De Bibliotheca

Biblioteca Telematica

CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

Narrazione

de la Presa di Roma per Borbone,

in dialogo, per il magnifico F. Vettori.

Interlocutori: Basilio e Antonio.

  

Basilio. Ben sia venuto il mio Antonio.

Antonio. Ben sia trovato Basilio.

Basilio. Io ti averei veduto sempre volentieri, ma molto più ti veggio di presente perchè io tenevo per corto che tu fussi morto; perchè sono già passati se mesi che Roma, dove tu eri, andò a sacco, e di te mai ho inteso cosa alcuna, e pensavo che tu fussi morto o di ferro, nell'entrare degl'Imperiali in Roma, o poi di pesto.

Antonio. Io ho patito tanto nella persona e nella roba, che sarebbe suto meglio per me che io fussi morto.

[412]

Basilio. Non voglio che tu dica così, perchè io non potrei avere cosa più grata che vedere un tale amico vivo e sano. Ma se non sei molto occupato, vorrei che parlassimo un poco insieme, perchè desidero sapere a punto come passò la ruina di Roma, e i casi che a te sono accaduti.

Antonio. Sebbene io non ho occupazione alcuna, e sebbene io ne avessi, lascierei per te ogni faccenda; parlo malvolentieri di quello che mi ricerchi, sì perchè mi rinnuova il dolore, sì perchè è di necessità il biasimare alcuni, e di quelli alli quali per le buone qualità loro porto affezione.

Basilio. Deh! Antonio mio, per l'amicizia nostra antica satisfami di quanto io ti ricerco: perchè, circa al dolore, ne hai avuto tanto che non lo puoi aver maggiore; e se dannerai qualcuno, non lo dannerai per odio, ma per dirne il vero: ed è ben possibile che un uomo che abbi molte buone parti, in qualche cosa erri.

[413]

Antonio. Orsù, io te lo voglio contare; ma sarebbe necessario, a volerti dar bene ad intendere ogni cosa, repetere molte azioni sino al tempo di Leone: ma sarei troppo lungo, però ometterò molte cose, e mi sforzerò esser breve. Ma quando, per la brevità, il parlar mio non ti paressi aperto a sufficienzia, non ti sarà grave interrompermi e domandarmi di quello non intendessi.

Chè hai a sapere che, come il duca di Urbino, capitano de' Veneziani e governatore, in fatto, di tutto lo esercito della lega, ritirò le genti di Milano, dove quelle erano condotte animosamente, pensando avere a dare la battaglia a quella città ed ottenerla; subito papa Clemente cascò d'animo, e cominciò a navicare per perduto, perchè conobbe che il re di Francia non faceva la guerra vivamente, e non osservava quello aveva promesso, non per volontà, ma per non potere più. Conobbe che i Veneziani cercavano di in- [414] debolire Italia, e distruggere prima la Lombardia, e poi la Toscana e Roma e il Regno di Napoli; e che avevano un capitano che gli serviva appunto secondo volevano, perchè desiderava vivere. Conobbe ancora, che gli era mancata la reputazione, e che non poteva più fare provisione di denari che bastassi a reggere tanta guerra; e benchè amassi assai la città di Firenze, amava più sè medesimo. E però, contro a quello che era di diretto contrario all'intenzione sua, cominciò a lasciarla aggravare oltre a modo di denari: e ciò fece per provare se questo rimedio bastassi, giudicando che se lui si salvava, non gli mancherebbe modo a satisfarla de' danni patiti; e quando lui rovinassi, non gli pareva inconveniente metterla in pericolo che seco insieme andassi in rovina.

Basilio. Non giudicavi tu che egli facessi male a mettere a pericolo la patria sua, per mezzo della quale e lui e li sua erano venuti in tanto grado?

[415]

Antonio. Come s'io giudico che facessi male! e per questo io ti dissi che malvolentieri parlavo di tal materia, per non dannare uno al quale io porto affezione e reverenzia: ma siamo tutti uomini imperfetti, e la grandezza ci fa quasi tutti deviare dal cammino diritto; e se ne potrebbero dare mille esempli; ed è verissimo quel proverbio che dice, che li onori mutano li costumi; e l'altro che dice: il magistrato fa conoscere li uomini. Ma seguitando il parlare, ancora che li Fiorentini spendessino assai, non fu possibile resistere agl'inganni de' Veneziani, e supplire alla povertà e inavvertenza del papa.

Basilio. Tu di' che il papa faceva spendere a' Fiorentini? Come poteva lui, stando a Roma, e avendo già perduta la reputazione, come tu di', spingerli a spendere?

Antonio. Tu sai che io non sono stato in questa città quaranta anni sono, nè posso saper bene il modo del governo, e tu ne puoi essere meglio informato [416] di me, che eri sempre, secondo intendo, de' primi chiamati dal cardinale di Cortona, il quale governava qui per il papa. E so bene, se il cardinale non avessi voluto acconsentire alle inoneste domande del papa circa i denari, che il papa era costretto ad avere pacienzia: però tu che sei stato qui, dimmi la causa perchè Cortona faceva questo.

Basilio. Sebbene tu hai detto che io ero de' primi chiamati da Cortona, tu hai a intendere che io e gli altri ci pascevamo di questo; ed è poco più di uno anno che, domandandomi il papa in qual cittadino Cortona più confidassi, io gli risposi, che credevo confidassi in me più che in alcuno altro; ma che di me non si fidava punto. Ed in fatto, è gran difficultà a saper tenere lo stato di questa città, ed è necessario che chi lo tien bene, sia uomo di grande ingegno, e poi sia nato e nutrito in essa: e appena ancora gli riuscirà, perchè bisogna pasca gli uomini di spe- [417] ranza, di cenni, di parole e di fatti; non faccia altro che investigare le inclinazioni degli uomini, per potere, quando gli vengano a parlare, accomodarsi secondo quelli, e all'uno dire delle nuove, all'altro parlare di paesi dove è stato, ad un altro de' casi e judicii mercantili; a chi di possessioni e di cultivare, a chi di edificare, a chi di belle donne, e a chi di cacciare e uccellare. E certo, quelli che aiutano tenere lo stato in questa città, sono uomini ambiziosi, avari, rovinati, viziosi e sciocchi. Perchè li uomini che sono alieni dall'ambizione non si travaglieranno volentieri di stato, nè come quello che hanno tenuto li Medici, nè di altro. Perchè io fo poca differenza da quello stato che molti chiamano tirannico, a questo che al presente molti chiamano popolare, ovvero repubblica; perchè in quello conosco molta servitù, e in questo ancora il medesimo: e però un uomo che non sia tenuto dall'ambizione, vorrà godere la sua quiete, nè si impli- [418] cherà in uno stato pericoloso e in una repubblica turbolenta. Similmente, chi non sarà avaro, starà contento al poco, nè penserà con lo stato torre il suo a questo e quello. Chi arà le sue faccende ordinate, seguiterà quelle; ma chi sarà rovinato e fallito, sempre s'ingerirà nel governo; e quando non gli riuscirà il participarne, cercherà mutazioni. Quelli che sono dediti alla gola e alla libidine, non possono mandare ad effetto i loro inordinati desiderj in questa città, se non si vagliano dello stato: gli sciocchi si pascono delle dignità della città; nè in quelle hanno fine alcuno, se non che pare loro una bella cosa essere de' Signori, degli Otto e de' Dieci. Ed avendo a trattare il cardinale di Cortona con questi uomini che io dico, non era di tanto ingegno da saperli maneggiare: perchè se gli ambiziosi si tengano senza degnità, non stanno pazienti, e cercano movimento; se ne dài loro troppa, fanno lo stato odioso agli altri, e diventano insolenti. Se agli avari non si dà, non [419] reggono ai pericoli; se si dà loro, si toglie quello degli altri, e spesso, come sono fatti ricchi, pensano più alla conservazione loro che alla tua, e vanno pensando come e' possino restare in piedi ad ogni stato. E se dài dignità a' rovinati, dài loro causa di imbolare per riaversi, ed acquisti odio universale. Se non contenti li viziosi, manchi del favor loro, i quali spesso sono di più ingegno e di più animo che gli altri; se li contenti, offendi Dio e gli uomini. Se adoperi gli sciocchi, lo stato tuo viene in derisione; se non gli adoperi, non hai ne' magistrati chi faccia a tuo modo. Il cardinale di Cortona, che era nato a Cortona e nutrito a Roma, non discorreva questa cosa appunto; e gli pareva che la grandezza dello stato consistesse in farsi obbedire, e che li magistrati non facessino cosa alcuna senza suo ordine; e pensava che in Firenze fussi un numero di cittadini i quali fussino costretti seguitare la fortuna de' Medici in ogni evento, e poterli trattare [420] come gli pareva, e non pensava ad altro, se non di satisfare al papa in ogni cosa, e compiacere a' cardinali, e altri prelati e signori e gran maestri, con danno e disonore della città. E benchè gli fussi ricordato che lui era mandato in Firenze per essere di quella defensore, e che aveva ancora a defendere il papa, il quale glie ne arebbe poi buon grado, non lo voleva credere, e pensava che chi glielo diceva, lo facessi per non potere sopportare quel modo di vivere. E seguitava in fare spendere la città senza discrezione; e da questa spesa procedè che l'aggravò di dua accatti, che si venderono li beni dell'arti, che si fece imposizioni a' preti: in modo che non ci restava uomo che non fussi malcontento, poichè lo amore che hanno i popoli a chi gli governa, procede tutto dall'utile, e quando quello manca, lo amore si converte tutto in odio.

Antonio. Intendo molto bene come si governò il cardinale di Cortona circa a' denari. Ma seguitando dico, che le- [421] vato che il duca d'Urbino ebbe lo esercito da Milano, e ridotto a Marignano, attese a fortificare un campo come una città, pensando di consumare lo imperatore con la spesa: e non si avvedeva che consumava molto più li collegati; e se e' se ne avvedeva, non se ne curava. E per consumare più tempo, e per pigliare una città vicina al dominio de' Veneziani, mandò una parte dell'esercito a Cremona, dove stette a campo molte settimane. Morironvi molti valentuomini e animosi, e si spesero denari assai, e poi la prese a patti. E in questo mezzo seguì a Roma il caso di che hai molto bene notizia, che li Colonnesi e don Ugo messeno a sacco il Borgo di Roma, e il palazzo e la chiesa di San Pietro, e il papa s'ebbe a fuggire in Castello, e seguì lo accordo con don Ugo, ovvero tregua, per quattro mesi. E puoi pensare che il papa in questo caso perdè se punto di reputazione gli era restato, e rimase molto attonito, nè sapeva che partito si pi- [422] gliare; perchè, se non osservava la tregua, non vedeva modo a defendersi da li Colonnesi e don Ugo; e se la osservava, conosceva corto che li avversarj lo ingannerebbeno, come avevano fatto altra volta, e gli torrebbeno Roma, e forse lo piglierebbeno e ammazzerebbeno. E prese un modo di osservare nel principio, tanto che li avversarj si discostassino da Roma; poi soldò fanti in Roma; faceva venire di campo e Italiani e Svizzeri, e ragunò assai buona banda di gente, e la fece alloggiare ne le terre de' Colonnesi. E questo alloggiare era un modo di ruinarle, perché li soldati sono venuti in tanta insolenza, che quando bene sono tenuti stretti, mettano in rovina li luoghi dove alloggiano; sicchè puoi pensare quello che facevano in quelle terre, quando era loro dato la briglia in sul collo. Il cardinale Colonna, e per questo e perchè il papa procedeva alla privazione sua, cominciò a querelarsi con don Ugo che il papa non osservava; e intanto ven- [423] neno nuovi Tedeschi di Alamagna, e il vicerè arrivò al porto di Santo Stefano: cose che tutte ti sono note, però io non te le replicherò, ma solo ti dirò, che avendo fatto progresso lo esercito del papa nel Regno, il vicerè, temendo di Napoli, accordò con il papa per mezzo Cesare Fieramosca: e venne detto vicerè in persona a Roma.

Basilio. Deh! fermati un poco. Tu di' che il papa, cioè l'esercito suo, aveva fatto progresso nel Regno, e che Napoli era in pericolo: se questo è vero, perchè accordò il papa, e non seguitò la vittoria?

Antonio. Perchè non aveva denari nè modo alcuno da farne.

Basilio. Perchè non faceva lui cardinali, come hanno fatto altri papi, stati in manco necessità e in manco pericolo che non era lui?

Antonio. Non lo voleva fare. E veramente lo intento suo era buono, perchè non voleva vendere dignità e benefizj; e se avessi potuto fare di non [424] entrare in guerre, arebbe fatto opera di ridurre la Chiesa, non voglio dire come quella primitiva, ma in modo che si sarebbe giudicato all'apparenza di fuora, che li pontefici, cardinali e altri prelati, se non potessino essere imitatori di Cristo, almanco potevano non li essere in tutto contrarii, come sono stati da molto tempo in qua. Ma seguitando il mio parlare....

Basilio. E' mi pare che questi preti abbino detto compieta, e gli chierici voglino serrare la chiesa. E io non ti vorrei questa sera lasciare prima che avessi finito il ragionamento incominciato, e ancora ci restano a dire molte cose; però tu mi farai piacere grande a venire questa sera a cena meco, e potrai ancora dormire in casa mia, perchè non ho altri in Firenze che un servitore; e manderò a dire al tuo nipote che non ti aspetti.

Antonio. Io farò quel che ti piace, ma per la via non voglio seguitare la ma- [425] teria principiata, ma voglio stare con commodità, per ricordarmi meglio di ogni particulare: ma ti voglio domandare di una cosa, e ti prego che mi dica il vero: Se questo vivere popolare o, per dir meglio, repubblica, ch'è ora nella città, ti piace.

Basilio. Se io ti volessi rispondere a quello mi domandi, non bisognerebbe parlassimo di altro questa notte, perchè io non ti direi questo modo dispiacermi se io non adducessi le cause; nè direi piacermi senza fare il medesimo: e a volere fare questo sarebbe necessario discorrere tutta la Politica di Aristotile e la Repubblica di Platone, e venire poi alli esempli delle repubbliche di Grecia, poi alla Romana, e nei nostri tempi alla Veneziana e alle repubbliche di Alemagna. Nè io sono per entrare in questo, perchè io ti infastidirei, ma ti dirò bene assoluto, che se la città nostra non amplia di dominio o di entrate, o non scema la metà de' cittadini, che in quella non può [426] essere repubblica stabile; e se tu noterai, da dugento anni in qua che la città nostra cominciò a crescere, sempre una fazione ha superato l'altra, e una parte ha auto le dignità e gli utili, e l'altra è stata a vedere il giuoco. E questo procede perchè l'aria in Firenze è molto generativa, e ci multiplicano assai uomini: e il dominio non è sì grande, nè le entrate sono tante, che si possino pascere tutti; e però una parte si pasce, e l'altra sta malcontenta, e aspetta il tempo per fare il medesimo. Nè credere che in questa città sia uomo che pensi a vivere libero, ma ciascuno pensa all'utile suo; e questi esempli di Bruto e di Cassio, che si danno tanto per il capo, sono favole da dirle al fuoco, perchè loro similmente non si mosseno a congiurare contro a Cesare per zelo di libertà e della patria, ma per ambizione e utilità; perchè vedendo che in quel modo di vivere non potevano avere li primi gradi, come pareva loro meritare, non [427] si curorono per l'ambizione mettere sottosopra il mondo, e far diventare la città di Roma non serva, ma stiava a tanti crudeli tiranni, ovvero uomini bestiali, quanti dipoi la dominorono. Ma io non voglio procedere più oltre in questo parlare, e massime che noi siamo già a casa. Poserenci qui in camera terrena, e mentre che si ordinerà da cena, tu seguiterai il parlare.

Antonio. Io lasciai che Carlo della Noy, vicerè di Napoli, per fermare meglio lo accordo con il papa, era venuto in Roma, e di quivi mandò Cesare Fieramosca a monsignor di Borbone, che era vicino a poche miglia a Bologna, a significarli che aveva fatto composizione con il papa, e che gli mandava scudi sessantacinquemila fra del papa, Fiorentini e suoi, perchè li distribuissi all'esercito, e lo ritirassi verso la Lombardia. Borbone gli parve strano aver a ritirare lo esercito nello stato di Milano, del quale pensava avere a essere duca, e gli pareva, mentre vi [428] stava questo esercito, che guastassi la città e il paese, ed esserne signore in nome, ma in fatto patroni ne fussino li soldati: e pensò d'ingannare il papa e il re, e sotto questo accordo procedere avanti, e trovare il papa sprovisto di gente e di denari; e che, avendo fatto accordo, non avessi più a riunirsi con la lega. E suburnati certi capitani, che dicessino a Cesare che non volevano star contenti a sì pochi denari, lui da parte gli disse che facessi intendere al vicerè che l'accordo gli piaceva, e che era non solo utile per lo imperatore, ma necessario; ma che le fanterie erano bestiali, e che bisognavano più denari, accennando di ducati ducentomila: e quando questi si provedessino, credeva che lo esercito stessi paziente; ma che il vicerè non si maravigliassi se intanto lui procedeva, perchè lo faceva per mostrare alle fanterie di fare tutto quello che poteva a loro benefizio. Il vicerè, inteso questo, subito si mosse di Roma in poste, e [429] venne in Firenze per confortare e pregare i Fiorentini, sapendo che il papa non aveva denari, a provedere più somma che potevano. E doppo molte dispute si concluse, che detti Fiorentini darebbeno scudi centocinquantamila, cioè ottantamila di presente, e il resto per tutto maggio: e furono presenti a detta convenzione e consenzienti dua uomini di Borbone. Fiorentini provideno li ottantamila scudi con grandissima difficultà; e perchè s'intendeva che di continuo Borbone procedeva, il vicerè determinò di andare là in persona per fermarlo e dargli li ottantamila scudi, e trovò lo esercito presso alla Pieve a Santo Stefano: e Borbone e gli altri capi disseno, che questi erano ancora pochi denari; onde il vicerè disperato, e non si fidando tornare in Firenze, se ne andò a Siena.

Basilio. Sei tu uno di quelli semplici, che creda che il vicerè non tenessi le mani a questo trattato?

Antonio. O semplice o astuto che io [430] sia, io credo che gli uomini faccino quello che giudicano sia loro a proposito. Questo accordo che il vicerè aveva fatto, era molto a benefizio di Cesare, e di esso vicerè in particulare, perchè lui non poteva desiderare maggior grandezza, che godere un regno di Napoli pacifico; e considerava che se questo esercito procedeva, sebbene era vittorioso, quel regno si empieva di soldati, e si rovinava, come era rovinato il ducato di Milano: ma se lo esercito avessi perduto, era certo di perdere ancora il Regno. E non so che maggior dimostrazione poteva fare di volere lo accordo, che venire a Roma in mano di un papa che non gli era stato molto amico; poi mettersi a venire a Firenze in poste, e mettere in pericolo la vita e l'onor suo. E credo certo che lui sia morto poi di questo dolore, perchè gli è parso che con questo accordo il papa abbia perso e Roma e Firenze, e si sia ridotto in Castello come prigione, e lui esserne stato causa, [431] e non poter fuggire la infamia di traditore.

Basilio. Il medesimo stimavo io: ma alli più non si trarrebbe del capo, che il vicerè e Borbone non sieno stati d'accordo a ingannare il papa.

Antonio. Borbone con celerità seguitò il suo cammino, e lasciò tutte le artiglierie a Siena, e s'ingegnò di avere più vettovaglie che potè da' Sanesi: e alli 4 di maggio, in sabato, arrivò con lo esercito in su le porte di Roma, e per non mostrar gagliardia, di nuovo fece tentare il papa di accordo: ma voleva tanti denari, che era impossibile a provederli. Il papa aveva in Roma il signor Renzo da Ceri e Orazio Baglioni, e circa millecinquecento fanti sotto varii capi; e il sabato che arrivò uscirono fuori certi cavalleggieri di Giampagolo figliuolo del signor Renzo, e più presto furono superiori che altrimenti. Il papa, ancora che avessi pochi fanti, non stimava che Borbone si mettessi a dare la battaglia a Roma, senza pian- [432] tare artiglieria, almanco da levare difese; nè sapeva l'avessi lasciata in Siena, e si persuadeva, avanti che Borbone potessi avere ordinato di dare la battaglia, che una parte almeno della gente sua più espedita, dovessi essere arrivata in Roma: e per questo stava di buono animo. E perchè gli altri facessino il medesimo, aveva fatto bandi aspri, che nessuno partissi nè levassi robe; e alle porte erano preposti a questo offizio Romani, quali proibivano a ciascuno il partire e mandare via robe, e non accettavano licenzia alcuna, sobbene fussi stata del papa: e perciò io, ancora che prevedessi questa ruina qualche dì avanti, mi trovai ingabbiato.

Alli 5, Borbone andò a vedere le mura del Borgo, nè si vidde disegnassi piantare artiglierie alcune; pure inverso la sera fece dare un leggero assalto alle mura, quasi dietro a Campo Santo, e li fanti che erano quivi a guardia, lo ributtorono; onde ciascuno prese animo. E ancora che non fussi venuto soccorso [433] alcuno, nè s'intendessi fussi per venire, il papa pensava con questa poca gente difendere il Borgo dua giorni; e sapeva che in capo di dua giorni, per mancamento di vivere, o che lo esercito nimico tornerebbe indietro, o passerebbe il Tevere, per ridursi prima nelle terre de' Colonnesi, dipoi nel Regno. Alli 6, che era in lunedì, Borbone ordinò di dare la battaglia appunto dietro a casa il cardinale di Cesis, e poi presso al monte, dov'è drento la vigna di Santo Spirito, e fuori quella di maestro Bartolommeo da Bagnacavallo. E accadde appunto che fu nebbia grandissima, dimodochè li bombardieri del papa non vedevano dove avessino a indirizzare le artiglierie per offendere li nimici; i quali dettero uno assalto gagliardo, pure furono ributtati: onde Borbone disperato prese una scala, e andò verso le mura, per dare animo agli altri di fare il medesimo; e nell'andare ebbe una ferita d'archibugiata nella testa, e subito morì. Li inimici, non per questo in- [434] viliti, seguitorono di nuovo in dare la battaglia, ed essendo li ripari deboli, li salirono; e come furono al pari de' defensori, ebbeno vinto, perchè erano assai e li defensori pochi, e quelli pochi, che volseno fare il debito del buon soldato, restorono morti, li altri si misseno in rotta e in fuga, chi per entrare in Castello, e chi per fuggire per Ponte in Roma.

Il papa, intesa la vittoria de' nimici, ebbe fatica a salvarsi in Castello con pochi servitori e qualche cardinale. Gl'Imperiali, poichè furono entrati in Borgo, lo misseno a sacco, benchè vi fu poca preda, perchè di pochi mesi avanti aveva avuto un ripulisti da' Colonnesi e don Ugo: e ancora che avessino ottenuto per forza il Borgo, avendo perduto il capitano, e restando loro a entrare in Transtevere e poi in Roma, non pareva loro avere vinto. E veramente, che se fussi stata fatta loro un poco di resistenza, erano in peggior grado che avanti avessino preso il Borgo, sì per la morte di Borbone, sì per la preda che li aveva [435] disordinati: e nel Borgo non avevano trovato da vivere per un dì. Ma i loro capitani, considerando che non era da dar tempo a chi era sbattuto, di ripigliare lo animo, in capo di quattro ore, poichè ebbeno preso il Borgo, detteno lo assalto alle mura di Transtevere, dove non trovando alcuno defensore, ebbeno facilità di romperle, e per la rottura entrati alquanti, aprirono la porta a ponte Sisto. Restava poi loro a entrare in Roma in ponti, e questo riuscì senza alcuna difficultà, perchè non ebbeno alcuna opposizione; e non credo che nell'entrare degl'Imperiali in Roma morissino cinquanta uomini combattendo. Ciascuno stava alle case sua, e guardando quelle, pensava gli bastassi. E li Romani erano tanto insolenti e bestiali, che si persuadevano chi per un mezzo e chi per un altro salvarsi, e che l'imperatore avessi a pigliare Roma e farvi la sua residenzia, e dovere avere quelle medesime comodità, onori e utili, che avevano dal dominio de' preti.

[436] Io, che non ero atto all'armi e non avevo in casa altro che un servitore tedesco, uomo di pace, mi stavo in su la mia porta, che avevo una casetta in Campo di Fiore; e per non avere potuto mandar fuora la roba, avevo in certo secreto riposto le scritture e panni e drappi per duemila scudi, e ducati mille di contanti, e cinquecento tra argenti e altre masserizie migliori: e avevo pure lasciato la casa fornita ordinariamente. Nè ti dirò più oltre che seguissi in Roma, perchè io non lo so, e mi basterà dirti quello che intervenne a me.

Come io intesi che li inimici erano drento, sendo pure in Roma molte case di peste, feci mettere alla porta la insegna della peste, ed io, avendo una bolla in una gamba portata molti mesi, la feci con il sangue rossa intorno; poi fasciatomi il capo, me n'entrai nel letto, e dissi a quel servitore tedesco dicessi a chi veniva, che ero malato di peste; e una serva fiorentina feci stare in su l'uscio della camera, afflitta e [437] dolorosa. Ecco comincio a sentire il romore per la piazza: vengano quattro Tedeschi alla casa mia, e veduto alla porta la insegna della peste, domandarono il mio servitore, che era a sedere in sull'uscio, quello voleva dire quella insegna. Lui risponde, che al patrone della casa erano in pochi giorni morti quattro figliuoli e la donna di peste, che lui era malato nel letto. Onde loro udito questo, segnorono l'uscio con il gesso, e lasciorono uno di loro dinanzi all'uscio, e si partirono, e stettono a tornare circa quattro ore, e menorono con loro un becchino della peste tedesco, che aveva fatto lo esercizio in Roma più anni, e lo mandorono in casa a intendere come io stavo. Lui, o che mi trovassi alterato per la paura, o che giudicassi avere a trarre più profitto quando dicessi essere peste, affermò che io ero malato, ma che credeva fussi per guarire: onde loro lasciatolo quivi a mia custodia, si partirono. E io attendevo a starmi nel letto, nè volevo sa- [438] pere cosa alcuna che seguissi in Roma: e già erano passati quindici giorni, e io avevo fatto un parentado con quel becchino tedesco, in modo pensavo del male averne a patire manco degli altri. E mentre io mi pascevo di questa speranza, li Tedeschi tornorono una mattina, e dimandando il becchino e il servitore mio come io stavo, e l'uno e l'altro dicendo male, cominciorono a sospettare, e si missero a entrare in casa, e dipoi in camera, e togliere tutto quello vi era, e in ultimo mi poseno di taglia ducati cinquecento, li quali dicevo non potere pagare, perchè ero povero, vecchio e malato di peste. Loro cominciarono a minacciarmi, e in ultimo a battermi; di modo che io dissi, se avevo comodità di mandare fuora di Roma il mio servitore tedesco provederei ducati trecento, di che loro si contentarono. Io simulando mandarlo a Tibuli, cavai del secreto ducati trecentocinquanta, de' quali pagai loro trecento, ed il resto mi serbai in certo luogo della casa, che malvolentieri essi [439] potevano trovare, e finsi che il servitore me li avessi portati. Loro vedendo che io avevo provisti li denari presto, stetteno dubii donde io li avessi auti, ed entrò loro sospetto ehe io non fussi ricco; e quando io credevo, avendo auto la taglia, mi lasciassino partire, loro mi tenevano, non però molto stretto; pure male mi sarei potuto fuggire, massime di giorno. Ma la notte, perchè io ero malato o lo fingevo, loro non mi guardavano, onde io presi per partito una notte partirmi. E conferito questo mio pensiero con il servitore, e pregatolo che mi volessi accompagnare, fu contento. E la notte seguente, che fu il primo di luglio, ci partimmo, e la mattina all'aprire della porta ce n'uscimmo per la porta del Popolo, e con gran fatica arrivammo la sera a Civita Castellana; e se io non avessi avuto meco questo tedesco, sarei suto preso e rubato sei volte; ma lui diceva che avevo pagato la taglia al suo patrone, e però mi accompagnava.

[440] A Civita Castellana trovammo male da mangiare e peggio da bere, e così male da dormire. E per questo disagio, e per quello avevo preso a caminare a piedi sin quivi, o per li dolori auti in Roma, il dì seguente che io giunsi, mi prese una grandissima febbre: e venendo io di Roma, dove gli uomini morivano a migliaia, fu creduto certo fussi malato di peste, e fummo, il mio servitore ed io, serrati in una piccola stanza, e da una finestra ci era portato un poco di pane e di vino, e bisognava pagarlo bene. La febbre andò seguitando, di modo che in capo di quindici dì quelli che erano deputati sopra la peste, furono chiari che il male mio non era contagioso, e detteno licenzia a me e al mio servitore di andare per tutto. Ebbi male dua mesi, e quando fui presso che guarito, ammalò il mio servitore, e in capo di un mese morì. Ed io avevo speso tanto intra il male mio e suo, che delli cinquanta ducati avevo portato meco di Roma, non me ne resta- [441] vano che dua: e con quelli mi partii di Civita Castellana a piè, al fine di ottobre, ed in otto giorni mi condussi a Arezzo: dove trovai un fratello di messer Pagolo Valdambrino, il quale avevo già conosciuto a Roma, e il quale mi fece carezze, e mi condusse a casa sua, dove volse che io stessi quindici dì a riavermi. E lui mi dette notizia della mutazione seguita qui tanti mesi avanti, e del termine in che si trovava il papa: e generalmente di tutte le cose che andavano attorno, delle quali io ero in tutto al buio. Poi mi dette denari, e mi prestò una bestia e un contadino che mi accompagnassi; e quattro dì fa arrivai qui, credendo trovare Benedetto mio fratello. E intesi che era morto lui e la sua brigata, nè era restato altri di lui che Simone suo figliuolo di età di anni ventidue, al quale è parso strano che io gli sia giunto addosso vecchio e povero: ed avendo il padre goduto sempre come suo un buon podere che abbiamo in Mugello, e la casa che abbiamo [442] qui in Firenze, non gli pare giusto, che io dica al presente volere di queste cose la metà. E in verità, che se mi fussi restato altro modo da vivere, che io non enterrei a domandargli la parte mia.

Basilio. Che fu della roba che tu avevi nascosta?

Antonio. Quando io mi partii, non la avevano trovata: dipoi non te ne so parlare, ma stimo bene, per esservi stati tanto, che non sia possibile non abbino trovato ogni secreto. Tu hai inteso in che modo io mi sia condotto qui, e ci saria da dire assai novellette; ma vorrei cenare.

Basilio. Tu hai ragione, ed è suta poca discrezione la mia a non avere già fatto ordinare; ma si farà subito, perchè la cena sarà da poveri, come siamo tu ed io.

Antonio. Che? ancora tu sei povero?

Basilio. Povero, poverissimo: e mi è suto tolto da certi privati potenti la maggior parte di quello che avevo. Ma [443] non ti voglio parlare di questo, attendiamo a cenare di quel poco che ci è.

Antonio. Deh! dimmi, tu che sei stato in Francia, se avevi notizia di questo duca di Borbone, e che uomo era tenuto in quel tempo.

Basilio. E' si può bene, mentre si cena, parlare di qualcosa attenente ad altri, come è questa di Borbone, chè non dà perturbazione a parlarne. Io ne avevo benissimo notizia, e mi parve sempre simulatore, vario e ambizioso. Lui era della casa di Borbone, figliuolo di Monsignor di Montepensieri, che morì l'anno 1495 a Napoli, dove era rimasto vicerè, ovvero governatore, per il re Carlo VIII. Aveva piccolo stato, ma sendo del sangue regio, Anna duchessa di Borbone, ch'era stata moglie del duca Piero e sorella del re Carlo sopraddetto, gli dette una sua unica figliuola, della quale ebbe grande stato. Ma era brutta quanto donna sia stata mai vista, piccola, nera, gobba non solo nelle spalle, ma ancora nel petto; e lui era tanto [444] dissimulatore, che dava voce per tutto che non usava con altra donna che con quella; ed era tanto vano, che, ancora che avessi grande entrata, spendeva tanto, per volere tenere stato non da duca, ma da re: che faceva ogni anno debito molte migliaia di ducati, ed impegnava gli stati suoi. Nel principio che Francesco venne al regno, a Carlo di Borbone, secondo la genealogia dei re di Francia, toccava ad essere re, dopo il duca d'Alansone; i progenitori del quale, non so se l'avolo o il bisavolo, per avere fatto contro alla corona, erano suti privati della successione. Ma il re Luigi XII, volendoli dare per donna Margherita sorella di Francesco duca d'Angolem, che ora è re, fece che il parlamento dette sentenzia, che Carlo d'Alansone fussi abilitato alla successione, e fussi il primo doppo il duca d'Angolem. Monsignor di Borbone, malcontento di questo, non voleva in modo alcuno che Carlo gli precedessi; e però Francesco lo fece stare tacito con il [445] farlo gran contestabile: quale officio ora stato molti anni senza crearsi in Francia, perchè si conobbe, quando il re Luigi XI fece decapitare il conte di San Polo gran contestabile, che tale offizio si tira dietro troppo seguito e reputazione. E Borbone sendo fatto gran contestabile, cominciò, di umile che dimostrava prima, a diventare superbo; ed essendo rimasto a Milano governatore, si portava da signore in modo, che il re, avvertito di questo, gli dette per compagno monsignor d'Averre; e quando lo imperatore Massimiliano venne presso a tre miglia a Milano nel 1516, Borbone, se Averre non lo riteneva, si volea partire: nondimeno partendosi lo imperatore senza fare effetto, attribuiva tutta la gloria dell'aver difeso Milano a sè. Pure il re non si contentò che restassi in Lombardia, ma lo richiamò in Francia, dove lui stava mal contento e attendeva a spendere per conciliarsi uomini. Ed essendo morta la suocera, che lo sovveniva assai, e poi la moglie, [446] senza figliuoli, e trovandosi gran debito, ed essendogli mosso lite in su lo stato che possedeva, si accordò con lo imperatore e re d'Inghilterra con un accordo, che so ne hai notizia perchè è pubblico; il quale è tanto vergognoso per lui, quanto si possa dire. E si vede per l'ambizione sua voleva distruggere tutto il regno di Francia; perchè se lui aveva odio con il re, perchè gli paressi governassi male, o per quale si voglia altra causa, o che desiderassi essere re lui, doveva cercare di ammazzare il re e li figliuoli e Alansone generosamente, e non indurre Cesare e Inghilterra a distruggere Francia. Ma di Borbone sia detto a bastanza, chè non merita se ne parli tanto: e di simili uomini sarebbe bene che insieme con la vita si estinguessi la fama, o buona o rea che la fussi.

Ma dimmi, avendo preveduto il male di Roma, come tu mi hai detto con il tuo parlare, come fu possibile che tu non ti partissi a buon'ora, e [447] non ne portassi teco più cose che tu potevi?

Antonio. Cotesta è una domanda che a volerti satisfare richiede una risposta lunga, e a me pare che tu non abbia nè fame nè sonno; io son vecchio e desidero riposarmi, e domattina parleremo.

Basilio. Così si faccia: ma perchè staremo ambidua in questa camera, che ci sono dua letti, se ti destassi questa notte, non ti parrà fatica, per passare il tempo, satisfarmi di quanto io ti ho domandato.

Antonio. Io pensavo, poichè io sono stato desto, che io andai a Roma a tempo di papa Pagolo II, molto fanciullo; nondimeno sentivo dire tutto il giorno a' Fiorentini ed altri, che era impossibile, a le scelleratezze che si commettevano in Roma, e massime per i preti, che quella città potessi indugiare a capitar male. Nondimeno Paulo morì felice, quanto al mondo, perchè estirpò il conte dell'Anguillara, il quale [448] non stimava nè preti, nè religione, nè Dio.

Seguì Sisto, uomo uso ad essere frate, e per sapere fare lo ippocrito, e accomodarsi con ciascuno, pervenne a quel grado: e questi frati con la loro loica e teologia si assettano una religione nella fantasia a modo loro; e vanno seguitando, e ciò che fanno par loro ben fatto e lecito. Lui, sendo di vilissima condizione, fece frà Pietro cardinale, il quale molti dicevano che era suo figliuolo; lui diceva che era figliuolo di un savonese amico suo; e gli dette tanta entrata di benefizj, che insino a quel tempo non si trovò mai cardinale alcuno ne avessi auta tanta. Questo fra Piero, assueto ne' poveri conventi, divenne tanto splendido e dilicato, che nel vestire, mangiare e abitare poteva equipararsi a qualunque re. Ma la fortuna lo levò di terra giovane, e il papa volse tutto il pensiero [449] suo a un fratello di detto frà Piero, chiamato Girolamo, e gli dette Imola e Furlì, dandogli nome di conte; e volse ch'el pigliassi per donna una figliuola del duca Galeazzo di Milano non legittima: e in Roma non si faceva altro che quello che voleva il conte. Fece cardinale di San Piero a Vincola un figliuolo di un suo fratello, e detto suo fratello fece prefetto di Roma, e gli dette Sinigaglia. E in effetto, fece con lo essere papa li sua grandi e di stato e di denari, fece guerre ingiuste, concesse per denari tutte le grazie spirituali, e morì vecchio.

Successe Innocenzio per patria genovese, ma nobile uomo, che per la facilità pervenne a quel grado e con non dire cosa che dispiacessi, ma più presto adulando; inclinato a questo non per astuzia, ma per natura. Pure in principio s'intrigò in guerra, della quale rimanendo al disotto, inclinò lo [450] animo alla pace, e tutto il resto della vita sua consumò in ozio e quiete, e pensò lasciare il mondo come l'aveva trovato, e attese a far buona cera. Pur dette qualche somma di denari a Franceschetto suo figliuolo naturale, e gli camperò l'Anguillara e certi altri castelli, e gli dette per donna una figliuola di Lorenzo de' Medici; e infine, sendo vissuto qualche anno infermo, si riposò in pace. E li cardinali si rinchiusono in conclavi per fare nuova elezione: ed essendosi considerato assai che cosa era il pontificato, più cardinali fecero estrema diligenzia di pervenire a questa dignità. Ma sopra tutti la fece Roderigo Borgia Valentino, vicecancelliere, il quale pensò ad ogni modo per denari ottenere tal grado, che non restò in conclavi cardinale alcuno che volessi accettare, il quale da lui non gli fussi promessa grossa somma. E non solo dette a' cardinali, ma a qualunque era in conclavi. [451] Ma sopratutto si ingegnò guadagnarsi il cardinale Ascanio Sforza, parendogli che nel collegio avessi gran parte, e gli promise la Cancelleria, e un bel palazzo che lui avea murato nel più celebre loco di Roma. E seppe in modo usare questa arte del donare, che gli riuscì di essere eletto papa. E come chi compra una possessione cara pensa di trarne più frutto che lui può, così lui avendo comprato il pontificato caro, deliberò non perdonare a cosa alcuna per trarre denari assai e far li figliuoli (che ne aveva tre mastj) grandi. E al primo comprò uno stato in Spagna, e lo chiamò duca di Candia; il secondo fece cardinale, e gli dette benefizj assai; al terzo comprò il principato di Squillaci nel Regno. Una femmina che aveva, chiamata Lucrezia, dette prima al signor di Pesero; poi, non gli parendo il parentado nobile a suo modo, non volse seguitasse, e la dette a un figliuolo bastardo del re Alfonso, il quale sendo suto morto da Cesare suo figliuolo car- [452] dinale per parergli troppo in grazia al padre, la dette poi ad Alfonso figliuolo del duca di Ferrara. Ma Cesare suo figliuolo cardinale, che si chiamava di Valenza, avendo uno animo efferato, e che non pensava ad altro che a dominare, e parendogli che il duca di Candia, maggior figliuolo del papa, gli ostassi a questo suo disegno, lo ammazzò una notte di mano sua, e lo gittò in Tevere. Di che il papa ebbe grandissimo dolore; pure, non volendo arrogere male sopra male, finse non sapere chi avessi commesso tale omicidio, e pensò dare quelli stati e quella grandezza che disegnava per Candia a Cesare; e lo disfece cardinale, facendo allegare che, non sendo legittimo, non poteva tenere tale dignità. Ed avendo prima fatto provare, quando lo fece cardinale, che era legittimo e nato di un cittadino di Valenza, fece provare il contrario. E lo mandò in Francia a portare la assoluzione al re Luigi XII di poter lasciare la moglie tenuta molti anni, per essere [453] sterile, e tôrre Anna duchessa di Brettagna, quale era suta donna del re Carlo VIII. Andò detto Cesare in Francia per mare con tanta pompa e fasto, quanto non si potrebbe scrivere; e fu dal re accolto con tutte le cerimonie e carezze che si possano usare, e fece con lui convenzione di ripigliare tutti gli stati che la Chiesa per il passato aveva dato in feudo, e che erano in quel tempo occupati da questo signore e da quell'altro. Il re promisse aiutarlo conseguire questo effetto.

Tornò in Italia pieno di speranza, e cominciò ad assalire Imola e Furlì, e ridusse dette due città in sua potestà, e prese la contessa, e la mandò a Roma a stare in Castel Sant'Agnolo. Dipoi messe il campo a Faenza, ed essendovi stato più settimane, la prese d'accordo, ed ebbe prigione un giovanetto che vi era signore; e poichè lo ebbe tenuto qualche settimana in la sua corte, lo fece una [454] notte strangolare dal Bianchino da Pisa, il quale adoperava per ministro in simili crudeltà. Tolse lo stato ai signori di Pesero, di Rimini, di Camerino e di Urbino, e venne verso Firenze, pensando che ne nascessi qualche novità. Ma considerando poi meglio, che se vi rimetteva Piero de' Medici, accresceva forze a casa Orsina, la quale lui desiderava annichilare; stato che fu alquanti giorni a Campi, e guasto e rubato il paese, si partì con certo accordo che volse più presto per cerimonia, che perchè pensassi si avessi ad osservare; e ne andò verso Piombino, e lo prese subito, e il signor Iacopo IV di Appiano si fuggì. Volse assaltare Bologna, avendo certo trattato co' Mariscotti per cacciarne i Bentivogli, e non gli succedendo, scoperse quel trattato per fare in quella città maggior confusione; e li Mariscotti furono morti. Venne dipoi a rottura con Vitelli e Orsini, che dubitavano della troppa grandezza sua: nondimeno tanto li seppe ciurmare, che sotto uno [455] accordo li prese, e fece morire Vitellozzo e il signor Pagolo Orsino ed altri Orsini e il cardinale pure Orsino, e cacciò Gianpagolo Baglioni di Perugia, e Pandolfo Petrucci di Siena, e tutti li Colonnensi si erano partiti dello stato della Chiesa e ritirati nel regno di Napoli. E detto Cesare si fece investire in gran parte degli stati donde e' cacciò li signori, e si chiamava duca di Romagna; ed era venuto a tanta superbia, che disegnava pigliare Siena e Firenze: e aiutò il re Luigi pigliare il regno di Napoli e tôrlo a Federigo di Aragona. Il quale Luigi per contentare il re Fernando di Spagna, partì seco detto regno, e Cesare pensò che per detta divisione dovessi nascere discordia fra loro, ed essere facil cosa che esso avessi a succedere in quel regno. Ma mentre che faceva questo cose e pensava a delle maggiori, sopravvenne la morte del papa in tempo che lui si trovava malato gravemente; in modo che restò prigione del papa nuovo, e [456] tutto lo stato che aveva preso con fatica, con arte, con inganni e scelleratezze, in pochi giorni mutò signore.

E veramente, chi esaminerà bene la vita di papa Alessandro, lo troverà simile a quelli imperatori romani che facevano ogni cosa per regnare. Lui per aver denari vendeva tutti li benefizj; se alcuno prelato moriva in Roma, voleva la sua eredità; se sapeva alcuno che fussi ricco di denari o di offizj, s'ingegnava di farlo morire: prometteva, accordava, e sotto accordo e fede pigliava li uomini e gli ammazzava. Della libidine non voglio parlare, perchè di lui si dicevano cose tanto infami, che mi è difficile a crederle, e io malvolentieri dico quello di che facilmente si può mentire; e come i principi cominciano a essere odiosi, ciascuno accresce, finge e accumula in lui ogni vizio. Basta questo, che papa Alessandro, secondo li disegni suoi e quanto al mondo, morì felice.

Fu creato doppo lui Pio III, sane- [457] se, uomo vissuto lungamente nella corte romana, e, secondo che sono li prelati, di assai buoni custumi; ma pochi giorni stette pontefice. E doppo lui fu fatto Julio II, cardinale di San Piero in Vincola, nipote di Sisto, chiamato Juliano da Savona, di vilissima condizione, e non solo confidente ma piuttosto audace. In la creazione andorono a torno molte promesse di denari, come in quella di papa Alessandro. È ben vero che, poi papa, osservò quelle che volse. Costui nel principio del papato attese ad accumular denari, e delle guerre che andavano a torno fra il re di Spagna e di Francia, non si travagliava; ingegnavasi rassettare Roma, e dava gran libertà a' preti. Come ebbe adunati tanti denari, che gli parvero a bastanza a potersi scoprire pontefice formidabile, cominciò a pensare di liberare Bologna dalla signoria di messer Giovanni Bentivogli, e ridurla al governo della Chiesa; e per questo fece [458] lega con il re di Francia, e andò in persona a quella impresa, la quale gli successe. Poi, parendogli che Francia pigliassi in protezione Ferrara, disegnando ancora ridurre quello stato alla Chiesa, e avendo per male che il re di Francia avessi forzato Genova, fece accordo con il re di Spagna contro a Francia; in modo che Francia rimesse li Bentivogli in Bologna, e il papa ebbe a fuggire a Roma quasi ruinato; e se era seguitato, il caso suo non aveva rimedio: aiutollo la buona sorte. Fece calare Svizzeri, e in pochi giorni cacciò Franzesi d'Italia, e acquistò Parma, Piacenza, Reggio e Modena: e prima aveva fatto molte altre cose contro ai Veneziani.

Basilio. A punto io volevo dire che tu avevi narrato le faccende che aveva fatto papa Julio, e ne avevi lasciate assai, e massime quelle aveva fatto contro Veneziani, che erano sute grandi, perchè aveva loro cavato delle mani Rimini, Faenza e Ravenna.

Antonio. La intenzione mia non è nar- [459] rare la vita di Julio, ma mostrare quante cose fece contro ragione, che gli successeno bene; e benchè fusse summerso ne' vizj, si riposò alla fine in pace, e fu tenuto un grande e buono papa.

Di Leone voglio parlar poco, perchè le azione sua ti sono note come a me, e forse più, e mentre che lui era papa stesti molto tempo a Roma. E in effetto, o per buona sorte, o per buon governo, nel suo pontificato a Roma non fu peste, non carestia, non guerra: e benchè in molti luoghi d'Italia fussi guerra, questo faceva che Roma fussi più abitata, perchè ogni uomo correva quivi come in porto sicuro; e chi aveva denari comprava offizj, e di quelle entrate viveva comodamente. Morì adunque Leone, quanto al mondo, felice. Quello sia successo di questo lo sai tu. Fatto senza simonia, è vivuto sempre religiosamente e prudente quanto un al- [460] tro uomo. Non vende li benefzj, dice ogni giorno il suo offizio con devozione; alieno da ogni peccato carnale, sobrio nel bere e mangiare, dà ottimo esemplo di sè. Nondimeno a suo tempo sono sempre venuti a Roma e a lui tanti mali, che poco peggiori ne potrebbono venire.

Sì che ti ho fatto questo discorso de' pontefici perchè tu intenda, che sebbene sempre è stato detto che i peccati di Roma meritano flagello, pure non è successo se non al tempo di questo pontefice, quando io credevo avessi manco a succedere. E benchè io prevedessi questo male poco di tempo prima, però non potetti riparare a questo disordine, nè levar le robe nè me di Roma, per le cause sopradette. Onde, per concluderla, io voglio attendere a viver questo resto che mi avanza di tempo, e non voglio dibattermi il cervello a investigar le ragioni delle cose, nè voglio pensare quello abbi a essere. Viverò in su questo mio mezzo [461] podere, goderò il meglio potrò, e te conforto a fare il modesimo.

Basilio. Io non voglio allungare più questo nostro colloquio, e voglio proviamo ancora a dormire un poco. Domattina ci leveremo, e saremo a tempo a parlare di questa materia e di altro: basta che per questa volta mi hai satisfatto in tutto quello che io desideravo.

Il Fine.

VARIANTI PIÙ NOTABILI.

Pag. 411, v. 12, perchè sono già passati sei mesi - sendo già passati tre mesi, Cod. Magliab.

Pag. 412, v. 10, e sebbene io, ec. - E quando bene io, ec. Cod. Magliab.

Ivi, v. 22, non lo dannerai per odio - non lo farai per odio, Cod. Magliab.

Pag. 413, v. 2, io te lo voglio contare - io ti voglio contentare, Cod. Magliab. e Ediz. Parig.

Pag. 414, v. 12, a quello che era di diretto contrario - a quello che era dirittamente contrario, Ediz. Parig.

Pag. 415, v. 20, spingerli - astringerli, Cod. Magliab.

Pag. 416, v. 9, faceva - facessi, Cod. Magliab.

Ivi, v. 23, di grande ingegno - di eccellente ingegno, Cod. Magliab.

Pag. 417, v. 24. che non sia tenuto dall'ambizione - che non sia tirato dall'ambizione, Ediz. Parig.

Pag. 418, v. 12, inordinati desiderj - disordinati appetiti e desiderj, Cod. Magliab.

Ivi, v. 16, Nel Cod. Cat. manca de' Signori.

Pag. 419, v. 5, pensando - cogitando, Cod. Magliab.

Ivi, restare in piedi - cadere in piedi, Cod. Magliab.

Ivi, v. 14, Il Cod. Cat. invece di derisione, legge erratamente divisione.

Pag. 420, v. 1, come gli pareva - come voleva e poteva, Cod. Magliab.

Pag. 421, v. 19, la chiesa di San Pietro - la chiesa di Santo Spirito, Cod. Magliab.

Ivi, v. 23, in questo caso - in questa cosa, Cod. Magliab.

Ivi, v. 24, molto attonito - come attonito, Cod. Magliab.

Pag. 426, v. 6, e l'altra è stata a vedere il giuoco - e l'altra si è stata a parte a vedere il giuoco, Cod. Magliab.

Pag. 427, v. 23, nello stato - nel ducato, Cod. Magliab.

Pag. 427-428, v. 25-l, mentre vi stava - Il Cod. Cat. legge erratamente visitava.

Pag. 428, v. 19, stessi paziente - starebbe paziente, Cod. Magliab.

Pag. 429, v. 4-5, si concluse - si condusse, Cod. Maqliab.

Ivi, v. 21-23, Nel Cod. Magliab. sono omesse, forse per isvista dell'amanuense, queste parole di Basilio.

Pag. 431, v. 7, seguitò - finì, Cod. Magliab.

Ivi, v. 12, in su le porte di Roma - in su le porte di Roma, in Prati, e per, ec., Cod. Magliab.

Ivi, v. 18, circa millecinquecento fanti - circa a 1100 fanti, Cod. Magliab.

Pag. 432, v. 1-2, da levare difese - da levare offese, Cod. Magliab.

Ivi, v. 14-15, sebbene fussi stata dal papa manca nel Cod. Magliab.

Pag. 432, v. 22, dietro a Campo Santo - dentro a Campo Santo, Cod. Cat.

Pag. 433, v. 7, Nel Cod. Cat. manca per ridursi.

Ivi, v. 13-14, Men bene il Cod. Cat. legge Bartolo. È questi il pittore Bartolommeo Ramenghi, detto dalla patria il Bagnacavallo.

Ivi, v. 16, bombardieri - bardieri, Cod. Magliab.

Ivi, v. 24, L'Ediz. Parig. d'archibuso, nel Cod. Cat. manca questa e l'altra lezione adottata nel testo.

Pag. 435, v. 17-18, Questi due versi mancano nel Cod. Magliab.

Pag. 436, v. 11-12, la casa fornita ordinariamente - la casa fornita ordinatamente, Cod. Magliab.

Ivi, v. 17-18, la insegna della peste - il segno della peste, Ediz. Parig.

Ivi, v. 21, me n'entrai nel letto - me n'andai a letto, Cod. Magliab.

Pag. 438, v. 22, a Tibuli - a Tigoli, Cod. Magliab.

Pag. 439, v. 17, E la notte seguente, che fu il primo di luglio, ci partimmo, ec., Cod. Magliab.

Pag. 440, v. 3, E per questo disagio, e per quello avevo - E per questo e per quello avevo, Cod. Magliab.

Ivi, v. 20-21, quando fui presso che guarito - quando fui presso a guarito, Cod. Cat.

Pag. 442, v. 1, non gli pare giusto - non gli pare giuoco, Cod. Cat. e Ediz. Parig.

Pag. 443, v. 12, vario - avaro, Cod. Magliab., vano l'Ediz. Parig.

Ivi, v. 13, della casa di Borbone - della città di Borbone, Cod. Magliab. e Cod. Cat.

Pag. 448, v. 1, nè religione - nè religiosi, Cod. Magliab.

Ivi, v. 4. ippocrito - spiritocco, Ediz. Parig.

Ivi, v. 21, equipararsi - compararsi, Cod. Magliab. e Ediz. Parig.

Pag. 449, v. 3, dandogli nome - e gli dette titolo, Cod. Magliab. e Ediz. Parig.

Pag. 451, v. 8, gli riuscì di essere eletto papa - gli riuscì di essere papa, Cod. Cat.

Ivi, v. 22-23, non volse seguitasse - non volse che seguissi, Cod. Magliab. e Ediz. Parig.

Pag. 453, v. 3, Nel Cod. Cat. manca in Francia.

Ivi, v. 14-15, cominciò ad assalire - cominciò ad assaltare, Cod. Magliab.

Pag. 454, v. 4, di Rimini è aggiunto dal Cod. Magliab. e dalla Ediz. Parig.

Ivi, v. 11, casa Orsina - parte Orsina, Cod. Magliab. e Ediz. Parig.

Pag. 455, v. 3, era venuto - era salito, Cod. Magliab.

Ivi, v. 23, la morte del papa - la morte di papa Alessandro, Cod. Magliab.

Pag. 456, v. 11, o di offizj - o di benefizj, Cod. Magliab.

   

NOTA AL TESTO

Fatta eccezione per qualche modestissimo adattamento tipografico, reso necessario da ragioni tecniche (come la numerazione continua delle note), si riproduce alla lettera il testo dato dal Milanesi (Il sacco di Roma del MDXXVII. Narrazioni di contemporanei scelte per cura di Carlo Milanesi, Firenze, G. Barbèra Editore, 1867, pp. 409-467), compreso l'uso non ortofonico degli accenti (sempre gravi). Si danno fra parentesi quadre i numeri di pagina dell'originale. Si osservi che il Milanesi utilizza le parentesi quadre per integrare le lacune.

 


de bibliotheca


Torna all'inizio

Edizione HTML a cura di: mail@debibliotheca.com

Ultimo Aggiornamento:13/07/05 23.48

Testo tratto da:
Banca Dati "Nuovo Rinascimento"
http://www.meri.unifi.it/n-rinasc/pub/
immesso in rete il 28 maggio 1997
***************
a cura di Carlo Milanesi
testo elettronico di Danilo Romei