TRE CROCI
di Federigo Tozzi
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CAPITOLO XII Alla banca, un
amico del Nicchioli si stupì che egli avesse firmato per i Gambi un'altra cambiale; e
pensò di dirglielo. Il Nicchioli
non voleva crederci, e restò così sconvolto ed atterrito delle conseguenze che né meno
la moglie riescì a calmarlo. Si spense in lui ogni stima per gli altri; e se si fosse
ritrovato, da un giorno a un altro, senza più niente, non avrebbe potuto accasciarsi di
più. La moglie gli diceva che, dopo tutto, sessanta o settanta mila lire perdute, se dal
fallimento non ci fosse stato da prendere né meno una lira, erano per lui soltanto un
anno e forse meno di rendita. Egli le dava ragione, le baciava le mani mentre ella lo
accarezzava; ma, dopo un poco, ricominciava a smaniare più di prima; senza sapere se
andava la sera stessa a trovare i Gambi o se aspettava il giorno dopo; quando si fosse
rimesso e fosse tornato in sé. La moglie non lo fece escire; ed egli la notte non poté
mai addormentarsi. Verso la mattina, pianse per più di un'ora, zitto zitto; e poté
assopirsi anche perché era sfinito. Si alzò con il
proposito di andare alla libreria, a farsi vedere sdegnato e a trattar male i Gambi; ma,
per la strada, la sua furia diminuiva; ed era così debole che sudava. Egli non ebbe animo
d'entrare solo; e andò a prendere, in casa, il Corsali; che credeva piuttosto di sognare. Intanto, i
Gambi sapevano che la cambiale era stata non solo respinta, ma anche denunciata. Pareva
che già lo sapesse anche tutta Siena; perché molti ne parlavano a voce alta, fermandosi
davanti alla libreria; dicendo che si trattava di quasi novantamila lire; e qualcuno
assicurava centomila. Enrico era andato a quella bettola, a combinare una partita a carte
per la sera; e un suo conoscente gli aveva riso su la faccia. Egli, sgattaiolando, corse
ad avvertire i fratelli; facendo loro vedere con che aria la gente si fermava davanti alla
libreria. Non c'era più niente da sperare! Giulio cadde in
deliquio; e Niccolò, stringendo la sua testa tra le mani, lo baciava e lo chiamava per
nome. Enrico, per non trovarsi a qualche umiliazione brutta, andò a turarsi in casa. E,
per essere il primo, disse tutto a Modesta; che cominciò a disperarsi strillando, insieme
con le nipoti. Quando Giulio
si riebbe, non pianse; ma aveva gli occhi di chi ha sparso sempre lagrime. Niccolò non
stava fermo, andava per tutti i cantucci della libreria; fremendo, bestemmiando e
insultando chiunque gli veniva alla mente. La sua voce sembrava un legno grosso che si
stronca; ma c'era sempre una specie di risata, che la rendeva più tagliente e sanguigna. Quando apparve
il Nicchioli seguito dal Corsali, che avrebbe voluto non essere lì, per paura che poi i
Gambi si sarebbero rifatti sfogandosi contro di lui, Niccolò si fermò di botto,
sbiancando come se dovesse venirgli male; e Giulio cadde un'altra volta in deliquio. Il
Nicchioli disse a Niccolò, senz'essere sicuro che egli l'ascoltasse: - Avrei diritto
di dirvi quel che penso e tutto quel che volessi, ma ho compassione di voi! Niccolò fece
un gesto, come per trattenerlo e per accennargli Giulio abbandonato addosso alla
scrivania; ma il Nicchioli non volle sentire niente, e rispose: - Non ce n'è
bisogno. Mi aspettavo più coscienza! Il Corsali, che
si teneva a una certa distanza, gli aprì la porta; e, prima di escire anche lui, disse: - Più tardi
tornerò! Allora a
Niccolò venne da ridere; ma a vedere il fratello come un morto s'infuriava; e lo sollevò
di peso, accomodandolo su la sedia. Egli pensava: «Ci dovrebbe essere Modesta! Io non lo
so assistere!» Giulio, aprendo
gli occhi, disse: - Che m'è
accaduto? Mi son sentito girare la testa. Guarda che le mie lenti non si siano rotte. Niccolò glie
le dette, e gli disse: - Bisogna che
tu sia più forte! Giulio,
tentando di sorridere, chiese: - Il Nicchioli
se n'è andato subito? - Quasi. - Che ti ha
detto? Volevo parlargli io! - Non ha detto
niente! Se non fosse un imbecille, dovrebbe pagare la cambiale; e anche lui eviterebbe
quel che cerca facendoci fallire! Giulio disse: - Mi pare di
sentirmi male. Ma Niccolò
vide alcune persone ferme dinanzi alla bottega; allora, andò dietro i vetri e fece una
risata: le persone, sorprese e vergognose s'allontanarono. - Credono che
io gliela dia vinta! Altro che fallimenti ci vogliono! Niccolò non si leva di cappello a
nessuno! Senti, Giulio, non ti affliggere come fai. Non ti posso sopportare. Guarda il
contegno che tengo io! Guarda: non mi tremano né meno le mani! E tese il
braccio; ma la mano gli tremava così forte che la ritirò subito. - Che gente!
Pare che i soldi li abbiamo presi a loro! Che gliene importa? Non si sapesse, che sono
tutti peggio di noi! Poi, credendo
di avere già influito sul fratello, disse: - Per me, sono
contento se mi resta questa cassapanca. Me la faccio mettere in camera, e me la guarderò
quanto voglio. Ma Giulio si
sentiva trafitto, e non avrebbe voluto parlare più. Egli, nello stesso tempo, provava una
grande dolcezza, quasi una grande contentezza, che gli faceva desiderare sofferenze più
acute. Gli pareva d'essere doventato, invece, insensibile; e questo lo deludeva. Non c'era
altro, dunque, da inventare acciocché egli fosse costretto a patire quanto aveva sognato?
Perché, dunque, viveva? Non era incompatibile che vivesse se i suoi occhi vedevano gli
stessi scaffali e suo fratello? Non era immorale se egli, forse tra pochi minuti, doveva
parlare, come una volta, a Modesta e alle nipoti? A quale fine sarebbe stato così
differente a Enrico e anche a Niccolò? Sapeva da sé quello che ormai era: nessuno glie
lo avrebbe potuto dire con più asprezza. Ecco perché le angosce degli altri giorni oggi
non tornavano! Ecco perché sentiva una specie di serenità incerta e nebulosa; ma quasi
soave; come se i suoi pensieri si purificassero da sé, a contatto di una misericordia.
Disse a Niccolò: - Io invidio
quelli che possono credere. Niccolò, con
un'alterezza violenta, chiese: - A che? - A Dio. Niccolò non
voleva sentirne parlare, e s'impazientì di più. - Giulio, oggi
tu hai perso la testa! Non ti giudicavo così. Fammi sentire il polso se hai la febbre! Allora, Giulio
disse: - Ho detto...
una cosa qualunque. Piuttosto, ora dovremo andare a casa; e non potremo più nascondere
niente. - Ah, certo! È
bene che anche Modesta faccia buon viso alla sventura. Subito ci si deve avvezzare! Ci
penso io! Guai a lei se piange! Non ci dormirei né meno insieme. Perdio! Le turo la bocca
con le mani. Ci hai il vino in casa? Ma anche egli,
benché il suo istinto fosse sempre forte, si sentiva esasperare; e gli mancava sempre di
più l'animo. Ed aveva paura di doversi pentire. Nondimeno, per ora, sembrava capace di
qualunque resistenza e anche di qualunque eccesso. Egli, infatti, con le mani dietro la
schiena, e il sigaro in bocca, benché non avesse voluto accenderlo, si mise al vetro
della porta, fissando in viso tutti quelli che si voltavano; non smettendo se essi non
erano i primi. Poi, disse quasi allegro, benché con una certa punta d'agrezza: - Giulio, fatti
vedere anche tu. - Ma perché
dài importanza a queste nànnole? Vieni più in dentro, e lasciali stare quanti sono. Ora
chiudiamo, e andiamo a casa. Poi, sentiremo quel che ci dovrà capitare. Verranno a
mettere i sigilli alla porta e poi... - E poi? - Se io sarò
vivo, vedrò. - E io lo
stesso. Escirono
insieme, come non facevano da anni; e insieme non ci sapevano camminare. Giulio affettava
di essere indifferente e anche di non dare importanza alla faccenda; mentre Niccolò
guardava tutti con un'aria arrogante e sguaiata. In Via del Re, a un certo punto, Giulio
disse: - Senti come
puzzano queste stalle! Di qui non ci si dovrebbe mai passare! Scesi dal
Vicolo di San Vigilio, si trovarono al Palazzo Piccolomini: uno dei suoi spigoli pareva
rasente alla Torre; come se fosse stata staccata da esso con un taglio. E il Palazzo, di
pietra, con le finestre inferriate, fa sempre un'impressione, ch'è addolcita dalle Logge,
benché deserte e polverose, chiuse dalla vecchia cancellata. Niccolò,
alzando gli occhi, che ridoventarono furbi e maliziosi, alle finestre, disse: - Se mi
lasciassero entrare dove sono le pergamene! Altro che cambiale! Ma quando si
trattò di girare la chiave nella serratura di casa, egli non ebbe più voglia di
scherzare; e il viso gli doventò scuro. Giulio, prima d'aprire, si raccomandò che
lasciasse fare a lui; senza montare in furie, anche se Modesta avesse voluto dire qualche
cosa; perché, del resto, aveva diritto a non stare zitta. E, sebbene poco rassicurato,
aprì. Allora, come se
fosse stata lì ad attenderli, Modesta si avventò al collo del marito e non lo voleva
più lasciare; singhiozzando e torcendosi tutta, quasi da cadere insieme con lui.
Niccolò, a cui non piaceva quella passione insensata e si asciugava il viso che la donna
gli bagnava con le lacrime, disse a Giulio: - Levamela tu
di dosso! Prendila! Io non vorrei farle male a staccarla; da quanto mi stringe! Ma in quel
punto le due nipoti afferrarono Giulio, e con il loro peso lo fecero perfino traballare.
Giulio, però, si commosse; e avrebbe desiderato che non lo lasciassero più. Ma disse
loro che andassero a prendere la zia e la portassero in salotto. Egli non s'aspettava che
sapessero già tutto; e non gli veniva in mente che poteva essere stato Enrico. Niccolò gli
disse: - Hai visto che
sentimento ha quella donna? Non ha detto né meno una parola cattiva! - Vai da lei! Niccolò andò
in salotto e si mise a sedere accanto alla moglie; ma, a vederlo, faceva ridere, tanto ci
stava goffamente e malvolentieri. Egli non le diceva nulla; e quando ella, per affetto,
voleva fissarlo negli occhi, egli a poco a poco li girava altrove e fingeva di fare così
per distrarsi quanto fosse possibile. - Perché non
mi avete detto la verità prima? Vedi ch'io ero stata indovina? Non meritavo, allora, che
tu fossi stato schietto? Egli storceva
la bocca e chiudeva gli occhi. - Forse avrei
potuto consigliarti. Allora,
Niccolò si scosse e fece l'atto di alzarsi; ma si rilasciò su la sedia. - Certamente,
non avrei permesso che spendessimo tanto! Egli,
risolutamente, si alzò. E le disse, con una specie di autorità canzonatoria: - Ne parleremo
domani. Giulio, nella
sua camera, si sentiva assai più triste che nella libreria; e gli sarebbe stato
impossibile rimanerci a lungo. Mangiò un pezzo di pane intinto nel vino, e andò a
serrarsi dentro la libreria; a stracciare carte e a preparare i bilanci dei registri.
Lavorava in fretta e con una facilità che non aveva sempre avuta. Lavorava come se avesse
potuto riparare a qualche cosa; e si sentiva calmo; ma con una di quelle calme che pesano
come il piombo e se ne ha paura; perché si sa che esse ci costringeranno a qualche
tristizia inaudita. La sera non
mangiò niente, e barcollando si gettò subito sul letto. Dormì con un senso di dolcezza
che lo affascinava. Poi, rimpianse di essersi destato: in certi casi non si lascerebbe mai
il sonno. Niccolò tentò
di parlare con Enrico, ma gli fu impossibile. Uno diceva una cosa e uno un'altra; e nessun
dei due pareva disposto a capire quel che dicevano. Enrico sembrava addirittura idiota,
quasi inconsapevole della cambiale. Pareva che soltanto a stento ammettesse che era vero;
e, alla fine, disse che anche a parlarne non ne ricavavano nessuna utilità. Egli non
aveva né meno aperto la legatoria; e i due o tre operai, saputo del perché, se n'erano
andati. Niccolò avrebbe voluto stare con Giulio; ma questi gli aveva detto di no. Allora,
pensò di trovare il Nisard; ma non riuscì ad incontrarlo. Non poteva
stare senza discorrere; e, tornato a casa, si mise a fare il chiasso con le nipoti; mentre
Modesta, distesa su una greppina, teneva gli orecchi turati con le mani. Ogni tanto,
Enrico si affacciava alla stanza; e tornava via senza dire niente. Egli stava con i gomiti
appuntellati al davanzale della finestra, sbadigliando. A tavola,
disse: - Il peggio
sarà che non potremo mangiare come abbiamo fatto fino ad ora! Il resto, poi, non conta
niente. |
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Ultimo Aggiornamento: 17/07/2005 14.04