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De Bibliotheca

Biblioteca Telematica

CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

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Tigre reale

Di: Giovanni Verga

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PARTE SECONDA

 

V


La Ferlita sarebbe stato sorpreso se alcuno avesse affermato che egli faceva la corte alla contessa. Se quello poteva dirsi far la corte, era fare una corte molto magra. Avea cominciato dall'amarla, è vero, come un ragazzo, come uno studente, ma sin dalla prima visita ella gli aveva messo del ghiaccio sulla testa, e aveano riso francamente di quel ch'era stato di quella sciocchezza; non l'amava affatto, ne era ben certo, ma stava volentieri vicino a lei. Ella era tutt'altra donna di quella che avea creduto conoscere; una donna a quarti d'ora, tutta nervi e capricci, trasformantesi ad ogni momento - giammai la stessa - senza artificio e senza affettazione, forse anche senza averne coscienza; una donna cui non si sapeva su qual tono rispondere ad una domanda fatta da lei all'istante medesimo. Come amante ella non valeva la marchesa, né la bionda Targotti, né Palmira, non valeva gran cosa insomma; ma come amica era impareggiabile, non fosse altro che non ci si annoiava mai un momento in casa sua, neanche a star zitti e musoni, non fosse altro quella birichina curiosità che vi prendeva di sapere come l'avreste trovata - ché il suo umore era sempre cangiante e bizzarro - al momento di metter piede a terra al cancello del suo villino. Anche quale amica, senza avvedersene metteva sempre nella loro intimità un po' dell'ignoto della sconosciuta che si voltava a guardarlo quando l'incontrava in via Calzaioli. L'imprevisto era la sua maggiore attrattiva.

Nata aveva delle ore in cui irrompeva la sua natura selvaggia, specialmente quand'era sola; allora passava delle ore rannicchiata nella sua poltrona dinanzi al fuoco, cogli occhi spalancati ed astratti, non pensando a nulla, sentendo solo con voluttà carnale le aspre punture della fiamma. Alcune volte stava ad ascoltare La Ferlita senza dire una parola, colle labbra leggermente contratte e la fronte corrugata, vagabondando col pensiero, rispondendo per monosillabi, spesso a sproposito, col capo appoggiato alla spalliera della poltrona, stanca o annoiata. Giorgio credeva che fosse ora di andarsene, e allorché prendeva commiato, ella gli domandava perché volesse partire così presto, e lo pregava di rimanere. La scena non mutava però; la conversazione languiva come il fuoco che spegnevasi nel camino, e allorché si sorprendevano entrambi dopo una mezz'ora di silenzio, ella si alzava e gli dava la buonanotte freddamente.

La Ferlita qualche volta, senza volerlo, diveniva triste anche lui; il suo buon umore, i suoi frizzi, i suoi aneddoti della giornata gli morivano sulle labbra, e il fantasma di quel male terribile che ella non poteva dissimulare a se stessa, assorbiva anche lui. La guardava alla sfuggita, quasi di furto, e cercava d'indovinare tutte le segrete e profonde amarezze di lei, e sembravagli di seguire il pensiero di quella donna che doveva vedere dappertutto la tisi, nell'allegro fuoco del caminetto, in mezzo ai fiori del salotto, fra le cortine di broccato, fra tutte le pompe e i sorrisi della beltà e della giovinezza. Allora la donna del passato gli tornava un istante dinanzi agli occhi, fuggevole e luminosa, colle curiosità irritanti che ella gli avea comunicato e le pungenti attrattive che aveva avuto. Ei rimaneva sorpreso, imbarazzato davanti a lei; quando non si udiva più la sua parola ironica o ghiacciata l'illusione facevasi ancor più completa; egli non osava più parlare, assorbivasi in una profonda astrazione contemplando tacitamente le trecce bionde di lei allentate sulla nuca, le mani candide incrociate sulle ginocchia e il viso pallido, su cui la fiamma alternava dei toni ardenti e dei lividi chiarori. Ella serbava inalterabile il suo viso di marmo, la sua indifferenza profonda e glaciale. Qualche volta, mentre discorrevano, quasi sempre allorché Giulio sembrava più spensierato ed allegro, ella gli piantava in volto que' suoi occhioni grigi, dalla pupilla larga e fosforescente, e rimaneva a fissarlo così due o tre secondi senza che un sol muscolo del suo viso si muovesse; quegli occhi riboccanti di vita su quel viso impassibile facevano un effetto singolare, e Giorgio non poteva sostenerne la tenacità penetrante, come se avessero a rimproverargli qualche cosa. Ella lo ascoltava per lo più in silenzio, sembrava attenta; quand'egli stornava gli occhi, le labbra di lei si agitavano impercettibilmente, come se avessero mormorato qualche cosa. Ei le trovava sempre la stessa fisonomia fredda e impenetrabile.

«A che pensa?» le domandò un giorno.

Ella lo guardò con tale aria di sorpresa che Giorgio si pentì della domanda fatta.

«A nulla... a cercar di sapere se mi sono divertita ieri al ballo in casa de Rancy, e se la musica del Don Carlos mi sia piaciuta.»

Allorché gli dava una di quelle risposte, sembrava a Giorgio che gli buttasse in faccia come un'ondata dell'ignoto della sua vita, piena di acri profumi e di inesplicabili attrattive, che lo stordiva. Egli allora ammutoliva, e sembravagli di immergersi di botto, con un vago sentimento di voluttà aspra e dolorosa, nel passato di quella donna così indecifrabile. Sentiva una simpatia amara e un'avida curiosità per colei che gli era così straniera e tanto lontana in tanta intimità, e per uno strano fenomeno, quei sentimenti ch'ella gli nascondeva più gelosamente e che erano più alieni da lui, erano appunto quelli che l'attraevano dippiù. In certi momenti, senza menomamente dubitare che fosse perché l'amava, avrebbe voluto ch'ella gli avesse raccontato tutto il suo passato, che si fossero confidati l'una all'altro tenendosi abbracciati, avessero dovuto poi piangerne in seguito.

«Vorrei essere suo fratello!» le disse una volta che avea il cuore più pieno.

Nata si voltò bruscamente.

«Perché?»

«Per non lasciarla mai sola con se stessa, come adesso.»

«Ma io sono in buona compagnia invece.»

«Mi perdoni se ho troppo osato!» diss'egli seccamente.

«Al contrario. Perché non sarebbe mio fratello? Giacché non siamo ancora amici, giacché non possiamo essere camerati, giacché non saremo mai altro, siamo pure fratello e sorella.»

«Vorrei avere il diritto di leggerle nel pensiero. Vorrei avere il diritto di stringerle la mano in certi momenti...»

«Proteggermi, assitermi, alleviare le mie pene, e tutelarmi, da vero fratello maggiore. Mi chiami Bebè, caro La Ferlita e mi regali dei confetti.»

«Ho torto, lo confesso!» disse Giorgio bruscamente ritirando la mano.

«Davvero? le sembro così malata? e crede che pensi alla morte come Maria Maddalena? Se ciò fosse, vorrei godermi la vita e aver degli amanti... Allora naturalmente lei sarebbe il primo...»

 

Alcune altre volte invece era di un'allegria matta e rumorosa, e allora non c'era follia che non osasse fare.

Una sera rimandò la sua carrozza e si fece accompagnare a piedi sino alla sua abitazione.

Faceva un freddo da lupi, ed ella tremava tutta, imbacuccata com'era. Giorgio era di cattivissimo umore, e avea tentato tutti i mezzi per dissuaderla; ella, pur sbattendo i denti dal freddo, rideva di lui e gli diceva che si divertiva mezzo mondo. La notte era serena e stellata, e fuori porta San Gallo non c'era più anima viva; Nata doveva stringersi un po' nelle vesti e contro di lui. Quel silenzio profondo, quell'aria frizzante, quell'oscurità punteggiata dalla doppia fila dei fanali schierati sul viale deserto, quella solitudine, l'allettavano, sembravano eccitarla.

«Che peccato non ci sia neppur un briciolo di colpa in quel che stiamo facendo!» gli disse con voce vibrante, e i suoi occhi luccicavano nell'ombra; ebbe due o tre colpetti di riso nervoso. «Coloro che ci incontreranno ci prenderanno per due amanti, non è vero, Giorgio?... Orsù, non mi tenete il broncio; diamoci del voi a quest'ora, lasciatemi fare; voi stesso avete detto che ho poco da vivere.»

Anche motteggiando aveva sempre di queste lugubri allusioni.

 

Spesso invitava La Ferlita a colazione, da sola a solo, si faceva servire nel suo salotto, sul tavolino posto dinanzi alla finestra del giardino, cercando dare un sapore di cena sospetta a quella colazione fatta alla gran luce del sole, rosicchiando, mangiucchiando di tutto, bevendo a piccoli sorsi il bordò prescritto dal medico nel bicchiere di sciampagna. Poi, colla tazza colma davanti, appoggiava i gomiti sulla tovaglia alquanto in disordine, e si metteva a chiacchierare, confidente ed espansiva come un buon camerata. Si raccontavano ridendo le loro conquiste, le loro civetterie e le loro follie di giovinezza; tempo addietro, gli raccontava, si era invaghita di un giovane studente, proprio quel che si dice un gran monello, ma bello, bello da dipingere, con occhi neri grandi così, e un collo fatto come quello dell'Antinoo, un collo che bisognava vedere allorquando snodava la sua cravatta rossa e sbottonava il colletto della camicia per giocare alla palla fuori porta San Gallo; ella montava a cavallo tutti i giorni e andava a caracollare nel viale per vederlo e farsi vedere, e lui, duro e dispettosaccio, faceva il superbo e fingeva di non accorgersi che quella bella signora veniva lì apposta per fargli la corte. Infine quel restio amor proprio ne fu lusingato; e non solo ei cominciò a guardarla, ma non giocò più alla palla, cercò di vestirsi meglio, ed ella se lo trovava sempre fra i piedi, al passeggio e nei teatri. Allora non le piacque più e non lo guardò più. Peccato! non era più quello, senza la sua giacchetta di velluto!

La contessa e Giorgio, in quei momenti, erano a mille miglia dal pensiero che si fossero amati, che potessero amarsi; egli trovavasi quasi sempre più imbarazzato di lei, ché sentiva di essere ridicolo se non riusciva a mettersi all'unisono, e quelle volte ella lo impacciava, gli faceva un effetto singolare, gli rendeva difficile la sua parte; ella no, ella quando voleva avea sempre l'epigramma incisivo e pronto, qualche volta amaro. Gli diceva: «Ah! se fossi un uomo! Se fossi un uomo come credete che sarei? Povero Giorgio, non sarei certo come voi, veh!» La tosse spesso le soffocava il riso.

E tutt'a un tratto, dopo essere stata così carezzevole, diventava dispettosa ed inquieta, guardava lui di soppiatto e quasi con una espressione di rancore; avea delle irritazioni sorde e contenute, delle selvaggie aspirazioni verso non so che, e quando aggrottava le ciglia il suo occhio diventava cattivo.

 

Una sera, in una festa da ballo, colle guance leggermente incarnate e gli occhi sfavillanti, respirando una qualche ebbrezza violenta, gli premette la mano di nascosto in mezzo al turbine del cotillon, aveva la mano secca e calda.

«Non avete visto come Brenti mi fa la corte?» gli disse.

«Povero Brenti! Non vorrei che diceste la medesima cosa di me, con quel risolino che avete in bocca.»

Ella si strinse nelle spalle, nelle sue belle spalle bianche e delicate, che sembravano sbocciare fuori dal busto con quel movimento.

«Preferisco il modo in cui me la fa quell'altro, guardate, quel giovanettino che sta lì, presso quell'uscio; vedete con che occhi! e così tutta la sera! Avrà quindici anni tutt'al più... bell'età! vorrei essere dentro il suo petto e sentire come gli batte il cuore quando rivolgo gli occhi su di lui! Davvero, mi piace, colla sua aria timida e i suoi sguardi di fuoco.»

«Egli si è accorto che parliamo di lui.»

«Come sarà commosso, povero bambino!... Vi assicuro che ho provato più di una volta la tentazione di passargli accanto, senza guardarlo, e di stringergli la mano tra la folla.»

«Perché non rapirlo addirittura nella vostra carrozza?»

«Perché no?» replicò ella con un sorriso nervoso. «Ci son dei momenti in cui mi sento montare alla testa il sangue tartaro che ho nelle vene.»

«Ma sentite! alla fin fine tutto ciò non sarebbe mica gentile per me... se fossi innamorato di voi.»

«No,» rispose ella in aria distratta; «è vero, ma siccome non lo siete, e non lo siamo, e non lo saremo, e siamo invece buoni camerati... Dite un po', se tutti costoro conoscessero le follie che facciamo insieme, voi così serio, così elegante... Come siete elegante stasera! raffermate meglio la vostra camelia... Non è vero che ho un po' della monella, io?»

Verso quell'epoca ella avea avuto un capriccio per il saltimbanco di una compagnia equestre, e avrebbe voluto andare al Politeama tutti i giorni. La Ferlita se n'era accorto trovandosi per caso nel suo palchetto, vedendola fissare lungamente il cannocchiale sulla scena; da buon camerata le fece delle osservazioni alquanto pungenti; ella gli tenne il broncio. «Vedete come siete ingiusti voi altri! se una ballerina vi piace, padronissimi d'andare a vederla e di sbracciarvi in applausi! credete forse che un bell'uomo non possa piacere al pari di una bella donna? e che i ballerini e i saltatori di corda siano fatti per essere ammirati da voi altri signori? Non andate in un museo a vedere l'Apollo ed il Bacco? e quel lì, guardatelo, non è una bella statua di uomo? Io non lo vorrei nella mia anticamera, ma sulla scena mi piace.»

A La Ferlita saltò la mosca sul serio stavolta, ma Nata non se ne diede per intesa; era delle prime ad applaudire, ella che non soleva applaudire giammai, e non lasciava mai col cannocchiale l'Antinoo da palcoscenico. Infine quel povero diavolo s'accorse dell'effetto che facevano su quella gran dama le sue pagliuzze d'oro e la sua zazzera lustra e inanellata, e perdette la testa; non aveva più la solita disinvoltura e la solita smorfia sorridente ed eguale per tutti, salutava sempre una sola parte del pubblico plaudente, quello di sinistra, spesso s'imbrogliava negli ordegni e nei cordami. Una volta nel saltare sui due piedi con una graziosa riverenza capitombolò goffamente; tutti gli spettatori non ebbero che un movimento di simpatia e di commiserazione, solo la contessa scoppiò a ridere talmente che dovette nascondere il viso nel fazzoletto. Il poveretto non osò più comparire sulla scena.

«Ecco cos'è la gloria!» esclamò gaiamente, e scorgendo che anche Giorgio rideva. «Vedete come vanno a finire i miei entusiasmi?»

 

Poi l'indomani Giorgio la incontrava in un ballo, o la vedeva nel suo palchetto alla Pergola, scollacciata, coperta di pizzi, carica di brillanti, elegante, freddamente altera, coll'ironia sulle labbra, il ventaglio in mano come uno scettro, rispondendo appena con un cenno del capo agli inchini profondi, al più degnandosi di puntare il cannocchiale dal suo palchetto come un saluto; l'amico, il camerata del giorno innanzi confondevasi fra la folla che le faceva ressa attorno, ella lo distingueva appena con un mezzo sorriso, non gli apparteneva più, rientrava nella sua sfera a testa alta. Una volta, in mezzo ad un ballo, fu colta dalla tosse, e quando riapparve nella sala era pallida come cera, ma si rimise a ballare come prima. Giorgio l'accompagnò sino alla carrozza; mentre scendeva le scale, tutta imbacuccata nel suo mantello ovattato, col cappuccio sulla fronte, avvolto il capo nel velo a tre riprese, pallida ancora e silenziosa stavolta, gli disse con impercettibile aggrottamento di ciglia:

«Perché mi guardate così? si direbbe che avete paura di accompagnare una moribonda.»

Egli ebbe per tutta la notte quello sguardo e quelle parole nella mente.

 

Fu malata per tre o quattro giorni, non ricevette nessuno, e poi riapparve nuovamente in mezzo alla folla dei teatri e delle feste un po' più pallida, un po' più dimagrata, ma assetata di vita e di piaceri più di prima. Avvicinandosi la primavera, cominciava a parlare di bagni e di viaggi, e faceva dei progetti coi suoi amici che contava d'incontrare alle acque o in Isvizzera.

 

 

VI

 

Verso la fine di marzo La Ferlita era stato nominato vicesegretario e doveva partire per Lisbona. La contessa aveva dato un thè in questa occasione, invitando de Rancy, la viscontessa, Colli, San Damiano, la signora Grandi e alcuni altri. Giorgio era rimasto l'ultimo ad andarsene.

«Addio,» gli disse Nata finalmente stringendogli la mano, «o piuttosto a rivederci: ci vedremo ancora, non è vero?»

«Certamente,»

«Per quanto tempo ancora?» - a lui parve udire un altro suono in quella voce; ma subito, colla calma consueta elle riprese: «Quando partirete?»

«Fra tre o quattro giorni.»

«Il Portogallo è un bel paese, e voi sarete felice!»

Erano presso l'uscio a vetri che metteva nel giardino; Giorgio parlava delle noie della partenza, e Nata colla fronte appoggiata ai vetri sembrava ascoltare; la luna segnava il viale di larghe striscie d'argento attraverso le ombre sottili del cancello, e faceva la contessa più pallida in viso. Ad un tratto Giorgio volgendosi verso di lei vide due grosse lagrime che scorrevano lentamente sulle guance; quella vista lo colpì di stupore; tutto il passato, tutte le contraddizioni, tutte le stranezze, tutte le rivolte di quella donna gli balenarono ad un tratto dinanzi agli occhi, gli si spiegarono proprio col bagliore accecante e sfuggevole del lampo, giacché la fisonomia di lei avea ripreso subito la maschera rigida e calma. Ella lo avea amato, lo amava, serbando sempre quel viso impenetrabile. Quelle lagrime che venivano dal fondo del cuore e che sembravano scorrere sul marmo, dovevano molto costare a quel carattere di sasso. Egli le afferrò la mano con impeto e domandò con voce tremante:

«Che avete?»

Nata si voltò come una leonessa ferita; mosse le labbra due o tre volte senza dir nulla e si svincolò vivamente dalle mani di lui. Poscia bruscamente spalancò l'invetriata e uscì in giardino a capo scoperto, nella notte fredda e bianca di luna; e siccome Giorgio, senza saper quel che si facesse, senza sapere che pensare di quella strana creatura, tentava trattenerla:

«Non volete?» diss'ella continuando ad andare. Avea la voce leggermente rauca, con un tono di sarcasmo quasi amaro.

«Non voglio che vi uccidiate!»

Ella si fermò di botto e gli lanciò un'occhiata dura e scintillante.

«Che importa a voi?»

«Non mi credete vostro amico?» balbettò Giorgio.

«Amico? si, amico! Vi credo mio amico. Ma ho tanti amici! San Damiano, Colli, de Rancy... e dai miei amici non mi piace esser contraddetta.»

«Perdonatemi, è stato per la prima e l'ultima volta.»

Senza badare al tono di quella risposta e cambiando improvvisamente il tono della sua:

«L'ultima? che brutta parola... Infatti... è vero. Chissà se ci rivedremo mai più? chissà?»

Il freddo la faceva rabbrividire e tossire leggermente.

«Piuttosto, se volete, datemi il mio scialle: è sul canapè, presso la finestra.»

Poi, incrociandosi lo scialle sul petto, e fissandolo in viso con una gran serietà:

«Vedete che son ragionevole infine, e che finisco col dar retta ai miei amici.»

Così dicendo andava diritta pel viale, un po' stretta nelle spalle, pallida e fredda, colle labbra increspate dall'aria frizzante, alquanto imbarazzata dalla veste che il vento le avvolgeva alle gambe e sbatteva col fruscio di una vela allentata.

«Addio», gli ripeté allorché furono al cancello. «Ci rivedremo ancora un'ultima volta però.»

Giorgio rimaneva mutolo, sopraffatto dalla energia di quel carattere; le teneva la mano, e la stringeva forte, senza avvedersene.

«Infatti... non è meglio che sia l'ultima?»

«Perché?» domandò Nata coll'accento più naturale.

«Perché ho il torto d'amarvi!»

Ella lo guardò attonita, e rimase zitta un istante.

«Voi?» esclamò con stupore, e poscia con uno scoppio di risa, delle risa che lo schiaffeggiavano sulle guance: «Voi?... Ah!»

Giorgio le lasciò la mano con un brusco movimento; sentì come una vampa che gli montò dal cuore alla testa; ma da lì a poco si mise a ridere, e anche lui, un po' a denti stretti.

«Guardate, con una sera sì bella! siam soli, di notte, stringendoci le mani, fra lo stormir delle fronde e alla pallida luce dell'astro degli amanti. Pel quarto d'ora devo adunque essere il vostro Romeo, non fosse altro che pel colore locale. Se vedeste come siete bella e vaporosa a questo lume di luna!...»

Nata non cessava di ridere a piccoli scoppietti - era un riso strano che non si accordava coll'espressione dei suoi occhi sbarrati. «Avete ragione. E pel quarto d'ora, ditemi, quante siamo le Giuliette? Io, la signora che menate a spasso alle Cascine, forse la viscontessa de Rancy, chi d'altri?»

Giorgio si strinse nelle spalle. Allora ella, prendendogli le mani nuovamente, gli disse con voce carezzevole: «Povero Giorgio! Sono stata un po' civetta con voi, pel passato, molto tempo addietro, molto tempo! Adesso vi voglio bene, proprio voler bene, sapete. Ma amarci, a parte il color locale, non ci amiamo né voi, né io... A meno che non mi amiate come amate la vostra bella delle Cascine. Quanto a me...»

«Quanto a voi?...»

«Quanto a me è meglio che restiamo amici, Romeo, volete? Meglio per voi, meglio per me, meglio per tutti.»

In così dire si mise a tossire di nuovo. La Ferlita le prese il braccio con amorevole violenza.

«Ebbene, come vostro amico datemi retta, rientrate in casa. Così vi uccidete.»

Nata si lasciò condurre, docile e obbediente come una fanciullina; Giorgio rianimò il fuoco, avvicinò la poltrona al camino, le fece scaldare i piedi intirizziti. Ella era pallida, e di quando in quando si stringeva nelle vesti con un brivido di freddo; la fiamma alta la faceva sorridere. Ei non diceva più verbo, e sembrava prendere sul serio la sua parte; quando si fu riscaldata, e che il riverbero del caminetto cominciò a dare un po' di colore a quel viso di cera, le disse:

«Vi prego di scrivere queste quattro parole come se le pensaste, a guisa di ricordo per l'ultima sera che abbiamo passato insieme giocando a Giulietta e Romeo. 'Vi amo, parto, addio'.»

Nata, senza esitare, senza voltarsi neppure verso di lui, rispose tranquillamente: «È inutile, perché ve l'ho già scritto un'altra volta.»

«Voi dunque!...»

«Se me lo domandate per confrontare le due scritture, vi risparmio cotesto esame; se c'è un rimprovero nelle vostre parole, l'accetto senza cercare di scusarmi.»

«Giacché non mi amate più, non voglio esaminar più nulla, non mi lagno di nulla, non vi rimprovero nulla.»

Ella rimase cogli occhi fissi sulla fiamma.

«Credevo non vedervi più, ecco perché vi ho scritto così», aggiunse Nata da lì a poco freddamente e risolutamente.

Giorgio sogghignò.

«Volete che sia vostra amante?» diss'ella con un accento brusco, ma calma e risoluta, piantandogli in volto quel suo sguardo selvaggio. E siccome La Ferlita, attonito, non trovava una sola parola:

«Volete che mi dia a voi, domani, stasera, freddamente, deliberatamente, senza amarvi punto? Volete?»

«Che donna siete mai?» gridò egli dopo un istante di quel silenzio stupefatto. Nata scoppiò in un riso stridente che la fece tossire e le imporporò le gote:

«Avete delle curiosità malsane, amico mio. Io non ho mai avuto la pretesa di arrivare a saper tanto... e forse ho fatto meglio.»

«Vi dirò quel che sono io. Sono uno stupido, che mentre voi gli ridete in faccia vi ama come un pazzo. Vi ho amata per tre mesi senza saperlo, senza sospettarlo, credendo che quella prima fase donchisciottesca del mio sentimento avesse realmente dato luogo a una semplice amicizia. - Voi eravate tutt'altra donna. Ad un tratto questa passione m'irrompe in cuore come una febbre, come un delirio. Le vostre parole, i vostri sorrisi, i vostri sarcasmi mi frustano il sangue nelle vene, e adesso capisco come si possa uccidersi per svincolarsi dal vostro fascino funesto.»

A queste ultime parole, ella che ascoltava immobile e senza guardare Giorgio trasalì, e si volse repentinamente verso di lui, più pallida di prima, piantandogli in volto gli occhi spalancati e pieni di una espressione selvaggia.

«E voi... vi uccidereste... voi?»

«A che scopo? per rendermi ridicolo anche così?...»

«Infatti, sapete cosa ne penserei? Che vi uccidereste per la vanità di far parlare di voi nelle conversazioni e nei giornali. Adesso, giacché mi ragionate di amore, ascoltate.» Ella era rivolta verso la fiamma, sembrava in volto ora bianca come una statua, ora livida come un cadavere; parlava lentamente, con voce ferma e sorda; teneva gli occhi chiusi, e un sol muscolo del suo viso non si muoveva. «Io ho amato... una volta... ho amato quell'uomo di cui mi rinfacciate la morte... l'ho amato come voi altri non sapete amare, io, donna senza cuore, e non sono morta come un personaggio di tragedia... almeno allora. Era un ribelle condannato all'esilio, credo anche un ebreo, senza altra ricchezza che la sua carabina di cacciatore. Mi odiava perché io ero della razza dei suoi padroni, di coloro che aveano gettato lui in Siberia e avevano bastonato le sue donne - l'amai perché mi odiava, perché mi fuggiva; c'era un abisso fra di noi, e la vertigine mi gettò nelle sue braccia.»

Guardò La Ferlita, e lo vide pallido anch'esso.

«Mi amate veramente, Giorgio?»

Egli, che stava con la fronte fra le mani, levò il capo e le lanciò uno sguardo che rintuzzò quello di lei.

«Quanto durerà il vostro amore?»

Giorgio chinò il capo di nuovo, e non rispose.

«Vi domando se potete dirmi, sulla vostra parola d'onore, che mi amerete sempre così, anche quando sarete stato il mio amante; vorrei sapere che cosa fareste se una donna più bella di me, o che vi piacesse dippiù, che avesse soltanto il vantaggio di non essere io stessa, una duchessa, una cameriera, vi stringesse la mano in un ballo, o entrasse sfrontatamente in camera vostra: cosa fareste, La Ferlita?»

Giorgio taceva sempre, come annichilito. Ella seguitò:

«Colui dicevami che lo rendevo felice, che mi avrebbe amato eternamente, che avrebbe voluto morire per me, e siccome era bello e poeta, un po' come voi, diceva tutto ciò in modo seducente; tutti i nostri vicini di campagna parlavano delle nostre follie. Che m'importava? io ero stata felice di provare a lui che gli gettavo sotto i piedi anche la mia riputazione, come gli avevo gettato il mio orgoglio, le mie ripugnanze, e tutto. Mio marito non mi ama, non è geloso, ma è perfetto gentiluomo, e non potendo battersi col suo rivale, avrebbe saputo che il suo dovere era di bruciare le cervella a lui e a me; allora trovavasi al Caucaso: dopo sei mesi fui costretta a raggiungerlo a Pietroburgo per passarvi l'inverno. Mi parve di morire, Dolski mi scriveva delle lettere che mi davano delle notti insonni e febbrili. Finalmente perdetti interamente la testa, e in un breve intervallo che il conte era assente mi misi in viaggio, feci il lungo viaggio nel cuor dell'inverno, a cavallo, in carrozza, in slitta, come potei, per andare a raggiungere il mio amante, io che avevo sdegnato veder ai miei piedi dei principi... quell'uomo ai piedi del quale mi sarei inginocchiata... e arrivando all'improvviso seppi che durante la mia lontananza egli aveva avuto 'una distrazione', e che un'altra... non so chi sia, non volli saperlo, avea profanato la mia memoria e il mio amore. Ripartii senza vederlo, senza fargli un rimprovero: mi ammalai lungo il viaggio, e quando giunsi a Pietroburgo, dissero ch'ero etica. Quell'uomo pure mi amava alla sua maniera, alla maniera di voi altri; ruppe il bando, a rischio della vita, e mi corse dietro come un forsennato. Io ero in letto con la febbre, e l'udii piangere, e implorare, e picchiare della testa sul limitare del mio uscio. In quel momento non seppi più perdonare a quell'uomo che mi uccideva di non avere almeno la dignità della colpa. La mia caduta non avea più scusa, era una cosa ignobile... Avrei voluto salvare almeno il sentimento che mi avea fatto cadere... Allora...» si nascose il viso fra le mani «non vi dirò più altro... Quell'uomo si uccise, come vorreste far voi drammaticamente, con una pistolettata rumorosa... Io, vedete, non sono ancora morta...»

Ella avea un'espressione intraducibile nella fisonomia decomposta; sembrava un'altra donna; parlava con una voce che Giorgio non avea mai udito.

«Ecco cosa penso dell'amore, ed ecco perché non avrei dovuto vedervi più dopo avervi inviato quel biglietto»; disse poscia con voce sorda.

«Ditemi questo almeno!...» esclamò Giorgio con un gran turbamento. «Quel che mi avete scritto... lo pensavate allora?»

«Si!» rispose un po' pallida, ma guardandolo fisso.

Egli balzò in piedi.

«Perché dunque m'avete detto delle cose orribili? Siete senza cuore e senza pietà! che m'importa, vi amo! Se quell'uomo fosse vivo lo ucciderei, o ucciderei voi, ma vi amo!... vedete...»

Nata gli voltava le spalle, sprofondata nel seggiolone, e non rispose altrimenti che stendendogli la mano al di sopra della spalliera; ei l'afferrò con impeto, e stava per coprirla di baci quand'ella gli disse con voce calma:

«Buon viaggio, La Ferlita.»

 

 

VII

 

La contessa pagò la passeggiata al chiaro di luna con parecchi giorni di febbre, e Giorgio, che non era stato più in casa sua, lo seppe al Circolo, desinando con San Damiano e Colli. Ella non s'era fatta più viva, e non gli aveva scritto un sol rigo, come soleva fare pel passato allorché desiderava vederlo, sicché poteva ben credere ch'egli avesse preso alla lettera il buon viaggio datogli, e fosse partito per Lisbona. Nonostante la sera istessa andò a chiedere notizie di lei, e mentre il domestico gli diceva che la signora stava molto meglio, sopraggiunse Nata, vestita per uscire, col mantello sulle spalle. Vedendo La Ferlita, gli tese amichevolmente la mano, come nulla fosse stato fra di loro, dicendogli: «Sto meglio, grazie» Giorgio balbettava qualche parola. «Vado alla Pergola; volete accompagnarmi, se non avete nulla da fare?»

Da porta San Gallo alla Pergola scambiarono poche parole, Giorgio scusandosi alla meglio per non esser venuto, ed ella dicendogli che alla fin fine non era stato nulla, ma che si era annoiata moltissimo. Sembrava che non ci fosse un'ombra d'imbarazzo fra di loro, eppure divagavano troppo nei discorsi, e mettevano contemporaneamente il capo allo sportello ad ogni voltata che faceva la carrozza, per vedere se fossero arrivati. Nata intanto si snodava i nastri del cappuccio, e la seta dell'ovatta rendeva un fruscìo che, così nell'oscurità, avea qualcosa di vivo, e carezzava l'innamorato nelle più intime fibre. Attraversando il vestibolo del teatro, Giorgio si scusò di non essere in giubba e voleva lasciarla sul limitare del palchetto.

«Non fa nulla, rimanete. Vi metterete in un canto, e discorreremo lo stesso.»

Così dicendo lasciò cadere il mantello nelle mani di Giorgio, e si avanzò sul davanti del palchetto, colle braccia nude, gli omeri un po' magri e come trasalenti alla prima impressione dell'aria, il capo ornato di fiori, l'occhio brillante sul viso imbellettato, appena accerchiato da un leggiero lividore; prima di mettersi a sedere si fermò ritta, appoggiandosi colla mano sul velluto del parapetto, e passò in rivista col cannocchiale le acconciature eleganti, salutando le amiche con un piccolo cenno del capo o con un sorriso. Poi si assise, sciorinando le balzane, assettandosi sul busto la vita scollacciata con dei piccoli movimenti di spalle. La Ferlita fu completamente dimenticato. Durante i due primi atti ella non ci fu che per il pubblico, o per se stessa, o per lo spettacolo. Fra un atto e l'altro Giorgio era andato a comprarle dei dolci, e al suo ritorno la trovò come l'avea lasciata, attentissima all'opera. Ella lo ringraziò con un cenno del capo, ma il cartoccio rimase intatto sul parapetto. Fino allora non avea rivolto a Giorgio una sola parola.

«Avete fatto bene a non partire senza dirmi addio,» gli disse infine col viso rivolto verso la scena, «sarei stata molto dolente se non vi avessi visto.»

«Scusatemi, anzi. Ho saputo soltanto oggi che siete stata ammalata.»

E dopo un momento gli stese la mano.

«Ci lasciamo amici, non è vero?»

«E ci rivedremo più amici di prima, spero.»

Nata gli rispose con una stretta viva e brusca, ma tosto ritirò la mano e si mise a guardare col binoculo in un palchetto di faccia. Poscia posò il cannocchiale col braccio disteso sul parapetto, e appoggiò le spalle allo schienale della poltrona. Sembrava che lo spettacolo l'assorbisse completamente; di tanto in tanto passavano delle correnti di fluido misterioso in fondo alle sue larghe pupille grigie, e le oscuravano come se le intorbidassero. A poco a poco gli occhi si fecero immobili, si dilatarono, le labbra si strinsero, e parve che il viso si profilasse; appoggiò anche il capo alla parete del palchetto, un po' indietro e all'oscuro, e più non si mosse; soltanto le trine che le velavano il petto si gonfiavano interrottamente. Giorgio non osava dir nulla ed evitava di guardarla. Infine, sorpreso dalla durata di quella immobilità e di quel silenzio, si chinò alquanto verso di lei per domandarle cosa avesse, ma vide che teneva gli occhi chiusi, e gli sembrò scorgere delle lagrime luccicare fra le lunghe ciglia, nell'ombra. Egli sentì come un'onda improvvisa di amarezza e di voluttà che gli addentava il cuore e lo afferrava alla gola: erano le stesse lagrime dell'altra volta, le quali sgorgavano dal più profondo, ribelli, schive, amarissime su quel viso impenetrabile, sul quale s'indovinava solo la lotta interna e la collera che sarebbe scoppiata se ella fosse stata sorpresa in quel momento. Dalla platea e dai palchi si applaudiva fragorosamente il duetto del Ruy Blas; Nata si scosse, si alzò bruscamente, volgendo in là il capo con un mal celato dispetto, e volle andarsene; avea la voce leggermente velata. Giorgio l'aiutava a mettere il cappuccio nel fondo del palchetto; ella lasciava fare, e lì, nella semi oscurità, ritta e palpitante, gli afferrò all'improvviso le tempie, e pallida, seria, risoluta, coll'occhio luccicante, senza dire una parola, gli appoggiò lungamente sulle labbra le labbra umide e calde.

Giorgio l'abbracciò quasi fuori di sé; ella gli appoggiò le mani sul petto, e s'irrigidì, coll'occhio sbarrato in quello di lui, senza vederlo; poi si svincolò dolcemente, ed uscì dal palchetto. Ei la seguiva barcollando, sbalordito, soffocato dalla violenza di quella passione che irrompeva ad un tratto come una tempesta. Nata attraversò il vestibolo a passi affrettati e chiusa nel suo mantello. Lungo tutta la via non aprì bocca; si tenne rincantucciata nell'angolo della carozza, al buio, stringendosi nelle vesti, e quando i fanali delle cantonate mettevano un raggio guizzante di luce nel fondo della carrozza, Giorgio sorprendeva quegli occhi lucenti, fissi su di lui, con un che d'implacabile che faceva quasi paura su quel viso bianco e rigido. Infine, cedendo a un impulso irresistibile, La Ferlita afferrò vivamente la mano di lei che dapprima rispose alla sua stretta con una pressione nervosa, bruciante di febbre sotto il guanto; poi si svincolò bruscamente, quasi con collera.

«Che avete?» le domandò.

Ella rispose con voce sorda:

«Mi disprezzo!»

In questa il legno si fermava. Nata discese, gli strinse la mano senza guardarlo; sentendo la stretta di quella di lui, muta, disperata, supplichevole, gli piantò in viso quello stesso sguardo del palchetto, duro e freddo come l'acciaio, luccicante ai fanali della carrozza, e con accento breve e secco:

«Non vi amo, sapete» disse «no!»

E lo inchiodò sul marciapiede con quello sguardo, con quelle parole, allontanandosi senza dir altro.

Era sera di ricevimento in casa de Rancy, e la viscontessa vide giungere La Ferlita così tardi e così stralunato che gli andò incontro premurosamente.

«Cos'è stato?»

«Nulla, domani parto per Lisbona e sono venuto a dirle addio.»

«Com'è pallido!»

«Sarà il freddo; avrò fatto le scale molto in fretta. Quanta gente stasera!»

«Ha vista la contessa?»

«Si, sono stato alla Pergola con lei.»

«Sta meglio dunque?»

«Molto meglio.»

«E lei... partirà proprio?»

«Ho già fatto le mie valigie.»

«Amico mio, dalla sua cera ho paura che perderà la corsa e che tornerà a disfarle.»

«E il mio dovere? la mia carriera? il mio ministro?... Se ciò per disgrazia avvenisse, la prego di rendermi un vero servigio: procuri di farmi condurre sino alla frontiera dai carabinieri, colla camicia di forza per giunta.»

La viscontessa gli tese la mano, fra seria e ironica:

«S'è così, tanto meglio! buon viaggio dunque, e a rivederci.»

In quella sopraggiunse il visconte.

«Partite finalmente? Lasciatemene congratular con voi, mio caro; prima di tutto per la vostra carriera, e poi per cento altre cose.» Così, attraversando le sale a braccetto. «Fate benissimo ad andarvene in questo momento; siete l'amante della contessa, lo dice tutta Firenze, è una bella fortuna, non dico di no; ma è anche una bella fortuna finirla a tempo; suo marito potrebbe capitare da un giorno all'altro; certamente che un incontro con lui non vi metterebbe in pensiero, ma sapete, nella vostra posizione bisogna pure aver dei riguardi; un affare di questo genere con tutt'altra persona non vi nuocerebbe, anzi! ma il conte è uno dei beniamini della corte di Pietroburgo, e voi non siete ancora ambasciatore. Poi cosa potete desiderare dippiù? A Lisbona del resto ci sono della bellissime donne. È vero che la contessa non ha da temerne il paragone, almeno per voi che ne siete innamorato: è questione di gusti. Venite di là a fumare un sigaro. Insomma si può essere innamorati, lo so; è una donna bizzarra, tutta nervi, tutta a faccette, come un richiamo da allodole, è cosa piacevolissima, interessante, che vi agita, vi scuote, vi fa vivere in un bagno caldo... so cosa vuol dire amare una di queste donne, sia detto ora che la viscontessa non può udirci, si può perderci la testa, ma ecco dove sta appunto il pericolo, amico mio; noi abbiamo la testa sulle spalle per fare i nostri affari e il nostro interesse, lo sapete meglio di me, e non esser ridotti a tirarci su delle pistolettate come quel povero diavolo di Dolski.»

«Conoscete anche voi quella storia?»

«Chi non la conosce più o meno a Pietroburgo? Quella è una donna pericolosa, per bacco!, bella, bellissima, seducentissima; ma da far paura al Baiardo degli innamorati; io ho conosciuto quel polacco a Varsavia, era un giovane bello e distinto, ma era anche un po' esaltato, tanto da compromettersi ed esser mandato in Siberia, e da far poi quel che ha fatto... Infine perché? lo saprete anche voi - per la miseria di un amoretto che s'era permesso mentre lei era a Pietroburgo, e pensate che doveva starci sei mesi! La contessa deve avere delle idee singolari sulla fedeltà mascolina, e punto comode! Egli ruppe il bando, a rischio di tutto, corse a buttarlesi ai piedi; ella non volle vederlo, e gli fece dare quattromila rubli per mezzo del domestico. Il vostro sigaro non accende bene, prendetene un altro, son degli avana fabbricati in Isvizzera, che mi appestano la stanza. Sentite che donna, mio caro! Gli diceva: 'Vi ho comperato, ma non vi ho amato, ora vi pago, l'amore è salvo e senza macchia' - l'amore è la sola divinità di costei; egli le scrisse colla febbrile concisione della disperazione, che se non gli avesse perdonato sarebbesi ucciso sotto i suoi occhi. 'È il solo mezzo di riabilitarci entrambi' gli fece rispondere.

Giorgio fumava e sembrava distratto. Infine gli disse colla maggiore calma del mondo:

«Dite delle cose giustissime, caro visconte; ma quando siete stato innamorato, cosa avete fatto?»

«Quello che state per fare voi. Non sono un eroe, non ho la pretesa di vincere né me né gli altri; batto in ritirata: quando mi accorgo di essere sul punto di fare una corbelleria, ci metto di mezzo una bella distanza; il meglio sarebbe di metterci un'altra donna - chiodo scaccia chiodo; il mare vi dà delle melanconie noiosissime, i monti vi danno la nostalgia, la frontiera vi pare che vi stia sullo stomaco - ma la ritirata ad ogni costo, a costo della nostalgia, a costo dello spleen, se non potete metterci un'altra donna; è questione d'ottica, amico mio, quando sarete di là dalle Alpi finirete col far le boccaccie alla corbelleria che stavate per fare. Infine spero che questo viaggio vi sarà utile.»

«Vi ringrazio.»

«E scusatemi anche, caro La Ferlita, se ho chiacchierato troppo, a fin di bene però, vi prego di esserne convinto. Ho detto delle cose che forse in questo momento non avreste voluto udire; quel che ho raccontato della storia del polacco avrà potuto farvi dispiacere; ma in fondo spero che gioverà. È una donna terribile, caro mio, con idee dell'altro mondo, ma che nel nostro, diciamolo fra noi, fanno un effetto assai singolare, e credo vi aiuteranno a partire allegramente.»

«Non parto più.»

«Siete matto!»

«Lo so benissimo, ma non parto più.»

«Per quel che vi ho raccontato?»

«Forse...»

«Caro mio... Io sono stato certamente più matto di voi a non prevederlo.»

 

L'indomani, quando Nata meno se lo aspettava, arrivò suo marito.

Marito e moglie solevano farsi buona compagnia per tre o quattro mesi dell'anno, allorché s'incontravano alla capitale; ma il resto del tempo il conte era sempre lontano e in servizio. Egli dovette indovinare, o si aspettava, la sorpresa della moglie.

«So che state assai meglio» le disse, «e credo che vorrete approfittare della buona stagione per tornare in Russia. Ho chiesto un permesso di quindici giorni e son venuto per avere il piacere di accompagnarvi.»

Il conte era un gentiluomo sui 40 anni, alto, biondo, un po' calvo sulla sommità della fronte e invecchiato innanzi tempo; ma nel suo aspetto, nelle sue maniere, in tutto ciò che faceva e diceva aveva una rigidità militare, un certo che di calmo e risoluto che, accompagnato a quel viso pallido e disfatto, imponeva soggezione mista a diffidenza. Avea degli sguardi freddi e penetranti che infastidivano.

«Grazie» rispose Nata.

Però la sera istessa ricevette una lettera misteriosa che le fu recapitata di nascosto per mezzo della sua cameriera.

«Tuo marito ha dei sospetti. Guardati.»

Il conte non mostrava aver nulla di nulla, e passò il giorno visitando le gallerie e i musei. Rientrando in casa vide dei preparativi di partenza.

«Quando volete partire?» domandò alla moglie.

«Anche domani; sono pronta.»

 

La Ferlita intanto non sapeva nulla di quell'arrivo, ed indugiava ad affibbiare le sue valigie. La sera dopo trovò una lettera che l'aspettava sul suo tavolino:

«Speravo vedervi un'altra volta. Quando ci siamo lasciati l'altro giorno né io né voi sapevamo che quello sarebbe stato il nostro ultimo addio. Ho molto sofferto, sapete; ma nel momento in cui vi scrivo, accanto a quel medesimo tavolino sul quale avete appoggiato la mano tante volte, sembrami di soffocare. Vorrei morire prima di di partire. Pochi giorni sono eravate qui, seduto sul canapè, vi rammentate? avevate il gomito sul bracciuolo, e il cuore mi si spezzava pensando che fra non molto ci saremmo lasciati per sempre. V'erano dei momenti, quando meno lo sospettevate, in cui avrei voluto soffocarvi nelle mie braccia come una pantera gelosa. Vi amo! vi amo! ve lo dico adesso che non vi vedrò mai più; ve lo dico per inchiodarvi queste parole nel cuore, come ho la vostra immagine inchiodata nel mio. Sentite, ora che ve l'ho detto, ora che non mi vedrete più, voi non mi dimenticherete giammai; nessuna passione dell'animo vostro mi sarà rivale: l'amore, il giuoco, l'ambizione, tutto sarà meschino per voi al confronto della memoria di colei cui non avete baciato un dito. Ecco come voglio essere amata: se fossi stata vostra amante, forse saremmo finiti per voltarci le spalle senza dirci addio; ogni giorno che avremmo passato insieme ci avrebbe rapito un'illusione; l'oggetto del mio amore dev'essere superiore a tutti gli altri. Voglio pensare a voi, sempre, nei lunghi dolori, nella solitudine, negli scoramenti che mi aspettano; voglio pensare che mi amerete come cosa al di sopra di voi, che mi cercherete dappertutto col pensiero, anche quando sarò morta. Vi condanno a pensare a me, vi condanno ad adorarmi in ispirito, come una divinità, perché vi amo! Voi sapete che mi rimangono pochi mesi di vita - voglio sopravvivere in voi. Addio, Giorgio! vi faccio una promessa; verrò a morire vicino a voi, non vi vedrò, avrò la forza di morire in silenzio, ma voi penserete a me, non è vero? Direte, forse in questo momento, ella è là, che si muove. Guardate, piango e vi assicuro che non mi accade di frequente! Vorrei piangere sulle vostre ginocchia.»

L'orologio sullo scrittoio suonava gli ultimi rintocchi delle ore che Giorgio non aveva udito; il vento faceva piegare la fiammella della candela; ei si accorse allora che la finestra era aperta. La via era silenziosa e deserta, in alto, al di sopra dei tetti che confondevansi vagamente nell'ombra, formicolavano delle stelle. La Ferlita stette qualche tempo alla finestra, assorto, senza sapere quel che stesse pensando; le ore suonavano a tutti gli orologi della città con toni diversi; di tanto in tanto si levava in mezzo al silenzio il fischio della stazione di Santa Maria Novella; l'unico pensiero, di cui egli avesse una percezione distinta, era che giammai avea creduto ci fossero tanti orologi a Firenze. Finalmente uscì, e andò nel viale Principe Amedeo senza sapere egli stesso perché. Il villino avea la consueta fisionomia. Qualche volta La Ferlita s'era trovato a passare a notte avanzata dinanzi a quelle finestre - allora se ne ricordava - e avea visto così quella casa, colla sua facciata biancastra e muta su cui si allungavan le ombre degli alberi, e coi suoi contorni che al lume del gas uscivano dall'oscurità con un certo rilievo. Il lampione più vicino del marciapiede lambiva di sbieco le lancie dorate. Al cominciare del viale c'era ancora il solco netto delle ruote di una carrozza signorile; d'insolito non c'era che l'appigionasi, in alto, appeso al cancello, che di quando in quando si muoveva nell'ombra agitato dal vento.

 

 

VIII

 

Era passato del tempo! Babbo La Ferlita era morto; Giorgio avea preso moglie; noi eravamo invitati per un'altra festa di famiglia, la nascita del suo primogenito.

C'erano i medesimi invitati, le medesime signore con degli altri vestiti, i medesimi signori con le stesse cravatte bianche, la stessa suocera, che andava e veniva nelle camera della sposa collo stesso fazzoletto ricamato e più giallo che mai, la madesima sposina bella come allora, sorridente come allora, ma in un'altra maniera, un po' pallida ancora, seduta nella sua gran poltrona, e infine quel medesimo sposo, bel giovane sempre ed elegante, in giubba e cravatta bianca, ma che avea un'aria singolare con quel fagotto di batista e di trine che portava attorno fra le braccia trionfante, senza accorgersene ma di buona fede, facendo ammirare a coloro che lo volevano e a coloro che ne avrebbero anche fatto a meno una cosina informe, che si moveva con contorcimenti bruschi, impacciati, che faceva delle smorfie, e di quando in quando metteva una specie di belato.

«To'! par vero? Eppure è proprio La Ferlita col suo marmocchio in braccio!» borbottò Crespi, scapolo impenitente, mentre che Giorgio ci passava vicino.

«Lascia vedere! ha diggià i capelli!» esclamò un invitato ufficioso per soffocare l'osservazione del Crespi.

«Sì» rispose Giorgio sorridendo, «è biondo.»

«Tutti i bambini sono biondi», disse Vernetti.

«Come te, tutto te, la fronte, il naso... guarda se non è il naso di Giorgio, eh?»

«Ma di naso sembra invece che non ne abbia punto.»

«Strano! come siam fatti... quando veniamo al mondo!»

«Caro Crespi,» disse alfine La Ferlita, «quando avrai dei figliuoli sarai anche tu come me, te lo dico io, e sarai scioccamente giulivo di sentirti sgambettare fra le braccia il tuo piccolo bamboccio.»

«Eh!... lo credo» rispose Crespi colle mani in tasca «quando li avrò.»

 

Nell'altra camera le intime amiche e le matrone facevano corona alla moglie di Giorgio, colmandola di carezze, di suggerimenti e di consigli; il bambino passava di mano in mano come un balocco. Giorgio quando la moglie era sola le si avvicinava, si chinava sul bambino che ella tenevasi in grembo, le sorrideva e le diceva qualche parola sottovoce. Attraverso le tende dell'uscio quella grande poltrona foderata di guanciali, in quella gran camera debolmente illuminata, quella donna vestita di bianco, col viso abbattuto e giulivo, e quei baffi biondi messi lì vicino a quella cuffietta, con quel vagito sottile che si udiva, e quella mano candida come cera che si posava su quella giubba nera, visti da quella sala riboccante di luce e affollata di signore eleganti, coperte di trine, scintillanti di gemme e colle spalle nude, e di giubbe nere che ronzavano e s'aggruppavano come mosconi in un meriggio d'estate «facevano un effetto singolare», diceva Crespi. «In parola d'onore, quando avrò moglie e figliuoli, come dice Giorgio, voglio mettere tanto di catenaccio alla porta di casa!» borbottò cavando finalmente le mani di tasca.

Gli uomini, almeno quelli che non avevano a chi fare la corte, a poco a poco s'erano ridotti nel gabinetto di Giorgio, a fumare e a ciarlare di donne e di politica. Falchi aveva comperato una bellissima pariglia e ce la fece entrare a rimorchio delle voci di guerra, delle rimonte della cavalleria, e delle spese enormi che sostiene lo stato pei depositi di stalloni. Bassano avea fatto un'eccellente speculazione sulla rendita lo stesso giorno, e tirò in campo il listino della Borsa a proposito di quanto costano le donne. Giorgio andava e veniva. «La Ferlita ci parlerà di balie», disse Crespi all'orecchio del suo vicino. «Ne ho abbastanza, caro mio; preferisco andar a discorrere di mode con quelle signore.»

Quei giovinotti azzimati e in cravatta bianca, sdraiati sui canapè e sulle poltrone col sigaro in bocca, aveano finito col parlar tutti di donne, senza molti riguardi, come se di là non ci fossero ancora delle signore cui avevan rivolto cinque minuti prima delle cose profumate e vaporose, arrotondando le frasi e l'atteggiamento. Ciascuno diceva la sua, spesso tutti in una volta, spifferandone di tutti i colori colla maggiore disinvoltura. Se quelle dame si fossero data la pena di origliare dietro l'uscio, ne avrebbero sentite delle belline. «La donna è il più bell'animale della creazione, ma ha degli istinti troppo complicati.» «Crespi perde il suo tempo colla baronessa, senza accorgersi che Giulio è arrivato col primo treno.» «Sentite, mio caro, io sto per l'emancipazione della donna; allora verrà la nostra volta di essere corteggiati, e di permetterci dei capricci, e dei nervi.» «Sai di Alfonso? Alfonso il bello? è proprio una disgrazia! Sembra che il suo cameriere non sia più un ladro, e che la padrona ne sapesse già qualche cosa anche prima che i questurini gli abbiano messo le unghie addosso; insomma, il fatto è che Alfonso in persona ha dovuto sbracciarsi per farlo mettere in libertà, per timore di peggio.» «Crespi è un imbecille con tutto il suo spirito, la baronessa lo mena pel naso e gli fa toccare con mano che Giulio e i suoi tre predecessori non sono mai stati altro che degli amici.» «Quel povero barone ne vede di tutti i colori!» «Piuttosto non vede nulla di nulla.» «I Turchi sono la gente più spiritosa del mondo.» «Hai visto la marchesa stasera? che spalle!» «E quanta polvere di riso!» «E la Staël da strapazzo, con quei ricciolini e quell'aria ispirata che la fa sembrare colpita da cataratta.» «Non ho voluto più saperne di Ersilia; mi annoiava, caro mio, era sempre la stessa cosa!» «Caro Bassano, la donna è un oggetto di lusso, quando potrò permettermi sei cavalli in scuderia invece di due, allora mi regalerò un'amante.» «Amici miei, voi dite delle bellissime cose, ma io ho amato due volte, e ne ho abbastanza; la prima era una civetta che mi faceva stracciare un paio di guanti tutti i giorni; la seconda una sentimentale gelosa dello zeffiro e del fumo del mio sigaro, cui bisognava dare delle spiegazioni pel mazzolino che mi regalava la fioraia, e che mi versava periodicamente delle lagrime sulla cravatta; in fede mia preferisco il celibato dell'anima, a meno che non trovi una Venere bestia come un'oca.» «E La Ferlita! Chi avrebbe potuto prevederlo?» «Io lo avevo previsto, ché lo vedevo a Firenze spendere a rotta di collo.» «Ecco quel che si chiama fare una fine!» «È una vera fine, con tanto di croce.» «Ma, amici miei,» interruppe De Natale, ch'era tagliato un po' alla carlona, «voi altri parlate come se non aveste né madri, né spose, né sorelle.» «Oh! quanto alle spose... se ci fosse al mondo un'altra poveretta buona e dolce come la mia, consiglierei a tutti i miei amici di sposarla.» «Caro De Natale, una sorella non è una donna, ecco perché accanto alla mia, francamente e modestia a parte, mi trovo un poco di buono.» «So anch'io che esistono delle donne perfettamente degne di essere amate, e perfettamente rispettabili; ma lo so per caso!» disse Falchi;. «Or bene, giacché per caso avete sotto gli occhi tante eccezioni quanti siete voi altri, incluso lo scettico Crespi che perde il suo scetticismo dietro la baronessa, perché vorreste negare che La Ferlita possa essere felice anche colla catena del matrimonio al collo?» «Chi dice di no? Dammi un altro sigaro.» «È quistione di gusti.» «Hai detto catena!» «Io domando di esser felice più tardi che si può.» «Sì, quando tua moglie non sarà bella che per farti geloso, a torto o a ragione, e quando i figli non ti verranno che per darti le ansie e le paure di lasciarli orfani troppo giovani. È un egoismo sbagliato, caro Falchi, e lo pagheresti troppo caro.» «Insomma, De Natale, anche tu sei un marito convinto e contento: contento tu, contenti tutti. Non è vero, signori?» «Eh, eh!» «Però bisogna domandarne anche a Giorgio in confidenza, e dandogli promessa che sua moglie non ne saprà nulla.» «Amici miei, sono un egoista anch'io come Giorgio. Anzi, la nostra fecilità non ci costa nulla, è facile, semplice e tranquilla. Quando vi sarete rotte le gambe a correre dietro la vostra felicità, ciascuno alla sua maniera, mi darete ragione. Sai perché non mi dà soggezione la tua aria sardonica, Falchi mio? né me ne dà il modo in cui Bassano mi buffa il fumo sul viso? Perché so che in questo momento in cui mi state ad ascoltare col sigaro in bocca e colle mani nelle tasche, sprofondandovi nelle poltrone e sorridendo sotto i baffi, tu pensi a quel che ti costa la tua Giuditta, tu che la tua baronessa si fa corteggiare da un altro, e tu che la tua relazione con quella signora che tu sai comincia ad annoiarti, e che ha durato troppo.» «Tutte coteste sarano ottime ragioni per te che non ti sei mai rotte le gambe, De Natale mio, ma Giorgio se le ha altro che rotte, lo so io che l'ho trovato a Firenze in tale stato da sembrarmi più adatto per San Bonifazio che pel ministero di Palazzo Vecchio!» «Di', Bassano, hai conosciuto quella russa che gli ha fatto girare la testa come un molinello?» «No, quella lì era invisibile; si diceva che fosse così malandata da essere costretta a tenere anche Giorgio al regime omeopatico.» «Si diceva anche ch'era una bella donna! Chi dice di sì e chi dice di no... Ma infine, sapete, una donna che vi cura colla omeopatia?» «E Giorgio l'ha piantata?» «No, è stata lei che l'ha piantato. Il danno, le beffe, e l'uscio adosso!» «Giorgio s'è dato pace però.» «Ed ella è andata a morire in un angolo di qualche albergo, come tutte coteste gran signore tisiche che vengono dal Nord.» «A proposito di tisiche e di gran signore, ne ho conosciuta una all'Albergo dei Bagni di Acireale, e sarebbe una bizzarra combinazione che fosse l'amante di La Ferlita, tanto più che è proprio russa!» aggiunse Bassano. «Bella?» «Tisica, mio caro, ossa e pelle, dagli occhi grigi grandi così.» «La conosco,» disse il dottor Rendona, «è sotto la mia cura.» «Come si chiama?» «Chi lo sa? Si fa passare per signora Conti, ma pronunzia questo nome come se fosse turco.» «Anche quella di La Ferlita nascondeva il suo vero nome sotto uno pseudonimo.» «Credo dev'esser stata infatti una bella donna; ha ancora dei begli occhi.» «E nessuna speranza?» «Quel che si dice nessuna; siamo al terzo grado, anzi alla fine del terzo grado; del polmone sinistro non le rimane quanto il pugno di un ragazzo, il destro è andato del tutto. Quando faccio la mia auscultazione medica le bollicelle scoppiano come un fuoco d'artifizio. Tutta la mia scienza non potrà giovare che a vincere la morte per due settimane o tre. Non capisco perché i medici di laggiù mandino qui i loro malati quando sono a questo estremo. Figuratevi un viaggio così lungo fatto in quello stato! È vero che non ripartirà più.»

Giorgio era entrato da qualche momento, e ascoltava Rendona con le spalle appoggiate allo stipite dell'uscio, senza dire una parola. Quando il dottore ebbe finita la sua narrazione fatta con l'indifferenza di un uomo abituato a parlare di queste cose, ma che nondimeno avea gettato un'ombra sulla gaiezza un po' turbolenta della comitiva, successe un istante di silenzio. La Ferlita si passò a più riprese la mano sulla fronte, e cercò di ravvivare la conversazione egli stesso. Parecchi cominciarono a cavare gli orologi e ad andarsene. Mentre il padrone di casa distribuiva strette di mano a dritta e a sinistra, disse al dottore: «Fermati ancora, Rendona, sembrami che Erminia abbia un po' di febbre.» Crespi, ch'era rimasto l'ultimo, uscì sogghignando. Mentre Giorgio mi stringeva la mano mi fermò un istante, guardandomi in viso quasi volesse dirmi qualche cosa, ma non aprì bocca, poi mi serrò la mano due o tre volte con forza, dicendomi: «A rivederci, e presto, non è vero?»

Rendona mi raggiunse sulle scale, poiché solevamo fare la strada insieme. «Ha un po' di febbre, è vero,» mi disse «è ancora debole, e tutta questa gente e tutte quelle signore le hanno intronato la testa. Ma che diavolo ha suo marito? Mi ha fatto cento domande sulla mia ammalata di Acireale. Che il diavolo ci abbia messo proprio la coda? Ad ogni modo non ce la metterà per molto tempo.»

 

 IX

 

Le matrone intime della famiglia se n'erano andate lasciando le ultime raccomandazioni, il va e vieni dello strascico della suocera era cessato, il bambino dormiva nella sua culla azzurra e bianca, la convalescente cominciava ad assopirsi anche lei. Giorgio s'era messo a sedere ai piedi del letto. Quella quiete, quel silenzio, quella luce temperata gli infondevano una gran serenità nell'anima; sembravagli sentirsi penetrare da una pace solenne; quelle pareti, quei mobili noti aveano una fisionomia onesta e sorridente, e nel tempo istesso avevano qualcosa di nuovo, ché quella camera tranquilla sembrava più piena, quella piccola culla azzurra, rannicchiata in un suo canto, riempiva un gran vuoto fra il canapè ed il letto. Nella strada si sentivano ancora i rumori di una città che si addormenta; il trotto rapido delle carrozze che ritornavano alla rimessa, il chiudersi delle ultime finestre e delle ultime porte, il passo affrettato di coloro che ritornavano dal caffè o dal teatro, i discorsi spezzati, e in mezzo a tutti cotesti rumori il respiro della donna un po' irregolare sembrava unirsi al respiro appena sensibile del piccolo essere che le dormiva vicino. Gli occhi di Giorgio andavano dal letto alla culla, vi riposavano volentieri, e da quelle deboli creature che dormivano tranquillamente, fiduciose sotto gli occhi di lui che stava come a vegliarle e proteggerle, venivagli una gran forza, una gran pienezza di vita, che gli faceva sempre più soffice il tappeto sul quale posava i piedi e lo schienale della poltrona al quale appoggiava la testa, gli rendeva più dolce il tepore di quella camera, più blanda la luce della lanterna. Non aveva sonno, quella calma lo riposava dalle tante noie e dalle tante chiacchiere della giornata. Senza sapere di esser felice, godeva istintivamente di paragonare il suo stato presente a quello di coloro fra i suoi amici che sapeva più combattuti dalle angustie e dalle tempeste della vita; passava in rassegna macchinalmente, in quella specie di sonnolenza, i paradossi dei loro discorsi, le contraddizioni delle loro azioni, e d'uno in un altro sfilarono anche le agitazioni del suo spiriro, le gioie turbolente e turbate, le febbrili aspirazioni del suo passato, di quel passato di ieri che sembrava già tanto lontano, e che gli infondeva una specie di inquietezza penosa, e si legava sino alle ultime parole dei suoi amici e all'ultimo racconto del suo medico. A poco a poco s'immerse in una meditazione profonda. Erminia dormiva, rivolta verso di lui, bianca e serena, colle trecce nere sul bianco guanciale; di quando in quando sembravagli, per una strana allucinazione, che quel viso fattosi più cereo si profilasse, si incadeverisse, che dei profili secchi, rigidi, vi si disegnassero vagamente, dei profili che egli conosceva, consunti dalle febbri e dalle passioni, e che gli si erano disegnati implacabilmente dinanzi agli occhi, mentre Rendona parlava della sua ammalata all'Albergo dei Bagni. Quei capelli neri su quell'altro viso aveano qualcosa di affascinante, di repugnante, di spaventoso. Egli s'alzò per andare a baciare in fronte la sua Erminia e per curvarsi sulla culla del figlio. La creaturina stava raggomitolata in mezzo ad un pugno di batista e di trine, avea i labbruzzi semiaperti e i pugni chiusi sul petto; la madre dormiva serena e sorridente come se lo vedesse ancora. Egli volse intorno uno sguardo che sembrava distratto, lo riposò sulle pareti e sui mobili; poi si mise a baciare con una certa vivacità il bambino, che si svegliò strillando.

 

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Ultimo Aggiornamento:17/07/2005 14.01

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