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Era di ottobre. Tutte le famiglie di Altavilla erano in villeggiatura
per sorvegliare la vendemmia. Alla Rosamarina l'arrivo degli sposi fu un avvenimento.
Elena colle sue toelette nuove, coi suoi ombrellini vistosi, metteva i gai colori
cittadini nel verde pallido delle vigne, sulle roccie pittoresche, già brulle, in mezzo
alle tinte melanconiche dell'estate che si dileguava. Ella era realmente felice, nel pieno
sviluppo della sua natura esuberante, avida di sensazioni piacevoli, sedotta dallo
spettacolo nuovo della campagna, accarezzata dalla adorazione concentrata e quasi timida
del marito, lusingata dal rispetto semibarbaro con cui i contadini accoglievano la nuova
padrona, da quell'ammirazione attonita che leggeva sui loro volti quando si allineavano
lungo il muro per lasciarla passare ogni volta che la incontravano mentre andava pei suoi
viali, nella sua vigna, nel suo podere, coll'ombrellino sulla spalla, al
braccio di suo marito, il padrone, che le si inginocchiava ai piedi, dietro la
siepe, e le baciava gli stivalini di pelle dorata. All'alba correva nei campi velati dalla
nebbia del mattino, in mezzo alle lodole che si levavano trillando verso il cielo color di
madreperla, ancora spettinata, senza guanti, tenendo a due mani il lembo del vestito,
respirando a pieni polmoni l'aria frizzante e imbalsamata di nepitella e di ramerino.
Godeva in sentire la frescura della rugiada sotto i piedi. Le piaceva sdraiarsi sull'erba
sempre verde, in mezzo al folto delle macchie, nelle ore calde del meriggio, supina, colle
braccia in croce sotto l'occipite, e bersi cogli occhi, colle labbra turgide, colle narici
palpitanti, con tutta la persona avida e abbandonata, l'azzurro intenso del cielo, quei
profumi acuti, quel ronzio e quel crepitio sommesso di tanti organismi, quella quiete
solenne in cui si sentiva l'espandersi di una vita universale, quel canto dei
vendemmiatori che non si vedevano, tutti quei rumori e tutte quelle voci che venivano a
morire sull'alta muraglia brulla della Rocca, senza un'ombra, senza un filo d'erba; arsa
dal sole, in fondo al verde cupo e profondo dei nocciuoli, ritta contro il cielo turchino.
Quel paesaggio per la maggior parte infruttifero era di un pittoresco stupendo, si
svolgeva a destra e a sinistra con bruschi cambiamenti di prospettiva, con ricca varietà
di toni e di colori, coi greppi brulli e giganteschi, le macchie sterminate, i valloni
profondi, a guisa di un parco immenso, con una grandiosità di linee che Elena sola sapeva
apprezzare. Però i villani facevano spallucce al suo entusiasmo per quella Rocca di
granito che non fruttava niente, e di cui ella andava superba come di possedere un feudo.
Invece il loro entusiasmo lo riserbavano per le terre del Barone, piatte, senza una
pennellata di colori ricchi, vere terre da maggese, che nell'estate si screpolavano come
un vulcano estinto. Elena era forse la sola che fosse orgogliosa di possedere quel
paesaggio. Il sentimento della proprietà nasceva e si sviluppava in lei con alcunché
d'artistico e di raffinato. Quando il sole tramontava nella sua vigna, aveva là, e non
altrove, quegli ultimi effetti di luce calda e dorata sulle
foglie ingiallite, sul verde cupo dei roveti che imboscavano il vallone, sulla grigia
montagna di granito tinta di roseo e di violetto pallido. L'ombra si allargava dalla
Rocca, dal folto dei nocciuoli come un velo di tristezza, e il sole invece saliva
lentamente sulla facciata bianca della casina, accendeva i vetri delle finestre, sembrava
far sbocciare in quel punto i fiori campestri in cima alla siepe coronata da un pulviscolo
dorato. In fondo, nella valle, le terre del Barone si stendevano diggià scure, annegate
nella nebbia, solcate dalla lunga fila d'aratri che preparavano il maggese tutto l'anno. E
Cesare, il marito, colla testa sui ginocchi di Elena, le diceva:
- Vorrei essere ricco come il Barone per renderti felice.
Quel paesaggio, quelle nuove sensazioni avevano una grande influenza
sulla natura di Elena, impressionabile e appassionata. In quell'ora di effusione, nel gran
silenzio della sera, nell'isolamento completo della campagna profumata, il marito le si
abbandonava completamente, le apriva intero il suo cuore, coi pudori, colle timidezze,
colle espansioni, colle angoscie e i rimorsi del suo affetto fervente e vergine. Guardando
le stelle che sorgevano al disopra della Rocca, col capo fra i ginocchi di Elena, le
narrava le pene che aveva sofferto pel suo amore, il rimorso che ella gli era costato,
quando aveva visto partire la sua povera madre desolata. Ora anch'egli non aveva altri al
mondo, perciò alle volte sentiva il bisogno di immergere il suo volto nel seno di lei, di
chiudere gli occhi, di non pensare più a nulla.
Con lei dimenticava le inquiete preoccupazioni dell'avvenire e le
molestie pungenti e meschine del presente che lo costringevano a farsi prestar denaro dal
notaio. Ella non sapeva nulla di tutto ciò. Lo credeva felice come lei era felice,
avrebbe voluto correre pei campi insieme a lui, come due fanciulli, abbandonarsi
completamente ai suoi capricci. La sera stavano a prendere il fresco sulla terrazza, di
faccia alla roccia, che tagliava come una gran tenda nera il cielo tutto luccicante di
stelle. Di là si udivano discorrere i vendemmiatori nel palmento, e dall'altra parte
della vallata, nella viottola che correva sulla cornice della Rocca, si udiva il corno che
annunziava l'arrivo degli altri carichi d'uva. Elena, coi gomiti sulla ringhiera, al
fianco del marito, ascoltava distrattamente quell'affaccendarsi di gente a tarda ora, quei
suoni di corno lontani, vagava cogli occhi sull'aspetto indeciso del podere, di cui i
confini sembravano allargarsi indefinitamente nelle tenebre, sino al lumicino lontano che
tremolava in fondo la valle, nel vasto caseggiato del Barone. Si sentiva ricca e felice.
Allora, stranamente commossa, si stringeva contro il marito, in mezzo al discorrere
sommesso di tutta quella gente che viveva per loro, e gli appoggiava la testa sulla
spalla, con un abbandono pieno e riconoscente di tutto il suo essere.
Lui, nel sogno febbrile della sua luna di miele, aveva dei risvegli
bruschi e penosi, dei sussulti inquieti, delle vaghe angoscie. Ogni cantuccio di quella
villetta rustica aveva delle memorie care ed intime, che si ridestavano come un rimorso.
Quand'era solo al balcone, verso l'avemaria, e il paesello di faccia andava abbuiandosi, e
spandeva nel cielo pallido, dall'alto, le note meste delle sue campane, e si accendevano
ad uno ad uno i suoi lumi tranquilli, gli passava dinanzi agli occhi la visione di tanti
ricordi domestici che mai gli erano sembrati tanto affettuosi e impressi al vivo dentro di
sé. Ripensava alle parole di sua madre: «Chissà se ti vedrò mai più?» come una
dolcezza melanconica e lontana. Solo si rasserenava al sentirsi accanto l'Elena che si
appoggiava al suo omero. Né l'accusava di indifferenza, per la sua gaiezza spensierata.
- È una bambina! ella non sa nulla!... - diceva fra di sé colla
generosa indulgenza delle nature vittime della propria bontà, e che cercano nella propria
debolezza la spiegazione e la scusa di ogni fallo altrui.
Un giorno andò ad Altavilla all'ora dei vespri, per incontrare la
mamma in chiesa.
Là, nella penombra della navata, resa più triste dal lumicino che
ammiccava davanti all'altare e dalle lunghe tende violette che chiudevano le arcate, egli
vide la sua vecchiarella curva sull'inginocchiatoio, e che pregava certamente il Signore
anche per lui. La poveretta piangeva e rideva di gioia nel rivedere il figliuolo, e si
stringeva il suo capo sul petto scarno, dinanzi agli occhi della Madonna, che è madre
anche lei. Ella sembrava più grande di Cesare in quel momento. Il tramonto, scintillante
sui vetri come una gloria, riempiva ancora di luce la volta della chiesa alta e sonora.
- Ora, disse la madre, inginocchiati con me. E preghiamo insieme
Iddio. - Signore, dategli la grazia dell'anima! borbottava tenendo per mano Cesare come un
bambino. - Signore, dategli la salute! Signore, dategli la providenza, dategli la pace e
la felicità coi suoi cari, soprattutto con sua moglie.
Chi gliel'avrebbe detto allora, a quella povera madre!...
Ella rimase qualche momento pregando fervidamente dentro di sé, cogli
occhi ardentemente fissi sul Crocifisso. In questo momento si udiva nelle tenebre del
coro, dietro l'altare, il salmodiare funebre dei canonici, nel silenzio della chiesa che
cominciava a esser rotto dallo scalpicciare di qualche fedele. In alto la campana chiamava
alla benedizione. Un chierico accese quattro candele sull'altare maggiore, e un prete
piccolo e grasso, rizzandosi sulla punta dei piedi, aprì il tabernacolo, orò un momento
colla fronte appoggiata all'altare, e poi si voltò verso il pubblico, accompagnato dallo
scampanio festoso, colla sfera raggiante in alto, benedicendo il mondo di là del
finestrone lucente, su cui calava la notte. La vecchierella agitava febbrilmente le labbra
con una tacita preghiera, tenendo stretta la mano del figliuolo quasi per comunicargli la
sua fede. La cantilena malinconica degli astanti si estinse a poco a poco.
- Ora lasciami vedere come stai, - gli disse conducendolo alla luce
incerta del crepuscolo, sulla porta della chiesa. Ella però era abbattuta e gialla come
una cartapecora. - Io son vecchia, ripeteva, e non importa. Ma ti raccomando le tue
sorelle, se venisse a mancare tuo zio, e ti raccomando pure di voler sempre bene a tua
moglie. Ora tu appartieni a lei. Te l'ha data quel Signore istesso che ci ha benedetti or
ora.
La gente sgranava gli occhi vedendo Cesare al fianco di sua madre. Ma
questa gli diceva: - Non ci badare. Tuo zio non dirà nulla se accompagni tua madre sino
alla porta di casa.
Lungo la strada si andava informando di tanti piccoli particolari. Gli
chiedeva se il suo studio di avvocato cominciasse ad avviarsi, se la casa l'avesse ben
fornita a Napoli, se sua moglie fosse buona massaia. Gli dava dei consigli grossolani da
contadina: - Pensaci, figliuol mio! ora che hai il peso della casa addosso. La Rosamarina
non ti basterà a tirare innanzi. Bada a non fare debiti, ché si mangiano la casa.
Settemila lire volano in un lampo. Non far debiti. - Ella andava ripetendo tutte le
massime giudiziose che si dicevano in paese, e andava cercando sgomenta se non avesse
dimenticato qualcosa. Non sapeva che lui aveva cominciato a far debiti sulla Rosamarina. -
Vorrei vedere tua moglie per dirle queste cose.
Intanto erano giunti dinanzi alla casa, e alzando il capo vide il lume
nella camera del cognato. - Se le tue sorelle avessero saputo che venivi, sarebbero al
balcone per vederti. Ma torna domenica, che se posso le condurrò un po' fuori a spasso
per vederti. Le povere ragazze non osano parlarne dinanzi allo zio. Se non fosse per lui
ti farei salire di sopra... Ma sai che abbiamo bisogno di lui. Ora addio!
E infilò la scala, stanca, tenendosi alla ringhiera. Il figlio tornò
indietro, col cuore stretto, avendo sempre dinanzi agli occhi quella mano scarna, che si
appoggiava alla ringhiera, e quel dorso curvo, che ansimava ad ogni scalino. Quante volte,
in mezzo alle spensierate prodigalità del presente ricco di sensazioni e di divertimenti,
gli si sarà abbuiata la gioia rammentando le inquiete raccomandazioni della mamma e i
suoi consigli di parsimonia? Finita la vendemmia, i vicini di campagna, i quali non
sapevano come ingannare il tempo, mentre aspettavano la raccolta delle olive, vennero a
fare visita agli sposi: la signora Goliano, la signora Brancato, le ragazze Favrini,
infagottate in abiti da festa, rialzando sino al ginocchio le sottane per non insudiciarle
sull'erba umida: i mariti nascondendo nei guanti nuovi le loro mani nere dal sole, vere
mani da contadini. Si faceva della musica, si ballava, si improvvisavano delle merende
nell'erba, delle sciarade in azione, prendendosi in giro per le mani a significare O,
e camuffati colle coperte del letto, e cogli scialli avvolti in turbante quando il tutto
era Serraglio. Elena, elegante, piena di brio, aveva messo in rivoluzione il
vicinato. Le signore, tappate in casa, lavoravano d'ago e di forbice tutto il giorno per
copiare le sue vesti attillate, i suoi guanti lunghi, i suoi cappellini arditi, si
cucivano delle sottane, si mettevano in testa tutti i fiori del giardino. Ella era tanto
felice che non si accorgeva dei momenti di preoccupazione, delle ansietà crudeli che
passavano di tanto in tanto sul volto del marito, allorché andava a rincantucciarsi nello
studiolo per scrivere al notaio, delle lunghe confabulazioni col messo che portava la
risposta. Tutt'al più gli domandava:
- Di che scrivi?
- D'affari, rispondeva lui.
- Ah! E si stringeva nelle spalle con un atto d'ingenuo egoismo, quasi
il suo solo e grande affare fosse di godersi quella vita facile e allegra, senza badare
alle pene segrete che arrecava a Cesare tutto quel movimento, quell'allegria rubata alla
sua luna di miele, quel desiderio di piacere che ispirava sua moglie, che egli indovinava
colla sua penetrazione delicata e quasi malaticcia, che sentiva ronzare là intorno, per
quei burroni, fra quelle macchie, dove i vicini stavano tutto il giorno col pretesto di
cacciare. Però sarebbe morto di vergogna prima di confessarle la sua strana gelosia.
Anzi, allorché udiva l'abbaiare dei cani nella Rocca, o lo sparo dei fucili, la chiamava,
le indicava la leggera fumata che si dileguava lentamente da un folto di macchie
arrampicate sulla fenditura della montagna ad un'altezza vertiginosa, e le diceva: - Là,
vedi, là! dev'essere il tale, o il tal altro.
- Ah! esclamava Elena, mettendosi una mano sugli occhi, lassù?... su
quel precipizio?
E restava intenta, coi pugni stretti. Alle volte chiedeva:
- Perché non sei cacciatore anche tu?
Ella aveva di cotesti istinti, quella giovinetta. Lui non trovava
altro che un sorriso dolce e triste. Delle altre volte ella esclamava:
- Se fossi un uomo, vorrei andare a caccia anch'io!... Dev'essere una
bella cosa!... una cosa in cui ci si sente vivere!
I vicini avevano progettato una cavalcata sugli asini che per Elena fu
un vero avvenimento. Era una bella sera fresca e profumata. Ogni siepe, ogni macchia di
capperi, ogni sterpolino di rovo era in festa, coi suoi fiori, colle sue bacche, coi suoi
ciuffetti ondeggianti, col ronzio degli insetti, col trillare dei grilli, col cinguettio
dei pettirossi che si annidavano, col gracidar delle rane che saliva dalla pianura, stesa
come un mare, laggiù, sino alle montagne color di cielo. Tutte quelle cose che lasciano
germi misteriosi nella testa o nel cuore. Di tanto in tanto la brezza recava il suono
delle campane dal paesetto in festa, dorato dal sole, scintillante da tutte le sue
finestre. Elena chiamava suo marito che cavalcava un po' avanti, col pretesto di farsi
accorciare la staffa, ma in realtà per vedersi china sul ginocchio la sola testa in cui
potesse supporre in quel momento i medesimi pensieri che si agitavano nella sua, in mezzo
a quegli uomini che cavalcavano come se andassero alla fiera, e quelle donne che
ciarlavano tutte insieme al pari di gazze.
- Tu sei per me! gli disse all'orecchio. Stammi vicino. Non mi lasciar
sola.
La viottola formava un gomito e s'internava in un boschetto lungo il
vallone, di cui i rami si intrecciavano sul sentiero perennemente verde di muschio, irto
di sassi umidi. In fondo l'acqua scorreva con un gorgoglio sommesso, quasi fosse stata a
cento metri di profondità sotto i roveti che coprivano il vallone, su cui si posavano le
cicale al meriggio, colle ali aperte, con un ronzio fresco anch'esso come lo scorrere
delle acque, e le rondini volavano inquiete. Ogni volta che i rami si diradavano vedevasi
sempre a sinistra la Rocca, ritta sino al cielo, nuda, screpolata da larghe fenditure
boscose, sparsa come una lebbra da qualche rara macchia. Si sentiva sempre, a ridosso del
sentiero, anche quando i rami la nascondevano, dall'uggia densa, dall'umidità perpetua,
da un non so che di tetro e di selvaggio che spandeva fin dove stendevasi la sua ombra. Di
tratto in tratto un merlo fuggiva all'improvviso, schiamazzando, facendo scrosciare le
frasche. Erano rimasti soli; si era dileguato perfino il rumore delle cavalcature che
precedevano. Elena allora trasaliva e scoppiava a ridere. E all'orecchio, attirandolo più
vicino a sé: - Se ci assalissero i ladri, mi difenderesti? - Egli si metteva a ridere;
Elena tornava ad insistere, voleva sapere se si sentiva di difenderla. Si corrucciava
quasi che egli non fosse un ercole, e che non fosse pronto a farsi ammazzare per lei.
Infine gli diceva:
- Quanto ti voglio bene! Come mi sento felice!
E sporgendo il viso verso di lui, gli avventava un bacio.
Giunti alla pianura uno della comitiva propose di fare una visita alla
villa del Barone.
A dritta e a manca si stendevano delle praterie immense, solcate dal
maggese, tagliate a vasti quadrati di fave; qua e là giallastre di stoppia a perdita di
vista. Alle falde delle colline si arrampicavano le vigne, in interminabili filati già
diradati dall'autunno, sino agli oliveti, folti, vasti come un mare di nebbia, grigiastri
nell'ora malinconica. Più in alto, sulle cime brulle, si vedevano errare le numerose
mandre, come delle immense ombre di nuvole vaganti in un giorno procelloso sul paesaggio
lontano, e i buoi che scendevano al piano, più radi, di cui si sentiva la campanella
monotona nel gran silenzio del tramonto. Di tanto in tanto, s'incontrava un casolare, un
gruppetto di fabbricati rustici, specie di piccoli centri di cultura, cogli arnesi sparsi
all'intorno sull'aia verde, le alte biche di paglia che sovrastavano il tetto colla
crocetta di canna. In fondo, in mezzo a un quadrato di verdura cinto da un muro bianco si
vedeva un gran casamento col tetto rosso, i vetri delle finestre lucenti, sormontato da un
campanile tozzo.
- Son le case del Barone, dicevano. C'è anche la chiesa. - Quei
possessi, di qua, di là, dappertutto, erano del Barone, sin dove si vedevano
biancheggiare delle mandre che pascolavano nelle sue terre, sin dove si udiva la
campanella della sua chiesa. Narravano pure quel che rendevano quelle vigne, quanto
valessero quegli oliveti, quanti capi di bestiame pascolassero nel suo, quanto misuravano
quelle buone terre in pianura che valevano 200 ducati la salma. Pareva che volessero fare
entrare nella testa di quella cittadina l'importanza enorme della ricchezza. - Alle volte,
quando l'annata è buona, quei casamenti là non gli bastano per rinchiudervi la sua
raccolta. - I giorni in cui vendemmia il Barone non si può avere più un ragazzo o una
vendemmiatrice a 15 miglia in giro. - I suoi fattori facevano il prezzo del bestiame alle
fiere. I denari gli piovevano da ogni parte come la grandine. - Ed è figliuol unico!
Nelle case ricche i figliuoli vengono sempre con parsimonia! Sua madre, la baronessa, per
non lasciarlo affogare nel denaro, ogni anno gli comprava una tenuta, o un oliveto. - È
una donna coi calzoni, dicevano. Se campa lascerà tanta terra al figliuolo, che i suoi
possessi non finiranno più. Non si può maritare, perché è difficile trovare una moglie
ricca come lui.
La viottola, dacché erano entrati nelle terre del barone, diventava
una bella strada carrozzabile, fiancheggiata da una doppia fila di alberi giovani, ancora
circondati da un muricciuolo a secco per difenderli dalle bestie. - Faranno ombra quando
saranno cresciuti, e intanto daranno frutto, e non si mangeranno la terra a tradimento -
aggiungevano. - La baronessa è una donna coi calzoni! Facendo la strada non ha voluto
perder del tutto la terra, e ha fatto la strada perché ci hanno cavalli e carrozze.
Potrebbero sfoggiarla in città, tanto son ricchi!
Sulla strada passavano continuamente carri, e bestie da soma, e
vetturali che salutavano i vicini rispettosamente, da gente di buona famiglia. Di là
dalle siepi, pei campi, scorazzavano stormi interi di tacchini e di polli. In fondo si
vedeva il caseggiato massiccio, grande quanto un villaggio, su cui aleggiava un nugolo di
piccioni. Tutt'intorno all'aia che si stendeva dinanzi al portone spalancato erano delle
carrette colle stanghe in aria, degli aratri staccati, una doppia fila di cestoni
giganteschi di vimini, che aspettavano i buoi, riboccanti di fieno, fissati al suolo con
dei cavicchi di legno e la fune pendente da un lato. A diritta ed a manca si stendevano
delle tettoie immense, delle montagne di fieno grandi come case; sulla porta stavano una
dozzina di contadini, delle donne accoccolate, dei campieri massicci, colla tracolla
sull'uniforme sbottonato e gli sproni agli stivali, a godersi la domenica, senza far
nulla, colle mani in mano, e un branco di cani ronzanti e abbaianti intorno.
Il fattore si alzò per ricevere gli ospiti, e andò ad acquietare i
cani a grida e a sassate. La piccola comitiva entrò in una corte vasta quanto una piazza,
coperta di erba secca come un prato. Alcuni sentieri battuti la segnavano con lunghe
strisce biancastre da un capo all'altro e la facevano sembrare più grande. All'ingiro
erano dei magazzini che non finivano più, con piccole finestre ingraticolate lungo i muri
screpolati, con delle immense cantine di cui l'umidità sotterranea trasudava dalle
muraglie verdastre, delle rimesse spalancate come stallazzi, delle case di contadini nere
e profonde a guisa di antri. Ai due lati, degli abbeveratoi larghi come stagni, che
allagavano quella parte della corte, dove sguazzavano le anitre e sgambettavano i monelli
colle brache tirate sul ginocchio. La notte vi si sentivano le rane. Da un lato era la
scala sconquassata, tremante in ogni balaustro di granito, larga come una scalinata di
cattedrale, che si arrampicava tutta a gobbe sino alla porta dell'abitazione principale
sormontata da un grande scudo, sbocconcellato, incoronato da un cimiero di cui restava una
sola piuma di pietra confitta a un rampone di ferro. Sotto l'arco della scala si
rincantucciava come sotto il pronao di una basilica medioevale, la porta della chiesa
sgangherata, bianca dal tempo, murata da ciottoli e da arnesi gettati lì contro per tener
sgombra la corte, e al di sopra, sullo scudo impennacchiato che si reggeva sui ramponi
arrugginiti, rizzava il capo dimezzato il campanile, colla campanella fessa, colla croce
magra di ferro, sull'immenso azzurro del cielo.
Elena camminava adagio sull'erba secca, in quell'immensa corte deserta
e silenziosa, quasi timida, dietro il servo dagli scarponi da
contadino che andava ad annunziare la visita col berretto in mano, precedendoli in punta
di piedi per la vasta anticamera sonora e scura come una chiesa, dall'ammattonato nudo,
dalle pareti imbiancate a calce, alle quali tutt'ingiro, al disopra di selle vecchie e di
finimenti messi sul cavalletto, di giganteschi cestoni colmi di legumi e di nocciuoli,
erano appesi dei ritratti di famiglia, fatti colla scopa, polverosi, alcuni senza cornice,
ma tutti decorati da un grosso blasone messo in cima, di lato, sotto i piedi, coronato,
zeppo di croci, di torri, di sbarre, di stelle, e di bestie feroci. I ritratti
rappresentavano cavalieri bardati di ferro, gentiluomini di s. m. cattolica, colla testa
adagiata sul collaretto spagnuolo come su di un piatto, creadi del re; gli ultimi, i più
recenti, vestiti dell'abito di spada, o in costume da senatore, la più alta carica
municipale del paese, imbacuccati nella toga che nessuno aveva mai avuto, e che l'artista
disegnava di maniera su di un modello noto; dame stecchite nel busto, e che sembrava
fossero state sempre dipinte, per non aversi a piegare. Tutti sotto il nero fumo, e il
giallo d'ocra, serbavano il cipiglio solenne, l'atteggiamento maestoso di gente che ha
lì, a portata di mano, il berretto ricamato di perle da barone; e persino quei faccioni
moderni di buoni campagnuoli, erano posati pian piano dall'artista sul rettangolo bianco
del collare della toga, onde mostrare che erano teste per quelle corone là. - Son gli
antenati del Barone, - andavano chiacchierando dietro le spalle di Elena - gente venuta di
Spagna col re, ce n'è di 600 anni fa! Hanno avuto sempre voce in capitolo. E la fortuna
poi di non aver mai troppi figliuoli!
Elena ascoltava, intenta, colle sopracciglia aggrottate, passando in
rivista i ritratti, senza dire una parola, mentre gli altri chiacchieravano familiarmente
col domestico della raccolta, degli armenti, dei nuovi acquisti che aveva fatto la
baronessa, interessandosi come se fossero della famiglia anche loro; il servitore stesso
diceva: - Le nostre pecore, le nostre vigne, la tenuta che abbiamo acquistato da ultimo.
La baronessa soleva stare
in una cameraccia tutta bucata da porte e da finestre, nella quale si gelava d'inverno,
ingombra di mobili dorati, di specchi, di scaffali pieni di cartaccie polverose, di
macchine per far nascere i bachi, di sacchetti che contenevano i campioni delle derrate,
col suo vecchio scrittoio in mezzo, e le sue donne in giro, ciarlanti tutte in una volta,
spettinate, male in arnese, alcune delle quali si arrischiavano di venire anche scalze
nelle ore tarde, filavano, facevano la calza, litigavano fra loro, mentre la padrona
rivedeva i conti, dava gli ordini ai fattori, consultava l'avvocato che veniva apposta da
Altavilla, spartiva il lavoro. Ella accolse i nuovi arrivati colla cordialità che si
leggeva sulla faccia dei suoi antenati imbavagliati nel collare della toga; baciò le
donne, fece portare dei rinfreschi che sarebbero bastati per una compagnia, li menò in
giro per la casa, vasta quanto un convento, nel tinello in cui nessuno mangiava più da un
secolo, nel salone che non era stato mai terminato, negli stanzoni abbandonati e ingombri
di mobili vecchi, e che servivano quasi tutti da magazzini.
- Non c'è dove mettere uno spillo - diceva la baronessa. - La casa è tanto piccola! - Gli
uomini ammiccavano cogli occhi, e immergevano le mani nei cestoni riboccanti di ogni ben
di Dio. - Queste son le stanze di mio figlio; - disse poi la baronessa conducendoli in un altro quartierino un
po' meglio arredato del resto della casa, di cui però il solo lusso erano delle armi e
degli arnesi da caccia di gran prezzo, sparsi per ogni dove, in ogni angolo, sui divani,
sui mobili, sullo scrittoio polveroso e dal calamaio vergine.
- È la sua passione, - diceva la baronessa. - Cani e schioppi! non
pensa ad altro. Voglio maritarlo per fargli entrare qualche altra cosa in testa. - Le
signore guardavano contegnose, colle labbra strette, e il fazzoletto ricamato fra le mani
inguantate.
Ella si era presa di una gran simpatia per l'Elena, la conduceva per
mano, la chiamava figliuola mia, le diceva: - Voglio cercargli una moglie bella come voi,
al mio Peppino. Ma non una cittadina, perché con noi non saprebbe adattarsi, in paese, e
da mio figlio voglio separarmi solo quando sarò morta. Che volete, è figlio unico! - Poi
facendogli vedere nella sua camera, a capo del lettuccio piatto, il ritratto di un
giovanotto bruno e tarchiato, un po' al modo di quei signori messi a festa, soggiunse: -
Questo è Peppino!
Elena lo guardò un po' per compiacenza, e rispose qualche parola
insignificante. Peppino era uno come tutti gli altri, coi capelli ricciuti per giunta, e
pettinati apposta per andare a farsi il ritratto, insaccato in un vestito che voleva esser
di città, con certi solini e certa cravatta che Elena aveva visti solamente ad Altavilla.
Poi si rimise a considerare silenziosamente la baronessa
che discorreva con gli uomini di maggese, di rimonda d'olive, di prezzi di derrate, e
interrogava le donne sui lavori che avevano per mano, con la benevolenza di una parente.
Era una donnetta piccola e magra, cogli occhiali sul naso, vestita sempre di scuro dacché
le era morto il marito, con un grembiale di seta verde, ed uno scialletto nero
incrocicchiato sul petto; infine aveva sul mento un po' di barba, e un modo di camminare
dondolandosi, così piccola com'era, quasi fosse stata sempre a cavallo, per giustificare
quel che dicevano di lei che portasse i calzoni - per forza! diceva a chi le raccomandava
di riposarsi oramai alla sua età; - quel ragazzo non ha nessuno altri che badi ai suoi
interessi; se non ci fossi io se lo mangerebbero vivo. Tutti ladri! lo sapete meglio di
me, cari miei!
Al momento di accomiatarsi li accompagnò sino al ballatoio, volle
assolutamente farli scortare da due campieri colle lanterne accese, che si era fatto buio.
- La cittadina avrà paura a quest'ora, per le nostre campagne. Io non avrei paura di
niente; tutti mi conoscono, grazie a Dio. Mi dispiace che non ci sia Peppino. Ma tornate
un'altra volta, quando andrete a spasso da queste parti. Venite a San Martino, sapete,
gusteremo il vino nuovo.
Era sopraggiunta la notte, profonda tutto intorno ai lumi del
casamento, nella campagna silenziosa, scintillante di stelle al di sopra della Rocca che
si stampava in distanza come un nugolone minaccioso. Le cavalcature andavano passo passo,
fiutando il cammino dietro i fanali delle guide che sembravano far
saltellare i ciottoli della viottola. Qua e là un lumicino ammiccava nel tenebrore, e ad
ogni fermata si udiva l'acqua del vallone che scorreva lenta, sotto i macchioni, e il
gracidare lontano delle rane nella pianura. Ad intervalli arrivava l'uggiolare di un cane,
perduto nello spazio, in quello sterminato silenzio che faceva rabbrividire leggermente
l'Elena quasi pel primo freddo dell'autunno inoltrato. Tutto a un tratto si udì lo
scalpitio di un cavallo.
- Questo è il Barone! disse uno dei campieri.
Un cane si mise ad abbaiare sospettoso e feroce in fondo alla
viottola. Poco dopo comparve infatti don Peppino, nell'ombra, sull'alto cavallo pugliese
come un fantasma nero, seguito da due campieri di cui luccicavano le borchie d'ottone, e
le carabine ad armacollo.
Qualcuno diede la voce, e il Barone fermò il cavallo per salutare le
signore.
- Siamo stati alla villa, - gli dissero. - Questa qui è la signora forestiera.
Don Peppino allora smontò da cavallo, per salutare la signora,
tenendo il cappello in mano, colossale al lume dei fanali che lo rischiaravano dal petto
in su; ma timido, come un ragazzo.
Elena aveva inchinato appena il capo. Il barone consegnò le redini ad
uno dei campieri. Egli continuava a discorrere, col piede su d'un sasso, mentre il vecchio
servo inginocchiato gli sfibbiava gli sproni, colla testa bianca a livello degli stivali
del padrone.
- Ora andate alle case, disse infine. Io verrò dopo. Badate di non
fare star fermo il cavallo a questa aria.
Egli volle accompagnare la brigatella sino al principio della
viottola. Poi salutò le signore, si inchinò più profondamente all'Elena, e scomparve
nel buio.
- E pensare che se lo incontrasse qualche briccone, potrebbe cavargli
20 mila ducati di taglia! osservò uno della brigata.
- Don Peppino è bravo come un cane corso, - aggiunse un altro. - E
non si lascerebbe pigliare.
Allora senza saper perché Elena, per tutto il resto del viaggio,
pensò a quel ragazzo che non aveva paura di andare solo al buio, a quell'ora. |