TRE CROCI
di Federigo Tozzi
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CAPITOLO XIV Il pretore fece
staccare il cadavere e portarlo all'Istituto Anatomico. Ma, dopo due giorni, fu dato il
permesso di seppellirlo nel cimitero del Laterino. Enrico e Niccolò lo accompagnarono,
dietro la lettiga d'incerato verde; ma erano sospettosi di tutti e desideravano di fare
presto, come se temessero di essere arrestati insieme con il morto. C'era soltanto il
becchino che li aiutò a collocare il cadavere dentro la cassa. Pochi minuti dopo, venne
il cappellano del cimitero; che, messa la stola, benedì con l'aspersorio un altro morto.
Era un vecchio prete atticciato, con il viso adusto e le scarpe imbullettate; da
contadino. I due fratelli
stavano a capo scoperto e badavano di non mettere i piedi sopra certi fiori già putridi,
caduti da qualche ghirlanda: anch'essi avevano macchiato il pavimento della piccola
cappella. Il prete,
arrossendo e accennando con il mento la bara del Gambi, chiese: - Come si è
ammazzato? Niccolò era
pieno d'ira. Ma Enrico rispose: - Con un nodo
scorsoio. Il prete,
allora, li salutò; andandosene come se avesse avuto furia, con l'ombrello e il cappello
in mano. Egli andava e veniva tra la sua casa e il cimitero; e non aveva mai tempo da
perdere. Era un cielo
grigio; quasi giallognolo; con una umidità che bagnava tutto. Anche la cancellata del
cimitero sgocciolava giù per le spranghe di ferro; le lapidi si lavavano e la cima dei
cipressi restava nascosta nella nebbia; e, benché fossero ormai le dieci, sembrava sempre
l'alba. Siena, con un velo addosso che la faceva assomigliare ad una superficie tutta
piana e unita, cominciava a schiarirsi allora; lasciando distinguere e riconoscere le case
e i loro aggruppamenti; poi anche i loro colori; tutti un poco ceruli però. Finché
restò su l'orizzonte un vapore bianco e luccicante. Niccolò disse: - Io non mi
reggo più in piedi. - A me dolgono
le ginocchia: è la mia gotta reumatica. Ma, ormai, bisogna aspettare. Il becchino
chiamò due compagni; e misero il morto in una fossa. Poi, cominciarono subito a buttarci
la terra con le pale. I due fratelli piangevano, tappandosi gli occhi. Sentivano che lì
dentro lasciavano e perdevano quel che essi non avevano; ed erano veramente commossi.
Giulio s'era preso la responsabilità di tutto, e li aveva salvati. Ma, all'escita del
cimitero, Niccolò chiese al fratello: - Tu passi per
la strada più corta per andare a casa? - O che vuoi
ch'io faccia? - Io, invece,
giro da San Marco. - Perché?
Andiamo insieme! Ma Niccolò,
pigliando rasente uno dei muri della strada, affrettò il passo e lo lasciò a dietro.
Andò a comprare un sigaro, dove era sicuro non sapevano che tornava dal cimitero e
s'affrettò a trovare il Corsali. E in meno di due ore si misero d'accordo: anche lui
avrebbe fatto l'agente d'assicurazione; perché appunto bisognava trovare uno che
conoscesse bene i paesi del circondario e fosse disposto ad andarci. Soltanto
Modesta aveva da parte qualche centinaio di lire; e, a tavola, Niccolò disse al fratello: - Io mi son
già sistemato da me; e voglio pensare alla moglie e alle bambine. Anche tu, se credi,
arrangiati! - Dammi almeno
tempo! - No, no!
Stasera non verrai né meno a dormire; perché non ti ci voglio: non c'è posto. Io e la
mia moglie prendiamo una casa più piccola; e tu farai portare via la tua roba. Si trattava di
un estro forse meditato in quei due giorni, e poi venuto fuori lì per lì. E sarebbe
stato inutile fargli capire ch'era troppo repentino. Modesta, non
per cattiveria, trovò giusto quel che disse il marito; ed Enrico tentò invano di cavare
qualche cosa da lei; perché, Niccolò, che stava alle vedette, le proibì di rispondergli
e a lui ripeté che doveva fare come gli aveva detto. - Non ci doveva
essere né meno il bisogno che te lo suggerissi io! Enrico, senza
nessuna idea in capo, gli disse: - Prestami,
almeno, un poco di denaro che mi basti per trovarmi una camera! Niccolò non
gli voleva dare niente; ma Modesta escì dalla stanza dove egli le aveva detto che si
chiudesse; e, allungando un braccio, gli porse cento lire. Enrico le
strinse e se ne andò; barellando come un ubriaco. Al processo,
come se si fossero messi d'accordo prima, incolparono Giulio compiangendolo; ed essi
furono assolti. Ma non restava
loro più nulla; ed il cavaliere Nicchioli ricavò a pena la metà della cambiale firmata
da vero. Enrico non
voleva darsi a niente; e le cento lire, che s'era tenute in tasca invece di pagare la
retta della camera, gli bastarono poco più d'una settimana. Egli non poteva fare a meno
delle sue abitudini, e andava sempre anche a quella bettola. Là si doleva, e attribuiva a
Niccolò la sua miseria. La gotta lo perseguitava e s'era ridotto molto male. Alla fine,
si dette a fermare tutti i clienti più ricchi della libreria, chiedendo qualche lira.
Essi, dopo le prime volte, fingevano di non vederlo e si scansavano; e, se erano in più
d'uno, gli facevano capire che non potevano dargli retta, prima che s'avvicinasse. Ma
Enrico era capace d'aspettare e di seguirli, finché, sopraggiungendoli, quando credeva il
momento opportuno, li costringeva almeno ad ascoltarlo. Diceva, quasi sempre: - Niccolò non
s'è vergognato a mandarmi via e m'ha tolto tutto quello che avevo. Lo divorerei vivo con
il mio odio. A tal carne, tal coltello! Io non posso mettermi a lavorare perché sono
impedito dalla gotta. Se non ci credono, guardino che nodi noccioluti m'è venuto alle
dita! Faccio pietà! Ora ho anche l'uremia nervosa e intestinale. Bisogna che m'aiutino. Ma Niccolò,
sempre più libero dopo il processo, cominciava a trovarsi discretamente. Gli amici, che
gli restavano ancora quasi in ogni paese, dove l'avevano conosciuto quando faceva
l'antiquario, non era difficile che lo invitassero a mangiare; ed egli, allora, si
compensava delle strettezze in famiglia. Era tornato di buon umore, benché fosse
invecchiato a fretta. Egli diceva, picchiandosi il petto: - Io ho
fortuna! E, a testa
ritta, si faceva vedere ancora ben portante e sciolto: qualche volta, si metteva a
camminare lesto a posta; con gli occhi più sgargi di prima. In casa, erano
stati afflitti in un'angustia repentina; e pareva che non potessero dimenticare più i
tempi di una volta. Chiarina non
aveva perso il fidanzato; ma s'era fatta anche più dimessa; e con Lola non rideva quasi
più. Modesta portava sempre, per voto, le candele alla Madonna del Duomo; e tra le nipoti
pregava lunghe ore, sotto le fiammelle delle lampade d'argento, con gli occhi intenti
all'altare, in mezzo alle pareti coperte dai cuori di tutte le dimensioni e dai gioielli.
La Madonna, dietro il vetro lustro e luccicante, si scorgeva a pena; ma l'ambascia
infervorava sempre di più quella disgraziata; che, senza la fede, non si sarebbe sentita
più né meno un essere umano. Niccolò non
avrebbe voluto che andasse sempre in chiesa, ma non si arrischiava a rimproverarla.
Soltanto, continuava a fare il proprio comodo; con quella sua giocondità irascibile e
beffarda, che gli traluceva anche dagli occhi. Non aveva altra soddisfazione che di farsi
invitare a pranzo; e, poi, tornato a Siena, di raccontarlo a Modesta; che, a biasciare il
pane, le pareva meno saporito. Ma ringraziava Dio che Niccolò s'ingegnasse a quel modo; e
anche lei, qualche volta, si rinfrancava a vederlo sempre eguale. Nondimeno egli, verso la
fine dell'anno, a pena due mesi dopo il suicidio di Giulio, cominciò ad avere certi
dolori alla testa che lo lasciavano sbigottito. Contro di essi, non poteva fare niente, e
gli andava via la voglia di celiare. Poi, gli venne anche l'insonnia; e il giorno dopo non
si sentiva mai capace di prendere il treno. Restava a letto finché, per non avere
rimorsi, zoppicando, esciva a rimettere in pari gli affari della Compagnia di
Assicurazione. L'insonnia gli lasciava il senso di vivere troppo, quasi il doppio. E, lì
a letto, lo assalivano mille tristezze, che lo abbattevano. - Modesta, che
pensi quando io non rido più? È vero che, allora, la casa pare morta? Quando rido, io la
scuoto tutta e anche voi state meglio. Peccato ch'io non portassi a casa la mia
cassapanca, che avevo nella libreria! Qui a letto, non ci ho niente da guardare. L'avrei
messa a una di queste pareti; e avrebbe abbellito la stanza. Poi si voltava
verso la finestra, e diceva: - Gli occhi mi
s'annebbiano: non so perché. Ma se Modesta
gli si metteva attorno, magari per portargli un guanciale di più, egli non voleva a
nessun costo. Poi, se Modesta cominciava a lagrimare, egli le rifaceva il verso; e voleva
che le nipoti, sentendolo attraverso l'uscio aperto, ridessero. - Mi dovete
obbedire! Volete farmi crepare di lagrime! Vuol dire che non mi sapete voler bene! Quando
ridevano, egli alzava la testa e chiedeva: - Chi ve l'ha
dato il permesso? E, crucciato,
stava ore ed ore senza parlare. Egli sperava di guarire e voleva, a primavera, andare ai
bagni caldi; ma peggiorò sempre di più. Oltre
all'insonnia, che gli faceva spavento soltanto a ricordarsene, gli vennero i delirii.
Dapprima, non ci fecero caso; credendo che sognasse troppo forte; ma poi, si destavano e
lo ascoltavano con terrore. Egli diceva cose lubriche o insensate. Gli pareva sempre che
lo avessero chiuso nella libreria e non volessero lasciarlo più. E lo costringevano a
dondolare Giulio penzoloni. Anche gli pareva che lo facessero camminare nudo, con le mani
e con i piedi. Alla fine faceva una risata che non finiva più; una risata bavosa, che gli
bagnava il pizzo. I delirii doventarono più intensi in poche settimane. Quando andavano
via, gli restava il dolore alla testa; che era quasi peggio. Ma, durante il giomo, esciva
come prima; e non voleva nessuno con sé. Andava per strade solitarie; e se lo
incontravano i ragazzi che tornavano di scuola, gli facevano la chiucchiurlaia. Egli non
se la prendeva; anzi, se ne vantava; e alla moglie gliene parlava come se fosse andato ad
una festa. Allora ella temeva che fosse per perdere la ragione; e voleva farlo visitare.
Bastava ch'ella dicesse così, perché ritornasse in sé, strafinefatto; e riprendesse
subito il suo solito aspetto. Si capiva, però, ch'era uno sforzo; perché, dopo poco,
mentre anche la pelle gli si faceva floscia e pallida, il viso doventava paralizzato,
solido, privo di qualsiasi intelligenza. Una notte, gli
venne un delirio così violento che rotolò dal letto. A sedere in terra, tra le sedie
rovesciate, egli incominciò a gridare; come non aveva fatto mai. La sua voce, a stratte,
si faceva sempre più acuta e più forte; con una rapidità che metteva raccapriccio.
Talvolta, invece, era cupa e bassa, quasi piatta; talvolta, scivolava con una ilarità
acuminata; una voce senza più parole e senza senso; ma con dolcezze tenere; intonata. Non riesciva,
ormai, più a calmarsi; e per quanto, durante qualche intervallo, egli si ricordasse di
quando stava bene e invocasse di guarire, subito dopo la sua bocca restava spalancata e
torta. Ed egli si sbatteva giù in terra, fuori di sé. Questo delirio, che fece ammalare
Modesta e sconvolse i nervi alle bambine, durò quasi tre ore; senza attenuarsi mai.
Finché la voce venne sempre di più a mancargli. Allora, gli cominciò il rantolo, che
pareva una risata repressa; gorgogliante nel sangue diacciato dall'apoplessia reumatica. |
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Ultimo Aggiornamento: 13/07/2005 22.33