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LE VITE DE' PIÚ ECCELLENTI ARCHITETTI, PITTORI, ET SCULTORI ITALIANI, DA CIMABUE INSINO A' TEMPI NOSTRI
Nell'edizione per i tipi di Lorenzo
Torrentino - Firenze 1550

di Giorgio Vasari

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PROEMIO DELLE VITE

 

Io non dubito punto che non sia quasi di tutti gli scrittori commune e certissima opinione che la scultura insieme con la pittura fussero naturalmente da i populi dello Egitto primieramente trovate, e ch'alcun'altri non siano che attribuischino a' Caldei le prime bozze de' marmi et i primi rilievi delle statue, come danno anco a' Greci la invenzione del pennello e del colorire. Ma io dirò bene che l'essere dell'una e dell'altra arte et il disegno, che è il fondamento di quelle, anzi l'istessa anima che concepe e nutrisce in se medesima tutti i parti degli intelletti, fusse perfettissimo in su l'origine di tutte l'altre cose, quando l'altissimo Dio, fatto il gran corpo del mondo et ornato il cielo de' suoi chiarissimi lumi, discese con l'intelletto piú giú nella limpidezza dell'aere e nella solidità della terra e, formando l'uomo, scoperse con la vaga invenzione delle cose la prima forma della scoltura e della pittura; dal quale uomo a mano a mano poi (ché non si de' dire il contrario) come da vero esemplare fur cavate le statue e le scolture e la difficultà dell'attitudini e de i contorni, e per le prime pitture (qual che elle si fussero) la morbidezza, l'unione e la discordante concordia che fanno i lumi con l'ombre. Cosí dunque il primo modello, onde uscí la prima imagine dell'uomo, fu una massa di terra, e non senza cagione; percioché il divino architetto del tempo e della natura, come perfettissimo, volse mostrare nella imperfezzione della materia la via del levare e dell'aggiugnere nel medesimo modo che sogliono fare i buoni scul|tori e pittori, i quali ne' lor modelli aggiungendo e levando, riducono le imperfette bozze a quel fine e perfezzione ch'e' vogliono. Diedegli colore vivacissimo di carne, dove s'è tratto nelle pitture poi da le miniere della terra gli istessi colori, per contraffare tutte le cose che accaggiono nelle pitture. Bene è vero che e' non si può affermare per certo quello che ad imitazione di cosí bella opera si facessino gli uomini avanti al diluvio in queste arti, avvegna che verisimilmente paia da credere che essi ancora e scolpissero e dipignessero d'ogni maniera; poi che Belo, figliuolo del superbo Nebrot, circa cc anni dopo la inondazione generale fece fare la statua donde nacque poi la idolatria; e la famosissima nuora sua Semiramis, Regina di Babillonia, nella edificazione di quella città pose tra gli ornamenti di quella, non solamente variate e diverse spezie di animali ritratti e coloriti di naturale, ma e la imagine di se stessa e di Nino suo marito, e le statue ancora di bronzo del suocero e della suocera e della antisuocera sua, come racconta Diodoro, chiamandole co' nomi de' Greci, che ancora non erano, Giove, Giunone et Ope. Da le quali statue appresero per avventura i Caldei a fare le imagini de' loro dii; poi che 150 anni dopo, Rachel nel fuggire di Mesopotamia insieme con Jacob suo marito, furò gli idoli di Laban suo padre, come apertamente racconta il Genesi.

Né furono però soli i Caldei a fare sculture e pitture, ma le fecero ancora gli Egizzii, esercitandosi in queste arti con tanto studio, quanto mostra il sepolcro maraviglioso dello antichissimo Re Simandio, largamente descritto da Diodoro, e quanto arguisce il severo comandamento fatto da Mosè nello uscire de lo Egitto, cioè che sotto pena della morte non si facessero a Dio imagini alcune. Costui nello scendere di su 'l monte, avendo trovato fabricato il vitello dello oro et adorato solennemente dalle sue genti, turbatosi gravemente di vedere concessi i divini onori alla ima|gine d'una bestia, non solamente lo ruppe e redusse in polvere, ma per punizione di cotanto errore, fece uccidere da' Leviti molte migliaia degli scelerati figliuoli di Israel, che avevano commessa quella idolatria. Ma perché non il lavorare le statue, ma lo adorarle era peccato sceleratissimo, e si legge nello Esodo che l'arte del disegno e delle statue, non solamente di marmo, ma di tutte le sorte di metallo, fu donata per bocca di Dio a Beseleel della tribú di Iuda e ad Oliab della tribú di Dan, che furono que' che fecero i due cherubini d'oro et il candelliere e 'l velo e le fimbrie delle veste sacerdotali e tante altre bellissime cose di getto nel tabernacolo, non per altro che per indurvi le genti a contemplarle et adorarle.

Da le cose dunque vedute inanzi al diluvio, la superbia degli uomini trovò il modo di fare le statue di coloro che al mondo volsero che restassero per fama immortali. Et i Greci, che diversamente ragionano di questa origine, dicono che gli Etiopi trovarono le prime statue, secondo Diodoro, e gli Egizzii le presono da loro, e da questi i Greci, poiché insino a' tempi di Omero si vede essere stato perfetta la scultura e la pittura, come fa fede lo scudo d'Acchille da quel divino poeta con tutta l'arte piú tosto sculpito e dipinto che scritto. Lattanzio Firmiano favoleggiando le concede a Prometeo, il quale a similitudine del grande Dio formò l'immagine umana di loto; e da lui l'arte delle statue afferma essere venuta. Ma, secondo che scrive Plinio, questa arte venne in Egitto da Gige lidio, il quale, essendo al fuoco e l'ombra di se medesimo riguardando, subito con un carbone in mano contornò se stesso nel muro; e da quella età per un tempo le sole linee si costumò mettere in opera senza corpi di colore, sí come afferma il medesimo Plinio; la qual cosa da Filocle egizzio con piú fatica e similmente da Cleante et Ardice corinzio e da Telefane sicionio fo ritrovata. Cleofante corinzio fu il primo appresso de' Greci che colorí, et Apolodoro il | primo che ritrovasse il pennello. Seguí Polignoto tasio, Zeusi e Timagora calcidese, Pithio et Aglaufo tutti celebratissimi, e dopo questi il famosissimo Apelle, da Alessandro Magno tanto per quella virtú stimato et onorato, ingegnosissimo investigatore della calumnia e del favore; come ci dimostra Luciano, e come sempre fur quasi tutti e' pittori e gli scultori eccellenti, dotati dal cielo il piú delle volte, non solo dell'ornamento della poesia, come si legge di Pacuvio, ma della filosofia ancora, come si vide in Metrodoro, perito tanto in filosofia quanto in pittura, mandato da gli Ateniesi a Paulo Emilio per ornar il trionfo, che ne rimase a leggere filosofia a' suoi figliuoli.

Furono adunque grandemente in Grecia esercitate le sculture, nelle quali si trovarono molti artefici eccellenti, e tra gli altri Fidia ateniese, Prasitele e Policleto grandissimi maestri; cosí Lisippo e Pirgotele in intaglio di cavo valsero assai; e Pigmaleone in avorio di rilievo, di cui si favoleggia, che a' preghi suoi impetrò fiato e spirito alla figura della vergine ch'ei fece. La pittura similmente onorarono e con premii gli antichi Greci e Romani; grandi a coloro che la fecero maravigliosa apparire, lo dimostrarono col donare loro città e dignità grandissime.

Fiorí talmente quest'arte in Roma, che Fabio diede nome al suo casato sottoscrivendosi nelle cose da lui sí vagamente dipinte nel tempio della Salute, e chiamandosi Fabio Pittore. Fu proibito per decreto publico che le persone serve tal arte non facessero per le città, e tanto onore fecero le gente del continuo all'arte et agli artefici, che l'opere rare nelle spoglie de' trionfi, come cose miracolose, a Roma si mandavono, e gli artefici egregi erono fatti di servi liberi e riconosciuti con onorati premii dalle republiche. Gli stessi Romani tanta reverenzia a tale arti portarono, che oltre il rispetto che nel guastare la città di Siragusa volle Marcello che s'avesse a uno artefice famoso di queste, nel volere pigliare la città pre|detta ebbero riguardo di non mettere il fuoco a quella parte dove era una bellissima tavola dipinta, la quale fu di poi portata a Roma nel trionfo con molta pompa. Dove in spazio di tempo, avendo quasi spogliato il mondo, ridussero gli artefici stessi e le egregie opere loro, delle quali Roma poi si fece sí bella, che invero le diedero grande ornamento le statue pellegrine piú che le domestiche e particulari, che si sa che in Rodi, città d'isola non molto grande, furono piú di tre mila statue <a>no<ve>rate fra di bronzo e di marmo. Né manco ne ebbero gli Ateniesi, ma molto piú que' di Olimpia e di Delfo e senza alcun numero que' di Corinto, e furono tutte bellissime e di grandissimo prezzo. Non si sa egli che Nicomede Re di Licia, per l'ingordigia di una Venere, che era di mano di Prasitele, vi consumò quasi tutte le ricchezze de' popoli? Non fece il medesimo Attalo, che per avere la tavola di Bacco dipinta da Aristide, non si curò di spendervi dentro piú di sei mila sesterzii? La qual tavola da Lucio Mummio fu posta, per ornarne pur Roma, nel tempio di Cerere con grandissima pompa.

Ma con tutto che la nobiltà di questa arte fusse cosí in pregio, e' non si sa però ancora per certo chi le desse il primo principio. Perché, come già si è di sopra ragionato, ella si vede antichissima ne' Caldei, certi la danno alli Etiopi et i Greci a se medesimi l'attribuiscono, e puossi non senza ragione pensare che ella sia forse piú antica appresso a' Toscani, come testifica el nostro Lion Batista Alberti, e ne rende assai buona chiarezza la maravigliosa sepoltura di Porsena a Chiusi, dove non è molto tempo che si è trovato sotto terra, fra le mura del Laberinto, alcune tegole di terra cotta, dentrovi figure di mezzo rilievo, tanto eccellenti e di sí bella maniera che facilmente si può conoscere l'arte non esser cominciata appunto in quel tempo, anzi per la perfezzione di que' lavori, esser molto piú vicina al colmo che al principio. Come ancora ne può far medesimamente | fede il veder tutto il giorno molti pezzi di que' vasi rossi e neri aretini fatti, come si giudica per la maniera, intorno a que' tempi, con leggiadrissimi intagli e figurine et istorie di basso rilievo, e molte mascherine tonde sottilmente lavorate da maestri di quella età, come per l'effetto si mostra, pratichissimi e valentissimi in tale arte. Vedesi ancora per le statue trovate a Viterbo nel principio del pontificato d'Alessandro VI, la scultura essere stata in pregio e non picciola perfezzione in Toscana; e come che e' non si sappia appunto il tempo che elle furon fatte, pure, e dalla maniera delle figure e dal modo delle sepulture e delle fabriche, non meno che dalle inscrizzioni di quelle lettere toscane, si può verisimilmente conietturare che le sono antichissime e fatte ne' tempi che le cose di qua erano in buono e grande stato. Ma perché le antichità delle cose nostre come de' Greci e delli Etiopi e de' Caldei sono parimente dubbie, e per il piú bisogna fondare il giudizio di tali cose in su le conietture, che ancor non sieno talmente deboli che in tutto si scostino dal segno, non però sono certe certe, io credo non mi esser punto partito da 'l vero, e penso che ognuno che questa parte vorrà discretamente considerare, giudicherà come io, quando di sopra io dissi, il principio di queste arti essere stata la istessa natura e l'innanzi, o modello, la bellissima fabrica del mondo et il maestro quel divino lume, infuso per grazia singulare in noi, il quale non solo ci ha fatti superiori alli altri animali, ma simili (se è lecito dire) a Dio. E se ne' tempi nostri e' si è veduto (come io credo per molti esempli poco inanzi poter mostrare) che i semplici fanciulli e rozzamente allevati ne' boschi, in sullo esempio solo di queste belle pitture e sculture della natura, con la vivacità del loro ingegno da per se stessi hanno cominciato a disegnare, quanto piú si può e debbe verisimilmente pensare, que' primi uomini, e' quali quanto manco erano lontani dal suo principio e divina | generazione, tanto erono piú perfetti e di migliore ingegno, essi da per loro, avendo per guida la natura, per maestro l'intelletto purgatissimo, per esempio sí vago modello del mondo, aver dato origine a queste nobilissime arti, e da picciol principio a poco a poco migliorandole, condottole finalmente a perfezzione? Non voglio già negare che e' non sia stato un primo che cominciasse, ché io so molto bene che e' bisognò che qualche volta e da qualcuno venissi il principio; né anche negherò esser stato possibile che l'uno aiutassi l'altro et insegnassi et aprissi la via al disegno, al colore et al rilievo, perché io so che l'arte nostra è tutta imitazione della natura principalmente e poi, per chi da sé non può salir tanto alto, delle cose che da quelli che miglior maestri di sé giudica sono condotte. Ma dico bene che il volere determinatamente affermare chi costui o costoro fussero, è cosa molto pericolosa a giudicare e forse poco necessaria a sapere, poiché veggiamo la vera radice et origine donde ella nasce. Perché, poi che delle opere che sono la vita e la fama delli artefici, le prime e di mano in mano le seconde e le terze, per il tempo che consuma ogni cosa venner manco, e non essendo allora chi scrivesse, non potettono essere almanco per quella via conosciute da' posteri, vennero ancora a essere incogniti gli artefici di quelle; ma da che gli scrittori cominciorono a far memoria delle cose state inanzi a loro, non potettono già parlare di quelli de' quali non avevano potuto aver notizia, i·mmodo che primi appo loro vengono a esser quelli, de' quali era stata ultima a perdersi la memoria. Sí come il primo de' poeti per consenso comune si dice esser Omero, non perché inanzi a lui non ne fussi qualcuno, che ne furono, se bene non tanto eccellenti e nelle cose sue istesse si vede chiaro, ma perché di que' primi, tal quali essi furono, era persa già dumila anni fa ogni cognizione. Però, lasciando questa parte indietro, troppo per l'antichità sua incerta, vegnamo alle cose piú chiare della | loro perfezzione e rovina e restaurazione e per dir meglio rinascita, delle quali con molti miglior fondamenti potreno ragionare.

Dico adunque che egli è ben vero, che elle cominciorno in Roma tardi, se le prime figure furono però, come si dice, il simulacro di Cerere fatto di metallo, de' beni di Spurio Cassio, il quale, perché macchinava di farsi re, fu morto dal proprio padre senza respetto alcuno, e continovarono l'arti della scultura e della pittura sino a la consumazione de' xii Cesari. Ma la fortuna quando ella ha condotto altri a 'l sommo della ruota, o per ischerzo o per pentimento il piú delle volte lo torna in fondo. Per il che, sollevatesi in diversi luoghi del mondo quasi tutte le nazioni barbare contra i Romani, ne seguí fra non molto tempo non solamente lo abbassamento di cosí mirabile imperio, ma la rovina del tutto e massimamente di Roma stessa, con la quale rovinarono parimente gli eccellentissimi artefici, scultori, pittori et architetti, lasciando l'arti e loro medesimi sotterrate e sommerse fra le miserabili stragi e rovine di quella famosissima città. Ma prima andarono in mala parte la pittura e la scoltura come arti che piú per diletto che per altro servivano, benché l'altra, ciò è l'architettura, come necessaria et utile alla salute del corpo, di continuo ma non troppo bene si essercitasse. E se non fusse stato che le sculture e le pitture rappresentavano inanzi a gli occhi di chi nasceva di mano in mano coloro ch'erano onorati per darsi loro perpetua vita, se ne sarebbe tosto spento la memoria dell'une e dell'altre. Là dove la conservarono per le imagine e per le inscrizzioni poste nell'architetture private, nelle publiche, ciò è negli anfiteatri, ne' teatri, nelle terme, negli acquedotti, ne' tempii, negli obelisci, ne' colloss<e>i, nelle piramidi, negli archi, nelle conserve e negli erarii, e finalmente nelle sepulture medesime; delle quali furono distrutte una gran parte da gente barbara et efferata, che altro non avevano d'uomo che l'effigie e 'l | nome. Questi fra gli altri furono i Visigoti, i quali avendo creato Alarico loro Re, assalirono l'Italia e Roma, e la saccheggiorno due volte senza rispetto di cosa alcuna. Il medesimo fecero i Vandali venuti d'Affrica con Genserico loro Re; il quale, non contento a la roba e prede e crudeltà che vi fece, ne menò in servitú le persone con loro grandissima miseria, e con esse Eudossia, moglie stata di Valentiniano Imperatore, stato amazzato poco avanti da i suoi soldati medesimi. I quali, degenerati in grandissima parte da 'l valore antico romano, per esserne andati gran tempo innanzi tutti i migliori in Bisanzio con Gostantino Imperatore, non avevano piú costumi, né modi buoni nel vivere. Anzi, avendo perduto in un tempo medesimo i veri uomini et ogni sorte di virtú, e mutato leggi, abito, nomi e lingue, tutte queste cose insieme, e ciascuna per sé, avevano ogni bello animo et alto ingegno fatto bruttissimo e bassissimo diventare. Ma quello che sopra tutte le cose dette fu di perdita e danno infinitamente a le predette professioni, fu il fervente zelo della nuova religione cristiana; la quale, dopo lungo e sanguinoso combattimento, avendo finalmente con la copia de' miracoli e con la sincerità delle operazioni, abbattuta et annullata la vecchia fede de' Gentili, mentre che ardentissimamente attendeva con ogni diligenzia a levar via et a stirpare in tutto ogni minima occasione donde poteva nascere errore, non guastò solamente o gettò per terra tutte le statue maravigliose e le scolture, pitture, musaici et ornamenti de' fallaci dii de' Gentili, ma le memorie ancora e gl'onori d'infinite persone egregie. Alle quali, per gl'eccellenti meriti loro, da la virtuosissima antichità erono state poste in publico le statue e l'altre memorie. Inoltre per edificare le chiese a la usanza cristiana, non solamente distrusse i piú onorati tempii degli idoli, ma per far diventare piú nobile e per adornare San Piero, spogliò di colonne di pietra la Mole d'Adriano, oggi | detto Castello S. Agnolo, sí come la Antoniana di colonne e di pietre e di incrostature per quella di S. Paulo, e le Terme Deocliziane e di Tito per fare S. Maria Maggiore, con estrema rovina e danno di quelle divinissime fabriche, quali veggiamo oggi guaste e destrutte. Avvenga che la religione cristiana non facessi questo per odio che ella avesse con le virtú, ma solo per contumelia et abbattimento degli dii de' Gentili; non fu però che da questo ardentissimo zelo non seguisse tanta rovina a queste ornate professioni, che se ne perdesse in tutto la forma. E se niente mancava a questo grave infortunio, l'ira di Totila contro a Roma, che oltre a sfasciarla di mura, e rovinar col ferro e col fuoco tutti i piú mirabili e degni edificii di quella, universalmente la bruciò tutta; e spogliatola di tutti i viventi corpi, la lasciò in preda alle fiamme del fuoco, senza che <in> xviii giorni continovi si ritrovasse in quella vivente alcuno; abbatté e destrusse talmente le statue, le pitture, i musaici e gli stucchi maravigliosi che se ne perdé, non dico la maiestà sola, ma la forma e l'essere stesso. Per il che, essendo le stanze terrene prima di stucchi, di pitture e di statue lavorate, con le rovine di sopra affogorno tutto il buono che a' giorni nostri s'è ritrovato. E coloro che successer poi, giudicando il tutto rovina, vi piantarono sopra le vigne. Di maniera che per essere le stanze rimaste sotto la terra, le hanno i moderni nominate grotte, e grottesche le pitture che vi si veggono al presente. Finiti gli Ostrogotti, che da Narse furono spenti, abitandosi per le rovine di Roma in qualche maniera pur malamente, venne dopo cento anni Costante secondo Imperatore di Costantinopoli, e ricevuto amorevolmente da i Romani, guastò, spogliò e portossi via tutto ciò che nella misera città di Roma era rimaso piú per sorte che per libera volontà di coloro che l'avevono rovinata. Bene è vero che e' non potette godersi di questa preda, perché, da la tempesta del mare trasportato nella Sicilia, | giustamente occiso da i suoi, lasciò le spoglie, il regno e la vita, tutto in preda della fortuna. La quale, non contenta ancora de' danni di Roma, perché le cose tolte non potessino tornarvi già mai, vi condusse una armata di Saracini, a' danni dell'isola; i quali e le robe de' Siciliani e le stesse spoglie di Roma se ne portorono in Alessandria, con grandissima vergogna e danno della Italia e del Cristianesimo. E cosí tutto quello che non avevono guasto i pontefici, e San Gregorio massimamente, il quale si dice che messe in bando tutto il restante delle statue e delle spoglie degli edificii, per le mani di questo sceleratissimo greco finalmente capitò male. Di maniera che, non trovandosi piú né vestigio né indizio di cosa alcuna che avesse del buono, gl'uomini che vennono appresso, ritrovandosi rozzi e materiali, e particularmente nelle pitture e nelle scolture, incitati dalla natura et assottigliati dall'aria, si diedero a fare, non secondo le regole dell'arti predette, che non le avevano, ma secondo la qualità degli ingegni loro. E cosí nacquero da le lor mani quei fantocci e quelle goffezze, che nelle case vecchie ancora oggi appariscono. Il medesimo avvenne de la architettura; perché, bisognando pur fabricare et essendo smarrita in tutto la forma et il modo buono per gl'artefici morti, e per l'opere distrutte e guaste, coloro che si diedero a tale esercizio non edificavano cosa, che per ordine o per misura avesse grazia, né disegno, né ragion alcuna. Onde ne vennero a risorgere nuovi architetti, che delle loro barbare nazioni fecero il modo di quella maniera di edifici ch'oggi da noi son chiamati tedeschi, i quali facevano alcune cose piú tosto a noi moderni ridicole, che a loro lodevoli; finché la miglior forma trovarono poi i migliori artefici, come si veggono di quella maniera per tutta Italia le piú vecchie chiese, e non antiche, che da essi furono edificate, sí com'in Pisa la pianta del duomo da Buschetto Greco da Dulichio architetto, edificata nel mxvi; a onore | del quale furono fatti, per commemorazione del troppo esser valente in quella età rozza, questi versi oggi in duomo di Pisa alla sua sepoltura:

 

QVOD VIX MILLE BOVM POSSENT IVGA IVNCTA MOVERE

ET QVOD VIX POTVIT PER MARE FERRE RATIS

BVSCHETI NISV QVOD ERAT MIRABILE VISV

DENA PVELLARVM TVRBA LEVAVIT ONVS.

 

Fu il Duomo di Milano fatto nella medesima maniera, edificato l'anno 1388, e quello di Siena et infiniti edifici alla tedesca di quella medesima sorte e molti palazzi e varie fabriche, che per tutt'Italia e fuor di essa si veggono; come San Marco di Vinegia, la Certosa di Pavia, il Santo di Padova, San Petronio di Bologna, San Martino di Lucca, il Duomo di Arezzo, la Pieve, il Vescovado fatto finire da Papa Gregorio X piacentino della famiglia de' Visconti, e cosí il tempio di Santa Maria del Fiore in Fiorenza, fabbricato da Arnolfo Tedesco architettore.

Stettero poi oltra le ruine di Roma per le guerre sotterrati i modi delle sculture e de le pitture da le ruine di Totila fino a gl'anni di Cristo mccl, nel qual tempo era rimasto in Grecia un residuo d'artefici che vecchi erano, i quali facevano imagini di terra e di pietra, e dipignevano altre figure mostruose e col primo lineamento e col campo di colore. E quegli per esser soli in tale professione, l'arte della pittura in Italia portarono insieme col musaico e con la scultura, e quella come sapevano, a gl'uomini italiani insegnarono rozzamente.

Onde gl'uomini di que' tempi, non essendo usati a veder altra bontà né maggior perfezzione nelle cose, di quelle ch'essi vedevano, solamente si maravigliavano e quelle, ancora che baroncesche fossero, nondimeno per le migliori apprendevano. Pur gli spirti di coloro che nascevano, aitati in qualche luogo dalla sottilità dell'aria, si purgarono tanto che nel mccl, il cielo, a pietà mossosi de i belli ingegni che 'l terren | toscano produceva ogni giorno, gli ridusse a la forma primiera. E se bene gli inanzi a loro avevano veduto residui di archi o di colossi o di statue, o pili, o colonne storiate, nell'età che furono dopo i sacchi e le ruine e gli incendi di Roma, e' non seppono mai valersene o cavarne profitto alcuno, sino al tempo detto di sopra; nel quale venuti su, come io diceva, ingegni piú begli, conoscendo assai bene il buono da 'l cattivo, abbandonando le maniere vecchie, ritornarono ad imitare le antiche, con tutta la industria et ingegno loro. Ma perché piú agevolmente si intenda quello che io chiami vecchio et antico, antiche furono le cose inanzi Costantino, di Corinto, d'Atene e di Roma, e d'altre famosissime città, fatte fino a sotto Nerone, a i Vespasiani, Traiano, Adriano et Antonino; percioché l'altre si chiamano vecchie, che da San Silvestro in qua furono poste in opera da un certo residuo de' Greci, i quali piú tosto tignere che dipignere sapevano. Perché, essendo in quelle guerre morti gli eccellenti primi artefici, al rimanente di que' Greci, vecchi e non antichi, altro non era rimaso che le prime linee in un campo di colore; come di ciò fanno fede oggidí infiniti musaici, che per tutta Italia lavorati da essi Greci si veggono, come nel Duomo di Pisa, in San Marco di Vinegia, et ancora in altri luoghi; e cosí molte pitture, continovando, fecero di quella maniera con occhi spiritati e mani aperte, in punta di piedi, come si vede ancora in San Miniato fuor di Fiorenza, fra la porta che va in sagrestia e quella che va in convento, et in Santo Spirito di detta città tutta la banda del chiostro verso la chiesa, e similmente in Arezzo, in San Giuliano et in San Bartolomeo et in altre chiese, et in Roma in San Pietro, nel vecchio, storie intorno intorno fra le finestre, cose ch'hanno piú del mostro nel lineamento, che effigie di quel che si sia.

Di scultura ne fecero similmente infinite, come si vede ancora, sopra la porta di San Michele a Piazza Padella di Fiorenza, | di basso rilievo, et in Ogni Santi e per molti luoghi, sepolture et ornamenti di porte per chiese, dove hanno per mensole certe figure per regger il tetto, cose sí goffe e sí ree, e tanto malfatte di grossezza e di maniera, che pare impossibile che imaginare peggio si potesse. E di questa maniera n'è in Roma sotto i tondi nell'arco di Costantino, che dà le storie di sopra, che furono da le spoglie di Traiano smurate et a Costantino in onore della rotta data da lui a Massenzio, quivi son poste; onde per non avere maestri mancandogli ripieno, fecero i maestri ch'alora tenevano il principato, que' berlingozzi che si veggono nel marmo intagliati. Lavorarono ancora le chiese nuove di Roma di musaico alla greca, com'a Santa Prassedia la tribuna, et a Santa Potenziana, il simile a Santa Maria Nuova, in un medesimo modo, cosí a Santa Agnesa fuor di Roma et a tutte le onorate basiliche che a' santi dedicato avevano, fin ch'eglino di miglioramento accrebbero, sí che fecero la tribuna di Santo Ianni e quella di Santa Maria Maggiore, e particularmente la tribuna della cappella maggiore di San Pietro di Roma et infinite altre chiese e cappelle di detta città. E, nell'antichissimo tempio di San Giovanni in Fiorenza la tribuna delle otto facce, da la cornice fino alla lanterna, lavorata di mano d'Andrea Taffi con la medesima maniera greca, ma invero molto piú bella.

Sino a qui mi è parso discorrere da 'l principio della scultura e della pittura, e per adventura piú largamente che in questo luogo non bisognava. Il che ho io però fatto, non tanto trasportato dalla affezzione della arte, quanto mosso dal benefizio et utile comune degli artefici miei. I quali avendo veduto in che modo ella, da piccol principio, si conducesse a la somma altezza e come da grado sí nobile precipitasse in ruina estrema, e, per conseguente, la natura di questa arte, simile a quella dell'altre, che, come i corpi umani, hanno il nascere, il crescere, lo invecchiare et il morire, potran|no ora piú facilmente conoscere il progresso della sua rinascita; e di quella stessa perfezzione, dove ella è risalita ne' tempi nostri. Et a cagione ancora che se mai (il che non acconsenta Idio) accadesse per alcun tempo, per la trascuraggine degli uomini o per la malignità de' secoli o pure per ordine de' cieli, i quali non pare che voglino le cose di quaggiú mantenersi molto in uno essere, ella incorresse di nuovo nel medesimo disordine di rovina, possino queste fatiche mie, qualunche elle si siano (se elle però saranno degne di piú benigna fortuna), per le cose discorse innanzi e per quelle che hanno da dirsi, mantenerla in vita; o almeno dare animo a i piú elevati ingegni di provederle migliori aiuti: tanto che con la buona volontà mia e con le opere di questi tali, ella abbondi di quelli aiuti et ornamenti de' quali (siami lecito liberamente dire il vero) ha mancato sino a quest'ora. Ma tempo è di venire oggimai a la vita di Giovanni Cimabue; il quale, sí come dette principio al nuovo modo del dipignere, cosí è giusto e conveniente che e' lo dia ancora alle Vite, nelle quali mi sforzerò di osservare il piú che si possa l'ordine delle maniere loro, piú che del tempo. Senza descrivere però altrimenti le forme e fattezze degli artefici, giudicando tempo perduto il circunscrivere con le parole quello che manifestamente si può vedere negli stessi ritratti loro, citati et assegnati da me, dovunque e' si truovano. |

 


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Edizione HTML a cura di: mail@debibliotheca.com
Ultimo Aggiornamento: 13/07/2005 22.27

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