allora sino al
fondo
dell’anima.
Una povera vedova di
poco più che 30 anni,
d’un
aspetto che dimostrava
essere ella già stata
bella, aveva cinque
bambini, un giovanetto
di 12 anni, e quattro
bimbe,
l’ultima delle quali
di 3 anni appena: tutti
assai
belli.
Erano stati una volta
agiati, perché figli
d’un
operaio
che guadagnava bene, ma
che era morto sollevando
alcuni
pesi troppo gravi alle
sue forze. La donna,
che
nella sua infanzia aveva
fatto la spagara, è
tornata ora
all’antico
mestiere, col quale
guadagna dieci soldi al
giorno,
tranne
quando pel gran freddo,
non potendo muovere
le
mani irrigidite, non
riesce a fare quel tanto
che deve.
I
bambini girano le ruote
per le altre donne, e
guadagnano
ciascuno
un soldo, col quale
comprano castagne
secche,
e così si sostentano
fino a sera, quando,
venendo
pagati
i dieci soldi alla
madre, mangiano tutti
qualche altra
cosa.
Dormono in un angolo di
questo locale, sopra
alcune
foglie secche. Non hanno
neppur l’idea d’una
coperta
o
d’un panno per
ricoprirsi. La notte si
mettono
tutti
rannicchiati, l’uno
sull’altro, e tremano
di freddo:
non
hanno lume. La donna mi
mostrò i cenci che li
coprivano,
in
molti punti rosi dai
topi piccoli e grossi,
che
nel
colmo della notte
camminano sui loro
corpi. Allora
i
bambini, spaventati,
gridano e piangono. Ed
essa, battendo
con
una pietra sul muro,
cerca con quel rumore
di
spaventare ed
allontanare i topi, che
non vede. Quella
donna
deve essere onesta e
buona, perché il
pensiero
che
più di tutti la turbava
era la riuscita dei
figli. Essa teme
che
il primo, il quale ha già
12 anni, ed è già
molto
vivo,
possa presto divenire un
cattivo soggetto».
Se
è vero quel che dice il
Quetelet, che assai
spesso è la
società
quella che mette il
coltello in mano al
colpevole,
e
se questo giovanetto
divenisse un giorno
assassino,
non
avrebbe egli il diritto
di dire alla società:
lo ho
ammazzato
un uomo; ma tu avevi già
prima ammazzato
la
mia coscienza?
Potrei
continuare questa
descrizione sino
all’infinito,
ed
aggiungere lettere a
lettere, fatti a fatti,
sempre vari,
sempre
brutali, sempre
orribili. Ma non voglio
stancare la pazienza del
lettore. Su questa
povera gente tutti
abusano.
Il
tugurio in cui abitano,
le misere ruote con cui
lavorano
lo spago, la canapa di
cui si servono, nulla
appartiene ad essi; per
ogni cosa debbono
pagare, e pagare
ad
uomini che gli
opprimono, li
tormentano, non hanno
di
loro alcuna pietà, e
vivono guadagnando sulla
loro
abbrutita
miseria. Basta
avvicinarsi a questi
luoghi, per
essere
circondati da una folla
che chiede
l’elemosina, e,
senza
essere interrogata,
racconta la varia lliade
delle sue
miserie.
Qui bisogna venire a
studiare, per
convincersi
che
la camorra comincia a
nascere, non come uno
stato
anormale
di cose, ma come il solo
stato normale e
possibile.
Supponendo
domani imprigionati
tutti i camorristi,
la
camorra sarebbe
ricostituita la sera,
perché nessuno
l’ha
mai creata, ed essa
nasce come forma
naturale
di
questa società. Intanto
qui si recluta la
popolazione
enorme
de’ piccoli ladri, i
quali rubano a vantaggio
dei
loro
capi; e quando vanno a
centinaia nelle
prigioni, costituiscono
anche
là il popolo della
camorra, perché ivi
essa
ha pure i suoi sovrani,
le sue assemblee e la
sua gerarchia,
non
meno potenti, non meno
audaci che fuori.
Il
guadagno del camorrista
si fa allora sulle fave
nere, sul
pane
nero di cui il carcerato
povero deve rilasciare
una
parte;
colui che ha dei soldi
rilascia tutto, per
comprare
dalla
camorra qualche cosa di
meglio, spesso ancora
per
ricomprare
quello che ha venduto.
Ma
a che pro, mi si può
dire, questa lunga
geremiata?
Si
sa che la miseria c’è,
e che è orribile. C’è
stata e
ci
sarà sempre
dappertutto, insieme coi
delitti. Lo so anch’io
che
vi sono uomini, ai quali
se si mostra una
moltitudine
che
affoga nella miseria,
nella fame e nella
corruzione,
hanno
sempre la stessa
risposta: – Bisogna
aver fede
nella libertà. IL
SECOLO, IL PROGRESSO, I
LUMI! –
Con questa gente io non
so ne ho voglia di
ragionare.
A
loro non saprei dire che
una cosa sola: –
Spegnete i
vostri
lumi e andate a letto.
Contentatevi di sentire
ogni giorno ripetere
dagl’Inglesi e dai
Tedeschi, che i popoli
latini
conoscono la forma e non
la sostanza della libertà,
perché
non hanno mai voluto
capire che popolo libero
è
quello
solamente, in cui i
potenti e i ricchi fanno
un perenne
sacrifizio
di loro stessi ai poveri
e ai deboli. E non
vogliono
capire che una plebe
misera e corrotta
corrompe
tutta
la società; sicché è
nel loro interesse, in
quello
della
moralità propria e dei
propri figli, combattere
questo
male
con tutta la energia
possibile. –
lo
parlo invece a coloro
che, senza illusioni,
credono
utile
e necessario studiare il
male per cercarne i
rimedi.
E
questi, certo, sono
molti, complessi,
difficili. Accennerò
a
qualcuno di quelli che
mi sembrano più
evidenti,
e
comincerò dal più
difficile di tutti,
quello che richiede
maggior
tempo e danaro. A Napoli
v’è una quistione
colossale,
che nasce dalla
costruzione stessa della
città.
Questa
condizione di cose
peggiorò molto dal
tempo
in
cui, invece di fare,
come pel passato,
scorrere le acque
che
piovono, a rigagnoli o a
fiumi per le strade, si
costruirono
assai
malamente le fogne,
nelle quali, per
mancanza
di
pozzi neri, va ogni
cosa. Le materie restano
ora,
quando
non piove, ferme, e le
loro esalazioni
miasmatiche
si
sentono per le vie,
entrano pei condotti
nelle case.
Quando
invece viene la pioggia,
sono portate al mare,
che
bagna le rive così
incantevoli e così
popolose della
città:
ivi in tempo di calma si
fermano, e lo scirocco
rimanda
indietro i miasmi. Il
rimedio è difficile,
perché
manca
l’acqua, ed in molti
luoghi il livello delle
strade è
uguale
a quello del mare.
Intanto le febbri
intermittenti fanno
strage nella misera
popolazione. Le Guide
inglesi e
tedesche hanno sempre un
capitolo sulla lebbre
napoletana, di
cui nei tempi passati
non parlavano punto. Gli
alberghi
abbandonano la marina e
salgono sulla collina.
Si
aggiunga a questo, che
la mancanza di spazio
costringe
la
povera gente a vivere
accatastata in tugurii
spaventevoli;
onde
in nessun paese della
terra si vedono più
chiare le terribili
conseguenze della teoria
del Malthus. Qui anche
la parte meno misera del
popolo abita nei bassi,
i quali
non solamente sono senza
aria e senza luce, ma
son
tali
che spesso, per
entrarvi, si discendono
alcuni scalini,
onde
la malsana umidità.
S’aggiunga poi che
anche oggi
si continuano a
costruire questi bassi
nel
medesimo modo
e si capirà come il
primo e più difficile
problema
risguardi
l’igiene generale
della città, la
costruzione delle
case
pei poveri, pei quali
dal 59 ad oggi non si è
fatto
nulla.
Si pensi che molti dei
più miseri vivevano e
vivono
accattando,
ricevendo sussidii,
quando non fanno di
peggio.
Queste limosine e
sussidii sono ora
scemati, perché
un
governo libero non può
distribuire il pane, e
perché
le
Corporazioni religiose
furono sciolte. Si
consideri
che
il prezzo dei viveri e
delle case è cresciuto,
mentre
l’aumento
della mano d’opera non
giova a chi non aveva
e
non ha mestiere, e si
dica poi se rimedia al
male la
scuola
elementare, a cui del
resto questa gente non
va e
non
può andare. La sua
condizione certo non è
migliorata,
forse
è peggiorata. Di ciò
io sono più che
convinto,
per
quel che ho visto coi
miei occhi.
In
questo stato di cose, i
rimedii principali e più
facili
sono
due. Estirpare la
camorra, la quale deve
essere ritenuta
come
una piaga sociale assai
più profonda di quel
che
ora si suppone. Per
riuscirvi, bisogna prima
studiarla
e
conoscerla bene; bisogna
poi che la legge la
determini
meglio,
e renda così possibile
il colpirla in tutte le
sue
forme.
I colpi dovrebbero
essere più fieri, più
inesorabili
contro
coloro che non sono
popolo, e pur la
esercitano
e
ne profittano. Il
camorrista dovrebbe
nelle carceri
essere
isolato, o mandato in
quelle dell’Italia
settentrionale;
altrimenti
la prigionia, se non è
un premio, non è
certo
una pena per lui. Da
alcuni mesi il governo
è rientrato
in
una via di rigore, che
aveva, secondo me, a
torto
abbandonata
per lungo tempo.
Bisognerebbe che questo
rigore
fosse permanente, che
continuasse nella
prigione, e avesse, per
quanto è possibile,
l’aiuto di una legge
di
pubblica
sicurezza, con qualche
articolo aggiunto a quel
troppo
semplice articolo 120,
il quale si contenta di
mettere
fra
le persone sospette
coloro che «esigono
danaro
abitualmente
ed illecitamente sugli
altrui guadagni». A
torto
si è creduto di aver
così definito la
camorra, che
invece
sfugge facilmente alla
pena.
Ogni
sforzo sarà però vano
se, nel tempo stesso in
cui
si
cerca di estirpare il
male con mezzi
repressivi, non si
adoprano
efficacemente i mezzi
preventivi. lo non mi
stancherò
mai di ripeterlo: finché
dura lo stato presente
di
cose, la camorra è la
forma naturale e
necessaria della
società
che ho descritto. Mille
volte estirpata,
rinascerà
mille
volte. Quella plebe
infelice, che con leggi
repressive
noi
a poco a poco liberiamo
dai suoi oppressori,
deve
essere
con leggi preventive
spinta, costretta al
lavoro.
Non
bisogna contentarsi di
aiutarla con quelle
infinite limosine
che
aprono spesso una nuova
piaga sociale, perché
alimentano
l’ozio ed il
vagabondaggio. Non
bisogna
dire
e ripetere, che a tutto
rimedia la scuola
elementare,
la
quale in questi casi non
rimedia nulla. Si guardi
un poco
a
quello che avviene
naturalmente, quando si
trovano
a
Napoli uomini veramente
pietosi e benemeriti,
che conoscono
i
mali del loro popolo.
Alfonso Casanova, che
da
pochi anni abbiamo
perduto, fu giustamente
amato come
un santo. La sua Opera
pei fanciulli usciti
dagli Asili era
fondata collo scopo di
cercare i piccoli
vagabondi,
ed
insegnar loro, insieme
con l’alfabeto, un
mestiere.
Tutti
riconobbero che quello
era il bisogno vero del
paese,
tutti
l’aiutarono e
l’amarono, quasi
l’adorarono. Altri
tentarono
l’impresa con uguale
fortuna, perché la
carità
cittadina
non è mancata mai colà.
E se il Governo
vuol
davvero operare, deve
imitare questi esempi
suggeriti
dalla
natura stessa delle
cose. Come la camorra è
un
male
che sorge spontaneo, e
però tanto più
profondo, in
un
certo stato sociale, così
questi tentativi sono lo
sforzo generoso e
spontaneo della società
stessa per redimersi.
Bisogna
combattere la prima,
aiutare i secondi. Il
Governo
deve
prendere le cose come
sono, entrare nella via
suggerita
dall’esperienza della
gente onesta del paese,
e
lasciar
da un lato le teorie. E
il danaro non manca, se
una
volta
si vorrà ammettere che
le infinite Opere pie
elemosiniere,
le
quali così spesso sono
più uno stimolo che un
rimedio
alla miseria, debbano
tutte essere trasformate
in
modo
da ottenere il loro
scopo con la previdenza,
dando col
pane, e come condizione sine
qua non,
l’insegnamento e
l’obbligo del lavoro.
E
perché si veda quanto
questo male sia
generale, e
non
paia che io voglia
prendere tutti gli
esempi dal Mezzogiorno
d’Italia,
ne citerò uno del
Settentrione 185.
Nella Rivista
Veneta (vol. IV, fasc. 5°, 1874) è
stato poco fa
pubblicato dal
professore Cecchetti
dell’Archivio
dei
Frari, un lavoro in cui
si dànno alcune
statistiche assai
eloquenti.
Dal 1766 al 1789 si
trova che Venezia ebbe
una
media di 2.000 poveri.
Le cose sono da allora
in
poi
talmente peggiorate, che
nel 1860 erano nei
registri
di
beneficenza inscritti
31.890 individui, in una
popolazione
di
123.102 abitanti. Nel
1861 la popolazione
discese
a
122.565, e
gl’inscritti alla
beneficenza salirono a
32.422.
Nel 1867 la popolazione
discese a 120.889 e nel
catalogo
della
beneficenza erano
registrati 33.978
individui.
Questi
erano nel 1869, 35.000;
nel 1870, 35.728; nel
1871,
36.200. E qui finisce la
statistica, non senza
notare
che
bisogna, per l’anno
1871, aggiungere circa
700
poveri
vergognosi, i quali
rappresentano 186
altrettante
famiglie.
È vero che negli ultimi
anni la popolazione di
Venezia
ebbe qualche lieve
aumento, essendo nel
1871
salita
a 128.901 abitanti; ma
in sostanza dai calcoli
ufficiali
del
signor Cecchetti risulta
un continuo aumento di
poveri,
e risulta che un terzo
circa della popolazione
di
Venezia
è ora sussidiato 187
dalla beneficenza, o
almeno
scritto
nei registri come
meritevole di sussidio
188. Ho sentito molti e
molti domandare: Perché
lo spirito
intraprendente,
operoso,
audace qualche volta
sino all’eroismo,
degli
antichi Veneti, non è
ancora cominciato a
risorgere
colla
libertà 189? Le ragioni
sono infinite. Però
tra
le ragioni, a mio
avviso, non è ultima
questa, che la
carità
cittadina ha accumulato
infiniti tesori, i quali
sono
ora
destinati ad impedire
che quello spirito
risorga.
Dopo
ciò l’eterna risposta
deve essere sempre:
Vedremo,
provvederemo,
faremo? Cioè, lasceremo
fare, lasceremo
passare?
Intanto la stampa
straniera ci domanda:
–
Quando l’Italia sarà
finalmente civile? – E
se questo è
quello
che segue a Venezia, che
cosa deve seguire a
Napoli,
città
tanto più grande, tanto
più malmenata! Lo dica
l’esercito
sterminato di poveri che
vive colà senza lavoro.
Qualcuno
darà loro da mangiare,
se di fame non
muoiono.
Sì, è la carità, ma
una carità che uccide,
che
demoralizza,
che abbrutisce.
–
E voi, mi si dirà,
avete la ingenuità di
credere che in
breve
si può rimediare a mali
così gravi e profondi?
Non
vedete
che ci vuole un secolo?
– Sì, lo vedo, ma
vedo
ancora
che se cominceremo
domani, ci vorrà un
secolo
ed
un giorno. E per ora
vedo ancora che, quando
torno
a
Napoli, il mondo è
mutato per me e per i
miei amici. La
parola
è libera, la stampa è
libera, molte vie si
sono aperte
dinanzi
a me. La differenza è
come dalla notte al
giorno;
se
dovessi tornare al
passato, mi parrebbe di
scendere
nella
tomba. Abbandono le
strade centrali, vado
nei
quartieri
bassi, e ritrovo le cose
come le lasciarono i
Borboni.
I fondaci Scanna-sorci,
Tentella, San Crispino,
Pisciavino,
del Pozzillo, ecc. sono
là sempre gli stessi,
coi
medesimi
infelici, forse ancora
più oppressi, più
affamati
di
prima. Tutta la
differenza, se mai, sta
in ciò, che il
muro
esterno fu imbiancato. E
sono allora tentato di
domandare
a me stesso: Ah! dunque
la libertà che tu
volevi,
era una libertà per tuo
uso e consumo solamente?
Tuo
affez. P.
VILLARI
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