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VI
L'ortolano, tutto sottosopra, venne ad annunziare che arrivava la
visita del signor Barone.
Elena era sotto il pergolato, dove soleva passare le ore calde della
giornata, col ricamo o con un libro in mano. Senza scomporsi accennò di sì col capo al
contadino stupefatto e ricevette il Barone fra quelle quattro macchie di dalie come una
regina.
Don Peppino, avvezzo alle accoglienze premurose e imbarazzate, fu
sconcertato da quella disinvoltura signorile. Egli era venuto con delle intenzioni
conquistatrici veramente baronali, vestito in gala, sbattendo il frustino sugli stivali.
Giunto al cospetto dell'Elena, per non fare la figura che aveva visto fare agli altri,
girando il cappello nelle mani, cominciò ad ammirare il paesaggio, il banco di legno
rustico sotto il pergolato, il panierino da lavoro adorno di nastri.
Elena offrì il rosolio in una cassetta da liquori simile a quella che
la Baronessa madre teneva sottochiave per le grandi occasioni. A don Peppino sembrava di
trovarsi al teatro, quando i dilettanti di Altavilla rizzavano una campagna di cartone,
nella quale le pastorelle recitavano coi guanti e le scarpette verniciate. Al momento di
congedarsi offrì di venire a prendere la signora in carrozza, per fare una trottata sino
ad un paesetto vicino. Elena dopo un lieve cenno di ringraziamento che non voleva dire né
si né no, ed un mezzo sorriso più insignificante ancora, seguitava a lavorare
d'uncinetto attentamente, lasciando al marito la cura di rispondere. Questi disse:
- Volentieri, se ciò fa piacere ad Elena.
Ma appena il barone fu partito, Elena gli buttò le braccia al collo.
- Hai fatto bene a dir di sì. Ne morivo di voglia!
Nella sera, alla Rosamarina si parlava ancora del Barone, ed Elena
disse:
- Peccato che colui sia tanto ricco!
- Io son più ricco di lui! rispose suo marito baciandole le mani.
Intanto il Barone non ha queste!
- No! no davvero! disse Elena con un movimento leggiadro della spalla,
e non le avrebbe mai. Mi piacerebbe esser ricca, ma non con un marito così fatto!
- Oh, tu sapresti ridurlo a modo tuo! rispose storditamente Cesare
sorridendo.
Chi può analizzare le conseguenze lontane delle parole più semplici!
Elena si mise a ridere del pari, mormorando:
- Ah, sì! - Ma rimase un momento soprappensieri.
Il barone venne il giorno dopo sino al principio della strada
carrozzabile col suo phaeton e i suoi quattro cavalli bai. Elena era leggiadrissima nel
suo vestito grigio e nero, sotto l'ombrellino di seta greggia. Due altre signore del
vicinato erano venute, e riempivano il legno di stoffe gaie, di ombrellini rossi, di
allegria e di risa. Raramente gli abitanti del villaggio avevano visto siffatto spettacolo
per le strade larghe e deserte del paese, e fu un gridio, una festa generale, lungo i muri
degli orti, le facciate basse delle casette, appena si udì da un capo all'altro del paese il trotto sonoro
dei quattro cavalli. I monelli correvano vociando dietro il cocchio, le comari si
additavano Elena dagli usci, colle rocche, a bocca aperta, tutti quelli che giuocavano a
tresette si affacciarono sulla porta del casino. Il barone arrestò il phaeton dinanzi al
caffè, con un tratto vigoroso del polso che fece piegare sui garretti i cavalli fumanti,
e ordinò dei gelati. Le signore, rosse come i loro ombrellini, vergognose di vedersi il
punto di mira di tutto il paesetto affollato intorno al legno, col naso in aria, per
vederle mettere il cucchiarino nel gelato, chiacchieravano a voce alta, ridevano forte,
con la bocca stretta, e tenevano il mignolo in aria, quasi fossero innanzi allo specchio.
Elena invece discorreva tranquillamente col Barone, tutto occupato di lei, colla frusta
ritta come un cocchiere, sorbiva il suo gelato guardando i curiosi, assisa naturalmente
sull'alto cocchio come su di un trono, coll'ombrellino sulla spalla, rispondeva con un
lieve chinar di capo alla presentazione che le faceva don Peppino dei primarii del paese
venuti dal casino a far circolo intorno al legno, a testa scoperta. Soltanto le narici
delicate di lei si dilatavano di tanto in tanto, e al marito che le domandava se si
divertisse, rispondeva di sì, di sì, chinandosi verso di lui, cogli occhi lucenti - il
suo sorriso non era stato mai così grazioso.
Quando ritornarono indietro, a sera, ella non disse più una parola,
stretta nel suo scialletto. Guardava la vasta pianura che si addormentava, le colline
sfumate in un nembo di vapori azzurrognoli, su cui si spegnevano gli ultimi raggi del sole
dorati nelle nuvole bianche, aspirando avidamente i vigorosi profumi dell'autunno,
assorta, in mezzo al cicaleccio delle sue compagne, nel ronzio misterioso che fanno gli
insetti al cader della sera, nel trillare dei grilli lontani che davano un che di
sconfinato alla campagna. La prima parola che le rivolse il marito la scosse bruscamente
come da un sogno.
Il barone tornò spesso alla Rosamarina, a far visita alla signora
Elena, a bere il rosolio sotto il pergolato, a cacciare la beccaccia nel vallone. A poco a
poco diveniva disinvolto, ed anche Elena, che si abituava alle maniere ed alle mode della
provincia, andava familiarizzandosi con lui. Scopriva che egli era un buon giovane, in
fondo, semplice e bravo all'occorrenza, generoso e servizievole. Fra i signorotti e le
dame del vicinato che formavano la società della Rosamarina egli era il gallo della
Checca, gli uomini gli facevano la corte come una signora, e le donne se lo mangiavano
cogli occhi. Coll'Elena sola egli era ancora timido, chinava il capo ai menomi capricci di
lei, lusingava in tutti i modi la sua vanità, le esprimeva la sua adorazione nel modo che
un seduttore raffinato avrebbe solo stimato opportuno con lei, cercando di vederla il più
che poteva, standole vicino in silenzio, cogli occhi sul lembo della sua veste, seguendola
come un cane. Ella diceva: - È un buon ragazzo! - e si metteva a ridere stringendosi
nelle spalle.
Però non lo evitava più colla stessa indifferenza; alle volte
accettava il suo braccio, andando per la viottola, si faceva accompagnare pei sentieri del
giardino, lo riceveva sotto il pergolato, chiacchierando di tutto, cogliendo insieme i
più bei fiori pel vaso della mensa, facendosi aiutare nello scegliere la lana per un
tappetino che destinava al marito. Spesso, quando organizzavano coi vicini una qualche
scarrozzata nei dintorni, ella aveva il capriccio di guidare i cavalli accanto a don
Peppino, ritta sul seggio, coi piedini posati arditamente sulla panchetta, tenendo una
sigaretta fra le labbra, raggiante, e si voltava di tanto in tanto verso il marito e la
compagnia, esclamando: - Va bene? va bene? - con una voce vibrante senza saperlo di
voluttà, di una gioia fanciullesca.
Il Barone stava tutt'occhi alle teste dei cavalli, faceva sentire la
sua voce; di tanto in tanto posava la mano su quella di lei per dare una trinciata di
morso, era costretto a premere qualche volta col ginocchio le ginocchia di lei strette nel
vestito attillato. Una sera, nella vasta pianura già velata di ombra, mentre il gracidare
delle rane spandeva come una larga malinconia, egli raccolse un fiore campestre che le era
caduto dal petto, e se lo portò alle labbra.
Elena aggrottò le ciglia, e per tutta la sera fu di un umore
orribile. Suo marito non le aveva mai visto quegli occhi sotto quelle sopracciglia
aggrottate e quasi congiunte; né aveva mai sospettato quanta violenza di malumore ci
potesse essere in quel carattere. Ma la moglie, mentre risalivano la viottola, sotto i
rami intrecciati come una volta, stringendosi al petto il braccio di lui, gli disse:
- Io ti voglio un gran bene, sai!
D'allora in poi, né scarrozzate, né gite nei dintorni, né partite
di piacere. Elena lasciò cascare persino l'invito che aveva fatto la baronessa di andare
a passare il San Martino in casa sua. Sembrava in collera con don Peppino che aveva
interrotto bruscamente i suoi piaceri fanciulleschi.
Ella continuava a riceverlo perché non poteva fare altrimenti, per
non dare nell'occhio, ma tutti s'accorgevano del suo mutamento; e il Barone stava davanti
a lei come uno scolaretto, a testa bassa, tanto che finì col diradare le visite. Però
era sempre a ronzare lì intorno, colla cacciatora di velluto e lo schioppo in spalla.
Elena lo vedeva da lontano, fra i cespugli della Rocca, o sui greppi vicini, e seguitava a
chiacchierare col marito, o a lavorare sotto il pergolato, senza alzare il capo. Però le
si leggeva nel sorriso che si arrestava all'angolo della bocca, nella ruga che si
disegnava rapidamente fra le sue sopracciglia, in certo imbarazzo dello sguardo, come una
vaga preoccupazione, una sfumatura d'inquietudine. E, cosa strana, guardava alle volte
Cesare che era sempre vicino a lei delicatamente affettuoso, con una certa timidezza
carezzevole e femminina nelle sue espansioni. Ella sembrava dirgli storditamente:
- Cosa te ne importa? Dimmi che cosa te ne importa?
E la sua voce si animava di una sorda vibrazione. Una sera che c'era
stata più gente, suo marito dovette andare a cercarla sulla terrazza, dove stava
appoggiata alla ringhiera, imbacuccata in uno scialle, assorta nella contemplazione della
Rocca che si levava come un'ombra gigantesca e minacciosa, là di faccia. Ella trasalì
leggermente al sentirselo vicino, e gli piantò in faccia quegli occhi strani. - Ah!
finalmente! disse: - È un'ora che ti aspetto!
Ella sentiva per quel cuore amante e delicato una tenerezza
capricciosa e dispotica. Rivolta verso di lui, colle labbra strette, bianca come un
fantasma, a quel chiarore incerto, lo guardava con degli occhi che corruscavano di tratto
in tratto, quasi per l'irrompere di una scarica elettrica, come non sapesse ella stessa il
sentimento che suo marito le ispirava.
All'improvviso afferrò la fronte di lui colle due mani, e la baciò.
Cesare, nelle maggiori effusioni del suo affetto, subiva un
inesplicabile imbarazzo vicino a lei; sembrava che una parte di quella donna, entrata a
metà in tutta la sua esistenza, che faceva parte di sé, gli fosse rimasta estranea e
sconosciuta. Allorché se la teneva fra le braccia, stretta, e non avrebbe voluto
lasciarla più, sentiva una specie di sgomento, come la prima volta che Elena si era
abbandonata a lui, nella via scura.
- Che hai? ripeteva Elena. Dillo a me!
Allora, egli cercando cosa avesse, trovava la vaga angoscia che
offuscava tutta la sua felicità. Le parlava di sua madre inferma, della sua casa, dalla
quale era bandito. Elena, colle ciglia aggrottate, non rispondeva, passeggiando al buio
pei sentieri del giardino, in mezzo alle lucciole che sprizzavano scintille fra le
tenebre, e di tanto in tanto gli si stringeva contro il braccio, quasi pel trasalire di
una commozione inesplicata.
- Per me! per me! - Ma allora si irrigidiva a un tratto come pel
corruscare di una sorda irritazione. Camminava assorta, fissando le tenebre, ascoltando
vagamente il vento autunnale che gemeva nella gola del vallone, e faceva mormorare il
giardino a guisa di un mare, e Cesare non scorgeva quella ruga sottile e fuggevole che si
disegnava in mezzo alle sopracciglia di lei, né l'inspirazione avida che le faceva bere
l'aria fredda della notte colle narici palpitanti, colle labbra turgide e semiaperte, con
un anelito vigoroso del petto che somigliava molto ad un sospiro. E se egli la
interrogava:
- Nulla! rispondeva con quell'aggrottare di sopracciglia. - Tu non mi
vuoi bene. Non so. Mi pare che dovrebbe essere altrimenti.
Alle volte però, impietosita dall'afflizione che scorgeva nei
lineamenti del marito gli diceva:
- Non mi vuoi bene?... Non mi vuoi bene quanto ne vuoi a tua madre?...
Non ti basto io?...
Gli abbandonava il capo sull'omero, con una brusca risoluzione
accarezzandolo coll'anelito e col suono della voce, cedendo alla tentazione istintiva di
provare su di lui il suo fascino irresistibile, coll'occhio fisso, intento a qualcosa che
capiva e vedeva soltanto lei.
In quel tempo i vicini avevano fatto ritorno ad Altavilla, e il barone
venne a congedarsi. Elena lo vide così stravolto in viso, così imbarazzato, che di tanto
in tanto saettava su di lui alla sfuggita un'occhiata acuta, accompagnata da un sorriso
sardonico che le contraeva l'angolo della bocca. Don Peppino chiacchierava col marito di
caccia, di affari di campagna, di pettegolezzi municipali. Ella si scaldava al sole di
novembre dietro i vetri, agghiacciata dal primo freddo, dondolando il piede, pigliando
pochissima parte alla conversazione e quel poco dedicandolo quasi esclusivamente a suo
marito. Don Peppino aveva chiesto se si fermassero ancora qualche tempo in villa, Elena
aveva risposto:
- Finché mio marito vorrà starci io non mi annoierò di certo.
Il marito dovette andare a prendere una lettera che aveva preparato
per sua madre, e che don Peppino si era offerto di recapitare. Rimasta sola col barone,
Elena riprese vivamente la conversazione, quasi temesse di lasciarla languire. Ma il suo
interlocutore non l'ascoltava più, quantunque tenesse gli occhi fissi su di lei,
facendosi sempre più smorto. Tutt'a un tratto, con voce malferma le chiese:
- Mi avete perdonato?
- Che cosa? rispose Elena tranquillamente. Egli non insistette, fece
per alzarsi, ricadde sulla sedia. Infine le prese la mano, sinceramente commosso.
- Ci lasciamo amici? dite?
- Perché non dovremmo lasciarci amici? esclamò Elena, ritirando
adagio adagio la mano.
- Mi permettete dunque di venire a trovarvi.
Ella si fece seria in viso, e stava per rispondere no. Ma la parola le
parve troppo dura. Sentì per istinto di donna come fosse anche compromettente.
- Noi ci fermeremo appena qualche giorno prima di tornare in città.
Avrò tutta la casa sottosopra. Non so nemmeno se riceverò.
Don Peppino si alzò contegnoso, un po' triste, nel momento in cui
rientrava il marito, prese la lettera, salutò la signora, che gli stese la mano, e
partì.
Il barone s'era incaricato pure di una lettera di Cesare pel notaio,
il quale il giorno dopo era passato dalla Rosamarina, andando al suo podere, ed Elena
aveva visto che si erano messi a discorrere con suo marito sulla porta del palmento,
accanto alla mula che brucava l'erba fra l'acciottolato. Il notaio si stringeva nelle
spalle, guardava il casamento dall'alto al basso, andava a misurare i muri colla sua
bacchettina, dimenava il capo, e l'altro gli andava dietro, mogio, parlando basso, quasi
supplichevole. Infine il notaio si arrampicò di nuovo sulla mula, facendo ohi! e là,
dall'arcione che gli arrivava al petto: - Non val tanto; credete a me che me ne intendo.
Fate venire anche cento periti, se volete. Saranno tutte spese buttate. Questo è un fondo
d'economia, da tirarne frutto coi denti. Vostro padre, buon'anima, c'era affezionato
perché era stato il primo pezzo di terra della famiglia. Ma del resto fate bene a
venderlo, giacché avete dei debiti. Se no, ve lo mangiano!
Egli raccolse le redini, e s'avviava passo passo per la scesa della
viottola, dondolando sulla sella, senza dar retta all'altro che gli andava dietro,
continuando a parlargli sottovoce.
Sì, diceva il notaio, - sì, son tutte chiacchiere. Ma vostro zio non
vuole sentir nulla. Vi ha dato il fondo, e la parte di casa che vi spettava dell'eredità
di vostro padre, tre stanze. Ci ha fatto a sue spese la scala, da una delle finestre.
Così, se volete vendere subito la Rosamarina, avrete dove stare, sin che non tornate in
città.
Elena era stata a sentire tutto dal balcone. Appena suo marito le
comparve dinanzi, disse:
- Vendi la Rosamarina?
Cesare balbettò una risposta evasiva. Ma ella più ferma di lui,
soggiunse:
- Sarà meglio, giacché hai dei debiti, e la Rosamarina non rende
nulla. Ora è finito il tempo della villeggiatura, bisogna avere anche di che istallarci
in città.
- Non osavo dirtelo, perché credevo ti ci fossi affezionata.
Ella rispose colla solita scrollatina di spalle.
- Non importa. Giacché bisogna vendere è meglio farlo subito.
Da quel momento divenne tutt'a un tratto completamente estranea e
indifferente a quella bella natura che l'aveva fatta andare in estasi di ammirazione,
appoggiata al balcone, o sdraiata sull'erba. Gettava via con noncuranza le ultime rose
intristite che suo marito andava a cercarle al riparo degli alti aranci. Sbadigliava nelle
stanze, dietro i vetri ermeticamente chiusi. La campagna, di un verde più cupo nelle
parti boscose, andavasi scolorando nella pianura solcata da lunghe fila d'uccelli neri,
sotto un cielo grigio, macchiato dalle case nerastre del paese. Ella doveva subire
potentemente quel mutamento. Ripeteva: - Quando partiremo?
Suo marito voleva farle osservare che era meglio aspettare l'esito
delle pratiche intavolate dal notaio. Ma Elena rispondeva:
- Qui non c'è più nessuno. Non mi ci posso vedere, ora che dobbiamo
vendere il podere.
- Non avremo dove abitare. L'hai sentito. Appena tre stanze.
- Che importa? Per quel che dobbiamo starci!...
A lui stringeva il cuore di andare ad abitare accanto ai suoi,
coll'uscio murato, di salire e scendere per quella scaletta esterna adattata al balcone,
senza vedere alcuno dei suoi. Gli pareva ora veramente di esser il Figliuol Prodigo,
sentiva la collera fredda e implacabile di quello zio che l'aveva idolatrato alla sua
maniera calma, dietro quei vetri inesorabilmente chiusi.
Elena, appena giunta in paese, era andata a far visita ai Goliano, ai
Brancato, a tutte le amiche della villeggiatura, che l'avevano ricevuta impalate su divani
pompejani, duri come banchi di pietra, in vecchi saloni saccheggiati, mobigliati soltanto
di stemmi giganteschi, dove si sentiva l'odor delle scuderie sottoposte, sciorinando ad
ogni momento la litania delle loro parentele aristocratiche e dei loro possessi, saettando
alla sfuggita sguardi velenosi sulle sue eleganti toelette nuove da sposa, e ad ogni suo
atto da cittadina. Ella, dopo che ebbe fatto passeggiare per tutte le stradicciuole di
Altavilla le sue belle toelette nuove, davanti ai curiosi che si affacciavano agli usci,
cominciò ad annoiarsi nel suo salottino, che aveva messo in ordine alla meglio con
quattro gingilli ed un po' di stoffa, aspettando il ricambio delle visite che non
venivano, mentre suo marito correva dal notaio e dall'agrimensore, leggiucchiando dietro i
vetri, colla prospettiva della piazza deserta e allagata di fango, e del casino di
conversazione, dove i primari del paese correvano a rintanarsi in fretta, sotto
l'ombrello, coi calzoni rimboccati. Ella vedeva sempre don Peppino sulla porta del casino,
il quale guardava anche lui la pioggerella fina che cadeva inesauribile, con una grande
aria di melanconia in tutta la sua persona .
Suo marito tornava a casa tardi dalla Rosamarina, le domandava scusa
se era stato costretto a lasciarla sola tutto quel tempo, le domandava se si fosse
annoiata di soverchio. L'abbracciava sempre colla stessa tenerezza come se fosse la prima
volta; le diceva che con lei era felice, e non pensava ad altro; le accarezzava i capelli
e le baciava l'omero. Ella si lasciava abbracciare distrattamente, collo sguardo
vagabondo, rispondeva che era felice anche lei, ma cominciava a far freddo colà.
Sirritava ad ogni nuova difficoltà che incontrava la vendita, e ritardava la
partenza. Oramai si sentiva scacciata dal paese, insultata da quelli stessi che erano
andati a divertirsi nella sua campagna, ed a bere il suo vino.
Allora, aggrottando le sopracciglia, diceva:
- Alla fin fine, se tu avessi sposata una serva, i tuoi parenti non
avrebbero potuto far peggio!
Un giorno il marito commosso, quasi colle lagrime agli occhi dal
giubilo, la pregò di affacciarsi alla finestra che dava nel cortile, perché sua madre
voleva conoscerla dal finestrino dirimpetto. Elena accondiscese senza esitare, ma egli
lesse tale ironia sottile nella sua premura che credette di dover aggiungere:
- Sai, quella povera donna è fra l'incudine e il martello. Mio zio è
ostinato, ma è il sostegno della famiglia!
E le teneva le mani, fermandola un momento, fissandola cogli occhi
lustri, palpitante. A lei non piacevano quelle debolezze sentimentali. Ritrasse le sue
mani e andò alla finestra.
La suocera aspettava nascosta nel vano dello spiraglio di faccia, col
viso pallido, e dietro alle sue spalle curve si vedevano le faccie timide e curiose delle
figliuole, che volevano conoscere la cognata. Elena fece una graziosa riverenza, come se
l'avessero presentata alla suocera nel salone del municipio, e la madre alzò la mano per
benedirli, lei e il figliuolo, il quale si sentiva piegar le ginocchia e stringere il
cuore, mentre sua moglie salutava leggiadramente.
Ei tenendo la testa di Elena fra le mani, dopo averla baciata in
fronte, mormorò:
- Povera mamma! anch'essa ti vorrebbe bene!
- Io non ci ho colpa, rispose Elena freddamente.
Altre volte ella osservava anche sorridendo che era un'intrusa, nella
famiglia e nel paese, con un sorriso amaro che si fermava e durava nell'angolo della sua
bella bocca. Finalmente chiese a suo marito:
- Perché non vengono a restituirmi la visita i Goliano, e i Brancato?
- Lasciali stare! borbottò suo marito. Son villani superbiosi!
- Anch'io sono superba, disse Elena secco secco.
E non cessava dal ripetere:
- Spicciati a conchiudere questo affare della vendita. Mille lire
dippiù o di meno non fanno nulla. L'importante è tornar presto in città e che tu
ripigli la professione.
Egli rispondeva che era in trattative con Brancato, il vicino, il
quale se odorava la premura di vendere l'avrebbe menato per le lunghe, onde strozzarlo.
- Ah! esclamava Elena. È così? Che bella gente!
In questo mentre ingannava il tempo coi preparativi della partenza,
faceva e disfaceva i bauli, poi tornava a sbadigliare dietro i vetri del balcone, a
guardare la pioggerella fina d'autunno che cadeva sempre. Ogni volta vedeva il barone
piantato sulla porta del casino, si sentiva attratta insensibilmente verso di lui dalla
monotonia di quella vita che li accomunava nella stessa noia; gli era quasi grata,
inconsciamente, della compagnia che egli le teneva da lontano, nelle lunghe ore
malinconiche in cui aspettava sola a casa il risultato degli andirivieni di suo marito, di
occupare, in certo qual modo, la sua attenzione. Gradatamente s'interessava ai suoi gesti,
al suo modo di vestire, all'aria del suo volto, all'uggia che doveva mettergli in corpo
quel tempaccio, ai pensieri che doveva ruminare per occupare la mente; e in fondo a quei
pensieri, vedeva se stessa, la simpatia che le aveva mostrato quell'uomo scappellato da
tutti, in quel paese che a lei faceva fare anticamera, che la trattava da eguale soltanto
in campagna, dove può permettersi delle familiarità anche con dei subalterni. Questa
idea la faceva arrossire di sdegno ogni volta che vedeva passare il signor Goliano, o il
signor Brancato, sotto l'ombrello, coi calzoni rimboccati, e facevano tanto di cappello al
barone, il quale rispondeva soltanto con un cenno amichevole del capo. Allora delle
tentazioni strane le brulicavano nel cervello.
- Ma spicciati! diceva a suo marito. Tu non ne vieni mai a capo.
- Oggi abbiamo un'altra offerta dal Goliano, ma non vuole arrivare ai
settemila
- Tu ti lasci soprastare dai Goliano e dai Brancato. E sei un uomo di
legge!
Il barone, aveva preso gusto a fare la sentinella, e a poco a poco
s'era scaldata la testa. Alla Rosamarina era ancora una ragazzata, il contagio
dell'allegria spensierata e della grazia seduttrice di lei. Ora, dietro i vetri del
balcone, nella tristezza delle giornate piovose, la vista di Elena assumeva un che di
malinconico e d'interessante che non gli si levava più dal pensiero. Egli passava i
giorni sulla porta del casino anche dopo che era tornato il bel tempo; passeggiava la sera
per la piazza dinanzi la casa di lei, quando Cesare non c'era.
Elena cominciava a sentirsi preoccupata di quell'uomo che pensava
continuamente a lei, che era sempre lì intorno, a spiare ogni suo movimento, nascosto
dietro l'angolo di una viuzza, nel vano di una porta, come un innamorato di quindici anni,
e indovinava i momenti crudeli che colui doveva passare ogni volta che suo marito tornando
dalla campagna, nel buio del balcone dov'ella aveva voluto aspettarlo, la baciava sui
capelli e sulle mani. Nelle sere di luna, vedendo quell'ombra nella piazza solitaria e
inondata di luce pallida, le tornavano in mente le canzoni e le aspirazioni indistinte dei
sedici anni, quando alla primavera aveva sentito battere il cuore verso qualche cosa che
non aveva raggiunto mai, e le aveva lasciato una malinconia e un rancore di promessa
delusa. Una di quelle sere che Cesare tardava a tornare più del solito, levando gli occhi
a caso sulle finestre di fianco abitate dallo zio canonico, che le tenevano il broncio,
vide un uomo che non conosceva, nero, nel vano luminoso del balcone, il quale la spiava,
pallido e impassibile.
Allora tutta la sua fierezza si ribellò in un lampo.
Si rizzò in piedi, rossa come se l'avessero schiaffeggiata, senza
pensare a suo marito che doveva arrivare da un momento all'altro, e fece segno a
quell'uomo che passeggiava nella piazza di salire.
Don Peppino entrò, pallido come un cencio, cercando la prima parola.
Ma ella era infuocata in viso, le si leggeva in volto una strana risoluzione, e se aveva
le mani tremanti, la voce era ferma.
- Signore! - gli disse. - Qui, nella casa accanto, c'è un uomo che ci
spia. Avete visto?
Don Peppino voleva balbettare qualche cosa. Ma Elena l'interruppe:
- Ditemi se è lo zio di mio marito.
- Sì, disse il Barone.
- Tanto peggio per lui! esclamò allora Elena bruscamente. Vi ho
chiamato perché avevo bisogno di parlarvi.
Don Peppino fuori di sé dalla sorpresa e dalla gioia stava per
recitare la sua parte. Le diceva colle mani giunte e l'accento sincero e commosso, che
l'amava come un pazzo, l'aveva amata sin da quando l'aveva conosciuta alla Rosamarina e
amava per lei quei luoghi dove l'aveva vista. Che non poteva più vivere senza sapersi
amato da lei, ora che ella gli aveva detto una buona parola, che l'avrebbe seguita a
Napoli, in capo al mondo. Elena a misura che si rimetteva andava facendosi sempre più
pallida. Chinava il capo come per mettersi in difesa, fissava su di lui gli occhi
profondi, diffidenti, quasi corrucciati.
- No! gli disse con voce sorda. Restate dove siete, non mi seguite,
non fate altri scandali. Vi ho chiamato per dirvi che non vi amo, e che voglio amare
soltanto mio marito.
Il barone se ne andò barcollando, e sulla scala s'incontrò col
marito. Questi vedendo Elena così sconvolta, le chiese:
- Che hai?
Ella non rispose, poi, dopo un pezzetto, gli annunziò:
- Il barone è venuto a farmi visita, sai?
Don Peppino, sentendo che la Rosamarina era in vendita, andò dal
notaio e offrì diecimila lire. A sua madre che voleva impedire quella prodigalità
rispose:
- È un capriccio, lo so, lasciatemelo soddisfare. Alla Rosamarina
v'è la caccia più abbondante del territorio. Poi ho impegnata la mia parola.
Goliano e Brancato, come seppero che l'acquisto che avevano maturato
con tante lungaggini sfumava loro di mano, fecero un casa del diavolo, dicendo che il
barone spendeva diecimila lire per comprarsi la grazia del venditore. Il notaio diede
questo consiglio:
- Lasciateli dire, è il dispetto che li fa parlare, quando il
contratto sarà firmato si rosicheranno le mani.
Cesare arrivò a casa con tal viso che Elena domandò subito:
- Cos'è stato?
- Il barone ha offerto diecimila lire della Rosamarina, rispose il
marito.
Elena rimase immobile, rigida e bianca come una statua di marmo,
scrutando profondamente negli occhi del marito coi suoi occhi grigi. Dopo un istante di
silenzio gli chiese con voce lenta:
- E tu?... Tu che ne dici?
- Nulla, rispose egli seccamente.
Poscia le afferrò le mani con impeto, l'avvinghiò fra le braccia con
uno slancio di tenerezza quasi minacciosa.
- Va a firmare il contratto con Brancato, per settemila lire, disse
Elena. - È la miglior risposta. |