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De Bibliotheca

Biblioteca Telematica

CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

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Corto Viaggio
Sentimentale

di: Italo Svevo (Ettore Schmitz)


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IV. Venezia

 

Uscirono dalla stazione dopo di aver messo le loro due valigette nel deposito contro una sola ricevuta.

Il signor Aghios aveva un piano ben definito. Avrebbe voluto andare col vaporino fino alla Riva del Carbon e da lì a piedi - per sgranchirsi un poco - a S. Marco. Era del resto l'unica via di Venezia che il signor Aghios avrebbe saputo camminare da solo e il suo compagno era a Venezia per la seconda volta, ma non ne sapeva gran che.

Si avviarono dunque al vaporino. Già il signor Aghios stava per presentarsi alla cassa, accompagnato dal suo nuovo amico che oramai lo seguiva senza aver ancora decisamente accettato il suo invito, quando si sentì chiamare: “Signor Aghios! ”. Si volse. Era Bortolo, il gondoliere di Murano. Il signor Aghios lo salutò con grande affabilità: “Come va? Hai venduto la gondola, che sei qui con la vita?”.

Il gondoliere, un uomo sulla cinquantina, alto e magro, tutto nervi e muscoli, la faccia rugosa illuminata da due occhi azzurri giovanili, fu affettuoso e cortese e, prima di rispondere, domandò notizie della salute del signor Aghios, poi della signora Eleonora e infine dei figliuolo. Poi, appena, dichiarò che la gondola era laggiù a sua disposizione: “Vorla degnarse? Andemo a S. Marco”.

Il signor Aghios rise e propose di fare le condizioni. Domandò quanto avrebbe dovuto pagare per avere la gondola a disposizione fino alla mezzanotte, l'ora del suo treno.

Bortolo non volle fare delle condizioni. Era sempre così. Poi era difficile di contentarlo quando aveva compiuto il suo servizio. Quella gondola era simile a un locale di divertimenti, di cui il signor Aghios aveva sentito parlare, dall'ingresso libero visto che si pagava all'uscita.

Ma come sempre il signor Aghios s'adattò. Prima di parlare aveva preveduta la risposta, ma aveva voluto parlare anche lui per essere meglio armato per il momento in cui si sarebbe arrivati al pagamento.

Invitò il suo giovine amico a seguirlo e, guidati da Bortolo, scesero all'imbarcadero. Bortolo saltò in una peata, poi in una gondola e infine in un'altra ch'era la sua. Si rizzò con l'aspetto di un generale su un campo di battaglia e cercò il posto necessario per moversi e arrivare alla riva. Gridò a un suo vicino di moversi, ma l'altro dimostrò con parole vivaci di non poterlo fare. Infine Bortolo prese la sua decisione. Disse: “El sior Aghios xe abituà alla laguna e lo go visto far tuto el Tio della Canonica saltando de barca in barca. Lu po' (e si rivolse all'ignoto amico del signor Aghios) non so come che el se ciama, ma so che el xe zovine e el pol anca lu far sto salto. Vegno a aiutarli”. Ritornò alla prima barca ormeggiata alla riva e s'inginocchiò a poppa per offrire il suo braccio saldo in appoggio al signor Aghios che con facilità montò sulla peata. Fu seguito dal compagno un po' esitante. Più difficile fu il passaggio sul leggero sandalo che pur bisognava varcare. Anzi il giovine fu in procinto di cadere in acqua e trascinare seco Bortolo. Fu un brutto attimo da cui Bortolo uscì illeso e il giovanotto si fece male al ginocchio che era andato a battere sull'orlo del sandalo.

Bortolo non finiva più di esprimere il suo dispiacere per l'avvenuto. Diceva che non aveva saputo di aver da fare con un uomo che non conosceva le barche. “Me dispiase tanto. So che dolor ch'el e de fracassarsi l'osso sacro del zenocio.”

Il nuovo amico del signor Aghios s'era accomodato nella gondola e si fregava ancora il ginocchio. Mormorò: “Non fa nulla. È stato proprio per colpa mia. Avrei dovuto far meglio attenzione”. E al signor Aghios, che anche lui s'informava come si sentisse, disse che non valeva la pena di parlarne.

Poi, mentre la gondola s'avviava sull'acqua trasparente, illuminata dagli ultimi bagliori dimenticati del sole già sparito, una sorpresa dolce, una carezza, venendo dal lungo viaggio traverso la campagna autunnale, il signor Aghios diede ordine a Bortolo di portarli in piazza per la via più breve. Al ritorno sarebbero passati per il Canal Grande.

“Io mi chiamo Giacomo Aghios” disse il signor Aghios volgendosi al suo vicino. Probabilmente era stato spinto a questa presentazione dall'osservazione fatta poco prima dal gondoliere dì non sapere il nome del giovanotto.

Questi strinse la mano portagli dall'Aghios ed esitò per un istante. Ma poi l'esitazione fu spiegata: “Strano! Anch'io mi chiamo Giacomo. Giacomo Bacis. Il nome rivela la mia origine friulana. Anche il suo mi pare?”.

“No! No!” disse il signor Aghios ridendo di cuore. “Io discendo da una razza molto più antica della celta.”

“Greca?” domando il Bacis ammirando.

Il signor Aghios annuì. “È comodo” disse “di appartenere ad un'altra razza. Così è come se ci si trovasse sempre in viaggio. Si ha il pensiero più libero. È così che quando si tratta di modo di vedere italiano io non sono d'accordo neppure col modo di vedere greco. L'ultimo greco col quale fui d'accordo è Socrate.”

“Io” disse il Bacis, “sono di quei friulani che sanno due lingue e un dialetto. Sono in viaggio anch'io.” Rise per la prima volta dopo la stazione di Milano di un riso abbondante, quasi infantile, che lo portò subito più vicino al cuore del signor Aghios, il quale anche pensò: “Com'è intelligente il mio nuovo amico. Immediatamente intese intera la teoria che fa del viaggiatore una persona di eccezione, mentre io per elaborare un concetto tanto semplice impiegai quasi 60 anni”.

Passato il Ponte della Ferrovia poterono gettare un'occhiata al grande canale. La modestia della penombra crepuscolare su quell'acqua e su quei marmi ne rilevava il colore e la linea. Subito entrarono nel rio dove le forme grandiose del canale si riducevano e variavano in motivi capricciosi ch'erano la continuazione, anzi, la integrazione della forte melodia che non ancora aveva liberato i loro sensi. Davvero a Venezia si può credere che di tutte le costruzioni grandiose siano avanzati dei pezzi e che tali pezzi siano serviti a costituire piccoli organismi, che all'altro somigliano nel dettaglio e ne differiscono radicalmente nell'espressione.

E la gondola della benevolenza (perché c'era lui, il signor Aghios, e il suo nuovo amico che egli sottraeva ad una grande tristezza e il gondoliere che tanto volentieri per lui vogava) procedeva nel rio oscuro, misterioso, allargantesi ora per una vasta marmorea scala d'approdo, ora ristretto fra mura sormontate dal verde, ancora evidente nell'oscurità, di alberi incredibilmente vivi nell'ambiente dell'acqua salata e delle pietre.

“Magnifico!” mormorò il Bacis.

All'Aghios batté il cuore dalla compiacenza. Era come se gli fosse stato indirizzato un ringraziamento vivissimo, il più fervido che la nostra lingua comporti. E a sua volta egli mandò un saluto riverente agli antenati pirati che sulle loro piccole piroghe erano corsi per il mondo a cercare oggetti preziosi per portarli nella loro strana casa e disporli in modo da renderli tutti ugualmente preziosi. Chi sa donde era venuta quella pietra bianca che nel rio scuro segnava dinanzi ad una porta l'altezza dell'acqua. Era possibile che in mezzo al combattimento il pirata si fosse fermato a guardare quella pietra intensamente, ricordando la propria abitazione dormente nel rio tranquillo e si fosse caricato del grosso oggetto solo per disegnare sulla casa già completa una linea nuova?

Il signor Aghios aveva una nozione molto superficiale della storia di Venezia e di Venezia stessa. Perciò con tanta facilità la sua scienza si convertiva in un sentimento. Anche dagli altri greci ogni ignoranza aveva creato il premio. Egli sapeva il nome di qualche palazzo, ma specialmente sapeva la differenza fra palazzi giacenti nei rii e quelli del Canalazzo dall'unica facciata adorna; magnifici quelli, alcuni però tronfi, in lotta con la magnificenza del loro contorno, mentre nei rii i palazzi erano quadrati e completi e s'adagiavano nel contorno, sua parte evidente. Non conosceva Venezia, ma la teoria su Venezia.

Poi il signor Aghios si dimostrò veramente incapace Cicerone. Era stato preso da un vivo desiderio del Rio di Noal, ch'egli non vedeva da vari anni e, in mezzo ai tanti rii per cui passarono e persino quando giunsero dinanzi alla Salute e a S. Marco, continuò a parlare di quel rio ampio, tranquillo e modesto, che non era stato addobbato da nessun altro che dalla propria vita tranquilla, la propria necessità di bellezza.

“Andiamoci! ” propose a mezza voce il Bacis.

“Non si può” disse sospirando l'Aghios. “Adesso sono le otto. Perderemo sicuramente una mezz'ora in piazza. Poi ci vorrà, con questo benedetto Bortolo, più di un'ora per arrivare alla stazione e infine bisognerà anche mangiare qualche cosa, perché di notte con quel nostro treno non troveremo nulla fino a Trieste.”

Del resto e nell'intimo dell'animo suo il signor Aghios lo riconobbe. Non sarebbe stato bene di vedere quella sera il Rio di Noal. Così desiderato da lontano, posto al disopra della piazzetta e della vista su S. Giorgio, diventava una cosa enorme. Lo adornava il desiderio e anche l'impossibilità di raggiungerlo.

E davanti al palazzo dei dogi il signor Aghios parlò ancora dell’unico ponte di legno che fosse a Venezia, situato anche quello nel suo rio... Poi egli stesso s'avvide che non era possibile di continuare a parlare del Rio di Noal a chi non l'aveva mai visto e stava guardando la Chiesa di San Marco intento e raccolto.

Poi il signor Aghios parlò del quarto d'ora terribile di Venezia, non durante la guerra, ma molto prima, alla caduta del campanile, e descrisse il terrore che aveva provocato lo stato del Palazzo, l'allontanamento della Biblioteca e la chiavatura delle mura che danno sul Rio della Canonica, fasciature che rappresentavano il pericolo enorme e anche un dolore come di mal di denti.

Il signor Aghios propose al Bacis di lasciarlo dinanzi alla chiesa intanto ch'egli avrebbe fatto un salto alle Mercerie per eseguire la sua missione. E avviandosi il signor Aghios con piena sincerità pensò: “Egli vedrà Venezia meglio se lasciato solo. Già io, il poeta, non so dire nulla che valga a comunicare le mie impressioni. La storia non la so, lo stile non conosco. Dunque?”. E ammirò che bastava la compagnia prolungata di un solo uomo per togliergli la grande libertà del viaggio. Ci poteva essere meno libertà che quella di essere costretto di parlare di cose che non si sapevano? E poi pensò: “Non sarebbe perciò stato meglio di dividersi dal suo nuovo amico?”. Gli sarebbe stato doloroso, perché egli era l'uomo dalle affezioni improvvise. E si levò dal dubbio pensando che per lui era meglio di passare la notte con persone che conosceva. Si toccò la tasca di petto.

Il signor Meuli, un uomo sulla cinquantina tuttavia biondo, ma calvo, grosso e curvo, era nella sua bottega occupato a fare qualche cosa di simile al bilancio della giornata in compagnia di un commesso. Esaminava delle annotazioni minute su un piccolo pezzo di carta, intanto che il commesso contava dei brillantini sciolti in una scatolina divenuto.

Vedendo entrare l'Aghios non sospese il lavoro, ma tenendo sempre d'occhio la cartina e il commesso gli domandò: “Qual buon vento ti porta?”.

Il signor Aghios gli disse la missione da parte della moglie. Gli portava così un affare di oltre centomila lire, ma non parve che il Meuli ne fosse molto felice. Anzi assunse lui un faruccio di protezione e dichiarò: “Sono ben contento di non essermi impegnato per quel vezzo di perle. Allora resta stabilito così! Metto in disparte quel vezzo di perle per l'amica di tua moglie e non se ne parli più”. Poi: “Ti fermi a Venezia?”. L'Aghios gli rispose che doveva partire a mezzanotte.

“Con quel treno merci?” esclamò il Meuli stupito.

“Non si poteva fare altrimenti. Arrivai a Venezia alle 20 e il treno celere per Trieste era partito alle 18. Io debbo essere a Trieste domattina di buon'ora.”

Il Meuli lo guardò ridendo. La persona dell'Aghios gli pareva tanto lenta, che gli pareva impossibile fosse spinta a tanta fretta.

L'Aghios uscì da quella bottega un po' stupito di aver trovato il Meuli più curvo del solito e anche più cereo. “Che stia male? Era un uomo tanto occupato a far denari che poteva anche morire senz’accorgersene. ”

Già la morte era il presupposto della vita e quando si trattava di un uomo come il Meuli non bisognava dolersene troppo. Non che l'Aghios gli augurasse la morte, tanto più che il posto lasciato libero dal Meuli sarebbe stato occupato da un altro Meuli, ma questo Meuli qui non aveva nessuno che lo avrebbe rimpianto troppo acerbamente. Lasciava alcune povere sorelle che finalmente con la sua morte si sarebbero arricchite.

Il Meuli era stato compagno di scuola nelle elementari a Trieste. Poi aveva cominciata una sua vita avventurosa traverso tutto il mondo. Egli non amava parlarne molto, ma si diceva ch'egli fosse stato persino aguzzino di schiavi sull'isola di Giamaica. Insomma era ritornato a Trieste senza un soldo e scalcinato. Portava con sé qualche cosa d'altro: Sapeva parlare correntemente sette lingue senza saperne scrivere una sola. Il signor Aghios, che pur sapeva l'inglese, rimase stupito al sentirlo discorrere in quel linguaggio con un cliente. Come pronunzia pareva che la parola uscisse da una bocca anglo-sassone. Era probabile ch'egli non conoscesse che quelle poche parole che proprio gli occorrevano, per salutare e imbrogliare, ma era tuttavia meraviglioso per il signor Aghios che studiava da tanti anni l'inglese e che quando apriva la bocca era come se l'avesse tenuta chiusa perché nessuno l'intendeva.

Il moderno pirata aveva portato a casa anziché il sasso con cui addobbare la propria casa, sette lingue con cui costruirla. Ma bisognava trovare il modo di sfruttare le sette lingue in luogo ove non fosse domandato di saperle anche scrivere. E con occhio da uccello da preda il Meuli scoperse il punto del globo più internazionale del mondo, piazza S. Marco. Bisognava calare colà. Ma non era facile, perché sarebbe stato grave arrivarci così e senza un soldo in tasca. Qui intervenne l'Aghios con una di quelle sue buone azioni che gli scaldavano la vita: Regalò al Meuli alcuni suoi vestiti, un paio di stivali e della biancheria e contribuì anche a rifornirgli le tasche.

Passarono degli anni e il Meuli fece la carriera chiacchierando con gli stranieri un centinaio di parole per ogni lingua e vendendo loro dapprima dei merletti e poi dei brillanti. Un bel giorno il signor Aghios ebbe per un istante l'animo pieno di gratitudine per sua moglie. Ciò gli avveniva qualche volta. S'accorgeva d'aver pensato poco a lei e nello stesso tempo ch'essa per lui assiduamente aveva lavorato. Quella volta però il caso volle, ch'egli si trovasse in tasca più denaro del solito. Decise di darle in regalo un vezzo di perle. Non s'intendeva affatto di quegli oggetti il signor Aghios, ma ebbe una trovata: il Meuli era tale suo vecchio amico e gli doveva tanto ch'egli di lui poteva fidarsi. Gli commise perciò l'acquisto e quando il gioiello arrivò lo presentò senz'altro alla moglie. La signora Eleonora gradì il dono, ma nello stesso tempo in cui ringraziò il marito volle saperne il prezzo e urlò subito che il Meuli l'aveva truffato. Quel vezzo di perle rappresenta un'adunanza di perle gobbe dalla gobba di tutte le varie grandezze e in tutte le direzioni.

Il signor Aghios s'adirò e corse a Venezia. Riebbe con facilità i suoi denari ma non gli bastò e volle delle spiegazioni dal Meuli, il quale infine, con una certa tristezza, gli disse che i gioielli non si comperavano per lettera. Specialmente per le perle non bastavano pesi e misure. Ricevendo un ordine simile, l'animo di un vecchio gioielliere naturalmente accettava il raro dono che la Provvidenza gli offriva.

Finché l'affare non fu liquidato, del beneficio antico che il signor Aghios gli aveva reso non fu parlato, ma una volta il Meuli ardì di vantare la sua grande correttezza per cui subito aveva accettato di annullare un grande affare conchiuso. Il signor Aghios non poté sopportare in silenzio una cosa simile e gli ricordò il suo beneficio che al Meuli aveva reso possibile di calare a Venezia ad afferrare il suo bottino. Il Meuli socchiuse gli occhi come se avesse voluto costringerli ad un grande sforzo per penetrare nella notte dei tempi. Si ricordò e sorridendo disse: “Era a quel tuo beneficio ch'io dovevo la preferenza che volevi accordarmi? A questo mondo la più bella posizione è quella di essere un beneficato”.

Il signor Aghios rimase incantato dall'osservazione acuta e conservò la sua amicizia all'amico sconoscente. Costui, evidentemente, almeno in una lingua, sapeva dire delle cose fini. Però, quand'ebbe a trattare con lui degli affari, tenne gli occhi aperti. Così fra loro due tutto fu chiaro e la loro amicizia non s'offuscò per la brutta avventura.

Il Bacis era nel mezzo della piazza tuttavia ammirando e l'Aghios lo raggiunse.

“Adesso” propose “c'imbarchiamo sulla nostra gondola e facciamo una gita magnifica fino alla stazione.”

S'avviarono. Della storia di Venezia l'Aghios sapeva con precisione una cosa: L'incendio del palazzo ducale e la sua data. Era stato rifatto in furia? Avviandosi alla piazzetta l'Aghios pensò: “Dovrò pur verificare se sono bene informato”. Dinanzi a quella leggiadra costruzione, una festa che nessuno penserebbe contenere anche la tristezza dei piombi e dei pozzi, l'Aghios fece osservare al Bacis la disformità fra finestre e finestre e il grande balcone al centro. La parte più ricca era quella ch'era stata risparmiata dall'incendio. Avevano voluto risparmiare nella ricostruzione o avevano inventato qualche cosa di nuovo? Certo non avevano cercato di celare tale disformità, perché appariva già dalla posizione, della nuova costruzione. Oh! come l'Aghios amava quel palazzo in cui gli pareva che si fosse sposata Venezia sontuosa e Venezia modesta! Ecco un'opera ch'era diventata intera per effetto di una forza naturale: Il fuoco. Ed un ministro d'Italia aveva proposto di rifare il palazzo com'era prima dell'incendio, ma chi accanto al palazzo era cresciuto vi si era rifiutato. Oggidì, se vi fosse un incendio a Venezia o altrove, non vi sarebbe altra salvezza che ritornare al disegno antico come si fece col campanile, ma prima? Prima l'incendio non poteva essere che un'occasione a variazioni sull'antica pianta, viva ancora tanto da saper ricrescere.

Montarono in gondola aiutati dall'uomo del bastone, sempre pronto a Venezia in tutti i traghetti. Il pesante signor Aghios fu ben lieto dell'aiuto e beneficò sorridendo il buon uomo che si dimostrò molto servizievole. Quando fu seduto accanto al Bacis gli disse: “Quest'uomo del bastone è una vera necessità di Venezia e, come tante altre cose di Venezia, a chi non la conosce pare superflua”.

Come passarono il signor Aghios disse i nomi dei palazzi che conosceva. Più volte fu corretto da Bortolo, che dall’alto seguiva la conversazione come se fosse stato seduto in gondola. Il mezzo più lento di locomozione di questo mondo è la gondola a un remo, perché una parte della forza del gondoliere va spesa nell'arresto e si procedeva lentissimi, non più presto che in un museo.

Al signor Aghios non importò affatto di dover apparire - causa le correzioni del barcaiolo - meno dotto. Egli aveva nel suo animo altre ricchezze di cui non gl'importava di parlare. Nel silenzio del Canalazzo s'imprimeva indelebile nel suo animo quella notte oscura, ma dalla luce ancora sufficiente per vedere le tante cose che brillavano. E fra tutte brillava anche quella barca della benevolenza con Bortolo, giovanile e sicuro, infitto perpendicolare a poppa e quel giovanotto accanto a lui, cui egli aveva saputo procurare una mezz'ora di svago dal suo grande dolore. Non di più, perché poco prima il Bacis aveva emesso un sospiro che somigliava ad un singhiozzo. L'Aghios aveva trasalito a quel suono di dolore. Rimase un momento incerto se doveva usare una parola di conforto, ma poi preferì di tacere. Non bisognava intrudere.

Ora il Bacis s'era abbandonato nella gondola come poco prima nell'angolo del vagone ferroviario. E per lungo tempo tacque. Sorprese e commosse il signor Aghios con una perorazione che doveva aver pensato per lungo tempo: “Certo io non sono la compagnia che lei, signore, meriterebbe. È questa la giornata più triste della mia vita e non dimenticherò mai più ch'ella, con la sua bontà, volle rendermela più sopportabile. Se lei non fosse intervenuto io m'aggirerei adesso attorno a quella triste, tristissima stazione”.

“Eh! No la xe tanto trista quela stazion!” intervenne Bortolo di buon umore. “Basta saverse orizontar! Da rente ghe xe un boteghin de vin de quelo...” e staccò dal remo la destra per portarsela alla bocca e stamparvi un bacio.

Il giovanotto non rispose. Anche il signor Aghios tacque, per quanto gli dolesse di non saper premiare neppure con una parola lo sforzo di divertirli fatto dal povero Bortolo.

“Vedrà” disse improvvisando “che alla giornata più triste della vita ne seguono altre lietissime.”

“Non è possibile!” disse vivacemente il Bacis.

“Eh! i zovini credi sempre d'essere in ultima malora!” borbottò Bortolo. “Daché mondo xe mondo a, quell'età se se copa una volta al giorno.”

Quest'intervento era meglio riuscito del primo. Con un sorriso l'Aghios si rivolse al gondoliere: “Eppure fra voialtri gondolieri i suicidii sono rari anche da giovani”.

Il gondoliere ci pensò un istante prima di rispondere e si curvò innanzi per un colpo vigoroso del remo. Poi, rizzandosi, confermò: “Xe proprio vero!”. Si sporse ancora una volta inanzi, lento e riflessivo. Poi sciando: “Noi povareti semo tanto abituai a difender la nostra vita che non la demo via per gnente”.

Con vigore, ma a bassa voce in modo da non esser sentito dal gondoliere, il Bacis avvicinandosi all'orecchio del signor Aghios disse: “Anch'io sono un povareto, ma il mio dolore è tale che della vita che sempre difesi non so più che farmene”.

Era un dolore iroso che in quelle parole si manifestava. L'Aghios però poco pensò a quel dolore, ma subito, spaventato, a se stesso. Aveva fatto, bene di accollarsi un compagno simile, che poteva magari ammazzarsi a lui da canto. Oh! quanto gli sarebbe stata più cara la compagnia della moglie!

Anche lui con voce bassa, ma angosciata, disse al Bacis: “Io spero bene che in mia compagnia ella non si abbandonerà ad alcun atto contro la propria vita”.

“Oh! sia tranquillo!” assicurò il Bacis. “Ho promesso d'essere domani a Udine e certamente domani sarò a Udine. Poi... io non muoio volentieri. Prima di tutto la speranza l'ho tuttavia. Lei è stato tanto gentile con me che le racconterò tutto quando saremo soli. Vedrà! Io amo e ho tradito l'amore. Non sarebbe neppure un'azione decente quella di sparire ora. Le racconterò tutto. Già, rivelando il mio segreto a lei, io non comprometto nessuno. Lei domani avrà dimenticato il mio nome e tutta l'avventura.”

Il signor Aghios non protestò. Egli sapeva che del viaggio poco si ricorda. Passano fisonomie e s'accumulano confuse in un cantuccio della memoria, diventando collettività, nazioni, sessi, mai individui. Come nel sogno, ch'era tanto difficile di ricordare, perché piombava dalla notte oscura in un lampo di magnesio in cui s'agitavano cose e persone. Ecco, in un vagone si discorreva e tutto quanto si diceva aveva un sapore di teoria vaga, in quella vettura tanto simile a tutte e passando traverso un paesaggio che a quella vettura non apparteneva. Vero è: Vent'anni prima una giovinetta, ch'egli non aveva mai vista, s'era gettata durante la notte dal vapore in una cabina del quale egli aveva dormito. Per il fatto d'essere stato in quel piroscafo egli non dimenticò più il nome di quella giovinetta e la immaginava come, caduta in acqua e forse tuttavia galleggiante, guardava allontanarsi il piroscafo illuminato che l'abbandonava alla notte e alla morte. Alla mattina c'era stata una inchiesta a bordo ed egli nel rispondere aveva balbettato, sentendosi colpevole di aver dormito quando avrebbe potuto procurare il soccorso alla giovinetta forse già pentita dell'atto inconsiderato e che forse, prima di essersi rassegnata alla morte, aveva anche domandato aiuto ad alta voce. Ma qui c'era stata l'avventura rara e importante ch'è la morte. Tutto il resto aveva dimenticato. Certo non le sue osservazioni sulle belle donne, sui cani, sui gatti e persino sugli uomini. Non la fisonomia! Era difficile (almeno a lui) di ricordare una linea e invece facilissimo di ritenere un'espressione.

Il Bacis aveva richiuso gli occhi e s'era abbandonato sul cuscino. Il ricordo troppo vivo del proprio dolore l'aveva allontanato da Venezia.

E il signor Aghios lo lasciò tranquillo e si abbandonò alle proprie riflessioni. Costui aveva amato e tradito! In quelle parole c'era una tale sintesi di avventura umana che al signor Aghios parve di trovarsi di nuovo a guardare sul destino umano da un treno lanciato a piena velocità e di non arrivar a vederne altro che quella parte comune a tutti i mortali.

Nel grande silenzio della Laguna, dove egli non scorgeva altra vita che quella rinchiusa in quella gondola, ch'era in certo modo non la vita stessa, ma l'occhio che la guardava, il signor Aghios poté rifigurarsi, ad onta dei palazzi granitici fra cui passava e che non necessariamente implicavano la vita, l'assenza di vita su tutto il pianeta. Pochi giorni prima egli aveva letto in un giornale che oramai si riteneva che quando la terra era già abitabile, per un caso qualunque era stata infettata di vita da un altro pianeta. Dopo tutto si spiegava: I piccoli animali arrivati quaggiù liberamente si misero ad amare e tradire e invasero tutto, il mare e la terra, per svilupparsi e continuare ad amare e tradire in ogni loro stadio.

“Mi stago atento de no far susuro col remo per no sveiarve” disse Bortolo, cui era duro di star zitto per tanto tempo.

Si! Non era giusto di traversare muti la Laguna e nello stesso tempo di dimenticarla. Si passa dinanzi a Palazzo Pesaro, bruno tempio dalle pietre quadre, ma consacrato all'arte, e ad alta voce il signor Aghios menzionò il nome di Umberto Veruda, il grande pittore triestino il cui capolavoro vi dormiva.

Il Bacis aperse gli occhi per un istante e li richiuse subito. Ma il signor Aghios da quel ricordo si sentì vivificato. La Laguna apparteneva a tutti i veneti ed anche a lui. Era il pertugio per cui essi arrivavano al grande mondo.

Perché da tanta altezza egli improvvisamente scese tanto in basso da ricordare di nuovo il Meuli, l'uomo dalle sette lingue? Forse pel desiderio di svagare il suo compagno, che non pareva ormai più accessibile alle cose belle fra cui si movevano e, senza farne il nome, raccontò la sua avventura col Meuli, cioè il beneficio che gli aveva reso e come ne era stato compensato.

“Scometo” disse Bortolo “che de quela figura ludra de ... ” E nominò un altro gioielliere.

L'Aghios protestò, ma Bortolo insisteva “Mi lo conosso! El xe proprio capaze de un'azion simile”.

“Ma insomma non può essere lui, visto che non è triestino” disse l'Aghios impaziente. Per nulla al mondo avrebbe voluto lasciare una calunnia come traccia del suo passaggio per il Canalazzo.

“El xe de Corfù, ancora pezo” si lasciò sfuggire Bortolo. L'Aghios rise di tanta ingenuità, in persona che certamente lavorava e anche parlava per vedersi aumentata la mancia.

“E lei tratta tuttavia con quell'individuo?”,domandò il Bortolo con vivo interesse.

“Altro che! E ben volentieri! È un buonissimo gioielliere; ha delle bellissime cose ed io gli raccomando tutti i miei amici avvertendoli di stare in guardia.”

“El devi aver tanti amizi castrài” disse Bortolo, dando alla gondola un bello slancio, puntando il remo al fondo del canale.

L'Aghios rise di cuore. Poi spiegò al Bacis ch'egli era stato conquiso dalla bella, calma filosofia del Meuli. “È una grande scoperta, quella di mettere a frutto un beneficio avuto”. L'Aghios rise di cuore: “Io do, eppoi do ancora, ecco che i conti si pareggiano”.

“Lei è un uomo straordinario” disse il Bacis con voce profonda. Non richiuse più gli occhi, ma parve immerso in riflessioni profonde e quando l'Aghios gli fece vedere il palazzo Labia sottrarsi per una modestia veramente eccessiva al Canalazzo e gli raccontò che, secondo una leggenda, attorno ad esso, nel rio, doveva esserci sepolto del vasellame d'oro, che ad ogni banchetto vi veniva gettato, il Bacis lo degnò di un'occhiata distratta.

Allo sbarco l'Aghios domandò a Bortolo quanto gli dovesse. Bortolo dichiarò d'affidarsi nella generosità del signore. Quando il signor Aghios ebbe fatto quanto stava in lui per apparire generoso, Bortolo osservò: “Tuto va ben, ma Ela no ga pensà che a sta ora me toca tornar solo soleto fin a Muran. Merito qualche cosa anche per questo”. E visto che il signor Aghios non pareva molto convinto della giustezza dell'osservazione, Bortolo osservò: “Prometo de passar per el Rio de Noal e de telegrafarghe. Mi no savevo gnanca che el sia tanto belo. Lo guardarò per, la prima volta”. Questo piacque al signor Aghios e lo stimolò a maggiore generosità.

 

 

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Edizione HTML a cura di: mail@debibliotheca.com
Ultimo Aggiornamento:
13/07/2005 22.26

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