TRE CROCI
di Federigo Tozzi
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CAPITOLO
XIII La mattina,
Giulio si disse: «No; non mi lascerò illudere. Ho capito, ormai, che le cose bisogna
guardarle in un modo come ancora non sapevo! Se io accettassi di vivere, giacché non mi
sento per ora nessun male che mi possa togliere la vita, sarebbe lo stesso io trovassi
gusto a farmi martoriare. Ma questo non può essere, per quanto io soffra molto meno. Non
può essere mi manchi la forza di fare a me quello che non farei agli altri. Forse,
sbaglierò; ma è necessario io faccia la prova della morte. Stanotte, mi pareva già di
non avere più a che fare con la mia solita vita, alla quale ho creduto fino ad ora; e non
rimpiangevo niente. Non avevo mai sognato così bene!» Ma la calma
della sera innanzi s'era già rivelata per una enfiagione di cose malaticce. Ed egli
continuò a pensare, con piacere: «Qualcuno crederà che io mi uccida buttandomi dalla
finestra; un altro che io vada ad annegarmi. No: così non mi ucciderò.» Ed escì di
casa. La mattina era umida e fresca. Si fermò a vedere una sciancata; che, aiutandosi con
il bastone e appoggiandosi anche con una mano alla sporgenza della balaustrata, cercava di
salire le scale della Chiesa di San Martino. Egli non aveva mai visto un'altra ostinazione
così vogliosa e nello stesso tempo un'altra impazienza forse così piena di gioia. Egli
sentiva che quella donnàcchera poteva significare una cosa, che cercò in vano. E la sua
disperazione crebbe. Il giorno dopo, la legge avrebbe fatto mettere i sigilli alla
libreria; ed egli aveva dinanzi a sé soltanto poche ore, per prendere qualche risoluzione
che potesse essere definitiva. Svoltando per
una strada, s'imbatté con il Nisard; che gli andò incontro mentre il suo viso doventava
rapidamente compunto. Egli disse: - Ma che
disgrazia! Come mi dispiace! Giulio lo
guardò con il viso scomposto, quasi irriconoscibile per i sentimenti che ora gli si
vedevano. Poi aggiunse: - Una cosa
inevitabile! Vuole accompagnarmi un poco? Ero diretto alla libreria; ma se lei non si
vergogna a venire con me, specie per la gente, andremo un poco insieme. Il Nisard
troncò subito la sua titubanza e tornò a dietro con lui. Presero, come se l'uno volesse
far piacere all'altro, per Via delle Terme, dove potevano incontrare meno conoscenti. Le case alte e
strette insieme dànno un senso d'angustia monotona; con i vicoli di Fontebranda come
tanti baratri che lasciano vedere, lontana, una collina verde e intramezzata di cipressi
neri. In Piazza di San Domenico si fermarono; sicuri che lì non li avrebbe uditi nessuno.
C'è un giardinetto mezzo devastato con un abete in mezzo; su cui s'arrampicavano un
branco di monelli. La Chiesa è d'un rosso tutto eguale; con le finestre tappate a mattoni
e la torre crettata da cima a fondo. Dentro uno spiazzo, tra due mura sporgenti accanto
alla torre, su per un arco chiuso che arriva fino al tetto, una striscia d'erba sempre
più larga in basso; che va a unirsi con quella del prato. A Giulio pareva
di respirare con una boccata sola tutta l'aria della piazza; ed era come un ragazzo che si
trova dinanzi a cose che non può capire, ma vi si attacca lo stesso. Sentiva che poteva
parlare con quanta sincerità voleva; una sincerità immensa. Egli, nondimeno, voleva
evitare che il Nisard lo mettesse al punto di parlare di se stesso; e insisteva perché
mai cadesse il discorso anche su le cambiali false. Il Nisard si meravigliava di questa
noncuranza tranquilla; attribuendola, a torto, a poca scrupolosità; quasi a un cinismo
che gli pareva spaventevole, e che egli non osava discutere. Perciò, senza volere,
assecondava il desiderio del libraio; e, visto che presso a poco poteva parlargli come
tutte le altre volte, lo portò a guardare Siena; dal muricciolo della Fortezza. Gli
disse: - Venga a
vedere come, a quest'ora, i colori sono più belli che la sera. Io me ne sono convinto
venendo qui la mattina e il giorno. Viene subito
alla vista un gran rigonfio di case; e, dentro, la Cattedrale. In Fontebranda, le case
invece si biforcano, lasciando in mezzo uno spazio vuoto. Stanno come attaccate e
schiacciate sotto la Cattedrale; a strapiombo su gli orti e su la campagna. Poi si
abbassano sempre di più fino a sparire, sotto una balza; e allora si vedono soltanto i
loro tetti. Quelle più grosse reggono le altre; e non è possibile capire dove siano le
vie; perché le case paiono separate l'una dall'altra da spacchi e da tagli quasi
bizzarri, alla rinfusa; a crocicchi rasenti, contrari, di tutte le lunghezze e di tutte le
specie. E i tetti, in quelle picce e in quegli arrembamenti, in quelle spezzettature di
ogni forma, sono sempre più rari di mano in mano che le case si spargono per le chine. La
campagna era d'un'ampiezza, che non finiva mai; e Siena, in quel silenzio, quasi taciturno
ma soave, sembrava tutta raccolta in se stessa e inaccostabile. Mentre le cime più
lontane, fino alle Cornate di Gerfalco, si sbandavano e riempivano l'orizzonte sperduto. Giulio guardò
con avidità: non mai, come allora, aveva amato la sua Siena; e ne fu orgoglioso. Il
Nisard gli spiava nel viso l'effetto, e lo riportò via subito perché gli sembrava che
fosse troppo forte. Giulio disse: - Ci sarei
stato per sempre! - Lei è
senese, e scommetto che qui non c'era mai venuto. - È vero:
soltanto da ragazzo, ma allora non capivo. - Ci tornerà,
ora, da sé? - Chi lo sa?
Oggi siamo vivi e domani già morti! E, poi, io! Mi ricordo di quand'ero giovine. Bastava
che restassi una mezz'ora solo e non avessi niente da fare, perché mi venisse una specie
di sospetto che mi faceva paura. Io non ero né meno sicuro di vivere. Il sospetto che
avevo non glie lo so spiegare; ma cercherò di farglielo capire. Lei sognando, qualche
volta, ha certamente avuto nello stesso istante una sensazione vaga, non si sa se con
piacere o con dolore, che le impediva di credere al suo sogno; e avrebbe voluto che fosse
stata la realtà, invece. Ma quella sensazione staccava il suo sogno, lo teneva discosto,
senza riescire però a fare di lei stesso e del sogno una cosa sola. Ebbene la realtà -
la chiamano realtà - che m'era intorno, mi faceva lo stesso effetto. Io non sapevo se
quel che vedevo era un sogno più vasto, continuo, a cui mi ero abituato; e del quale
soltanto poche volte avevo coscienza. Per farla capire meglio, imagini che il presente
stesso era per me il senso d'una realtà convenzionale. Ma al Nisard
questo parlare non piaceva; e, arricciando il naso, si discostò dal libraio senza dirgli
niente. Quegli seguitò: - Io, questi
pochi minuti che sono stato con lei in Fortezza, ho capito come vivevo per tanti anni di
seguito. E non vorrei ricominciare da capo. Pare che la nostra memoria sparisca e poi si
faccia anche più viva di quel che non ci aspettiamo noi. Il Nisard
storceva la bocca; e, ridacchiando, disse: - Capisco!
Capisco! Ma egli avrebbe
voluto dirgli: «Ero venuto con lei per la curiosità che ho di sapere tutta la storia
delle cambiali; e invece lei mi fa di queste divagazioni fuori di luogo; che sembrano
sciocchezze d'una mente alterata!» E, per non trovarsi più a disagio, disse che doveva
lasciarlo, per tornare a San Domenico; a vedere una tavola di Matteo di Giovanni, ch'egli
studiava. Andò in chiesa ridendo e proponendosi di raccontare tutto, perché ridesse
anche qualche altro. E, dicendosi troppo credulo e troppo debole ad aver pensato ch'egli
doveva consolare un pazzo di quel genere, entrò nella cappella, dov'era attaccata quella
tavola; e lo dimenticò subito. Ma Giulio era
restato come ebbro; e aveva una specie di gaudio amaro. Dentro di lui sentiva moversi come
una quantità di cose parassite e malvagie; che volevano prendere il sopravvento. I suoi
stati di coscienza si erano solidificati l'uno vicino all'altro, ma irriducibilmente; ed
egli tentava in vano di metterli d'accordo e di spiegarli con un solo mezzo. Non si
sentiva più libero e comprendeva che la coscienza quotidiana si era inspirata non ai suoi
sentimenti, sempre mobili, ma a certe invariabilità; alle quali, forse, quei sentimenti
si erano sempre attaccati. Ora, anche il desiderio di morire era invariabile. Non gli
parve necessario rivedere quelli della sua famiglia; perché credeva che dovesse restare
più solo che fosse possibile; come un dovere. Egli, in quel momento, non poteva avere
più nessun affetto per loro; e, quando fu alla libreria, ne aprì la porta come se
andasse a conoscere la realtà del suo sentimento. Nella libreria,
con gli sportelli chiusi, c'era buio ed egli accese il gasse. Il rumore del gasse,
prendendo fuoco, lo fece tremare di spavento. Girò gli occhi attorno, e gli venne voglia
di avventarsi a quelle pareti. Loro lo avevano fatto mentire e poi perdere; loro le più
forti. Ad un tratto,
sentì bussare: Niccolò, lo chiamava. Doveva rispondere? Non allora. Egli era troppo da
più di lui, perché gli permettesse di chiamarlo ancora. Lasciò che egli smettesse di
battere le nocche; e, dal cassetto della scrivania, prese una corda forte, con la quale
era stato legato un pacco di libri. Egli, allora, non credette più che si sarebbe
ammazzato! Perciò salì sopra uno sgabello e provò, ficcandoci il manico del martello
dentro, se un gancio alla trave veniva via. Era proprio sicuro che non si sarebbe
ammazzato! Ci legò la fune, a nodo scorsoio. Poi, ridiscese dallo sgabello e si mise a
guardarla da tutte le parti; sentendo la voglia di sorridere. La guardava scherzando; ma
pensò di toglierla perché aveva paura che le avrebbe dato retta, mettendoci il collo
dentro. Egli delirando le parlava, perché non lo tentasse. Ma non osava più toccarla.
Egli disse: «La lascerò qui per sempre. Perché si veda a che punto mi sono ridotto.»
Era ormai come un pazzo; e appuntellò la porta per paura che venisse un branco di gente a
buttarla giù. Non dovevano tardare molto. Li sentiva venire, da tutte le parti. Non c'era
più modo di resistere: i puntelli saltavano via. Su la cassapanca, tutti quegli oggetti
falsamente antichi gli dissero: «Tu sei eguale a noi! È inutile che tu cerchi
d'evitarci!» Egli rispose a voce alta: «Aspettate, faccio una firma.» E vide la sua
firma falsa saltellare sul pavimento. Si chinò per chiapparla; entrò con la testa sotto
gli scaffali: la firma c'era, ma egli non la vedeva più. «Guardate: in mano non ce
l'ho!» Allora, spense
la luce. E, al buio, senza rendersi conto che si ammazzava, mise la testa dentro il
laccio. Sentendosi stringere, avrebbe voluto gridare; ma non gli riescì. |
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Ultimo Aggiornamento: 13/07/2005 22.27