TRE CROCI
di Federigo Tozzi
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CAPITOLO II Fuori camminava
a testa ritta, nel mezzo della strada, facendo il grande; rispondeva a pena se lo
salutavano, tirava via come se sprezzasse tutti; lesto, come se non avesse tempo da
perdere. Giunse, per la Via Cavour, fin dov'era una fruttaiola; e, allora, guardò le
ceste in mostra; ma senza fermarsi, girando un poco il collo come se avesse da accomodarsi
il solino. L'odore delle frutta gli fece allargare e stringere le narici, e gli si
piegarono le ginocchia; ma seguitò a camminare: benché senza raccapezzarsi più dove
andasse, e a ogni pochi passi urtando qualcuno; poi tornò a dietro, pensando alle frutta
vedute, che se le immaginava più buone e più saporite di quante ne aveva mangiate
durante tutta la sua vita. Quasi gli venivano le lagrime, perché si trovava senza denaro
in tasca. Ma decise di supplicare il fratello, perché glie le comprasse. In bottega non
c'era più il signor Valentini; ed egli disse a Giulio: - Che voleva
quel vagabondo? Quando viene in bottega, un'altra volta, lo prendo a calci nei ginocchi. - Che t'ha
fatto di male? - gli chiese Giulio, ridendo. - Toh! C'è
bisogno che mi faccia qualche cosa di male? Non lo posso né vedere né sopportare: ecco
quel che m'ha fatto! - Tu non puoi
vedere nessuno. Sei mezzo matto! Già, non saresti della nostra razza! Allora,
Niccolò gli strinse un braccio e gli disse, dopo aver fatto scricchiare i denti, come un
ragazzo che non può più contenersi: - Giulio,
Giulio mio! Ho visto certe mele e certe pere che... se le potessi assaggiare, darei dieci
anni! Me ne sono invaghito. Giulio,
divertendosi della sua ghiottoneria, gli chiese: - Erano belle
da vero? - Meravigliose!
Con una buccia grassa, che dev'essere come il burro! Io oggi non mangio, se non mi levo
anche la voglia di quelle! - Ci manderemo
Enrico, quando viene! - Sì, sì!
Piglia tutto quel che abbiamo incassato stamani; e mandacelo. Fa' invogliare anche lui. - Non ci vorrà
di molto! Enrico entrò
sbattendo l'uscio, per chiuderlo; perché quando una volta potevano tenere un commesso, se
lo faceva sempre chiudere e aprire. Guardò tutta la bottega; per vedere se c'era
qualcuno; sospettoso e pronto a qualche villania. Giulio gli chiese: - Dove sei
stato? - Sei mio
padre, perché io te lo debba dire? Te lo domando mai io a te? Niccolò disse: - Hai ragione! - Tu stai
zitto! - gli rispose Enrico, con la sua voce nasale e strascicata - Hai sempre voglia di
ruzzare. Ho visto escire il Valentini: che ci viene a fare in bottega, se non compra mai
un libro? Già, non sa né meno leggere! Perché non sta a casa sua? L'impiantito, quando
è consumato, bisogna rifarlo fare con i nostri denari! Se stesse a casa, il fattore non
terrebbe compagnia alla sua moglie! - È vero? Chi
te l'ha detto? Che soddisfazione mi dài! - Lo so. Quando
dico una cosa io, mi chiedete sempre da chi l'ho saputa! Ma, se non ci credete, per me è
lo stesso. Giulio aprì il
cassetto dello scrittoio, prese con la punta delle dita dieci lire e gliele porse: - Vai da Cicia,
e compra due chili tra mele e pere. - Io ci devo
andare? O voi non siete capaci? Niccolò non
gli parlava più e non lo guardava né meno, come se lo avesse irritato. Giulio gli disse: - È lui che ti
vuol mandare. - Ma io, se
devo andarci, compro anche un pezzo di gorgonzola dal nostro pizzicagnolo. - Fa' quel che
vuoi. Enrico s'avviò
verso l'uscio; e Niccolò, allora, disse: - Purché tu ti
spicci; invece di star qui tra i piedi! E, quando fu
escito, seguitò: - Non ha voglia
di fare niente. Ma tutti e due
doventarono silenziosi. Soltanto dopo una mezz'ora, Giulio, che s'era seduto allo
scrittoio battendo a colpi regolari le lenti su la carta sugante, disse: - Con la
cambiale d'oggi, sono cinquemila lire di più. - A me lo dici? - A chi devo
dirlo? - Non me ne
importa. Io non voglio né meno sentirne parlare. - Hai paura di
guastarti il sangue? - Giulio!
Smettila! Tu sai quel che ho nel cuore. È una spina grossa come il mio pollice. - Lo so: sarà
eguale alla mia. Allora,
Niccolò divenne affettuoso; la sua voce quasi supplichevole e dolce; e sarebbe stato
capace di fargli anche le moine: - Se non ci si
volesse bene tra noi, vorrei doventare una bestia... un rospo! Giulio lo
guardò con tenerezza; ma il fratello gli disse: - Non mi
guardare! - Quelle
bambine hanno bisogno di vestiti da inverno. - Glieli farai
comprare. Subito! Per loro, faccio anche a meno delle scarpe! Di tutto! Mi lascio morire
di fame! Quando aveva di
questi propositi, che gli duravano poco, si drizzava con tutta la persona; mandando in
fuora il petto; camminando in su e in giù per la bottega, che allora per lui pareva
troppo stretta. Egli era soddisfatto di se stesso e dava occhiate di orgoglio affettuoso;
ansando come se avesse dovuto difendere precipitosamente le due nipoti. Pareva che non
potesse star fermo mai più. - Per noi,
quelle bambine devono esser sacre. Non è vero? - L'ho sempre
detto anch'io. - Ma Enrico...
ti pare che Enrico sia del nostro sentimento? - Diamine! Ma Niccolò
cambiò subito discorso: - O quando
torna con le frutta? - Sono dieci
minuti soli che è andato via! E Giulio
sbirciò il suo orologio. - Io vado a
casa, e vi aspetto là tutti e due. Vieni presto! Ma Giulio,
restato solo, si mise a preparare alcune fatture da riscuotere. Mentre scriveva, entrò,
come faceva tutte le mattine, venendo dall'Archivio di Stato, un giovane francese, critico
d'arte, stabilitosi a Siena per studiare certi pittori del quattrocento. Era vestito
sempre bene; con i baffi biondi e un bastone con il pomo d'avorio cerchiato d'oro. Aveva
gli occhi turchini, e i baffi parevano un peso sul sorriso. - Buon giorno,
signor Nisard. - Buon giorno. - Che mi dice
di nuovo? - Ho trovato
una cosa molto importante su Matteo di Giovanni. Una cosa straordinaria! Una scoperta che
farà effetto! Sono molto contento! Giulio
domandò: - Si può
sapere? - Mi servirà
per il libro che sto preparando! - Allora non
voglio essere indiscreto: non voglio che me la dica. Il libraio
aveva una specie di ammirazione per tutto ciò che facevano gli altri; e aveva piacere se
glie lo dicevano. Era perciò un buon amico, uno di quelli da confidenze. Gli pareva che
gli altri, non compromessi come lui e i suoi fratelli, appartenessero a un mondo che per
lui esisteva soltanto prima delle firme false. Ora si sentiva, sempre di più, costretto a
subire anche le conseguenze morali della sua colpa. Non avrebbe ardito né meno di
chiedere a un altro che gli si mostrasse pronto a stimarlo. Anzi, non voleva. Si
schermiva, doventava timido; faceva in modo che gli altri non gli dessero mai nulla dei
loro sentimenti; perché non voleva ingannarli. Giudicatosi da
sé, accettava soltanto la consapevolezza dei fratelli. Perciò il suo sorriso restava
sempre impacciato e riservato; e quelle erano le occasioni della sua tristezza. Niccolò
non voleva amicizie e lo rimproverava tutte le volte che era stato affabile con qualcuno.
Gli diceva: - Tu sai che
tra noi e gli altri c'è una cosa, che nessuno ci perdonerà. Anche noi, perciò, con gli
altri non dobbiamo avere tenerezze. Giulio
ascoltava il Nisard, con le mani nelle tasche della giubba, senza alzare gli occhi, come
un povero riesce ad essere più contento se sta insieme qualche mezz'ora con un ricco. Non
avrebbe voluto né meno che il Nisard gli desse la mano! Quel giorno il
Nisard, pensando che a Siena spendevano pochi denari per comprare i libri, gli chiese per
dirne male con lui: - Va bene la
bottega? Giulio scosse
la testa; e, poi, disse: - Non so come
facciamo a andare avanti! E, allora, il
piacere sentito ascoltando il Nisard, lo fece soffrire. Gli pareva una grande ingiustizia
e una privazione acuta che egli non potesse come lui lavorare, senza imbarazzi, a qualche
cosa. Gli venivano in mente parecchi progetti, e vi rinunciava a pena li aveva pensati;
sebbene, qualche volta, gliene restasse il ricordo nel suo amor proprio. Il Nisard gli
disse: - Per fortuna
ella ha guadagnato in altri tempi, e ora ha i denari per vivere! Giulio restò
un poco perplesso, e poi rispose: - Già: è una
fortuna da vero! Ma io non me ne voglio preoccupare! Sarà quel che Dio vorrà. Il Nisard,
credendo che esagerasse per spilorceria e per grettezza, si mise a ridere. Giulio
socchiuse gli occhi, e seguitò: - Lei non mi
crede. - Ma, signor
Giulio, vuol darmi ad intendere... - Io non dico
mai bugie; cioè, non vorrei mai dirle! E restò
soprapensiero. Il Nisard lo guardava in viso, come se avesse capito lo scherzo; e gli
domandò: - Crede che io
vada a raccontarlo all'agente delle tasse, perché gliele cresca? In quel mentre,
aprì la porta Enrico, senza richiuderla; tenendo con ambedue le braccia tutte le frutta
comprate. Egli disse, allegro: - Ora, ci manca
il gorgonzola! Non inventerete che io penso prima a me e poi a voi! Dite sempre che io
sono un egoista! Il Nisard si
divertiva a vedere come Giulio era restato male e imbarazzato. Ma Giulio esclamò: - Le pere son
belle da vero! Enrico chiese: - Posso andare
a casa? C'è altro da comprare? Il fratello gli
accennò la porta, e quegli uscì. Enrico, quando
aveva comprato qualche cosa, non salutava né meno: doventava più arrogante e rispondeva
male. Allora, Giulio
disse: - La tavola
bene apparecchiata è una nostra debolezza. Siamo tutti eguali: anche la mia cognata,
Modesta, l'abbiamo avvezzata male. Egli ora era
impaziente di essere a casa; perché non lo avrebbero aspettato; e sapeva che i primi
sceglievano sempre i bocconi più buoni. Se non ci fosse stato il Nisard, avrebbe chiuso
subito la bottega; quantunque un signore gli avesse detto che sarebbe passato a comprare
alcuni libri. Egli, pentito, soffriva anche di essersi impegnato ad aspettarlo; e,
perciò, si dolse: - Non capisco
come si possano buttar via i denari per comprare la carta stampata! Io sto qui dentro,
sacrificato tutto il giorno; non vedo mai di che colore è il cielo; m'è venuto a noia
perfino a toccarli, i libri! Bella cosa sarebbe mandarli tutti al macero! - Ma lei è
così intelligente, e parla sul serio a questo modo? - Sono stato
intelligente. Ora, è finita. Ho quarant'anni, e mi sembra di averne ottanta o cento. Lei
non mi crede né meno ora! Il Nisard
allargò le braccia; e, sorridendo, disse che si rassegnava a credergli. Ma Giulio cercava
di ricordarsi se avevano comprato il parmigiano da grattare su i maccheroni; e, dentro di
sé, diceva: «Chi sa come resta male Niccolò quando sente che non è di quello come
piace a noi!». E gli pareva di vedere il fratello che se la prendeva con la moglie; senza
smettere più, per tutto il pranzo. Era capace di alzarsi da tavola, quando aveva finito
di mangiare, e di escire senza voler parlare più alla moglie fino al giorno dopo; mentre
le nipoti, Chiarina e Lola, ci ridevano; ed Enrico diceva che era una sconvenienza da
pazzo. Queste cose deliziavano Giulio; che si fermò nel mezzo di bottega, con il viso
ubriaco di godimento. Ad un tratto,
si sentirono suoni di parecchie campane insieme. Era mezzogiorno. Giulio, per esserne più
sicuro, escì nella strada; ascoltando. L'orologio municipale batteva le ore, con una
cadenza placida; e anche San Cristoforo, la chiesa più vicina alla libreria, in Piazza
Tolomei, si dette a suonare. La gente era meno rada, e cominciavano a passare gli
impiegati. Allora, egli disse, con dolcezza: - Posso
chiudere! Il Nisard, che
doveva andare alla villa presa in affitto fuor di Porta Camollia, lo salutò
frettolosamente. Dopo cinque
minuti, l'orologio replicò le ore; e a Giulio parve che rispondessero proprio a lui, e
fossero saporite e allegre come una leccornia. |
Edizione HTML a cura di: mail@debibliotheca.com
Ultimo Aggiornamento: 14/07/2005 00.02