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CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

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Le lettere meridionali

Di: Pasquale Villari


  IL BRIGANTAGGIO 

 

Mio caro Dina  

lo suppongo il lettore persuaso già che la mafia abbia le sue radici principali nella campagna, e che a distruggerla sia necessario veramente migliorare le condizioni delle migliaia d’agricoltori, che lavorano nell’interno dell’Isola i 77% del suolo siciliano. E allora vedo subito nascere uno spavento e una diffidenza grandissima. Da un lato sento dire: Sono mali a cui non può rimediare che il tempo, la forza generale delle cose. Da un altro lato sento con maggiore insistenza affermare: Volete dunque sollevare in Italia una quistione sociale? Fra i tanti nostri guai questo ci mancava ancora. Avevamo la pace interna, e voi vorreste ora scatenare su di noi così terribili calamità. Sarebbe davvero un gran delitto contro la patria, l’alimentare nei contadini speranze che non possono mai essere soddisfatte. Essi sono la classe di gran lunga più numerosa e meno civile; se si sollevassero, chi potrebbe loro resistere? Prima di tutto bisogna bene intendersi su di ciò, perché queste opinioni molto diffuse hanno davvero impedito che la quistione venisse finora seriamente e chiaramente discussa. Se per questioni sociali s’intendono quelle che vediamo travagliare così crudelmente le altre nazioni, allora di certo ne siamo per fortuna liberi. Perché esse sorgano, occorre che siasi già fatto un grande progresso nell’industria, nell’agricoltura e nel commercio; progresso che fra noi non esiste, e meno che mai in quelle provincie di cui ora più particolarmente ci occupiamo. Quando noi domandiamo che si porti qualche aiuto all’infima plebe di Napoli, che vive senza mestiere, vogliamo solo spingerla fino al lavoro ed all’industria; quando domandiamo che il contadino esca dalla sua condizione di schiavo, in cui trovasi in alcuni luoghi, vogliamo solo condurlo fino alla sua indipendenza. Là dove si cominciano a discutere pericolose teorie, siamo già fuori del nostro argomento. Che se, per la possibilità che queste teorie sorgano, si dovesse rinunziare a promuovere il progresso morale e materiale delle popolazioni abbandonate e povere, allora solamente il tacerne sarebbe dovere. Chi vorrà sostenerlo? Se però non abbiamo, ne dobbiamo per ora temere il socialismo, il comunismo e l’internazionalismo, è poi certo che non abbiamo alcuna questione sociale, ma solo la pace interna per tutto? Non c’è questione politica che progredisca davvero senza questioni sociali, perché la mutazione del Governo, senza una trasformazione progressiva della società, sarebbe opera affatto vana. E poi quale è la pace che abbiamo nelle provincie di cui si ragiona? Sono segni di ordine e di pace la camorra, la mafia ed il brigantaggio? A Zurigo, a Ginevra, in molte città della Svizzera, è ben vero, si sono più volte agitate le moltitudini con teorie sovversive, e sarebbe certo la più grande calamità se queste teorie si diffondessero tra noi. Ma nella Svizzera voi potete traversare di giorno e di notte monti, valli e boschi, senza quasi mai trovare un gendarme, e senza mai temere ne per la vostra vita, ne per la vostra proprietà, se anche siete carico d’oro. Potremo proprio dire che ivi la pace sociale sia turbata, e che fra noi sia invece perfetta, quando pensiamo che in alcune delle nostre province non si può camminare senza essere circondati di guardie armate, e vi sono uomini che, in mezzo alla libertà, sono poco meno che schiavi? E da un altro lato abbiamo noi esaminato tutti i danni di un tale stato di cose? La insurrezione è un pericolo; ma l’ozio, l’inerzia, il vagabondaggio e l’abbrutimento sono un pericolo non meno grave, specialmente per un popolo che vuol esser libero. Il dispotismo si fonda sopra una società che lavora poco e spende poco; può quindi più facilmente tollerare l’ozio e l’abbrutimento; spesso ne ha anche bisogno per la sua sicurezza. Ma un popolo libero è invece un popolo che lavora e spende molto. Se noi avessimo prima trasformata la nostra società, per far poi la rivoluzione politica, non ci troveremmo nelle condizioni in cui siamo, appunto per aver fatto solo una rivoluzione politica, colla quale si sono mutati il Governo e l’amministrazione. Le spese sono a un tratto immensamente cresciute, senza che la produzione cresca del pari. E questo stato di cose porta un deficit finanziario, il quale non sarà colmato neppur quando colle imposte avremo pareggiato le spese alle entrate. La più piccola scossa farà riapparire il disavanzo, e le economie necessarie ma forzate, che faremo per alcuni anni, saranno a lungo impossibili, se vorremo accrescere il benessere materiale e morale. Ma da un altro Iato neppure le spese saranno possibili, se un aumento di lavoro e di produzione non comincerà nel paese. È un circolo vizioso, di certo; ma è pur chiaro che, per andare innanzi, bisogna uscirne. E senza redimere quelle classi numerose, che nell’abbrutimento in cui sono, non lavorano punto so o fanno un lavoro improduttivo, il problema non sarà mai risoluto. Questo è per noi non solamente un debito d’onore, ma è pure un nostro interesse: noi non faremo mai davvero e permanentemente il pareggio finanziario, senza prima fare il pareggio morale. Il problema è più grave che non si crede. Se dentro o vicino alle città troviamo i mali più sopra esaminati, questi diventano maggiori nella campagna. Si pensi un poco che l’Italia è un paese agrario, e che i contadini sono più di un terzo della sua popolazione. Si pensi che la leva degli anni scorsi, trovava che più del 60% dei coscritti erano agricoltori, e il censimento del 1861 dimostra che gli agricoltori sono assai più della metà della gente che in Italia esercita un mestiere, una professione, un ufficio qualunque, o sia più della metà della gente che lavora e produce. E allora si vedrà quanto sia impor- tante esaminare il problema anche da questo Iato. Il brigantaggio è il male più grave che possiamo osservare nelle nostre campagne. Esso certamente, com’è ben noto, può dirsi la conseguenza d’una questione agraria e sociale, che travaglia quasi tutte le province meridionali. La Relazione scritta dall’on. Massari (Sessione del 1863, N. 58, Atti del Parlamento) dice: «Le prime cause adunque del brigantaggio sono le cause predisponenti. E prima fra tutte, la condizione sociale, lo stato economico del campagnuolo, che in quelle province appunto dove il brigantaggio ha raggiunto proporzioni maggiori, è assai infelice... Il contadino non ha nessun vincolo che lo stringa alla terra.» Mangiano un pane «che non mangerebbero i cani» diceva il direttore del demanio e tasse. Nelle carceri di Capitanata, e così altrove, quasi tutti i briganti sono contadini proletarii. Le bande del Caruso e del Crocco, molte volte distrutte, si ricostituirono senza difficoltà con nuovi venuti; e in una medesima provincia si osservava, che là dove il contadino stava peggio, ivi grande era il contingente dato al brigantaggio; dove la sua condizione migliorava, ivi il brigantaggio scemava o spariva. Anzi nell’Abruzzo, per la sola ragione che il contadino ridotto alla miseria ed alla disperazione, può andare a lavorare la terra della campagna romana, dove piglia le febbri e spesso vi lascia le ossa lo stato delle cose muta sostanzialmente. Questa emigrazione impedisce l’esistenza del brigantaggio, e prova come esso nasca non da una brutale tendenza al delitto, ma da una vera e propria disperazione. «Il brigantaggio, conchiudeva l’on. Massari, diventa in tal guisa la protesta selvaggia e brutale della miseria contro antiche e secolari ingiustizie». E nella Camera dei deputati, il 31 luglio 1863, l’on. Castagnola, che era stato pur esso membro della Commissione d’inchiesta in un discorso assai note vole e pratico, confermava ampiamente le stesse conclusioni. Il generale Govone, interrogato sul perché le popolazioni dimostravano tanta simpatia al brigante, aveva risposto semplicemente: «I cafoni veggono nel brigante il vindice dei torti che la società loro infligge». L’onorevole Castagnola era stato giustamente maravigliato di trovare in quelle popolose città due classi solamente, proprietarii e proletarii, o come dicono, galantuomini e cafoni. Si scende dal gran signore al nullatenente, e l’odio fra queste classi gli pareva profondo, sebbene represso. «È il Medio Evo sotto i nostri occhi», esclamava egli nella Camera. Veniva poi ad esaminare le molteplici cause del brigantaggio, e concludeva: «Vi è la questione sociale, per sciogliere la quale converrebbe promuovere il benessere delle popolazioni, fare strade, far cessare l’usura, istituire dei Monti frumentarii, far nascere il credito agricolo... Questi sarebbero i rimedii radicali». Per distruggere il brigantaggio noi abbiamo fatto scorrere il sangue a fiumi, ma ai rimedii radicali abbiamo poco pensato. In questa, come in molte altre cose, l’urgenza dei mezzi repressivi ci ha fatto mettere da parte i mezzi preventivi, i quali soli possono impedire la riproduzione di un male, che certo non è spento e durerà un pezzo. In politica noi siamo stati buoni chirurgi e pessimi medici. Molte amputazioni abbiamo fatte col ferro, molti tumori cancerosi estirpati col fuoco, di rado abbiamo pensato a purificare il sangue. Chi può mettere in dubbio che il nuovo Governo abbia aperto gran numero di scuole, costruito molte strade e fatto opere pubbliche? Ma le condizioni sociali del contadino non furono soggetto di alcuno studio, ne di alcun provvedimento che valesse direttamente a migliorarne le condizioni. Uno solo dei provvedimenti iniziati tendeva direttamente a questo scopo, ed era la vendita dei beni ecclesiastici in piccoli lotti, e la divisione di alcuni beni demaniali. Ciò poteva ed era inteso a creare una classe di contadini proprietarii, il che sarebbe stato grande benefìzio per quelle provincie. Ma senza entrare in minuti particolari, noteremo per ora che il risultato fu assai diverso dallo sperato; perché è un fatto che quelle terre, in uno o in un altro modo, andarono e vanno rapidamente ad accrescere i vasti latifondi dei grandi proprietarii, e la nuova classe di contadini non si forma. Il problema per noi è ora il seguente: dal 1860 ad oggi, questi contadini che ci vengono descritti come schiavi della gleba, ingiustamente, crudelmente oppressi, hanno o non hanno cominciato visibilmente a migliorare la propria condizione? A risolvere una tale questione, senza accuse irritanti o ingiuste per alcuno, dobbiamo un momento fare astrazione dalla natura individuale degli uomini, ed indagare se le condizioni nuove li spingono al bene con una forza assai maggiore che nel passato; se obbligano i tristi, gli avidi a fermarsi nei soprusi, cui s’erano per lungo abuso educati. Non bisogna dimenticare che, quando una società ha preso il suo indirizzo, non è più in potere di alcuni uomini buoni e generosi il fermarla o deviarla dal pericoloso cammino. Si forma un’atmosfera che tutti respirano, si creano interessi collegati che resistono potentemente e violentemente. Ne è raro il caso di vedere quegli stessi, in favore dei quali si vorrebbe operare, per diffidenza o per ignoranza reagire, ed anche far causa comune coi loro tiranni, combattere quelli che vorrebbero essere i loro benefattori. È un fatto che segue ogni giorno, ed è bene ricordarlo. Con maraviglia lo straniero osserva nelle province meridionali molte città popolose, in cui si trovano poche famiglie di ricchi proprietarii, il più delle volte imparentati fra loro, in mezzo ad una moltitudine di proletarii, che sono i contadini. Salvo qualche impiegato, altri ordini di cittadini non vi sono. La campagna è deserta, i suoi lavoratori formano il popolo delle città. Non v’è industria, non v’è borghesia, non v’è pubblica opinione che freni i proprietarii, che sono i padroni assoluti di quella moltitudine, la quale dipende da essi per la sua sussistenza, e se viene abbandonata, non ha modo alcuno di vivere. È ben vero che anche il proprietario ha bisogno del contadino. Ma là dove la popolazione non è scarsa, e le braccia non mancano al lavoro, o abbondano, come spesso avviene in quelle province, quale è la conseguenza di un tale stato di cose? La scienza economica lo ha quasi matematicamente dimostrato. Il salario del contadino sarà ridotto a ciò che è strettamente necessario, perché egli possa vivere per continuare il lavoro. Se l’industria non apre una valvola di sicurezza, il contadino sarà ben presto condotto allo stato di servo della gleba, o anche peggio. Ne ciò deve attribuirsi a colpa di coloro che nelle provincie meridionali sono i possessori del suolo. È invece una conseguenza inesorabile di quello stato sociale, simile ad altre ben più funeste e più crudeli, che si videro in Irlanda venire da una situazione non molto diversa. Una emigrazione in massa, ed una fame spaventosa decimarono colà la popolazione in modo da non avere riscontro nella storia, sotto un Governo che nessuno vorrà credere meno civile e meno intelligente del nostro. Or si pensi al tempo che durò una simile condizione di cose nelle province meridionali; s’aggiunga un Governo come quello dei Borboni, che ridusse l’antagonismo di classi a sistema, ne fece base e fondamento della sua autorità, della sua forza, e si capirà il disordine morale e sociale che dove seguirne. Ho sentito citare esempii di persone che avevano fatto tirare una fucilata a qualche contadino, aggiustando poi facilmente la faccenda col Governo, che in fondo alimentava gli odii. Esso fu chiamato, come ognun si ricorda, la negazione di Dio e della moralità. Certo non mancavano gli onesti ed i nemici di un tale stato di cose, come i fatti più volte provarono. Ma chi può negare che la pubblica moralità doveva soffrirne? L’America ha dimostrato col suo esempio, che la schiavitù dei negri in molti casi noceva più di tutto al padrone dello schiavo, perché esso veniva corrotto dal dominio ingiusto che esercitava. Non doveva corrompere un dominio illimitato, esercitato non sui negri, ma sopra uomini della stessa stirpe? Ora se tale è lo stato in cui la rivoluzione trovò le province meridionali, quali furono le conseguenze del nuovo Governo? che cosa fece per esse? Nessuno vorrà certo negare i grandi benefizii che portò al paese. Ma io qui mi occupo di una sola classe di cittadini. I lavori pubblici adoperarono per un momento alcune braccia, ma non crearono un’industria ne una borghesia nuova. Le strade fecero rialzare i prezzi delle derrate, ma non mutarono in modo alcuno le condizioni sociali del contadino. Le città ed i borghi sono oggi pur troppo quel che erano prima, e le condizioni, le relazioni degli abitatori restarono sempre le stesse. Il Governo costituzionale è in sostanza il regno della borghesia. La classe dei proprietarii, in mancanza d’altro, divenne la classe governante, e i municipii, le provincie, le opere pie, la polizia rurale furono nelle sue mani. Chi circonda il prefetto, chi illumina i Ministri, su chi si appoggiano essi colà? E se il dominio che quella classe esercitava era dispotico, e se esso è restato illimitato, senza alcun nuovo freno, ma colla giunta di nuove forze, quali debbono esserne le conseguenze, quali sarebbero in ogni altro paese della terra, fra qualunque generazione di uomini? Ognuno può immaginarlo da sé. Fra poco, io credo, verrà alla luce un lavoro scritto dal signor Leopoldo Franchetti, il quale ben due volte ha fatto un viaggio nelle province meridionali, espressamente per conoscere lo stato degli agricoltori colà, e, com’è naturale, fu dolorosamente scandalezzato nel vedere cose che dovevano sembrare impossibili a lui, nativo della Toscana, dove il contadino non solo è un uomo indipendente e libero, ma è il vero socio del suo padrone, e di poco si crede inferiore a lui. Rammento che, quando seppi della sua prima gita, mi nacque un vivo desiderio di parlargli. Avendolo incontrato in un salotto, fummo presentati l’uno all’altro, e mi avvidi subito che anch’esso desiderava parlarmi, per fare a me la domanda stessa che io voleva fare a lui. Esaminando lo stato della più povera plebe di Napoli, esaminando lo stato dei più miseri contadini, io m’ero persuaso che la maggior parte di essi, se non si trovavano nella medesima miseria ed oppressione che sotto i Borboni, avevano con la nuova libertà peggiorato la lor sorte. La cosa mi pareva talmente sconfortante, talmente enorme, che cercavo un’autorità imparziale, la quale avesse potuto smentire una opinione che quasi mi umiliava. Un Toscano che, lontano da ogni interesse personale, da ogni amor proprio provinciale, aveva, per solo fine patriottico e filantropico, fatto un viaggio in quelle regioni, mi pareva l’uomo di cui avevo bisogno. Ma ognuno può immaginare qual fu la mia maraviglia, quando m’accorsi ch’egli aveva riportato di colà la stessa penosa impressione, e cercava in me uno che sapesse persuadergli il contrario. Fui costretto a dirgli: lo non sono il vostro uomo. Ripetete piuttosto il vostro viaggio, andate in altre province, e mettete di nuovo alla prova le vostre osservazioni. Egli era stato negli Abruzzi e nel Molise; andò, come aveva già divisato di fare, nelle Calabrie e nella Basilicata; è tornato colla prima opinione ancora più ribadita, Il suo libro del resto verrà fra poco in luce, ed ognuno potrà vedere su quali fatti è fondata la sua convinzione. Per ora il lettore faccia il conto che crede di questo involontario ed inconsapevole accordo di opinioni individuali, sopra una questione tanto complessa e tanto difficile a determinare. lo mi restringo a riportare qui la conclusione d’una lunga lettera, che il signor Franchetti ebbe allora la gentilezza di scrivermi: «Del resto, qualunque ne sia la cagione, credo che si possa affermare il fatto che, in regola generale, i contadini di quelle provincie (Abruzzi e Molise) sono per il loro vitto, d’anno in anno, nella dipendenza assoluta dei proprietarii, dipendenza che si manifesta non solo nella durezza delle condizioni dei contratti agricoli, ma ancora nella indeterminatezza di alcune delle loro clausole, che riportano la mente al tempo del servaggio. Il padrone, per citare un esempio, ha diritto illimitato di esigere prestazioni in opera dai suoi contadini, e ne usa largamente... È adunque forza conchiudere che, durando le cose come adesso, la classe inferiore, per ora ignorante della moralità, piuttosto che positivamente immorale, vedendo la classe agiata pesare così gravemente su di essa, acquisterà colla istruzione che gli si vuol dare, o una immoralità cosciente di se, o un odio ancora più profondo pei signori e pel Governo, che sarà pieno di pericoli per l’ordine avvenire». Si pensi un poco alle conseguenze logiche di queste osservazioni. Il contadino napoletano è dunque in uno stato d’abbrutimento, e quasi di servaggio. Per incivilirlo noi non abbiamo adesso che l’istruzione, e questa non darà alcun frutto, o costituirà un pericolo sociale per l’avvenire. Ciò spiega i pochi risultati che si ottengono, ciò spiega le paure che in alcuni destano le scuole. Descrivere minutamente quale sia lo stato degli agricoltori nell’Italia meridionale, sarebbe qui opera impossibile, perché queste condizioni e le forme dei contratti agrarii mutano non solo da provincia a provincia, ma sono infinite e diverse in una stessa provincia, non essendovi ne una legge, ne una consuetudine che domini per tutto. A trattare tollerabilmente il soggetto, bisognerebbe scrivere dei volumi. lo perciò mi contento di citare alla rinfusa alcuni esempii, alcune notizie avute da persone del luogo, o che ivi si trovano. Un giovane e pregiato economista delle Puglie, interrogato da me sulla condizione in cui erano nel suo paese i lavoratori dei latifondi, mi scriveva: «I contadini addetti alla coltivazione di questi lontani latifondi, vi stanno quasi tutto l’anno, venendo chi ogni quindici, chi ogni ventidue giorni a rivedere in città la moglie, i figli e la propria casa. In campagna vivono in un camerone a terreno, dormendo in nicchie scavate nel muro intorno intorno. Hanno, senz’altro, un sacco di paglia, su cui dormono vestiti; anzi non si spogliano mai. Li comanda un massaro, che somministra ogni giorno a ciascuno, per conto del padrone, un pane nerastro e schiacciato, del peso d’un chilogramma, che si chiama Questo contadino lavora dall’alba fino al tramonto; alle 10 del mattino riposa mezz’ora, e mangia un po’ del suo pane. Alla sera, cessato il lavoro, il massaro mette sopra un gran fuoco, che è in fondo al camerone, una gran caldaia, in cui fa bollire dell’acqua con pochissimo sale. In questo mezzo i contadini si dispongono in fila, affettano il pane che mettono in scodelle di legno, in cui il massaro versa un po’ dell’acqua salata, con qualche goccia di olio. Questa è la zuppa di tutto l’anno, che chiamano acqua-sale. Ne altro cibo hanno mai, salvo nel tempo della mietitura, quando s’aggiungono da uno a due litri e mezzo di vinello, per metterli in grado di sostenere le più dure fatiche. E questi contadini serbano ogni giorno un pezzo del loro chilogramma di panrozzo, che vendono o portano a casa per mantenere la famiglia, insieme con lo stipendio di circa 132 lire all’anno, con di più un mezzo tomolo di grano e mezzo tomolo di fave, che loro spetta secondo il raccolto». Questi, aggiungeva il mio amico, sono i contadini che più facilmente si dànno al furto ed alle grassazioni. E chi vorrà meravigliarsene? Ma io non voglio tralasciar di notare che questa gente così male compensata, è tra quelle che in Europa lavorano di più. Ricordo di aver letto una tale osservazione in un’inchiesta inglese fatta per ordine di lord Palmerston. Ho conosciuto anche un Tedesco, occupato molto nella escavazione di miniere, il quale, essendo andato a passare alcuni mesi di riposo nelle campagne napoletane, mi disse un giorno a Firenze: – Il dolce far niente degl’Italiani, almeno là dove io sono stato, è una calunnia atroce. Sarebbe impossibile piegare il nostro contadino o il nostro operaio ad un lavoro così duro e prolungato, come quello che fanno i vostri contadini. – Il Franchetti, che è tornato di là con opinioni ben altro che favorevoli a noi, mi ha mille volte ripetuto: – È facile assai trovarne che lavorino meglio; è impossibile trovarne che lavorino di più. – Ed è questa appunto la gente che nel paese del dolce far niente è messa dalla società a tale disperazione da gettarsi al brigantaggio. Che lo facciano assai di mala voglia, c’è un fatto, ripeto, che lo dimostra chiaro, ed è l’emigrazione nella Campagna romana. Un contadino abruzzese, che pure aveva tirato qualche colpo di coltello, e che trovavasi in estrema miseria, fu interrogato dal sig. Franchetti: – Se le cose per te continuassero così, ti getteresti al brigantaggio? – No. andrei a lavorare nella Campagna romana, come fanno gli altri. – E quale è questa vita che preferiscono a quella che menano sui loro campi nativi? Ognuno può vederlo, per poco che s’allontani da Roma. In mezzo alla malaria, accanto ai pantani, lavorano tutto il giorno, e discendono. per dormire, in tane da lupi, dove pigliano le febbri. e poi tornano a casa ben più che decimati. La scorsa settimana, mi raccontava un nobile romano, arrivò nella mia tenuta qualche centinaio di questi infelici. Avevano fatto otto ore di viaggio, chiusi e stipati nei vagoni delle merci, in piedi sempre, uomini, donne e bambini, col patto stipulato, che a nessuno di loro dovesse essere permesso di scendere per via, neppure una sola volta. Fra non molto saranno ridotti a pochi, perché vengono qui a seminare le loro ossa, non tanto a causa della malaria, quanto a causa della vita cui sono condannati. – Io non mi fermo a descrivere questi infelici, che ognuno può andare a vedere se vuole. Basta guardarli per sentirsi arrossire. Rammento il giorno, in cui venivo a Roma in uno dei piccoli vapori del Tevere. Fermatici in un punto per qualche minuto, si vide sopra una vicina e molto ripida altura, un povero vecchio, il quale, accorgendosi di non essere in tempo ad imbarcarsi, si gettò senz’altro dall’altura, ed arrivò rotolando insino alla riva. Era appunto un contadino abruzzese, che nei lavori dei campi si era rotto un braccio; aveva prese le febbri, ed andava a morire all’ospedale. Mi par di vederlo ancora: la sua faccia era rassegnata e tranquilla in quei tormenti; stringeva per dolore le labbra; stringeva i pugni, ma non mandò un lamento. La sua storia è la storia di migliaia d’infelici. E se questa è la vita che preferiscono, qual sarà quella che fuggono? Ripeto che mi sarebbe impossibile di qui dare un ragguaglio esatto di tutte le forme di contratti agrarii, prevalenti nelle province meridionali. E quando pur facessi, sarebbe poco meno che inutile. Il contratto più diffuso è l’affitto in danaro o in generi; trovasi anche la mezzeria, e trovansi altre delle forme più note e più generalmente adottate altrove. Ma sono le condizioni speciali e varie, imposte a ciascuno di questi contratti, le molte modificazioni che essi subiscono, quelle che ne costituiscono l’essenza, e fanno si che, con qualunque di essi, il contadino si trovi quasi sempre nella stessa oppressione. Una simile osservazione fu fatta dall’onorevole Gladstone, quando egli propose la legge che modificava e vincolava a certe norme i contratti agrarii dell’Irlanda. Gli fu osservato allora, che le stesse leggi, i medesimi contratti prevalevano in Inghilterra; perché dunque la nuova legge solo per l’Irlanda? Egli poté facilmente e vittoriosamente rispondere, che solo lo scheletro di questi contratti era identi co nei due paesi; le condizioni in apparenza accessorie e le modificazioni diverse gli avevano alterati in modo, che le medesime forme portavano nell’Irlanda calamità ignote all’Inghilterra. E ciò non per le differenze che pur son sempre nella natura degli uomini, giacche il proprietario inglese in Irlanda faceva peggio degli altri; ma perché l’Inghilterra è un paese industriale, e quindi il contadino trova aperta un’altra via, per la quale può scampare alla tirannide del proprietario; l’Irlanda invece è, come l’Italia meridionale, un paese dato esclusivamente all’agricoltura, e quindi non v’è scampo possibile. Un amico da me interrogato, raccolse molte notizie sulle province di Chieti e di Teramo. Egli mi scriveva, che colà era abbastanza diffusa la mezzeria. Il prodotto dell’ulivo va diviso in tre parti, di cui due al padrone, una al colono o soccio, come lo chiamano. Il mosto va diviso in parti uguali, e così le frutta, ma di queste il contadino deve dare, in denaro, il valore della parte che spetta al padrone. Pel grano le condizioni mutano: si raddoppia, si triplica la quantità che deve dare il contadino, secondo che cresce la fertilità del suolo. Non mancano esempii di contadini obbligati a pagare al padrone il fitto della casa colonica, costruita con fieno e terreno cretaceo impastati. Ne ciò basta. «Si usa eziandio generalmente d’imporre ai socci certe piccole prestazioni, come di uova, galline, galli d’India, agnelli pasquali, allevamento di qualche maiale per uso di famiglia, ecc. Queste prestazioni variano assolutamente secondo l’umore dei padroni. Sono però sempre da considerarsi come un discreto contrappelo». Così scriveva l’amico abruzzese. Chi potrebbe paragonare questa mezzeria con la toscana? Non hanno di comune fra loro altro che il nome. Ma non basta ancora. Nei tempi di cattiva raccolta il soccio non può pagare. E allora, se deve dar danaro, si fissa un interesse che ascende al 12 per cento; se deve dar grano, i padroni più benevoli esigono alla fine dell’anno la così detta colmatura, che è una mezzetta, o il sesto di più. Gli altri, e sono il maggior numero, vogliono esser pagati in danaro, e fissano il valore del grano dovuto, pigliando per norma il prezzo che ha nel maggio, che segue alla cattiva raccolta, cioè il mese in cui questo prezzo è più alto. Il mio amico scriveva nell’aprile del 1874, quando la raccolta era stata assai cattiva, e continuava così: «Se quest’anno, come pare, sarà buona, e se il contratto porta 10 salme di grano all’anno, si può calcolare che il contadino dovrà darne 10 per questo anno, e 16 per l’anno passato, 26 in tutto. Piove e i contadini per la gioia non entrano nei loro panni; dicono che la terra è in ottime condizioni. Non sanno, tanto l’abitudine e l’ignoranza sono potenti, che la terra frutterà questo anno, ma non per loro. Sic vos non vobis». E più oltre conchiudeva con queste parole: «Oggi noi a Chieti siamo, alla lettera, assediati da gente dei villaggi e da vecchi delle campagne, che vanno in giro accattando, e nei giorni di mercato, il volto sparuto dei contadini dice che essi trascinano la vita a gran fatica. Non ha guari è stato trovato morto per fame un contadino di San Valentino, in territorio di Chieti, nelle pianure di Pescara, presso una cappella detta di Santa Filomena. Due mesi fa ho visto io un contadino, piuttosto vecchio, giacente per terra, estenuato dalla fame, innanzi alla porta dell’ospedale civile. Non sono molti giorni, nella piazza detta della Cavallerizza, ne ho visto un altro disteso per terra, che sembrava morto, con una gran folla di gente attorno. Dimandato che fosse, n’ebbi questa risposta: Signore, la fame! E si badi che il contadino abruzzese è sobrio e laborioso. Dacché s’è introdotto il gran turco, si ciba solo di questo, che, per colmo di sventura, è salito quest’anno a 10 duca ti la salma». E aggiungo che in alcune delle nostre province, essere messo a pane di grano, significa essere vicino a morire, spedito dai medici. Perfino nel linguaggio s’è stampata in eterno la storia delle nostre vergogne. Un altro amico, che raccolse notizie nei soli circondarii di Sulmona, Aquila e Cittaducale, mi scriveva: «Il rischio della cattiva raccolta è, per patto, ordinariamente a carico dell’affittuario, il quale spesso trova il suo unico schermo nella impotenza a pagare. Nel circondario di Sulmona i contadini stipulano con frequenza affitti a lunga scadenza, per mettere le terre a vigna, impiegandovi assai più le loro fatiche che i capitali, che non hanno. Spirato il termine dell’affitto, qualche volta il proprietario rimborsa al colono tutte le migliorie; più spesso ne rimborsa la sola metà. Non è però raro il caso in cui il proprietario si riserba libera facoltà di compensare in tutto o in parte le migliorie, o d’invitare il colono a distruggerle, se vuole. Negli altri due circondarii, di miglioramenti non si tien conto, perché gli affitti sono troppo brevi per supporli possibili. Può succedere invece il contrario». E di queste condizioni, che sole dànno un’idea precisa dello stato in cui si trova il contadino, qualunque sia la forma generale di contratto, se ne potrebbe citare un numero infinito. Il signor Franchetti, percorrendo le Calabrie e la Basilicata, ha trovato in alcuni luoghi un contratto di miglioria, col quale il proprietario, concesso in affitto un terreno incolto, dopo otto anni dà al contadino solo un terzo della differenza che si trova fra il valore del fondo incolto e il valore del fondo messo a coltura. Altrove non si dava più di un settimo. In altri luoghi trovò che il contadino doveva pagare al proprietario il diritto di guardia del fondo, guardia che quegli volentieri avrebbe fatta da se. La pagava in tanto grano, del quale solo una parte veniva dal proprietario data al guardiano. «E anche qui», egli dice, «immensi sono i servigi arbitrarii che rendono più duro il contratto». La cosa va all’infinito. La società intera qualche volta sembra costituita a danno del contadino, non per volontà individuale di alcuno, ma come per legge inevitabile di natura. La malignità umana, però, come può bene immaginarsi, non manca mai. Il Monte frumentario è destinato a dare, con equo interesse, il grano al povero coltivatore, nel tempo della semina o negli anni di carestia. Ciò farebbe concorrenza all’usura, largamente esercitata colà. Ma lo speculatore, e qualche volta anche il proprietario, trovano modo d’avere essi il grano, per darlo al povero con interesse assai maggiore. L’emigrazione in America, cominciata nella Basilicata, osservò il Franchetti nel suo viaggio, apre una nuova strada al povero agricoltore. Molti di essi tornano con qualche capitale, comprano un piccolo podere ed una casa; ma quello che è più, hanno acquistata indipendenza maggiore, una sicurezza di loro stessi. In conseguenza di ciò, il prezzo della mano d’opera aumenta, e il proprietario subito guarda l’emigrazione come una vera calamità per la sua provincia, e, quando può, cerca d’impedirla. Questo stato di cose, dove più, dove meno, si ritrova in tutte le province meridionali del continente, ed anche in qualche parte della Sicilia; come non mancano nel continente esempii di quel sistema di subaffitti che abbiamo osservati nell’Isola, ma non vi hanno mai la medesima importanza ed estensione. La conseguenza naturale di tutto ciò è il brigantaggio. Quando al contadino napoletano manca assolutamente il lavoro, e la fame lo assale, ne trova altra via aperta dinanzi a se, incomincia a rubare, e se è abbastanza audace, s’unisce a qualche banda di briganti. I capi sono per lo più uomini che hanno ricevuto ancora qualche più grave ingiuria personale, e vogliono vendicarla: questa almeno suole essere l’origine o il pretesto. E qui finisco la già troppo lunga lettera. Nell’altra parlerò dei rimedii.

Tuo affez. P. VILLARI

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Ultimo Aggiornamento:
17/07/2005 18.02

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