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X Cesare era tornato a casa ad ora insolita, e fu sorpreso di non
trovare sua moglie. - Che so io dov'è! rispondeva la serva. Io non mi immischio dei
padroni. So che è uscita. Egli prese le carte che era venuto a cercare e stava per andarsene
quando entrò l'Elena, livida, colle labbra smorte, e gli occhi luccicanti di febbre sotto
il velo. All'incontrarsi col marito in anticamera diede un passo indietro
bruscamente, al primo momento. Poi cercò di passar oltre, senza guardarlo, senza
parlargli. - Elena! balbettò Cesare stupefatto. - Che c'è? disse lei con voce irritata, fermandosi di botto. Cosa
vuoi? - Dimmi cos'hai? cos'è stato? Non ti senti bene? - No. Non è nulla, sta tranquillo. - Dimmi cos'hai? - Nulla ti dico. Lasciami andare, lasciami, sto benissimo. Cesare non sapeva che fare. La serva ascoltava a bocca aperta dall'uscio della cucina, lo spingeva
fuori sgarbatamente, ripetendogli: - Lasciatela stare, lasciatela stare. So io quel che essa ha. Voi non
ve ne intendete. Voi gli fate più male che bene colla vostra vista. Son cose di donne. Lei sola poteva acchetarla, toccandola colle manaccie unte, poteva
mormorarle di tanto in tanto all'orecchio qualche parola a voce bassa, mentre il marito
dietro l'uscio udiva piangere sua moglie cheta cheta. Sul tardi arrivò donn'Anna e tutta
la famiglia, tanto che la serva chiuse l'uscio perché non empissero la camera. Camilla
poté sgusciare accanto alla sorella, tenendole un braccio al collo, parlandole
nell'orecchio, senza guardarla, e l'Elena accennava di sì, col capo basso, asciugandosi
gli occhi. Roberto si era messo a sedere discretamente accanto a Cesare, don Liborio
andava su e giù pel salotto, col cappello in testa, e donn'Anna ripeteva al genero: - È mal di nervi; so cos'è. Quand'ero incinta di Camilla l'ho avuto
anch'io tal'e quale. Una notte svegliai don Liborio perché aveva voglia di mangiare dei
mattoni pesti. Sciocchezze. Tutt'a un tratto si aprì l'uscio della camera, e comparve Elena,
seguita dalla sorella, molto abbattuta, cogli occhi gonfi, strascinandosi a fatica. - Non
vuol darmi retta, biascicò Camilla. - Dice che ha bisogno di respirare sul balcone. Elena si appoggiò alla ringhiera del terrazzino, guardando il mare,
col mento fra le mani. La sera scendeva calma e serena e si udiva fin là il fischio dei
vapori che partivano. Spirava una brezzolina fresca, ed Elena rispondeva ostinatamente
alla sorella che la supplicava all'orecchio scuotendo il capo risolutamente, e ripeteva
con voce sorda: - No! no! lasciatemi stare! lasciatemi stare! Infine si voltò inasprita, cogli occhi scintillanti di collera, la
voce rauca: - Lasciatemi, vi dico! Lasciatemi sola! Che paura avete?... Perché non mi
lasciate sola?... Ma, scorgendo suo marito non disse più nulla, e si appoggiò un'altra
volta alla ringhiera col mento sulle palme. Due colonne di fumo nerastro si svolgevano
attraverso gli alberi fitti del porto che frastagliavano di linee nere e sottili l'opale
del tramonto. Poi cominciarono a scorrere lentamente lungo il muraglione del molo, e
girarono la punta del faro, sbuffando più densi, accompagnati da un fischio prolungato e
lontano. Due grandi piroscafi uscirono insieme fuori del molo, e s'avanzarono nel mare che
imbruniva, come una sola gran massa nera bucata di punti luminosi lungo il bordo, con un
rumore sordo di ale possenti che battevano l'onde. Poi gradatamente si separarono, l'uno
parve rimpicciolire virando di bordo, dileguandosi verso il capo Campanella, e l'altro
seguitò ad avanzarsi a diritta, gettandovi il riflesso ancora incerto del suo fanale
rosso. Elena, com'era sopravvenuta la sera, domandò a Roberto che l'era
vicino, dietro alla Camilla: - Qual'è dei due che parte per Genova? La sua voce era talmente mutata che Roberto non si raccapezzò subito.
Cesare rispose per lui: - Questo qui, a destra. Elena trasalì all'udir la voce del marito, e tirò dentro pel braccio
la Camilla, collo sguardo smarrito, stringendola così forte che anche la sorella
spalancava gli occhi dal dolore. Andò a sedersi nella sua camera, al buio, e non volle
vedere più alcuno. - Non è nulla! ripeteva donn'Anna chiudendo il balcone. Non vi
spaventate. Quand'ero nello stato in cui è lei adesso, facevo anche peggio. Nei giorni seguenti Elena andò calmandosi a poco a poco. Il medico
confermò il giudizio di donn'Anna, raccomandò il riposo, una vita calma, delle
distrazioni quanto si poteva, ed un moto regolare. Elena ebbe una gestazione
travagliatissima. Il caldo eccessivo della stagione aveva contribuito ad abbattere le sue
forze. In poco più di un mese ella era divenuta irriconoscibile, colle guance scarne, gli
occhi stanchi e profondamente solcati, qualcosa di cascante in tutta la sua persona. Ella
si alzava tardi, passava delle giornate intiere sdraiata sul canapè, senza aprir bocca.
Non si occupava più di nulla, non s'interessava a nulla. S'annoiava di tutto, s'irritava
alla più lieve contrarietà. Diceva che oramai si era fatta vecchia. Non si guardava più
nello specchio, si lasciava pettinare come volevano, indossava la sera una specie di
accappatoio lungo, si buttava uno scialle indosso, e andava a fare una passeggiata a lenti
passi, appoggiandosi svogliatamente al braccio del marito, spesso senza dire venti parole
in tutta la sera, senza fare attenzione alle amorevoli sollecitudini di lui, il quale
sentiva il cuore stretto da quella vaga indifferenza che li separava a poco a poco, che si
insinuava in mezzo a loro due allorché stavano a sedere al buio, su qualche banco remoto
della Villa, senza aver più nulla da dirsi, interessandosi piuttosto alla gente che
passava, correndo l'uno lontano dall'altro col pensiero, uniti soltanto dalle
preoccupazioni comuni e dalle piccole noie. Quando andavano dalla mamma, Elena si metteva
al balcone l'intera sera, guardando nella strada, facendosi vento col ventaglio, mentre
Camilla agucchiava e Roberto stava a vedere. Poi come don Liborio andava a rimontare la
pendola, tornavano a casa, passo passo, a braccetto, in silenzio, per quelle stesse strade
che avevano fatto col cuore in tumulto nel trovarsi insieme la prima volta. E i conoscenti
che li incontravano a caso non ravvisavano più in quella matrona larga e lenta l'Elena di
un tempo, modellata leggiadramente dal vestito, ancora un po' rigida, ma diggià
serpentina ed elegante, coi grandi occhi curiosi sotto il cappellino modesto. Ella non era perversa no! si credeva sinceramente disgraziata, faceva
il possibile per riannodare il passato, sorrideva dolcemente allorché suo marito le
prendeva le mani come una volta, senza osare di parlare. Egli la guardava sempre in quegli
occhi stanchi con una gran tenerezza, e la baciava a lungo, a lungo, quasi avesse voluto
dirle cose che non sapeva spiegare egli stesso in quel bacio. Tanto che alle volte Elena,
staccandosi da lui, gli fissava in volto uno sguardo strano, come sorpreso gradevolmente
di quell'amore che durava sempre, e domandava: - Davvero? mi ami ancora lo stesso? sempre come prima? Oh! se ella l'avesse incoraggiato!... Se ella non gli avesse
agghiacciato le parole in cuore con quella fredda incredulità!... È che egli non osava,
al vedere quello sguardo strano, al contatto di tutta quell'aria di indifferenza che ella
non dissimulava neppure. Egli l'amava come prima, più di prima, perché ella era la parte
migliore di se stesso, la sua gioia, il pensiero di tutti i giorni, lo scopo del suo
lavoro, la dolcezza della sua casa, l'essere intimo e caro in cui si incarnavano tutte le
sue speranze, le sue gioie, i suoi sogni, per cui aveva sofferto, e nel cui sorriso era la
sua felicità. Allora si abbandonava all'espansione dei suoi sentimenti, tornava ad
accarezzarla colle parole e colle mani tremanti, a stringerla forte, quasi avesse temuto
che le fuggisse, e coprirla di baci deliranti sulle mani, sulle labbra, sul collo, sugli
occhi, sui capelli. Dapprincipio si animava anche lei a quella foga d'affetto, dimenticava
ogni altra cosa, dibattendosi sotto quelle carezze, chinando il capo con piccoli gridi
selvaggi; chiudeva gli occhi, sorridendo, coi cappelli allentati; si abbandonava. Poi
tornava in sé, abbuiavasi, aggrottava le ciglia, gli posava le mani sul petto, si
irrigidiva. Gli diceva: - No! no! lasciami, non siamo più ragazzi... Che pazzie!... Ora sono
un'altra... sono un'altra... Pensava alla sua giovinezza miseramente sfiorata? alla sua bellezza
distrutta? ai sogni che si erano dileguati? alla maternità che l'aspettava come un
sacrifizio? E di tutti questi pensieri nasceva e ingigantiva un rancore indistinto, un
umor tetro che scolorava ogni cosa ai suoi occhi. Il marito, colla divinazione penetrante
di chi ama davvero, si sentiva avvolto in quel rancore, in quell'umor nero anch'esso, gli
pareva di essere allontanato e respinto, quasi gli pesasse addosso la responsabilità di
quei sogni di ragazza che s'erano involati. Tutto ciò metteva un gran vuoto in quelle
stanzine ristrette, un freddo che agghiacciava il cuore di lui, e gli faceva cercare il
lavoro come uno svago, come qualcosa in cui c'era ancora il pensiero di Elena senza che si
vedesse il suo pallore, il suo sorriso glaciale, il suo occhio distratto. Il poveretto si
faceva in quattro per procurarle qualche soddisfazione col suo lavoro. Passava le notti a
scrivere per portarle un regaluccio modesto, un cappellino nuovo, un braccialetto, un
ventaglio, aspettando ansioso un sorriso di lei, un gesto, un cenno del capo, una parola.
Colle ossa rotte dalla fatica, dal salire e scendere scale di procuratori e di avvocati,
le offriva di accompagnarla al passeggio, in teatro, magari in società, ora che avevano
fatto pelle nuova, e cominciavano a respirare. Ella non voleva, faceva la vittima
ingenuamente, si creava delle tristezze solitarie da romanzo, provava una voluttà amara a
far l'Arianna, la caduta, la disillusa, strascinando la sua noia da una stanza all'altra,
agucchiando svogliatamente a dei capi di corredo piccini come se dovessero servire per la
bambola, e le sembrava in tal modo di sorvegliare minutamente ogni cosa, tale e quale come
donn'Anna. Costei, di tanto in tanto veniva anche lei a dare una mano, a consigliare su
quel che doveva farsi, a sgridare la serva, la quale allungava il muso a tutte quelle
novità, e strascinava le ciabatte per la casa, brontolando, guardando cogli occhi torvi
ogni pannolino che le davano da stirare, sbattendo la granata contro gli usci nello
spazzare, sfogandosi a picchiare i mobili collo spolveraccio; e si calmava soltanto se
rompeva qualche cosa, restava lì a guardarla e a girarvi attorno, alle sgridate di Elena
rispondeva che non l'aveva fatto apposta, non sapeva far meglio, se non erano contenti se
ne andava - posava lo spolveraccio sulla prima suppellettile che capitava, grattandosi i
gomiti aguzzi: - Tanto per quel che si buscava adesso!... Solo donn'Anna bastava a rintuzzare la petulanza di quella donnaccia,
la quale appena la vedeva arrivare andava a rintanarsi quatta quatta in cucina, colla
granata sotto il braccio. La mamma rimbrottava alla figliuola: - Come puoi tollerare gli sgarbi
di colei? Non vedi che ti ruba sulla spesa? -Rivedeva il conto in presenza della serva, la
quale rispondeva ad ogni osservazione: - Io non so altro che ho speso tanto, sono i prezzi
soliti. C'è anche qui la padrona che può dirlo. - E guardava l'Elena, la quale chinava
il capo. Donn'Anna pretendeva che il genero ci pensasse lui alla spesa, la
mattina, prima di andare all'ufficio, così faceva don Liborio. E Cesare allora per
mettere la pace in famiglia, prometteva che sarebbe andato. La serva tornava in cucina
sogghignando, rivolgendogli delle parolacce dietro le spalle. - Vorrei vedere cosa farai con una disutilaccia di quella fatta ora
che giungerà il marmocchio! Tu non ci reggerai, così delicata come sei. Ti sei vista
allo specchio? Dovete pensare a procurarvi una buona balia, di quelle del contado, che son
sane e lavorano per quattro. Roberto che è nei trovatelli te la cercherà. Elena non sapeva risolversi a congedare la serva; ma dall'altro canto,
l'idea di essere costretta ad allattare lei il bambino, la spaventava. Malgrado il suo
orgoglio, si ridusse a parlarne bonariamente colla donna, quasi a domandarle consiglio, a
metterla a parte del suo imbarazzo. - Non è nulla! Vuol dire che faccio i quindici giorni e poi me ne
vado. Tanto in questa casa passo per ladra. Adesso che il padrone va fuori per la spesa,
appena arriva la balia non avrete più bisogno di me. Già mi toccherebbe fare la serva
alla balia, se il padrone non può tenere altre persone di servizio. E la serva alla balia
non la farei, no! Questo mettetevelo in testa. Invano Elena cercava di essere indulgente verso di lei, di trattarla
meglio che poteva, regalandole dei vestiti smessi, uno scialle quasi nuovo. La serva
compiva i suoi quindici giorni come se nulla fosse stato, era sempre colla granata e collo
spolveraccio in mano, affettava di andare a prendere gli ordini dal padrone ad ogni minima
cosa, giacché il padrone scendeva perfino ad andare al mercato. Quando arrivava il
ragazzo colla spesa cacciava le mani nel paniere, brandiva i pesci o il fascio degli
spaghetti, si informava cosa li avessero pagati, ficcava il naso dentro le branchie dei
merluzzi, o sul grasso della carne, e fingeva di essere stomacata, borbottava: - È roba
di otto giorni, capisco adesso perché costa meno. Valeva la pena di andare un galantuomo
col cilindro e la canna d'india per risparmiare cinque soldi su della roba che non vuol
nessuno! - Se le vivande erano bruciate, o malcotte, rispondeva: - La spesa non la faccio
io. Questa è la roba che ha comprato il padrone. - E alle volte poi rifiutava la parte
che le toccava, mettendo il piatto sotto la tavola perché se ne accorgessero; fingeva che
lo stomaco le si rivoltasse, e si metteva a parlare col gatto. - Non credere che sia
incinta anch'io... Se facessi come tante altre sarei rimasta a balia nella casa! - E
quando non c'era Elena soggiungeva: -Ragazze o maritate, so io quello che fanno. E le
padrone anche! Se dicessi tutto quello che ho visto in questo mondo! Molte di quelle
signore che portano la veste di seta non son degne di leccarmi queste ciabatte qui! - E si
toccava le ciabatte e le baciava, sotto il naso del padrone, per far intendere che quelle
almeno erano onorate. L'aveva specialmente col padrone, buono soltanto per andare a fare le
provviste, che non poteva mantenere alla moglie la balia senza toglierle la cameriera.
Quando uno è disperato come lui non si marita, o deve lasciar mantenere la moglie dagli
altri, e non fare il superbo. Ella andava a domandargli se bisognava lasciare il fuoco
acceso per l'acqua calda o se dovesse mondare l'insalata pel giorno appresso, giusto
allorché lo vedeva più occupato. Si metteva a scopare nel corridoio, si accaniva contro
l'uscio dello studiolo, non la finiva di strofinare ogni spigolo col grembiule sudicio,
cercava ogni mezzo di tormentare il pover'uomo, gli metteva sottosopra le carte e i libri
col pretesto di spolverare, gli rovesciava il calamaio sulla scrivania, tutto coll'aria
calma di fare il suo dovere, gongolando dentro di sé al vedere che lui stava per perdere
la pazienza, e si agitava nervosamente sulla seggiola, lo stuzzicava col suo cicaleccio da
zanzara: - Ella non ne aveva colpa se sceglieva giusto quel momento. Non poteva farsi in
quattro per badare al tempo stesso in cucina e nella casa. A lei toccava di fare da cuoco
e da stalliere. La padrona faceva il diavolo per un granello di polvere, come se tenesse
quattro persone di servizio. Adesso che non esciva più, e non aveva più da fare fuori di
casa, andava a cercare i granelli di polvere. Il padrone aveva un bel supplicare che lo lasciasse tranquillo, che
andasse dalla padrona, per sentire se bisognava mondare la lattuga o lasciare acceso il
fuoco. L'indomani lei tornava da capo, diceva che non poteva andare da Erode a Pilato, si
ostinava a fargli contare le fette di carne prima di andarle a friggere, lo strutto che
era avanzato dalla padella, il prezzemolo che era andata a comprare, perché non la
tenessero in conto di ladra, all'onor suo ella ci teneva più di qualchedun'altra;
rovesciava le saccocce e contava gli spiccioli sullo scrittoio del padrone - Povera. ma
onorata! |
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