Emilio Salgari
Capitolo Primo - La Taverna "El Toro"
Capitolo Secondo - Il Rapimento Del Piantatore
Capitolo Terzo - La Flotta Dei Filibustieri
Capitolo Quinto - La Presa Di Maracaybo
Capitolo Settimo - Il Monastero Dei Carmelitani
Capitolo Ottavo - Un Duello Terribile
Capitolo Nono - Jolanda Di Ventimiglia
Capitolo Decimo - Il Sacco Di Gibraltar
Capitolo Undicesimo - Fra Il Forte E La Squadra Spagnola
Capitolo Dodicesimo - "All'abbordaggio, Figli Del Mare!"
Capitolo Tredicesimo - Fra Il Fuoco E Le Onde
Capitolo Quattordicesimo - Il Razzo Di Mare
Capitolo Quindicesimo - Una Sorpresa In Alto Mare
Capitolo Sedicesimo - Il Governatore Di Maracaybo
Capitolo Diciassettesimo - Due Rivali Formidabili
Capitolo Diciottesimo - Il Tradimento
Capitolo Diciannovesimo - I Naufraghi
Capitolo Ventesimo - L'assalto Degli Oyaculè
Capitolo Ventunesimo - Il Ferito
Capitolo Ventiduesimo - Il Giaguaro
Capitolo Ventitreesimo - Un'altra Notte Terribile
Capitolo Ventiquattresimo - L'isola Galleggiante
Capitolo Venticinquesimo - La Marcia Notturna
Capitolo Ventiseiesimo - Ricompare Don Raffaele
Capitolo Ventisettesimo - Il Rapimento Di Jolanda
Capitolo Ventottesimo - La Corvetta Spagnola
Capitolo Ventinovesimo - Un'impresa Pericolosa
Capitolo Trentesimo - Il Notaio Di Maracaybo
Capitolo Trentunesimo - Nell'america Centrale
Capitolo Trentaduesimo - Una Festa Finita Male
Capitolo Trentatreesimo - Fra il piombo ed il fuoco
Capitolo Trentaqattresimo - L'assalto di Panama
Capitolo Trentacinquesimo – La Morte Del conte Di Medina
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Emilio Salgari
La
taverna "El Toro"
Quella sera la
taverna El Toro, contrariamente al solito, brulicava di persone, come se
qualche importante avvenimento fosse avvenuto o stesse per succedere.
Quantunque non
fosse una delle migliori di Maracaybo, frammiste a marinai, a facchini del
porto, a meticci e ad indiani caraibi, si vedevano - cosa piuttosto insolita -
delle persone appartenenti alla migliore società di quella ricca ed importante
colonia spagnola: grossi piantatori, proprietari di raffinerie di zuccheri,
armatori di navi, ufficiali della guarnigione e perfino qualche membro del
governo.
La sala,
piuttosto ampia, coi muri affumicati, dall'ampio camino, malamente illuminata
da quelle incomode e famose lampade usate sul finire del sedicesimo secolo, ne
era piena. Nessuno però beveva ed i tavolini, addossati alle pareti, alla
rinfusa, erano deserti. Invece la grande tavola centrale di vecchio noce, lunga
più di dieci metri, era circondata da una quadrupla fila di personaggi, che
parevano in preda ad una vivissima agitazione e che scommettevano con un
furore, che avrebbe meravigliato anche un moderno americano degli Stati
dell'Unione.
"Venti
piastre per Zambo!"
"Trenta
per Valiente!"
"Valiente
si prenderà una tale speronata che cadrà al primo colpo!"
"Sarà
Zambo a cadere!"
"E voi,
don Raffaele?"
"Punterò
su Plata, è più robusto dell'uno e dell'altro e avrà la vittoria finale!"
"Canarios!
Un poltrone quel Plata."
"Come
vorrete, don Alonzo, ma io aspetto il suo turno!"
"Basta!"
"Avanti i
combattenti!"
"Chiusura!
Chiusura!"
Un tocco di
campana annunciò che le scommesse erano terminate, e ai clamori assordanti di
prima successe un profondo silenzio.
Due uomini
erano entrati nella sala per due porte diverse e si erano collocati alle due
estremità del tavolo. Portavano fra le braccia due splendidi galli, uno tutto
nero colle penne a riflessi azzurro-dorati; l'altro rosso a striature bianche e
nere.
Erano due
careadores ossia allevatori di galli combattenti, professione anche oggidì
assai lucrosa e molto apprezzata nelle antiche colonie spagnole dell'America
Meridionale.
In quell'epoca
la passione per quello sport barbaro, aveva raggiunto un vero fanatismo e si
può dire che non passava giorno senza che vi avvenissero combattimenti di
galli. E non mancavano perfino i giudici di campo, il cui giudizio era
inappellabile.
L'educazione
dei galli battaglieri richiedeva però cure minuziose, quanto quelle dei bulldog
destinati ad affrontare i tori, se non di più. Essi venivano abituati a
misurarsi ancora quand'erano pulcini. Avevano un nutrimento speciale, composto
per lo più di granoturco, il cui numero di granelli era stabilito per ogni
pasto. Per dare agli speroni maggior forza ed impedire che potessero guastarsi,
si proteggevano con guaine di cuoio foderate di lana.
Alla comparsa
dei due galli, un entusiastico evviva era scoppiato fra gli spettatori:
"Bravo,
Zambo!"
"Forza,
Valiente!"
Il giudice di
campo, un grosso raffinatore di zucchero, che doveva conoscere le regole
complicate di quel turf, pesò minuziosamente i due volatili, misurò la loro
alatura e la lunghezza degli speroni onde eguagliare le condizioni di
combattimento, quindi una voce forte dichiarò che l'eguaglianza era perfetta e
che tutto andava benissimo.
I due galli
furono subito lasciati liberi, collocandoli alle due estremità della tavola.
Come abbiamo
detto, erano entrambi bellissimi e di razza andalusa, la migliore e la più
battagliera.
Zambo era più
alto di qualche pollice del suo avversario, con un becco robusto, un po'
arquato alla sua estremità come quello dei falconi, cogli artigli piuttosto
corti ed invece assai acuminati. El Valiente appariva più robusto, più tozzo,
con gambe più grosse e speroni più lunghi, il becco era invece più corto, ma
più largo e aveva sulla testa una bella cresta d'un rosso quasi violaceo e gli
occhi più brillanti, anzi più provocanti.
Appena messi
in libertà, i due galli si rizzarono in tutta la loro altezza, starnazzando le
ali ed arruffando le penne del collo e lanciarono quasi simultaneamente il loro
grido di guerra e di sfida.
"Assisteremo
ad una bella lotta" disse un ufficiale della guarnigione.
"Io
ritengo invece che sarà breve" disse don Raffaele "e che la vittoria
la deciderà Plata."
"Silenzio!"
gridarono tutti.
I due galli
stavano per accostarsi, tenendo la testa bassa, quasi rasente alla superficie
del tavolo, quando due passi pesanti ed uno strascinare di spadoni, li fece
arrestare.
"Chi
disturba la lotta?" chiede il giudice di campo, con stizza.
Tutti si erano
voltati corrugando la fronte e brontolando.
Due uomini
erano entrati nella taverna, aprendo fragorosamente la porta, non immaginandosi
certo di disturbare quelle brave persone e tanto meno i due galli combattenti.
Erano due tipi
di bravacci o di avventurieri, personaggi che si trovavano allora di frequente
nelle colonie spagnole d'oltre Atlantico. D'aspetto piuttosto brigantesco,
portavano vesti un po' sgualcite, cappellacci di feltro dalle tese ampie con
piume di struzzo quasi senza barbe, alti stivali di cuoio giallo, a tromba
molto larga, e posavano fieramente la sinistra su certi spadoni, che dovevano
mettere i brividi indosso a più d'un tranquillo borghese di Maracaybo.
Uno era di
statura molto alta, coi lineamenti piuttosto angolosi, coi capelli d'un biondo
rossastro; l'altro invece più basso e più membruto, con barba nera ispida.
Tanto l'uno
che l'altro poi avevano la pelle assai abbronzata, arsa dal sole e dai venti
del mare.
Udendo gli
spettatori a mormorare e vedendosi addosso tutti quegli sguardi un po'
crucciati, i due avventurieri alzarono i loro spadoni e s'avviarono in punta
dei piedi verso un tavolo situato nell'angolo più oscuro, ordinando ad un
garzone, che era prontamente accorso, un boccale di Alicante.
"C'è
numerosa compagnia qui" disse l'uomo più basso a mezza voce.
"Troveremo forse in questa taverna quanto ci occorre."
"Sii
prudente, Carmaux."
"Non
temere, amburghese."
"Toh!...
Ecco un bellissimo spettacolo! Un combattimento di galli! Da un pezzo non ne
vedevo."
"Bisognerebbe
abbordare qualcuno di quegli spettatori."
"Basta
che non sia un ufficiale."
"Prenderò
un borghese, Wan Stiller" disse Carmaux. "Al capitano poco importa,
purché sia un maracaybino."
"Guarda
là quell'uomo panciuto, che mi ha l'aria di essere un qualche ricco piantatore
o qualche raffinatore di zuccheri."
"Che
possa saperne qualche cosa, quell'uomo?"
"Tutti
questi grossi piantatori e commercianti sono in relazione col governatore. E
poi, chi non ricorda il Corsaro Nero qui? Ne abbiamo fatte di belle con quel
valoroso gentiluomo."
"Maledette
guerre!" esclamò Carmaux "Se invece di tornare nel suo Piemonte,
fosse rimasto qui, forse sarebbe ancora vivo."
"Taci,
Carmaux" disse l'amburghese. "Tu mi rattristi troppo. Mi sembra
impossibile che sia morto. E se il capitano Morgan fosse stato male
informato?"
"Egli lo
ha saputo da un compatriota del Corsaro Nero, che ha assistito alla sua
fine."
"Dove
l'hanno ucciso?"
"Sulle
Alpi, mentre combatteva valorosamente contro i francesi che minacciavano
d'invadere il Piemonte. Si dice però che quel prode la cercasse la morte."
"Perché,
Carmaux? Tu non me lo hai mai detto prima d'ora."
"Non lo
seppi che ieri dal signor Morgan."
"Quale
motivo lo spingeva a giuocare pazzamente la vita?" chiese l'amburghese.
"Il
dolore d'aver perduta la moglie, la duchessa di Wan Guld, morta nel dare alla
luce la bambina."
"Povero signor
di Ventimiglia! Così valoroso, così leale, così generoso... Verranno altri
filibustieri, ma come lui no, mai."
Uno scoppio
fragoroso di grida li fece alzare entrambi. Gli spettatori che circondavano il
tavolo parevano in preda ad una vera frenesia. Alcuni acclamavano, altri
imprecavano, tutti si agitavano, sbracciandosi e pestando i piedi.
Carmaux e
l'amburghese, vuotate d'un fiato le tazze, si erano accostati agli spettatori,
mettendosi specialmente dietro al grasso piantatore o raffinatore di zucchero,
che era quel señor Raffaele che voleva riservare le sue scommesse per il Plata.
I due galli,
dopo una serie di finte e di salti, si erano attaccati con furore e Zambo aveva
ricevuto un colpo di sperone sulla testa perdendo parte della sua bella cresta
e anche un occhio.
"Bel
colpo!" mormorò Carmaux, che pareva se n'intendesse.
Il careador si
era subito impadronito del vinto, bagnandogli le ferite coll'acquavite, onde
arrestarne almeno per qualche istante il sangue.
El Valiente,
tronfio della vittoria riportata, cantava a piena gola, pavoneggiandosi e
starnazzando le sue belle ali.
La lotta non
era però che cominciata, perché Zambo non si poteva ancora considerare fuori
combattimento. Anzi, malgrado fosse cieco di un occhio, poteva disputare a
lungo la vittoria ed anche riuscire a strapparla all'avversario.
Si capisce che
ormai il favorito era El Valiente che aveva dato un così bel saggio della sua
bravura.
Perfino don
Raffaele si era sentito tentare. Dopo un po' di esitazione aveva gridato:
"Cinquanta
piastre sul Valiente. Chi tiene? chi..."
Un colpetto
sulla spalla destra gl'interruppe la frase e lo fece voltare indietro.
Carmaux non
aveva ancora alzata la mano.
"Che cosa
volete, señor?" chiese il raffinatore o piantatore che fosse, aggrottando
la fronte e mostrandosi un po' offeso per quella familiarità.
"Volete
un consiglio?" disse Carmaux. "Puntate sul gallo ferito."
"Siete
forse un careador?"
"A voi
poco deve importare se lo sia o no. Se volete, punto duecento piastre su
quello..."
"Su
Zambo?" chiese il piantatore, facendo un gesto di sorpresa. "Avete
del denaro che vi pesa troppo nelle tasche?"
"Niente
affatto, anzi sono venuto qui per guadagnarne."
"E
puntate su Zambo?"
"Sì, e
vedrete come, fra poco, concerà l'altro. Scommettete con me, señor."
"Sia"
disse il grasso piantatore, dopo qualche esitazione "Se perdo mi rifarò
con Plata."
"Scommettiamo
insieme?"
"Accetto."
"Trecento
piastre per Zambo!" gridò Carmaux.
Tutti gli
sguardi si erano fissati su quell'avventuriero, che scommetteva una somma
relativamente grossa su un gallo ormai semi-sconfitto.
"Tengo
io!" gridò il giudice di campo. "Avanti i combattenti."
Un momento
dopo i due campioni si ritrovavano l'uno di fronte all'altro.
Zambo, quantunque
così mal conciato e sanguinante, assalì per primo, saltando molto in alto, ma
anche questa volta sbagliò il colpo e fu respinto.
El valiente
che si teneva pronto, s'alzò in tutta la sua altezza, poi con uno slancio
improvviso si precipitò sull'avversario tentando di cadergli sul cranio per
spaccarglielo con un buon colpo d'artiglio.
Zambo però, si
era prontamente rimesso, si teneva in guardia colle ali pronte alla parata e la
testa ritirata, e gli rispose con un colpo di becco così bene assestato, da
strappargli di colpo uno dei due barbigli della gola.
"Bravo
gallo! Gallo fino!" gridò il piantatore.
Aveva appena
pronunciate queste parole, quando El Valiente che perdeva sangue in abbondanza,
si precipitò sul rivale colla velocità e l'impeto del falcone.
I due volatili
si videro per alcuni istanti dibattersi, uniti strettamente, poi rotolarsi
sulla tavola, poi diventare immobili come se si fossero uccisi reciprocamente.
Zambo era rimasto sotto l'avversario e non si scorgeva quasi più.
Don Raffaele si
era voltato verso Carmaux, dicendogli con accento secco:
"Abbiamo
perduto."
"Chi ve
lo dice?" chiese l'avventuriero. "Ah! Guardate! Trecento piastre sono
già nelle nostre tasche, señor."
Zambo non era
affatto morto, anzi tutt'altro. Quando gli spettatori cominciavano a
disperarsi, con una mossa improvvisa era sfuggito di sotto all'avversario e si
era alzato, cantando a piena gola e piantando gli speroni nel corpo del vinto.
El Valiente
era morto e giaceva inerte col cranio spaccato.
"Ebbene
señor, che cosa ne dite?" chiese Carmaux, mentre attorno alla tavola
scoppiava una salva d'imprecazioni all'indirizzo del vinto.
"Dico che
voi avete avuto un colpo d'occhio ammirabile" rispose il piantatore, con
accento lieto.
Carmaux ritirò
le trecento piastre e ne fece due mucchi eguali, dicendo:
"Centocinquanta
per ciascuno, señor. La partita non è stata cattiva."
"No,
v'ingannate" disse don Raffaele.
"E
perché?"
"Non ho
scommesso che cinquanta piastre."
"Perdonate,
ma noi abbiamo giuocato in società. Raccogliete le vostre piastre che sono
state guadagnate lealmente contro il giudice di campo che ha puntato sul
morto."
"Siete
molto ricco voi per essere così generoso?" chiese il piantatore
guardandolo con molto stupore.
"Non ci
tengo al denaro: ecco tutto" rispose Carmaux.
"Voglio
farvi guadagnare anch'io, señor. Puntate sul gallo che porteranno ora."
"Vedremo."
Un altro
careador era in quel momento entrato, deponendo sulla tavola un gallo di forme
splendide, più alto di Zambo, con una coda magnifica e le penne tutte bianche a
riflessi argentei.
Era El Plata.
"Che ne
dite señor?" disse fon Raffaele, volgendosi verso Carmaux.
"Bellissimo
senza dubbio" rispose l'avventuriero, che lo guardava attentamente.
"Puntate?"
"Sì,
cinquecento piastre su Zambo."
"Sul Plata
volete dire."
"Señor,
cinquecento piastre per Zambo. Chi ci tiene?" gridò.
"È una
follìa."
"Scommettete
con me?"
"Che sia
invincibile quel Zambo?"
"Questa
sera sì!"
"Siete il
diavolo, voi?"
"Se non
sono veramente Belzebù, sarò un suo prossimo parente" rispose Carmaux,
ironicamente. "Orsù, ci tenete con me?"
"Sì, per
la metà. El Plata, che era il mio favorito, a mare."
Le scommesse
erano finite ed il silenzio era tornato nell'ampia sala.
I due galli,
appena trovatisi di fronte, si erano assaliti con furore, sbattendo le ali e
strappandosi mazzetti di penne.
Parevano
entrambi della stessa forza e Zambo, quantunque semi-cieco, non accordava
tregua all'avversario.
Ben presto il
sangue cominciò a macchiare la tavola. I due combattenti si erano già trafitti parecchie
volte cogli speroni ed El Plata aveva la bella cresta violacea a brandelli.
Di tanto in
tanto, come di comune accordo, s'arrestavano per riprendere lena e scuotere i
grumi di sangue che li acciecavano, poi tornavano alla carica con maggior furia
di prima. Al quinto attacco El Plata rimase sotto a Zambo.
Un coro
d'imprecazioni rimbombò nella sala, giacché i più avevano scommesso per il
nuovo gallo. El Plata però, con una scossa improvvisa riuscì a liberarsi dalla
stretta, ma non riuscì a parare un colpo di becco dell'avversario che gli
strappò un occhio.
"Così
almeno sono pari" disse Carmaux. "L'uno e l'altro ne hanno perduto
uno."
Il careador si
era precipitato verso El Plata. Gli fece ingoiare un sorso d'acquavite, gli
lavò la testa colla spugna per sbarazzarlo dai grumi di sangue, gli sprizzò
nell'orbita vuota un po' di succo di limone, poi tornò a lanciarlo sulla
tavola, dicendo:
"Su, mio
bravo."
Aveva avuto
troppa fretta. Il povero gallo, ancora stordito, non poté far fronte al
fulmineo attacco del prode Zambo e cadde quasi subito colla testa spaccata da
un furioso colpo di becco.
"Che cosa
vi avevo detto, señor?" disse Carmaux, volgendosi verso don Raffaele.
"Che voi
siete uno stregone, od il migliore careador dell'America."
"Con
tutte queste piastre che abbiamo guadagnato, possiamo permetterci il lusso di
vuotare una bottiglia di Xeres. Ve l'offro io, se non vi rincresce."
"Lasciate
a me questo onore."
"Come
volete, señor."
Il
rapimento del piantatore
Mentre venivano
portati due altri galli, durando quei combattimenti delle notti intere
talvolta, Carmaux, Wan Stiller ed il grasso don Raffaele, seduti intorno ad un
tavolo collocato in un angolo della sala, trincavano allegramente, come vecchi
amici, dell'eccellente Xeres a due piastre la bottiglia.
Lo spagnolo,
messo in buon umore dalle vincite fatte e da alcuni bicchieri, chiacchierava
come una gazza, vantando le sue piantagioni, le sue raffinerie di zucchero, e
facendo comprendere ai due avventurieri come egli fosse uno dei pezzi grossi
della colonia.
Ad un tratto
s'interruppe, chiedendo a bruciapelo a Carmaux, che continuava a riempirgli il
bicchiere:
"Ma...
señor mio, non siete della colonia voi?"
"No, anzi
siamo giunti solamente questa sera."
"Da
dove?"
"Da Panama."
"Siete
venuti per cercare qui da occuparvi? Ho qualche posto sempre disponibile."
"Siamo
gente di mare, signore, noi e poi non abbiamo intenzione di fermarci a lungo
qui."
"Cercate
qualche carico di zucchero?"
"No"
disse Carmaux, abbassando la voce. "Siamo incaricati di una missione
segreta per conto dell'illustrissimo signor presidente dell'Udienza reale di
Panama."
Don Raffaele
sgranò tanto d'occhi e divenne leggermente pallido per l'emozione.
"Signori"
balbettò. "Perché non me lo avete detto prima?"
"Silenzio
e parlate a voce bassa. Noi dobbiamo fingerci avventurieri e nessuno deve
sapere chi ci ha qui mandati" disse Carmaux con voce grave.
"Siete
incaricati di qualche inchiesta sull'amministrazione della colonia?"
"No, di
appurare una notizia che interessa assai l'illustrissimo signor presidente. Ah!
Ora che ci penso, voi potreste dirci qualche cosa. Frequentate la casa del
governatore?"
"Prendo
parte a tutte le feste ed a tutti i ricevimenti signor..."
"Chiamatemi
semplicemente Manco" disse Carmaux. "Dicevo che voi, che frequentate
la casa del governatore, potreste darci qualche preziosa informazione."
"Sono
tutto a vostra disposizione. Chiedetemi."
"Questo
non è veramente il luogo" disse Carmaux, sbirciando gli spettatori.
"Si tratta di cosa molto grave."
"Venite a
casa mia, señor Manco."
"Le
pareti talvolta hanno delle orecchie. Preferisco l'aria libera."
"Le vie
sono deserte a quest'ora."
"Andiamo
sulla calata, così noi saremo vicini alla nostra nave. Vi spiacerebbe,
señor?"
"Sono ai
vostri ordini per far piacere all'illustrissimo presidente. Gli parlerete di
me?"
"Oh! Non
dubitatene."
Vuotarono la
seconda bottiglia, pagarono il conto e uscirono, mentre un quarto gallo cadeva sulla
tavola, colla testa traforata da uno degli speroni dell'avversario.
Carmaux e
l'amburghese, quantunque avessero vuotato nientemeno che sei bottiglie, pareva
che avessero mandato giù dell'acqua; il piantatore invece aveva le gambe
malferme e si sentiva girare la testa.
"Sii
pronto quando io ti darò il segnale" mormorò Carmaux agli orecchi
dell'amburghese. "Sarà una buona presa."
Wan Stiller
fece col capo un cenno di assentimento.
Carmaux passò
familiarmente un braccio sotto quello del grasso piantatore, per impedirgli di
camminare a sghimbescio, e tutti e tre si diressero verso la spiaggia,
attraversando viuzze strette e oscurissime, non sentendosi in quei tempi il
bisogno dell'illuminazione delle strade.
Quando
sboccarono sul largo viale di palme, che conduceva al porto, Carmaux che fino
allora era rimasto silenzioso, scosse il piantatore che pareva fosse lì lì per
addormentarsi, dicendogli:
"Possiamo
parlare; non v'è nessuno qui."
"Ah!
Già... il presidente... il segreto..." borbottò don Raffaele aprendo gli
occhi. "Eccellente quell'Alicante... un altro bicchiere, señor
Manco."
"Non
siamo più nella taverna, mio caro signore" disse Carmaux. "Se vorrete
vi torneremo e vuoteremo altre due o tre bottiglie."
"Eccellente...
squisito..."
"Basta,
lo sappiamo, veniamo al fatto. Voi mi avete promesso di darmi le informazioni
che desideravo e badate che vi è di mezzo l'illustrissimo signor presidente
dell'Udienza reale di Panama e vi avverto che quell'uomo non ischerza."
"Sono un
suddito fedele."
"Bene,
bene, señor."
"Parlate,
che cosa desiderate? Io sono amico del governatore... molto amico..."
"Un
amicone, lo sappiamo. Ditemi, e aprite bene gli orecchi, e pensate bene quello
che dite. È vera la voce corsa che qui si trovi la figlia del cavaliere di
Ventimiglia, il famoso Corsaro Nero? È vera? Il signor presidente dell'Udienza
vorrebbe saperlo."
"Che cosa
può importargliene?" chiese don Raffaele, con stupore.
"Né io né
voi dobbiamo saperlo. È vero o no?"
"È
vero."
"Quando è
giunta?"
"Saranno
quindici giorni. L'hanno catturata su una nave olandese, caduta in potere d'una
nostra fregata, dopo un sanguinoso combattimento."
"Che cosa
veniva a fare qui, in America?"
"Si dice
che venisse a raccogliere l'eredità di suo nonno, Wan Guld. Il duca possedeva
vaste tenute qui e anche a Costarica, che non sono mai state vendute."
"È vero
che è prigioniera?"
"Sì."
"Perché?"
"Voi vi scordate, sembra, quanto male abbia fatto a Maracaybo ed a
Gibraltar suo padre, il Corsaro Nero."
"Per
vendicarsi, dunque."
"E per
impedirle di entrare in possesso dei beni del duca. Rappresentano dei bei
milioni, che il governatore conta di far passare nelle casse proprie ed in
quelle del governo."
"E se il
Piemonte o l'Olanda reclamassero la sua libertà? Voi sapete che non è suddita
spagnola."
"Vengano
a prenderla, se l'osano."
"Dove si
trova ora?"
"Questo
lo ignoro" disse don Raffaele dopo un po' di esitazione.
"Voi non
lo volete dire."
"Non
voglio compromettermi col governatore, señor Manco."
"Diffidereste
di noi?"
Don Raffaele si
era fermato, poi aveva fatto un passo indietro, guardando con spavento quei due
avventurieri e maledicendo in cuor suo i galli, le bottiglie e la sua
imprudenza.
"Voi non
mi avete ancora data alcuna prova di essere veramente quelli che mi avete
detto."
"Ve le
daremo le prove quanto prima, quando sarete a bordo del nostro legno. Venite
con noi, non abbiate timore."
"Sia,
purché passiamo sull'altro viale."
"Vi sono
i doganieri colà e non desideriamo di essere veduti da nessuno. Venite
o..." disse Carmaux con accento minaccioso, mettendo la destra
sull'impugnatura dello spadone.
Il povero
piantatore impallidì orribilmente, poi, tutto d'un tratto si slanciò, con
un'agilità che non si sarebbe mai supposta in quel corpo così grosso e rotondo,
fra le aiuole che dividevano i due viali, gridando con quanta voce aveva in
gola:
"Aiuto
doganieri! M'assassinano!"
"Carmaux
aveva mandato una rauca imprecazione.
"Birbante!
Ci fa prendere! Addosso amburghese!"
In due salti
furono alle spalle del fuggiasco. Bastò un pugno di Wan Stiller per farlo
cadere mezzo intontito.
"Presto
il bavaglio!"
Carmaux si
slacciò d'un colpo la fascia di lana rossa che gli stringeva i fianchi, e
ravvolse intorno al viso del piantatore, non lasciandogli scoperto che il naso
onde non morisse asfissiato.
"Prendilo
per le braccia, amburghese, e lesti alla scialuppa. Per satanasso! I
doganieri!"
"Buttiamolo
in mezzo alle aiuole, Carmaux" disse l'amburghese.
Afferrarono il
disgraziato piantatore e lo lasciarono cadere in mezzo ad un cespuglio di
macupi le cui larghe foglie erano più che sufficienti per nasconderlo.
Si erano
appena allontanati di pochi passi, quando una voce imperiosa gridò:
"Alt o
facciamo fuoco."
Due uomini,
due doganieri, erano balzati sul viale, dirigendosi velocemente verso i due avventurieri..
Uno era armato
d'un archibugio, l'altro invece teneva in pugno un'alabarda.
"Siamo
persone oneste" rispose Carmaux. "Dove andiamo? A prendere una
boccata d'aria. Questo maledetto lago è così pieno di zanzare che non si può
dormire."
"Chi ha
gridato: Aiuto doganieri?"
"Un uomo
che fuggiva, inseguito da un altro."
"Da quale
parte?"
"Da
quella."
"Voi
mentite; veniamo appunto di là e non abbiamo veduto nessuno a fuggire."
"Mi sarò
ingannato" rispose Carmaux, placidamente.
"M'avete un'aria
sospetta, miei signori. Seguiteci al posto e consegnate, innanzi tutto, le
vostre spade."
"Signor
doganiere" disse Carmaux, con accento d'uomo offeso. "Non si
arrestano due tranquilli cittadini che possono essere dei gentiluomini. Noi
contrabbandieri! Per la morte di Belzebù volete scherzare?"
"Al posto
di dogana e fuori le spade" ripeté il doganiere, alzando l'archibugio.
"Si vedrà poi chi siete. Presto o faccio fuoco: è l'ordine."
"Folgore"
disse Carmaux volgendosi verso l'amburghese e levando la spada come se si
preparasse a consegnarla.
Appena l'ebbe
in pugno, con una mossa fulminea si gettò da un lato, per non ricevere la
scarica in pieno petto e vibrò al doganiere una puntata così terribile in mezzo
al ventre, da passarlo da parte a parte.
Quasi nello
stesso momento Wan Stiller, il quale certo si era messo in guardia per la
parola pronunciata dal compagno che doveva avere un significato, si precipitava
sul secondo doganiere, che era ben lungi dall'attendersi quell'improvviso
attacco.
Con un rovescione
spezzò netto il manico dell'alabarda, poi colla guardia della spada lo percosse
tremendamente sul cranio, facendolo stramazzare al suolo mezzo accoppato.
I due spagnoli
erano caduti l'uno sull'altro, senza aver avuto il tempo di mandare un grido.
"Bel
colpo, Carmaux" disse l'amburghese.
"E di
corsa. La fortuna non protegge due volte di seguito."
Volsero uno
sguardo all'intorno e non vedendo nessuno, balzarono fra le aiuole e presero il
piantatore per le gambe e le braccia, correndo poi verso la riva.
Don Raffaele,
mezzo soffocato e anche mezzo morto di spavento, non aveva opposta alcuna
resistenza, anzi non aveva nemmeno approfittato dell'intervento dei due
doganieri per cercare di fuggire.
Presso la riva
si trovava una di quelle scialuppe strettissime, chiamate baleniere, fornita
d'un piccolo albero con un'antenna e di timone.
Carmaux e Wan
Stiller vi salirono, deposero il piantatore fra i due banchi di mezzo, gli
legarono le gambe e le braccia, lo copersero con un pezzo di vela, poi presero
i remi e sciolsero l'ormeggio.
"È
mezzanotte" disse Carmaux, dando uno sguardo alle stelle, "e la via è
lunga. Non vi giungeremo prima di domani sera."
"Teniamoci
sotto la riva: vi è la caravella che veglia al largo."
"Passeremo
egualmente" rispose Carmaux. "Non inquietarti."
"Alziamo
la vela?"
"Più
tardi. Avanti e non fare troppo rumore."
La baleniera
partì velocissima e silenziosa, rasentando la gettata, per tenersi all'ombra
che proiettavano i filari delle altissime palme che si prolungavano per un buon
tratto.
Nel porto
tutto era silenzio. Le navi, ancorate qua e là, colle antenne e le vele calate
sul ponte, erano deserte.
Gli spagnoli
si credevano troppo sicuri in Maracaybo, per prendersi la briga di tenere
uomini di guardia. Dopo l'ultima scorreria dei filibustieri della Tortue,
guidati dall'Olonese, dal Corsaro Nero e dal Basco, avvenuta molti anni prima,
avevano innalzati forti, che si credevano inespugnabili ed un gran numero di
formidabili batterie, che collegavano i loro tiri fra la costa e le isolette davanti
alla città.
I due
avventurieri s'avanzavano con prudenza, non essendo permesso di notte di
entrare nel porto e nemmeno di uscirne. Sapevano che al di là delle isolette
una grossa caravella incrociava per impedire entrate sospette o fughe.
Quando la scialuppa
raggiunse l'estremità della gettata, Carmaux e Wan Stiller deposero i remi ed
issarono una piccola vela latina che era tinta in nero, affinché non la si
potesse scorgere fra le tenebre.
Il vento era
favorevole, soffiando dal lago e poi anche al di là sulla gettata, l'ombra
continuava essendo la costa coperta da paletuvieri foltissimi e da palme
mauritie assai alte.
"Sempre
sotto?" chiese Wan Stiller, che si era collocato a poppa, alla barra del
timone mentre Carmaux teneva la scotta.
"Sì, per
ora."
"Vedi la
caravella?"
"Sto
cercandola."
"Che
navighi coi fanali spenti?"
"Senza
dubbio."
"Sarebbe
un guaio se la trovassimo sulla nostra rotta."
"Ah!
Eccola laggiù che sta girando la punta di quell'isoletta. Governa diritto. Non
ci scorgeranno."
La baleniera,
messasi al vento, cominciò a filare colla velocità di uno squalo, radendo
sempre la spiaggia.
In quindici
minuti raggiunse il promontorio che chiudeva verso settentrione il piccolo
porto e che era guardato da un fortino costruito sulla cima d'una rupe, vi girò
intorno senza che le sentinelle l'avessero scorta e si diresse verso il nord
per attraversare lo stretto formato fra la penisoletta di Sinamaica da un lato
e le isole di Tablazo e di Zapara dall'altro, onde raggiungere il golfo di
Maracaybo.
Ormai non
avevano più nulla da temere, potendo spacciarsi per pescatori o per canottieri.
"Gettiamo
le nostre vesti e diventiamo marinai" disse Carmaux. "Nessuno
sospetterà di noi."
Aprì una cassa
che si trovava sotto la prora ed estrasse delle grosse casacche di panno
grigio, delle fascie di lana e dei berretti terminanti a punta con grosso
fiocco azzurro.
Legato il
timone e la scotta, in pochi istanti si trasformarono, poi gettarono lungo i
bordi alcune reti, lasciando cadere in acqua i sugheri.
"Vediamo
come sta ora l'amico" disse Carmaux, quand'ebbe finito.
Levò la tela
che copriva il disgraziato piantatore, poi lo sbarazzò della sciarpa che gli
chiudeva la bocca.
Don Raffaele
respirò a lungo, senza però aprire gli occhi.
"Il sonno
è stato più forte della paura" disse l'avventuriero ridendo. "Quello
Xeres e quell'Alicante erano proprio di prima qualità. Il capitano Morgan sarà
ben lieto di questa cattura e penserà lui a far sciogliere la lingua al nostro
prigioniero."
"Purché
non muoia sul colpo, risvegliandosi nelle mani dei filibustieri" disse Wan
Stiller.
"Prenderemo
le nostre precauzioni onde non spaventarlo tutto d'un tratto."
"Avrebbe
fatto meglio a spiattellare tutto ciò che sapeva intorno alla figlia del
cavaliere di Ventimiglia."
"L'avrei
rapito egualmente."
"Che cosa
vuol farne Morgan di un abitante di Maracaybo?"
"Mio
caro, potrà avere da questo imbecille delle preziose informazioni sul numero
dei soldati che occupano i forti e dei cannoni che li armano."
"Dunque è
risoluto ad assalire la piazza?"
"Ora più
che mai!"
"Avremo
un osso duro da rodere, mio caro Carmaux. Hai veduto che opere imponenti hanno
innalzato gli spagnoli? Maracaybo non è più quella che era quando l'espugnammo
col Corsaro Nero e con quel diavolo di Olonese."
"Siamo in
buon numero e non ci mancano le artiglierie. I milioni di piastre che
ricaveremo compenseranno largamente i rischi d'una simile impresa."
"Purché
la flotta non venga scoperta."
"La baia
di Amnay è ben coperta e nessuno scorgerà le nostre navi. D'altronde i nostri
stanno in guardia e non si lasceranno sfuggire i curiosi e gli spioni."
Essendo il
vento sempre favorevole e tendendo anzi a rinfrescare sempre più, avvicinandosi
l'alba, la baleniera guadagnava via con crescente rapidità.
Graziosamente piegata
sul tribordo, coll'estremità del pennone inferiore quasi a fior d'acqua,
scivolava senza far rumore sulle tranquille acque dell'ampia laguna,
lasciandosi a poppa una striscia di spuma fosforescente.
I due
filibustieri tacevano, però si grattavano di quando in quando con furore.
Erano le
zanzare, le jejeus e le zancudos tempraneros, che di tratto in tratto calavano
in nuvole fitte sulla scialuppa, punzecchiando ferocemente e dolorosamente i
due avventurieri.
Esse sono un
vero flagello per quelle regioni e non lasciano tregua. In certe ore del giorno
volteggiano le prime; di notte sono le seconde che si mettono in campagna e che
montano la guardia, come dicono gl'indiani caraibi.
E come sono
dolorose le loro punture! Tanto che i poveri indiani, che non sono vestiti,
preferiscono affrontare un feroce giaguaro, piuttosto che imbattersi in una
nuvola di zancudos.
Fortunatamente
l'alba non era lontana. Le stelle cominciavano a scolorirsi e verso oriente una
pallida striscia bianca con delicate sfumature rosa, cominciava a delinearsi al
di sopra dei cupi ed immensi boschi della costa d'Altagracia e di La Rita.
Tablazo, una
delle due isole che chiudono o meglio riparano la laguna dalle ondate del
golfo, si disegnava già colle sue belle e ricche piantagioni di cacao e di
canne da zucchero e coi suoi pittoreschi villaggi, fondati sui bassifondi e
abitati dagl'indiani.
Quei villaggi,
che allora s'incontravano dappertutto lungo le coste del golfo e della laguna
di Maracaybo e che oggi sono piuttosto rari, davano un aspetto oltremodo
grazioso a quella regione chiamata dai primi scopritori spagnoli Venezuela,
ossia piccola Venezia.
Ogni villaggio
era formato da una sola abitazione, lunga parecchie centinaia di metri, capace
però di contenere qualche centinaio di famiglie o anche più.
Quelle lunghe
case, situate a tre o quattrocento passi dalla riva e talvolta anche più
lontano, viste in lontananza sembravano case galleggianti, invece erano
costruite su solide palafitte, formate da pali di gajac tanto robusti da
sfidare la scure e anche la sega e che rimanendo immersi si diceva
acquistassero la durezza del ferro.
Sopra i pali
quegli abili costruttori avevano formato un'immensa piattaforma di legno
leggiero, di bombax ceiba o di cedro nero, poi con bambù intrecciati innalzavano
le abitazioni, coprendole con foglie di cenea o di vihai che sostituivano
abbastanza bene le tegole o le ardesie.
Non esistevano
pareti, regnando tutto l'anno un calore intenso, quindi i naviganti potevano
vedere, senza fatica, ciò che accadeva in quelle strane abitazioni, senza
prendersi l'incomodo di entrarvi.
La laguna
cominciava a popolarsi.
Dei canotti
scavati nel tronco d'un cedro odoroso, montati da indiani quasi interamente
nudi, scivolavano rapidamente sulle acque, lasciandosi dietro delle lunghe file
di grosse zucche che le piccole ondate presto disperdevano; al largo alcune
piccole caravelle veleggiavano lentamente, aspettando l'alta marea per
approdare nei minuscoli porti dell'isoletta.
"Sotto o
sopravvento?" chiese l'amburghese.
"Stringi sempre
la costa" rispose Carmaux. "Passeremo fra Zapara e la costa."
La
flotta dei filibustieri
Alle otto del
mattino, la scialuppa superava di volata lo stretto formato dalla punta
orientale dell'isola di Zapara e la costa di Capatarida, entrando nel golfo di
Maracaybo.
Quantunque i
due filibustieri avessero incontrate due grosse caravelle da guerra ed anche un
galeone, nessuno li aveva disturbati, né avevano chiesto loro chi erano e dove
si recavano.
Le reti che
tenevano lungo i bordi, dovevano aver fatto supporre agli spagnoli che fossero
dei tranquilli pescatori e perciò nessuno si era preso la briga di fermarli.
Appena giunti
fuori dallo stretto, Carmaux e Wan Stiller misero la prora verso l'est,
tenendosi un po' lontani dalla costa, essendo quella cosparsa di bassifondi,
dai quali sorgevano ancora in buon numero dei villaggi di caraibi.
Anche in quel
luogo si vedevano galleggiare moltissime grosse zucche, fra le quali nuotavano
e giuocherellavano un bel numero di anitre e di gallinelle acquatiche, senza
manifestare alcuna paura per quei galleggianti.
"Dimmi un
po', Carmaux" disse Wan Stiller. "Servono a nutrire i pesci tutte
quelle zucche? Ne sai qualche cosa tu?"
"No,
servono a prendere gli uccelli acquatici, mio caro amburghese."
"Scherzi?"
"Parlo da
senno. Come tu sai tutti gli uccelli marini sono assai diffidenti e non si
lasciano quasi mai accostare dalle scialuppe. I caraibi gettano dunque un gran
numero di zucche che sono legate le une alle altre, con liane lunghissime, per
abituare i volatili alla loro presenza. Quando credono giunto il buon momento,
degli abili nuotatori si gettano in acqua, colla testa cacciata entro una zucca
nella quale prima praticano alcune aperture per poter vedere liberamente."
"Comprendo"
disse Wan Stiller, ridendo. "Protetti dalla zucca s'avvicinano ai volatili
e li tirano sott'acqua."
"Precisamente"
rispose Carmaux, "e ti posso dire anche che fanno delle caccie abbondanti
e che non tornano mai ai loro villaggi senza portare, appesi alla cintura, otto
o dieci volatili. Quando poi..."
Uno sternuto
sonoro gl'interruppe la frase. Don Raffaele aveva aperti gli occhi, e faceva
sforzi disperati per alzarsi e per rompere i legami che gli imprigionavano le
mani ed i piedi.
"Buon
giorno, señor" disse Carmaux. "Pare che fosse veramente di prima
qualità, quell'Alicante."
Il disgraziato
piantatore lo guardò con due occhi strambuzzati, poi digrignando i denti, disse
con voce rauca:
"Siete
due malandrini."
"Malandrini!
Oibò! V'ingannate, señor" rispose Carmaux. "Siamo più galantuomini di
quello che credete e potrete persuadervene frugando le vostre tasche, appena vi
avremo sciolte le mani.
"Che cosa
volete dunque da me? Perché m'avete rapito? Suppongo che non mi ripeterete la
storiella del signor presidente dell'Udienza reale di Panama."
"Veramente
quel signore non c'entra più" disse Carmaux. "Vi condurremo però
dinanzi ad una persona che è non meno potente e che del pari non scherza."
"Chi è
costui?"
"Un
altissimo personaggio, che pare s'interessi assai della sorte della figlia del
Corsaro Nero e che farà di tutto per salvarla."
"Toglierla
al governatore!... Eh, via, quell'uomo non se la lascerà sfuggire."
"La
vedremo, quando i cannoni smantelleranno le fortezze di Maracaybo" rispose
Carmaux. "Venti anni or sono quegli stessi pezzi hanno spazzato via la
guarnigione."
Don Raffaele
era diventato spaventosamente pallido.
"Sareste
dei filibustieri, voi?" chiese con voce strozzata.
"Per
servirvi, señor."
"Misericordia!...
Sono un uomo morto!..."
"Non mi
sembra, almeno per ora" disse Carmaux, ironicamente.
"Chi è il
vostro capo?"
"Morgan."
"L'antico
luogotenente del Corsaro Nero!... Il vincitore di Portobello?"
"Lo
stesso."
"Povero
me!... Povero me!..." sospirò il disgraziato.
"Oh! Non
spaventatevi tanto, señor" disse Carmaux. "Il capitano Morgan non ha
mai mangiato alcuno e passa per un buon gentiluomo."
"Sì, un
gentiluomo che ha fatto massacrare tutti i frati e tutte le monache di
Portobello."
"Già, è
l'inferno che ci ha vomitati" disse l'amburghese ridendo. "Così
almeno dicono i vostri frati.
"Señor,
lasciate andare le vostre collere, e accettate un crostino. Abbiamo qui un po'
di biscotto, una bella anitra arrostita ieri mattina e anche un paio di bottiglie
di vino spagnolo, che non varranno meno di quelle del taverniere.
"È poca
cosa per un signore pari vostro, ma per il momento non abbiamo di meglio da
offrirvi."
Carmaux trasse
dalla cassa le provviste, ne fece tre parti uguali e slegò le braccia al prigioniero,
dicendo:
Don Raffaele,
a cui la brezza marina aveva messo indosso un certo appetito, pur brontolando e
roteando gli occhi, si mise a mangiare e non rifiutò un paio di bicchieri di
Porto offertigli con gentilezza un po' ironica da Carmaux, né un eccellente
sigaro di tabacco di S. Cristoforo regalatogli dall'amburghese.
A mezzodì la
baleniera si trovava già nelle acque del golfo Caro, formato da una parte dalla
costa venezuelana e dall'altra dalla penisola di Paraguana.
L'amburghese,
che teneva sempre il timone e che si regolava su di una bussola tascabile, mise
la prora verso il capo Cardon, che già si delineava vagamente sull'orizzonte.
Il golfo era
deserto, poiché di rado le navi spagnole ardivano spingersi lontane dai porti
ben difesi, se non erano in buon numero e per lo meno scortate da qualche nave
d'alto bordo, per paura di venire catturate dai terribili corsari della Tortue.
La baleniera
continuò tutto il giorno ad inoltrarsi verso settentrione, favorita da una
brezza sempre fresca e dalle acque che erano appena mosse. Nel momento in cui
il sole tramontava, giungeva dinanzi alla baia d'Amnay, rifugio in quell'epoca
affatto disabitato e molto di rado frequentato dalle navi, che non vi cercavano
un approdo se non in causa di qualche violentissima tempesta.
"Ci
siamo" disse Carmaux, volgendosi verso don Raffaele.
Il disgraziato
piantatore, che dopo la colazione si era chiuso in un ostinato silenzio,
sospirò a lungo, senza rispondere.
La scialuppa
manovrò per alcuni minuti in mezzo ad alcune catene di scoglietti a fior
d'acqua, poi si cacciò arditamente nella baia, alla cui estremità si vedevano
delle masse oscure sormontate da alte alberature ed antenne.
"Che cosa
sono? Delle navi?" chiese don Raffaele che erasi fatto smorto.
"È la
flotta del capitano Morgan" rispose Carmaux.
"Una
flotta?"
"Che farà
buona prova contro i forti di Maracaybo."
Dietro una
punta rocciosa era comparsa improvvisamente una grossa fregata, che si trovava
ancorata dinanzi alle altre navi, in modo da sbarrare l'entrata della baia,.
"Ohè!"
gridò Carmaux, facendo portavoce colle mani.
"Chi
vive?" gridò una voce alzatasi sul ponte della nave.
"Fratelli
della Costa: Carmaux e Wan Stiller. Calate la scala!"
La baleniera
accostò la nave sotto il tribordo e si ormeggiò all'estremità della scala di
corda, che era stata subito gettata dagli uomini di guardia.
"Señor,
coraggio" disse Carmaux, sciogliendo le corde che stringevano le gambe del
piantatore.
"Sì, ne
avrò per morire" disse don Raffaele con voce cupa.
Quantunque si
sentisse tremare le gambe, si aggrappò alla scala e dopo una mezza dozzina di
sospiri, gli uni più profondi degli altri, si trovò sulla nave ammiraglia della
flotta corsara.
Alcuni uomini,
armati fino ai denti e muniti di lanterne, accorsero subito circondandolo e guardando
con viva curiosità.
"Il
capitano?" chiese Carmaux.
"È nella
sua cabina."
"Fate
chiaro. Venite, señor e non tremate tanto."
Prese il
piantatore per un braccio e, parte spingendolo e parte tirandolo, lo condusse
nel quadro, introducendolo in un salotto che era illuminato da una lampada
d'argento e che aveva le pareti coperte d'armi da fuoco e da taglio.
Un uomo di
mezza età, di statura piuttosto bassa, ma robustissimo, dall'aspetto fiero,
cogli occhi nerissimi e vivaci, stava seduto dinanzi ad un tavolo tenendo
dinanzi a sé delle carte marine, che stava esaminando con profonda attenzione.
Vedendo
entrare i due uomini s'alzò quasi di scatto, chiedendo:
"Che cosa
mi porti, mio bravo Carmaux?"
"Un uomo,
signore, che potrà dirvi quanto desiderate sapere sulla figlia del cavaliere di
Ventimiglia."
Una rapida
emozione alterò per un istante i fieri lineamenti del terribile corsaro.
"È là, è
vero?" chiese a Carmaux.
"Sì,
capitano."
"Nelle
mani degli spagnoli?"
"Prigioniera
del governatore."
"Grazie,
Carmaux: esci e lasciami solo con quest'uomo."
Morgan
Morgan, dopo
la scomparsa del suo comandante, il Corsaro Nero, non aveva abbandonato il
golfo del Messico, né i filibustieri della Tortue.
Dotato d'una
forza d'animo straordinaria, d'un coraggio a tutta prova e di larghe vedute,
non aveva tardato a farsi largo fra i Fratelli della Costa, i quali si erano
ben presto accorti che quell'uomo avrebbe potuto condurli a grandi imprese.
Possessore
ancora d'una discreta fortuna, raccolti gli avanzi dell'equipaggio della
Folgore, si era subito messo in mare, accontentandosi dapprima di assalire le
navi isolate, che commettevano l'imprudenza di solcare senza scorta, le acque
di San Domingo e di Cuba.
Quella
crociera, più pericolosa che fruttifera, durava daparecchi anni con varia
fortuna, quando gli venne offerto il comando di una squadra composta di dodici
navi fra grosse e piccole, con un equipaggio di settecento uomini, per tentare
qualche grossa impresa a danno degli spagnoli.
Morgan non
aspettava che l'occasione di aver forze sufficienti, per realizzare i suoi
grandiosi progetti.
Salpò quindi
dalla Tortue annunciando che va ad assalire Puerto del Principe, una delle più
ricche e anche delle meglio difese città dell'isola di Cuba.
Un prigioniero
spagnolo che era a bordo della sua flotta, con un coraggio temerario si gettò
in acqua e, riuscito a prendere terra, corse ad avvertire il governatore di
quella città del pericolo che la minacciava.
Il governatore
aveva sottomano ottocento soldati valorosissimi e sapeva di poter contare sulla
popolazione.
Marciò sui
corsari ed impegnò un disperato combattimento, ma dopo quattro ore i suoi
soldati volgono in fuga, lasciando sul campo di battaglia fra morti e feriti
più di tre quarti di loro.
Lo stesso
governatore era caduto.
Morgan,
imbaldanzito della vittoria, assaltò la città e, nonostante la difesa opposta
dagli abitanti, se ne impadronì e la saccheggiò con poco profitto però, perché
gli abitanti avevano avuto tempo di nascondere nei boschi le loro migliori
cose.
Saputo da una
lettera che era stata intercettata, che un grosso corpo di spagnoli accorreva
da Santiago per cacciarli dalla città, i filibustieri si guastarono col loro
capo, che accusavano di averli condotti ad una impresa più pericolosa che
fruttifera.
Una rissa nata
fra i marinai francesi ed inglesi, che formavano gli equipaggi fece nascere una
viva discordia. I primi si separarono da Morgan; i secondi invece, che
disponevano di otto navi, giurarono di seguirlo ovunque egli volesse condurli.
Si parlava
molto in quell'epoca dell'opulenza di Portobello, una delle più belle città
dell'America centrale, che riceveva tesori immensi da Panama, ma che era anche
una delle meglio fortificate e delle meglio guardate.
Nella mente
audace di Morgan, nasce l'idea di piombare su quella città e di tentarne
l'espugnazione.
Quel progetto
sembrava così temerario che i filibustieri crollarono la testa quando li
avvertì del suo disegno.
"Che
importa" disse allora il fiero corsaro, "se piccolo è il nostro
numero, quando grandi sono i nostri cuori?"
Come resistere
a quell'uomo? E la squadra, fidando nell'abilità del suo ammiraglio, veleggiò
verso Portobello. Era l'anno 1668.
Morgan approdò
di notte a qualche miglio dalla città; lasciò un piccolo numero a guardia dei
legni; fece salire il grosso sulle scialuppe ed i filibustieri s'accostarono
silenziosamente ai forti.
Quattro
marinai che servivano da perlustratori, s'impadronirono d'una sentinella
spagnola e la portano a Morgan, il quale riuscì a ottenere le notizie che gli
erano necessarie per predisporre l'assalto.
Poi la fece
condurre sotto uno dei forti perché invitasse la guarnigione ad arrendersi, se
non voleva essere tagliata a pezzi.
Portobello
aveva due castelli, ritenuti da tutti inespugnabili, presidiati ognuno da
trecento soldati e armati di un buon numero di cannoni. Morgan assaltò il
primo, dopo un sanguinoso combattimento vi penetrò alla testa dei suoi,
rinchiuse la guarnigione in un recinto, mise una miccia al magazzino delle
polveri e fece saltare spagnoli e castello insieme!...
Lieti di quel
primo ed insperato successo, i filibustieri corsero verso la città, per
assalire il secondo ma vennero accolti da un fuoco così terribile, che
cominciarono a dubitare dell'esito dell'ardita impresa.
Morgan fece
uscire dai conventi e dalle chiese tutti i frati e tutte le monache e
procuratesi dodici lunghe scale, li obbliga a piantarle essi medesimi nei
fossati, servendosi di loro come di baluardo per proteggere i propri uomini.
Gli spagnoli,
sordi alle grida strazianti dei monaci e delle monache, fermi nel volersi
difendere, non cessarono il fuoco, e fecero una strage completa di quei miseri
e di quelle disgraziate.
Nondimeno i
filibustieri non si perdettero ancora d'animo, riuscirono a salire sulle mura,
allontanando con granate i difensori e si impadronirono anche del secondo
castello.
La lotta non
era però ancora finita, poiché un terzo forte dominava la città ed era quello
on cui si era rinchiuso il governatore.
Morgan intimò
la resa, promettendo al presidio salva la vita. L'intimazione ebbe per risposta
una salva di cannonate.
I
filibustieri, che sono ormai risoluti a tutto, non ostante le perdite tremende
che subivano, e l'eroica difesa del presidio, scalarono anche quelle mura colla
sciabola alla mano e, incredibile a dirsi, riuscirono a prendere anche il terzo
castello. Il governatore e tutti gli ufficiali vi avevano lasciata la vita. I
superstiti furono risparmiati.
Così in un
solo giorno quel terribile corsaro, senza artiglierie e con quattrocento soli
uomini, riusciva a espugnare una delle più cospicue città dell'America, che era
l'emporio maggiore delle colonie spagnole dopo Panama, in fatto di metalli
preziosi.
Il bottino fu
immenso; eppure Morgan ebbe ancora l'audacia di mandare due prigionieri al
presidente dell'Udienza Reale di Panama, coll'incarico di chiedergli cento mila
piastre per il riscatto della città!...
Quel
presidente aveva millecinquecento uomini. Andò per scacciare i corsari e... fu
battuto e costretto a tornarsene sulle rive dell'Oceano Pacifico!... Però,
sperando di ricevere nuovi rinforzi, intimò a Morgan di lasciare la città.
Morgan gli
rispose che se non la riscattava l'avrebbe incendiata e avrebbe ucciso tutti i
prigionieri. E le centomila piastre furono mandate.
Il riposo non
era fatto per l'allievo del Corsaro Nero.
Risvegliatasi
in Europa la guerra contro la Spagna, nel 1669, chiese patente di corso al
governatore della Giamaica, il quale non solo gliela accordò, ma gli offerse
anche il comando di un vascello di trentasei cannoni, perché assalisse le
colonie spagnole.
Morgan andò ad
incrociare nelle acque di San Domingo, con la speranza di fare grossi bottini,
ma la nave gli saltò in aria con trecento dei suoi uomini, ed egli si salvò per
miracolo.
Il fuoco alle
polveri era stato impiccato da alcuni francesi che aveva fatto incatenare,
perché si erano messi ai servigi della Spagna a danno degl'inglesi.
Avendo però
costoro un vascello poderoso come quello che gli era stato affidato dal
governatore della Giamaica, Morgan coi marinai superstiti se ne impadronì e
tornò trionfante alla Tortue per organizzare una grossa spedizione.
Già aveva
radunati parecchi legni montati da ben novecento filibustieri e si preparava a
rivolgersi verso le città del Venezuela che promettevano ricchi saccheggi,
quando si sparse la voce che la figlia del suo antico capitano, del Corsaro
Nero, era giunta nelle acque del Golfo del Messico e che gli spagnoli l'avevano
catturata, per vendicarsi del male che aveva fatto suo padre, diciassette anni
prima, ai possedimenti del grande Carlo V.
Come abbiamo
già detto, Morgan non aveva più avuto notizie del terribile corsaro. Solo aveva
molti anni prima ricevuto un anello che recava le armi intrecciate dei signori
di Ventimiglia e di Roccabruna e dei duchi di Wan Guld, lo stemma della donna
che amava e solo delle vaghe voci erano giunte, a lunghi intervalli, alla
Tortue, sparse da filibustieri provenzali e savoiardi, che asserivano essersi
quell'intrepido gentiluomo ritirato nei suoi castelli del Piemonte, dopo aver
sposata la figlia del suo implacabile nemico.
Un marinaio
olandese, che montava la nave catturata dagli spagnoli e nella quale si trovava
la figlia del Corsaro Nero, sfuggito miracolosamente alla rabbia degli
assalitori, aveva portato alla Tortue la notizia del suo arrivo in America e
della sua cattura, provocando una enorme sensazione fra i filibustieri, che non
avevano ancora scordato il fiero cavalier di Ventimiglia, che per tanti anni li
aveva condotti alla vittoria.
Soprattutto
Morgan, che conservava una vera venerazione per il suo antico capitano, era
stato profondamente colpito. Fino allora aveva ignorato che il Corsaro Nero
avesse avuto dal suo matrimonio una figlia e che fosse morto sulle Alpi in difesa
del suo forte Piemonte e dei Duchi Savoiardi.
Fatto cercare
il marinaio olandese e avuta la conferma che sulla nave catturata si trovava
realmente la figlia del suo capitano, apprese che era stata condotta
prigioniera a Maracaybo. Allora non ebbe più che una sola idea: andare a
salvarla, a costo di devastare tutte le città spagnole del Venezuela.
La proposta,
fatta ai filibustieri della squadra, gente ruvida e feroce se vogliamo, ma di
gran cuore, era stata senz'altro accettata e le navi erano salpate, mettendo
risolutamente la prora al sud.
Disgraziatamente
una fiera tempesta le aveva assalite, prima di avvistare le coste venezuelane,
disperdendole in varie direzioni, e di quindici, solamente otto erano riuscite a
rifugiarsi nella baia di Amnay. Di là Morgan aveva inviati Wan Stiller e
Carmaux, i due marinai fidati del Corsaro Nero, a Maracaybo per avere notizie
più precise sulla sorte toccata alla figlia del gentiluomo piemontese o perché
gli portasse qualche prigioniero che gli fornisce più dettagliate
informazioni...
. . . . . . .
. . . . . . . . . . . .
Uscito
Carmaux, Morgan si era messo ad osservare con un certo interesse il piantatore,
che si teneva appoggiato ad una parete, pallido come un cencio di bucato e
tremante come se avesse la febbre terzana.
"Voi
siete?" gli chiese finalmente, con voce secca.
"Don
Raffaele Tocuyo, señor capitano."
"È vero
che la figlia del cavaliere di Ventimiglia, o meglio del Corsaro Nero, è
prigioniera a Maracaybo?"
"L'ho
udito a raccontare."
"Dove si
trova?"
"Nelle
mani del governatore: l'ho già detto ai vostri uomini."
"Narratemi
quanto sapete."
Il piantatore,
con voce tremante, non si fece pregare e gli raccontò quanto aveva già detto ai
due filibustieri che lo avevano fatto prigioniero.
"È
tutto?" chiese Morgan, piantandogli addosso uno sguardo scrutatore.
"Lo
giuro, capitano."
"Non
sapete dove si trova rinchiusa?"
"No, ve
lo assicuro" rispose don Raffaele, dopo un po' di esitazione che non
isfuggì al corsaro.
"Eppure
un uomo che frequenta la casa del governatore, dovrebbe saperne di più."
"Non sono
il suo confidente."
"È
giovane la figlia del Corsaro?"
"Mi hanno
detto che non deve avere più di sedici anni e che somiglia a suo padre."
"Di quali
forze dispone il governatore di Maracaybo?"
"Ah!...
Signore..."
Morgan corrugò
la fronte ed un lampo minaccioso brillò nei suoi occhi nerissimi.
"Non sono
abituato a ripetere la medesima domanda" disse con voce breve e tagliente
come la lama d'una spada.
Batté le mani
e Carmaux e Wan Stiller, che dovevano essersi messi di guardia nella corsìa,
furono pronti ad entrare.
"Conducete
sul ponte quest'uomo" disse Morgan.
"Che cosa
volete fare di me, signore?" chiese don Raffaele spaventato. "Io sono
un povero uomo inoffensivo."
"Lo
saprete subito."
I due
filibustieri lo presero per le braccia e lo condussero in coperta. Morgan li
aveva seguìti.
Gli uomini di
guardia vedendo comparire il comandante erano accorsi portando parecchie
lanterne.
"Un
cappio dal pennone d'artimone" disse loro Morgan, a mezza voce.
Un marinaio
salì sulle griselle, scomparendo in mezzo alla velatura.
"Parlerete
ora?" chiese Morgan, volgendosi verso il prigioniero, che era stato
collocato presso l'albero di mezzana.
Don Raffaele
non rispose. Il buon sangue spagnolo si era ridestato in lui e non si sentiva
l'animo di commettere un tradimento.
Ad un tratto
vacillò e mandò un urlo terribile.
Un gherlino
era sceso silenziosamente dall'alto e Carmaux, ad un cenno di Morgan, aveva
gettato al collo del piantatore il cappio, dandogli una stretta.
"Issa!"
gridò Morgan.
"No...
no... dirò tutto!" urlò il piantatore, portandosi le mani al collo.
"Vedete
che ho degli argomenti irresistibili" disse il corsaro, ridendo
ironicamente.
"Vi sono
seicento soldati" disse don Raffaele, precipitosamente.
"È vero
che il forte della Barra lo si giudica imprendibile?"
"Così si
dice."
Morgan alzò le
spalle.
"Anche
quelli di Portobello si ritenevano inespugnabili, eppure li abbiamo presi"
disse. "Voi mi assicurate che la figlia del cavalier di Ventimiglia è
la?"
"Lo
ripeto."
"Voi
tornerete questa notte istessa a Maracaybo con una lettera per il governatore.
Badate che io saprò trovarvi e punirvi se non eseguirete ciò che vi dico. Qui
una lanterna."
Strappò da un
libbriccino una pagina, si levò da una tasca una matita, s'appoggiò alla murata
e scrisse alcune righe.
"Cacciatevi
bene queste parole nel vostro cervello onde possiate ripeterle al governatore,
nel caso che smarriste il biglietto" disse poi, rivolgendosi a don
Raffaele.
"Al signor
Governatore di Maracaybo.
"Vi
accordo ventiquattr'ore per mettere in libertà ed inviarmi la figlia del
cavaliere di Ventimiglia e della duchessa di Wan Guld, il cui padre fu un tempo
governatore di Maracaybo e suddito spagnolo.
"Se non
obbedite, spianerò la città e se occorre anche quella di Gibraltar.
"Rammentatevi
di ciò che hanno saputo fare i filibustieri guidati dal Corsaro Nero, da Pietro
l'Olonese e da Michele il Basco, diciott'anni or sono.
MORGAN
"Almirante
della squadra della Tortue."
"Carmaux,
fa preparare una scialuppa montata da otto uomini ed inalberare la bandiera
bianca. Condurranno questo señor a Maracaybo."
"Dobbiamo
accompagnarli io e Wan Stiller?"
"Avete
bisogno di riposo: restate a bordo. Andate señor e badate che la vostra pelle è
ormai segnata. Sta in voi a salvarla."
Ciò detto
tornò nella sua cabina, mentre il povero piantatore scendeva nella scialuppa
che era stata già calata in acqua.
La
presa di Maracaybo
Le
ventiquattro ore erano trascorse senza che notizia alcuna fosse giunta alla
flotta filibustiera, che non aveva lasciato il suo ancoraggio; peggio ancora,
nemmeno la scialuppa aveva fatto ritorno, quantunque il mare si fosse mantenuto
sempre calmo e il vento non avesse cessato di soffiare.
Una profonda
commozione si era impadronita dei cinquecento corsari che equipaggiavano la
flotta, temevano che gli spagnoli di Maracaybo non avessero rispettata la
bandiera bianca inalberata sulla scialuppa, ciò che altre volte era accaduto.
Anche Morgan,
di solito così calmo, cominciava a dar segni non dubbi d'una viva irritazione,
passeggiando sulla coperta con passo agitato e la fronte corrugata.
Carmaux e Wan
Stiller erano addirittura furiosi. "Sono stati presi ed impiccati"
ripeteva il primo. "Non rispettano nemmeno i nostri parlamentari. Eppure
siamo belligeranti patentati, essendo la Spagna in guerra colla Francia e
coll'Inghilterra."
"Il
capitano li vendicherà, amico Carmaux" rispondeva l'amburghese.
"Raderemo
Maracaybo al suolo. Questa volta non la risparmieremo, come quando ci siamo
andati col Corsaro Nero e coll'Olonese."
Altre dodici
ore trascorsero in continue impazienze ed in attese vane. Già Morgan, d'accordo
con Pierre le Picard,(1)
suo secondo nel comando della squadra, si accingeva a dare il comando di
salpare le àncore, quando agli ultimi raggi del sole fu scorto un piccolo
canotto indiano montato da un solo uomo e che arrancava faticosamente, cercando
d'imboccare la piccola baia.
Gli fu mandata
incontro una scialuppa montata da dodici uomini, e venti minuti dopo quell'uomo
si trovava a bordo della nave ammiraglia, dinanzi a Morgan.
Un grido di
sorpresa e di rabbia era sfuggito a tutti i marinai, riconoscendo in lui uno
degli otto filibustieri incaricati di scortare il piantatore.
"Dove
sono i tuoi compagni?" chiese Morgan, dopo d'averlo lasciato vuotare una
tazza di rum, tanto quel povero diavolo appariva sfinito dalla fatica.
"Impiccati,
capitano" rispose il filibustiere. "Essi penzolano da sette forche
erette sulla Plaza Maior di Maracaybo, nell'istesso luogo ove diciott'anni or
sono fu preso il Corsaro Rosso, il fratello del signore di Ventimiglia."
Un lampo
terribile era guizzato negli occhi dell'Almirante della squadra.
"Impiccati!
..." gridò con voce terribile.
"Per
ordine del governatore."
"Malgrado
la bandiera bianca?"
"Che
hanno subito stracciata sotto i nostri occhi, dopo averci fatti sbarcare e
averci accolti come parlamentari."
"E non vi
siete difesi?"
"Ci
avevano prima invitati a deporre le armi, promettendo di rispettarci come messi
di pace."
"Miserabili!...
E perché ti hanno risparmiato?"
"Perché
vi recassi la risposta del governatore."
"L'hai?"
"Eccola"
disse il filibustiere levandosi dalla fascia di lana che gli cingeva i fianchi,
un biglietto.
Morgan se ne
impadronì vivamente, gettandovi sopra gli occhi.
Non conteneva
che due righe:
"Aspetto
a Maracaybo i filibustieri della Tortue per impiccarli tutti.
Il governatore
della piazza".
Morgan
stracciò con ira il biglietto, poi rivolgendosi al marinaio, chiese:
"Ti ha
detto nulla della figlia del cavaliere di Ventimiglia?"
"Sì, che
andate a prenderla, se ne avete il coraggio."
"E la
prenderemo" rispose Morgan.
Poi, con voce
tuonante, in modo da poter essere udito anche dai marinai delle altre navi,
gridò:
"Si
salpino le àncore e si sciolgano le vele. Prima di domani sera Maracaybo sarà
nostra."
Un urlo
immenso, alzatosi su tutte le navi, rispose:
"A
Maracaybo!... A Maracaybo!..."
Mezz'ora dopo
le otto navi lasciavano la baia, veleggiando verso il golfo. La Folgore - che
era la nave di Morgan, così battezzata a ricordo della valorosa nave del
Corsaro Nero - apriva la via.
Era la più
grossa di tutte, una fregata a tre alberi, armata di trentasei cannoni di grosso
calibro, fra cui alcuni pezzi da caccia e montata da ottanta uomini che nulla
temevano.
Le altre, che
erano quasi tutte caravelle predate agli spagnoli, ma armate di numerosi pezzi
di cannone, di petriere e di grosse spingarde, la seguivano in una doppia
colonna, tenendosi ad una distanza di cinque o seicento metri l'una dall'altra,
onde aver campo sufficiente per manovrare senza correre il pericolo
d'investirsi.
Tutte avevano
i fanali spenti. Tuttavia, quantunque la luna mancasse, la notte era abbastanza
chiara, essendo l'aria delle regioni tropicali ed equatoriali d'una purezza
straordinaria.
Morgan, che si
trovava sul ponte di comando, scrutava attentamente l'orizzonte, essendogli
stato riferito giorni innanzi che tre grosse navi spagnole avevano lasciati i
porti di Cuba per dargli la caccia e assalirlo prima che tentasse qualche altra
impresa contro le città del continente.
Carmaux, che
era il suo fido, si trovava con lui e scambiavano qualche parola.
"Mi viene
però un dubbio, capitano" disse Carmaux.
"E
quale?"
"Che il
governatore, conoscendo lo scopo della nostra spedizione e sapendoci vicini,
approfitti del nostro ritardo per far trasferire altrove la figlia del signor
di Ventimiglia."
Una ruga
profonda si era disegnata sull'ampia fronte di Morgan.
"Se non
ritrovassi quella fanciulla" disse con voce minacciosa, "non darei
una piastra di tutte le pelli degli spagnoli di Maracaybo. Tu sai che so essere
gentiluomo come il signor di Ventimiglia; ma anche tremendo ed implacabile come
Pietro l'Olonese, che fu il più feroce e spietato filibustiere della
Tortue."
"Quel
cane di governatore, che mi fu dipinto come un uomo avidissimo e che fu un
tempo amico intimo del duca Wan Guld, il suocero del signor di Ventimiglia,
sarebbe capace di farla scomparire."
"Sventura
a lui. Come il Corsaro Nero fu implacabile contro il duca, io non lo sarò meno
col governatore di Maracaybo e lo perseguiterei fino alla morte. Ah! Se la
figlia del nostro vecchio condottiero ci avesse avvertiti del suo arrivo in
America, gli spagnoli non l'avrebbero presa. Tutti i più celebri filibustieri
della Tortue si sarebbero tenuti onorati di scortarla e di proteggerla. È
strano che non si sia ricordata che suo padre contava fra noi un numero così
immenso di amici e di camerati devoti e che ignorasse che alla Tortue egli
possiede ancora una villa e delle piantagioni che io solo amministro da
diciassette anni."
"Forse
era sua intenzione di giungere fra noi improvvisamente e, senza l'incontro
colla fregata spagnola che ha catturata la nave olandese, sarebbe già la regina
della Tortue."
"Ah!...
Guarda Carmaux!..."
"Che
cosa, capitano?"
"Dei
fanali laggiù che navigano verso il nord."
"Che
siano i tre vascelli che sono incaricati di darci la caccia? Ho udito a
raccontare che sono navi grosse, d'alto bordo, equipaggiate da biscaglini e
capaci d'affrontare una squadra ben più numerosa della nostra. In guardia con
quei lupi, capitano."
"Quei
fanali vanno verso il settentrione, quindi non li incontreremo sulla nostra
rotta" rispose Morgan.
"Purché non
facciano rotta falsa, per poi piombarci alle spalle quando saremo impegnati coi
cannoni del forte della Barra a Maracaybo" disse Carmaux.
"Giungeranno
troppo tardi. Va ad avvertire Pierre le Picard di stringere contro la costa e
fa chiamare in coperta tutti gli uomini."
Mentre
venivano eseguiti i suoi ordini, Morgan seguiva attentamente cogli sguardi i
sei punti luminosi che continuavano ad allontanarsi dal golfo di Maracaybo,
anziché accorrere in difesa della città. Quando li vide scomparire sul fosco orizzonte,
respirò liberamente e la ruga che si delineava sulla fronte, scomparve.
"Se
torneranno, giungeranno a cose finite" mormorò. "Quando sorgerà
l'alba, noi saremo sotto il forte della Barra e vedremo se gli spagnoli
resisteranno a lungo."
Le otto navi
che formavano la squadra si erano ripiegate verso la costa, stringendo il vento
il più possibile. Già l'isola di Zapara era in vista sulle sue spiagge non
brillava nessun fuoco che annunciasse qualche sorveglianza da parte degli
spagnoli.
Mancava qualche
ora all'alba, quando la squadra, ancora da nessuno avvistata, entrava a gonfie
vele nella laguna di Maracaybo, passando fra la penisoletta di Sinamaica e la
punta occidentale di Tablayo.
Tutti gli
uomini erano già ai loro posti di combattimento, dietro le brande accumulate
sui bastingaggi o nelle batterie dietro ai pezzi, ed i comandanti sui ponti col
portavoce in mano.
"Carmaux"
disse Morgan che fissava il forte della Barra, già in vista. "Dà ordine ai
nostri artiglieri di non far fuoco, anche se gli spagnoli ci bombardano.
Cominciavano a
diradarsi le tenebre, quando la squadra comparve improvvisamente nelle acque
battute dal forte, disposta su una sola linea, colla Folgore nel centro.
L'allarme era
stato già dato e l'intera guarnigione era uscita frettolosa dalle casematte per
accorrere sugli spalti del castello. Quei soldati dovevano però essere ben
sorpresi di vedersi piombare addosso, all'improvviso, quella squadra che non
era stata fino allora segnalata nemmeno dalle caravelle incaricate della vigilanza
della bocca della laguna.
Probabilmente
il governatore, non credendo alla minaccia di Morgan, non si era preso nemmeno
il fastidio di avvertire il comandante del forte di prepararsi alla difesa.
Gli spagnoli
però non si perdettero d'animo ed accolsero la squadra con un furioso
cannoneggiamento, credendo di affondarla facilmente o per lo meno di
costringerla a tornare nel golfo.
Avevano però
da fare con gente che non s'inquietava gran che delle cannonate.
Malgrado
quella grandine di palle, le navi corsare continuavano tranquillamente ad
accostarsi, senza prendersi la briga di rispondere.
Qualche albero
e qualche pennone cadeva, qualche murata si sfasciava qualche filibustiere
venivano mutilato o fulminato da quelle incessanti scariche, eppure nessuno
osava trasgredire l'ordine dato da Morgan, tanto era ferrea la disciplina che
regnava sui vascelli corsari.
Già la Folgore
non si trovava che a due gomene dalla spiaggia e si preparava a calare in mare
le scialuppe, quando tutto quel furioso cannoneggiamento come per incanto
cessò.
Diradatosi il
fumo che ondeggiava sugli spalti, gli equipaggi con loro grande stupore non
scorsero più nessun uomo dietro alle artiglierie.
"Che cosa
vuol dir ciò?" si chiese Morgan, che non aveva abbandonato per un solo
istante il ponte di comando. "Che si arrendano? Eppure ritenevano questo
forte inespugnabile. Pierre le Picard!..."
Il
filibustiere che portava quel nome e che, come abbiamo detto, aveva il comando
in seconda e che godeva fama di essere uno dei più intrepidi Fratelli della
Costa, lasciò la ribolla del timone, raggiungendo il comandante.
"Che cosa
ne pensi tu di questo improvviso silenzio?" gli chiese Morgan. "Che
nasconda qualche sorpresa?"
"Vado ad
assicurarmene" rispose il filibustiere, senza esitare. "Datemi
quaranta uomini, tenetene pronti altri cento e do la scalata al forte."
Le scialuppe
erano state già calate in acqua. Il filibustiere scelse i suoi uomini e vogò
verso terra, mentre le altre navi si preparavano a sbarcare parte dei loro
equipaggi, onde appoggiarlo nell'ardimentosa impresa.
Morgan, che
temeva una sorpresa, fa scaricare tutti i venti cannoni di tribordo,
tempestando le difese avanzate del castello, ma nessuno rispose, né alcun
soldato si mostrò.
I quaranta
corsari della Folgore, sbarcati a terra, presero a scalare le rocce, armati
solamente d'una pistola e d'una corta sciabola, lottando in celerità per
giungere primi. Giunti sotto le mura scagliarono fra i merli alcune granate
mandandole a scoppiare al di là delle cinte, poi montando gli uni sulle spalle
degli altri, si arrampicarono sulla cinta esterna e la scalarono mandando urla
terribili.
Non trovano
altro che i cannoni e pochi fucili abbandonati dal nemico nella sua precipitosa
ritirata. Il presidio, credendo di non poter arrestare i corsari e spaventato
dal numero delle navi, si era ritirato precipitosamente in Maracaybo,
accontentandosi di mettere una miccia accesa al magazzino delle polveri, perché
con esse saltassero in aria anche i nemici.
Fortunatamente
i corsari non erano ancora entrati nel forte quando lo scoppio avvenne.
Crollarono con
immenso fracasso le casematte, le merlature e parte delle muraglie, aprendo qua
e là delle enormi breccie, senza però danneggiare l'equipaggio della Folgore.
Udendo quel
rombo spaventevole e vedendo innalzarsi quella colonna di fumo, i marinai delle
altre navi si erano affrettati a prendere terra per accorrere in aiuto dei loro
camerati che credevano di trovare malconci e anche alle prese cogli spagnoli, e
furono invece accolti da altissime grida di vittoria.
Morgan,
informato della ritirata del presidio, decise senz'altro d'investire la città,
prima che i suoi abitanti potessero rifugiarsi nei boschi e mettere in salvo i
loro tesori.
Lo scoppio del
forte aveva già sparso il terrore fra quella disgraziata popolazione, che aveva
già provati gli orrori del saccheggio, compiuto vent'anni prima dai
filibustieri del Corsaro Nero, di Pietro l'Olonese e di Michele il Basco.
Invece di
prepararsi alla difesa tutti gli abitanti si erano dati a fuga precipitosa nei
boschi vicini, portando con sé quanto aveva di meglio, e anche fra i soldati
della guarnigione regnava un panico, che la presenza del governatore e dei suoi
ufficiali non bastava a dissipare.
Il nome di
Morgan, l'espugnatore di Portobello, faceva titubare i più vecchi soldati, che
pur avevano date tante prove di valore sui campi dell'Europa e che avevano
conquistati e rovesciati imperi, come quelli degli Aztechi nel Messico e degli
Incas nel Perù.
I
filibustieri, lasciati pochi uomini a guardia della squadra e saliti sulle
scialuppe, si accostarono velocemente alle banchine del porto. Morgan era alla
loro testa con Pierre le Picard, Carmaux e Wan Stiller.
Vedendoli
sbarcare, gli spagnoli, che erano pure in buon numero e che avevano innalzate
frettolosamente delle trincee, avevano aperto un violentissimo fuoco di
moschetteria, mentre i due fortini che proteggevano la città dal lato di terra,
facevano rombare i loro grossi cannoni. Era però ormai troppo tardi per
arrestare quei filibustieri, che le possenti e numerose artiglierie del forte
della Barra non avevano saputo trattenere né schiacciare.
I bucanieri,
che si trovavano sempre in buon numero sulle navi corsare e che, in
quell'epoca, erano i migliori bersaglieri del mondo, con scariche ben
aggiustate, avevano ben presto costretto il presidio ad abbandonare le trincee
ed a salvarsi con una fuga più che precipitosa.
Dieci minuti
dopo, le bande di Morgan irrompevano nelle vie della disgraziata città,
invadendo le case e uccidendo senza misericordia quanti tentavano di opporre
resistenza.
Don
Raffaele
Mentre i
filibustieri s'abbandonavano al saccheggio, Morgan con una cinquantina dei suoi
marinai si era diretto verso il palazzo del governo, dove sperava di
sorprendere ancora il governatore e dove supponeva di trovare qualche
resistenza.
Non vi era
invece più nessuno. Tutti erano fuggiti, lasciando il portone spalancato ed il
ponte levatoio abbassato.
Solo sette
forche, dalle quali pendevano i sette corsari che avevano accompagnato il
piantatore, facevano triste mostra, proprio nel mezzo dell'ampia e deserta
piazza.
Nello
scorgerli, un urlo di rabbia era scoppiato fra il drappello di Morgan.
"Bruciamo
il palazzo del governatore!... Vendetta, capitano, vendetta!... Trucidiamo
tutti!..."
Pierre le
Picard, che faceva parte del drappello, gridò:
"Portate
qui due barili di polvere e facciamo saltare il palazzo!..."
Già degli
uomini stavano per slanciarsi in varie direzioni, quando un comando breve ma
energico di Morgan li arrestò.
"Sono io
che comando qui!... Chi si muove è uomo morto!..."
Il
filibustiere si era gettato fra la turba furibonda, colla spada nella destra e
una pistola nella sinistra.
"Insensati!..."
urlò. "Che cosa siamo venuti a far qui? E non pensate che forse in questo
palazzo, in qualche antro segreto si trova la figlia di cavalier di
Ventimiglia? Volete ucciderla per una stupida vendetta?"
A quelle
parole l'ira furibonda dei filibustieri era improvvisamente sbollita. Chi
poteva assicurare che il governatore, prima di fuggire, non avesse nascosta in
qualche sotterraneo la fanciulla, per la cui salvezza avevano tentato
quell'ardito colpo di mano?
"Invece
di gridare come oche" disse l'almirante della flotta corsara,
"cercate di fare quanti prigionieri potete. Qualcuno saprà dirci dove si trova
la figlia del Corsaro Nero.
"Questo
si chiama parlare d'oro" disse Carmaux che faceva parte del drappello.
"Ehi, amburghese, dove sei?"
"Eccomi,
compare" rispose Wan Stiller.
"In
caccia, amico mio. Cerchiamo di prendere qualche pezzo grosso."
Mentre Morgan
entrava con parecchi dei suoi ufficiali nel palazzo del governo, per frugarlo
da cima a fondo, e gli altri si disperdevano in varie direzioni per procurarsi
dei prigionieri, Carmaux e l'amburghese, che conoscevano sufficientemente la
città essendovi stati già due volte col Corsaro Nero molti anni prima, presero
un viottolo che serpeggiava fra le muraglie di alcuni giardini.
"Dove mi
conduci?" chiese l'amburghese, dopo aver percorso un centinaio di passi,
senza aver incontrato alcuno. "Non è da questa parte che fuggono gli
abitanti."
"Voglio
andare a fare una visita alla taverna El Toro" rispose Carmaux.
"Scommetterei una piastra contro un doblone di Spagna che troveremo
qualcuno da quelle parti."
"I nostri
non devono ancora essere giunti fino là."
"Infatti
non odo alcun colpo di fucile echeggiare verso la laguna."
"Allunga
il passo, amburghese."
I filibustieri
della squadra, che avevano appena allora cominciato il saccheggio, si trovavano
ancora nei sobborghi, che si prolungavano dietro il forte della Barra e non
erano giunti ancora nel cuore della città.
Da quella
parte si udivano clamori spaventevoli, seguìti da qualche scarica di fucili e
si vedevano alzarsi anche delle colonne di fumo. Nei giardini e nelle case
adiacenti, regnava invece un silenzio assoluto. La popolazione doveva aver
approfittato della breve resistenza opposta dalle truppe, per sgombrare
precipitosamente, salvandosi nei boschi o sulle isole della laguna.
Carmaux e
l'amburghese, di quando in quando scorgevano bensì qualche uomo o qualche donna
attraversare velocemente i giardini, ma non si prendevano la briga di dare loro
la caccia.
Correvano da
dieci minuti, quando si trovarono su una piazzetta all'estremità della quale,
dinanzi ad una porta, pendevano due enormi corna.
"La taverna"
disse Carmaux.
"Sì, la
riconosco dall'insegna" rispose l'amburghese.
"Pare che
anche qui tutti abbiano sgombrato."
"Taci!..."
"Che
cos'hai?"
"Qualcuno
s'avvicina."
Presso la
taverna s'apriva una via e da quella parte si udivano delle persone avanzarsi,
correndo disperatamente.
"Attento
amburghese" gridò Carmaux, slanciandosi da quella parte.
Aveva appena
raggiunto l'angolo, quando un uomo gli cadde fra le braccia. Carmaux fu pronto
a stringerselo al petto, gridandogli con voce minacciosa:
"Arrenditi!..."
Nel medesimo
istante otto o dieci negri che correvano all'impazzata, carichi di pacchi
voluminosi, urtarono l'amburghese così violentemente da mandarlo a gambe
levate, prima ancora che avesse potuto alzare il moschetto.
"Tuoni
d'Amburgo!..." aveva esclamato Wan Stiller. "Mi accoppano!..."
Udendo quella
voce, l'uomo che era caduto fra le braccia di Carmaux aveva alzato il capo,
lasciandosi sfuggire subito un grido d'angoscia.
"Sono
morto!..."
Carmaux era
scoppiato in una risata fragorosa.
"Ah!...
Il piantatore!... Che bell'incontro!... Come state señor Raffaele?..."
Il disgraziato
piantatore, sentendosi allentare la stretta, aveva fatto due passi indietro,
ripetendo con voce strozzata:
"Sono
morto!... Sono morto!..."
"È dunque
una vera mania che avete di credervi sempre morto?" chiese Carmaux che non
cessava di ridere. "Eppure mi sembra che scoppiate per troppa
salute."
"Toh!"
esclamò in quel momento Wan Stiller, che si era alzato. "Chi vedo?... Il
piantatore?... Buona presa, Carmaux!"
Don Raffaele, muto
per il terrore, guardava or l'uno or l'altro, tirandosi i capelli.
"Ohimè!..."
sospirò il piantatore. "Mi impiccherete per vendicare i vostri camerati,
che il governatore ha fatto appendere alle forche della Plaza Mayor."
"Non
siete stato voi."
"Lo so,
però il vostro comandante potrebbe crederlo."
"Bah!...
Bah!..." fece Carmaux, che si divertiva immensamente e che faceva sforzi
sovrumani per conservarsi serio. "Coraggio, signor mio; ecco là Wan
Stiller che porta in trionfo quattro bottiglie, che devono essere state turate
ai tempi di papà Noè. Perbacco!... Che fiuto che ha quell'amburghese!... Ha
scoperto la cantina di colpo!..."
Carmaux aveva
preso per un braccio ben stretto il piantatore, onde non gli scappasse, quando
a breve distanza rimbombarono alcuni colpi di archibugio e da una via laterale
sbucarono a corsa sfrenata parecchi abitanti, che portavano sulle spalle dei
grossi involti contenenti probabilmente le loro ultime ricchezze.
"Misericordia!..."
esclamò il piantatore. "Ci uccidono!..."
"Ragione
di più per rifugiarci nella taverna" disse Carmaux. "Non si sa
mai!... Una palla può deviare e fare scoppiare anche la vostra pancia."
Lo spinse
violentemente entro la taverna, dove l'amburghese stava decapitando, colla sua
corta sciabola, le quattro bottiglie.
La sala era
deserta, ma tutto era sotto sopra. La grande tavola dove avevano combattuto i
galli giaceva colle gambe all'aria, i tavolini erano addossati alla rinfusa
contro le pareti; gli sgabelli ingombravano il pavimento assieme a vasi e
bottiglie infrante.
Pareva che il
proprietario, prima di fuggire, avesse cercato di spezzare quanto non aveva
potuto portare con sé.
"Purché
sia rimasta salva la cantina, poco importa" disse Carmaux. "È così,
amburghese?"
"Vero
Alicante" rispose Wan Stiller, facendo schioccare la lingua da buon
intenditore. "È proprio di quello che abbiamo bevuto la sera del
combattimento dei gatti.
"Bada che
gli altri non vengano a vuotarcele, perché non ho trovate che queste bottiglie.
Quel mascalzone di taverniere ha fracassato tutto nella cantina.
Imbecille!"
Riempì un
bicchiere trovato per miracolo ancora intatto e lo offrì al piantatore,
dicendogli:
"Elisir
di lunga vita, signor spagnolo. È di quello, ve ne ricordate?"
Don Raffaele,
che si sentiva tremare le gambe, lo vuotò d'un fiato borbottando un grazie.
"Un
altro" disse Carmaux, mentre l'amburghese si metteva alle labbra una delle
quattro bottiglie.
"Volete
ubriacarmi una seconda volta per poi impiccarmi?" chiese don Raffaele.
"Ve l'ha
detto qualcuno che il capitano Morgan ha decretato la vostra morte?"
chiese Carmaux, con voce grave.
"Sono un
moribondo, dunque?" urlò don Raffaele, diventando livido. "Vuole
vendicare su di me la morte dei suoi sette marinai?"
Carmaux lo
guardò per qualche istante in silenzio, aggrottando a più riprese la fronte,
poi disse:
"Sta in
voi salvarvi."
"Che cosa
devo fare? Ditemelo! Io sono ricco, posso pagare un grosso riscatto al vostro
capitano..."
"Quello
lo pagherete a noi, mio caro signore" disse Carmaux, "essendo stati
noi a farvi prigioniero; ma per ora non è questione di danaro, bensì di
pelle."
"Spiegatevi
meglio" disse don Raffaele, che cominciava a respirare più liberamente.
"Non ho alcun desiderio di ballare un fandango all'estremità d'una
corda."
"Allora
rispondete e pesate bene le vostre parole" disse Carmaux, che tutto d'un
tratto era diventato minaccioso. "Dove è stata nascosta la signora di
Ventimiglia?"
"Come!"
esclamò il piantatore, facendo un gesto di sorpresa. "Non l'avete ancora
trovata?"
"No."
"Eppure io
non l'ho veduta a fuggire col governatore."
"Ah! Ha
preso il largo quel brav'uomo!" esclamò Wan Stiller con voce ironica.
"Assieme
ai suoi ufficiali e su buoni cavalli" rispose don Raffaele. "A
quest'ora deve essere ben lontano e sarete ben bravi se riuscirete a
raggiungerlo."
"E non vi
era con lui la figlia del Corsaro Nero?"
"No."
"Don
Raffaele!" gridò Carmaux, picchiando sulla tavola un pugno così
formidabile da far saltare le bottiglie. "Badate che giuocate la vostra
vita."
"Lo so ed
è per questo che io non cercherò d'ingannarvi."
"Allora
si trova ancora qui?"
"Ne sono
più che certo."
"O che
sia stata uccisa?" chiese Carmaux impallidendo.
"Non
credo, che il governatore abbia avuto il coraggio di lordarsi le mani del
proprio sangue."
"Che cosa
dite?" chiesero ad una voce i due filibustieri.
Il piantatore
si morse le labbra come se si fosse pentito di essersi lasciate sfuggire quelle
parole, poi alzando le spalle disse:
"Io non
ho giurato di mantenere il segreto e poi la mia vita si trova nelle vostre mani
ed io ho il diritto di difenderla come meglio posso."
Carmaux
tracannò un sorso d'Alicante, poi incrociando le braccia e piantando gli occhi
in viso al piantatore, disse:
"Don
Raffaele, spiattellate. Di quale sangue parlavate?"
"Avrete
la pazienza di ascoltarmi?"
Carmaux stava
per rispondere, quando alcuni colpi di fucile rimbombarono sulla piazza e
parecchie persone passarono correndo dinanzi alla taverna, gettandosi verso le
vicine ortaglie.
Cinque o sei
filibustieri, che avevano in mano gli archibugi ancora fumanti, vedendo
l'insegna del Toro, si erano affacciati alla porta della taverna, urlando:
"Una
cantina! Hurrà! Buchiamo le botti!"
Carmaux si
slanciò verso di loro coll'archibugio in mano, gridando:
"Indietro,
camerati!"
"Toh!"
esclamò uno di quei corsari. "I due inseparabili!... Volete bere tutto
voi?... Satanasso!... Lo spagnolo che ha fatto impiccare i nostri compagni!...
Abbruciamolo vivo!..."
"È nostro
prigioniero" gridò Carmaux.
"Fosse
anche del diavolo, io non me ne andrò se prima non gli avrò bucato il
ventre" disse un altro corsaro. "Largo, camerata! Quell'uomo
appartiene alla giustizia dei Fratelli della Costa."
Il povero don
Raffaele, che era diventato paonazzo dal terrore, si era rifugiato dietro la
tavola, cercando di farsi più piccino che poteva.
"Levatevi
dai piedi!" urlò Carmaux, puntando risolutamente l'archibugio verso i
filibustieri che si spingevano l'un l'altro per entrare. "Quest'uomo è una
preda dell'almirante."
Udendo quelle
parole, i corsari si arrestarono titubanti, poi volsero le spalle
allontanandosi di corsa, tanto era il terrore che esercitava Morgan anche su
quell'accozzaglia di scorridori del mare, che pur non riconoscevano né leggi,
né governo.
"Parlate,
ora" disse Carmaux, tornando verso il piantatore. "Nessuno verrà più
a disturbarci."
Don Raffaele
bevette d'un fiato un bicchiere d'Alicante, per riprendere coraggio, poi disse:
"L'istoria
che io sto per narrarvi è un segreto che solo pochissimi spagnoli conoscono e
che voi ignorate. Vorrei però sapere, prima di cominciarla, quale causa
dell'odio implacabile che regnava fra il Corsaro Nero, signor di Ventimiglia,
ed il duca Wan Guld, un tempo governatore di questa città.
"Voi che
siete stati marinai e forse confidenti del terribile corsaro, che tanto male ha
recato alle nostre colonie, dovete saperne qualche cosa e ciò schiarirebbe
forse l'odio che il governatore attuale nutre ora per la giovine figlia di
quello scorridore del mare."
"Come!"
esclamò Carmaux. "Il governatore odia la figlia del Corsaro Nero? Non è
dunque solo l'interesse che lo ha spinto a farla prigioniera?"
"No, è
odio di sangue" disse don Raffaele, con voce grave. "Se il duca è
morto ha lasciato un vendicatore che non sarà meno implacabile di lui."
"Che cosa
mi narrate voi?" disse Carmaux, spaventato.
"Rispondete
alla domanda che vi ho fatta, poi io mi spiegherò meglio."
Il
monastero dei Carmelitani
Carmaux, che
pareva in preda ad una vivissima agitazione, stette qualche istante silenzioso
guardando il piantatore, poi disse:
"L'odio
fra il Corsaro Nero ed il duca di Wan Guld risale circa a venticinque anni fa e
non ebbe principio in America, bensì nelle Fiandre. I signori di Ventimiglia
erano allora in quattro fratelli e combattevano fra le truppe dei duchi di Savoia,
alleati della Francia, contro la Spagna. Belli tutti, valorosi, audaci,
godevano fama d'essere i più nobili gentiluomini del Piemonte. Un giorno essi
vennero assediati in una rocca fiamminga da un numero strabocchevole di
spagnoli, assieme al loro reggimento che era comandato dal duca di Wan Guld.
Resistevano tenacemente da alcune settimane, combattendo come leoni, quando una
notte il nemico entrava nella rocca a tradimento e se ne impossessava, dopo
d'aver ucciso uno dei quattro fratelli che era accorso a contrastargli il
passo. Un uomo aveva venduta la rocca ed aveva aperte le porte: quel miserabile
era il duca di Wan Guld."
"Avevo
udito a parlare vagamente di quella storia" disse don Raffaele.
"Continuate."
"Il duca,
per sfuggire all'ira dei signori di Ventimiglia, aveva chiesto al governo
spagnolo un posto nelle colonie dell'America ed era stato nominato governatore
di questa città."
"Era il
prezzo del tradimento" disse l'amburghese, picchiando il pugno sulla
tavola.
"Il
duca" proseguì Carmaux, "credeva di essere stato dimenticato dai
signori di Ventimiglia, ma s'ingannava. Non erano ancora trascorsi sei mesi da
che aveva assunto il suo posto, quando comparvero alla Tortue tre navi, montate
dai tre fratelli piemontesi. Erano il Corsaro Nero, il Verde ed il Rosso, i
quali avevano giurato di non lasciar più pace al traditore e di vendicare il
fratello assassinato nella rocca."
"Conosco
il seguito" disse don Raffaele. "Dopo varie vicende, il duca riusciva
a catturare ed impiccare il Corsaro Verde e poi il Rosso, mentre il Nero, senza
saperlo, s'innamorava della figlia del suo mortale nemico, che egli credeva
fosse una principessa fiamminga."
"Sì, è
così" rispose Carmaux. "E quando il Corsaro Nero, che aveva giurato,
sui cadaveri dei fratelli, di sterminare senza misericordia tutti coloro che
portavano il nome del traditore, seppe che la fanciulla che amava era la figlia
del duca, pur piangendo, l'abbandonò sola fra le onde in una scialuppa, quando
la tempesta stava per scoppiare sul golfo del Messico. Dio però vegliava sulla
fanciulla e la scialuppa, invece di venire assorbita dai gorghi, andava a
naufragare sulle coste meridionali della Florida, abitate da una tribù di
Caraibi, i quali, sedotti dalla bellezza meravigliosa della naufraga, invece di
divorarla la proclamarono la loro regina."
"Ed il
Corsaro uccise il duca, è vero?" chiese don Raffaele.
"No,
perché venuti all'abbordaggio alcuni mesi dopo, appunto nelle acque della
Florida, il vecchio traditore, piuttosto di cadere vivo nelle mani del suo
nemico, dava fuoco alle polveri inabissandosi colla propria nave fra i baratri
del Golfo del Messico."
"Il
Corsaro era già a bordo di quella nave?"
"Sì, e
anche noi" disse Carmaux, "avevamo già espugnato il vascello del
duca, quando l'esplosione ci scaraventò in mare assieme al Corsaro. Salvatici
su alcuni rottami, per una fortunata combinazione, due giorni dopo approdavamo
sulle coste della Florida, dove venivamo fatti prigionieri dai sudditi della
duchessa, la regina dei Caraibi. Se non ci mangiarono fu perché la figlia di
Wan Guld ci aveva riconosciuti a tempo e perché non si era spenta ancora in lei
l'affezione profonda che nutriva per il Corsaro."
"E non si
vendicò?" chiese don Raffaele.
"Tutt'altro,
perché una sera s'imbarcarono insieme su una scialuppa e per molti anni non si
seppe più nulla di loro. Più tardi un filibustiere italiano ci narrò come il
Corsaro e la giovane duchessa erano stati raccolti al largo da una nave inglese
in rotta per l'Europa e condotti in Piemonte, dove si erano sposati.
"La loro
felicità, come forse avrete saputo anche voi, fu breve. Dieci mesi dopo, la
duchessa moriva dando alla luce una bambina e l'anno seguente il Corsaro, che
non poteva rassegnarsi alla perdita della sua compagna, si faceva uccidere
sulle Alpi, combattendo contro i francesi che avevano invasa la Savoia e che
minacciavano il Piemonte."
"Sì, è
così" disse don Raffaele. "Il governatore di Maracaybo era stato
esattamente informato."
"Perché
s'interessava tanto del Corsaro?" chiese Carmaux con sorpresa.
"Perché aveva
ricevuto da suo padre una terribile missione."
"Quale?"
"Di
vendicarlo."
"Ma chi
era dunque suo padre?"
"Il duca
di Wan Guld."
Un grido di
stupore era sfuggito dalle labbra di Carmaux e di Wan Stiller. Entrambi erano
balzati in piedi, in preda ad una vivissima agitazione.
"Il duca
ha lasciato un figlio!" avevano esclamato.
"Sì, un
figlio avuto da una marchesa messicana ed a cui fu imposto il nome di conte di
Medina e Torres; non potendo assumere quello del padre."
"Ed è lui
il governatore di Maracaybo?" chiese Carmaux.
"Sì, fu
lui a far prigioniera Jolanda di Ventimiglia, la figlia del Corsaro Nero."
disse il piantatore "Dai suoi agenti, che aveva mandati in Italia per
spiare il Corsaro e, possibilmente, anche per ucciderlo, ciò che sarebbe certo
a quest'ora avvenuto, egli seppe che la giovane si era imbarcata su una nave
olandese in rotta per l'America, onde entrare in possesso dei beni immensi
lasciati dal duca".
"Mandò
due navi poderose furono mandate a sorvegliare i passi delle Antille,
coll'incarico di catturare il veliero olandese, temendo il conte di Medina che
la figlia del Corsaro si recasse prima alla Tortue a chiedere l'appoggio dei
filibustieri, per riavere i beni che il governo spagnolo, dietro istigazione
del governatore di Maracaybo, aveva sequestrati."
"E perché
li aveva sequestrati?"
"Per
vendicarsi del male che aveva fatto il Corsaro Nero alle colonie spagnole"
disse don Raffaele.
"E chi
amministra quei beni?" chiese Carmaux.
"Il
bastardo del duca, il quale finirà poi per trattenerseli; e quei possessi, se
non lo sapete, valgono una decina di milioni."
"E non li
ha mai reclamati la duchessa di Wan Guld, la moglie del Corsaro?"
"Certo,
ma senza risultato."
"Per
cento milioni di aringhe salate!" esclamò Carmaux. "Ora comprendo, un
po' meglio di prima, perché quel briccone di governatore ci teneva a fermare la
figlia del Corsaro ed averla nelle sue mani. Mio caro don Raffaele, ecco una
bella occasione per salvare la vostra pelle e anche le vostre sostanze.
M'impegno io di farvele rispettare dai miei camerati, ma bisogna che voi ci
fate trovare la fanciulla. "Se il governatore non l'ha condotta con
sé..."
"Di
questo son certo" disse il piantatore.
"Allora
deve essere ancora qui. Dove? A voi il dircelo."
Don Raffaele
era rimasto silenzioso, colla fronte stretta fra le mani, come se pensasse
profondamente. Ad un tratto si alzò dicendo:
"Sì, non
può essere stata affidata che al capitano Valera."
"Chi è
costui?" chiese Carmaux.
"Un
intimo amico del conte di Medina e un po' anche la sua anima dannata."
"Dove
abita?"
"Nel
convento dei Carmelitani."
"Non sarà
fuggito?"
"Si sarà
invece nascosto nei sotterranei che sono immensi e che si dice comunichino
colla laguna."
"Che uomo
è?"
"Un
valoroso, capace di difendere a lungo la preda affidatagli."
"Non perdiamo
tempo" disse Carmaux. "Se i sotterranei comunicano col lago, quel
furfante potrebbe questa sera prendere il largo colla fanciulla."
"Avvertiamo
il capitano" disse Wan Stiller.
"E
prendete con voi degli altri uomini" disse don Raffaele.
"Siamo
già in troppi noi due" rispose Carmaux. "Sappiamo maneggiare la spada
come veri gentiluomini, è vero Wan Stiller?"
"Siamo
allievi del Corsaro Nero, la prima e la più famosa lama della Tortue"
rispose l'amburghese.
"Su in
cammino" disse Carmaux.
Vuotarono
l'ultima bottiglia e uscirono.
Due
filibustieri carichi di vasi di argento e di arredi sacri, che avevano
probabilmente rubati in qualche chiesa vicina, passavano in quel momento
dinanzi alla taverna.
"Ohe,
camerati" gridò loro Carmaux. "Avvertite senza ritardo il capitano
Morgan che siamo sulle tracce della figlia del Corsaro Nero e che non
s'inquieti se tarderemo a tornare."
"Buona
fortuna, Carmaux" risposero i due corsari, allontanandosi velocemente.
"Guidateci
don Raffaele e non dimenticatevi che la vostra vita sta nelle mani della
signora di Ventimiglia."
"Lo
so" rispose il piantatore, con un sospiro che veniva proprio dal cuore,
"e farò il possibile per salvarla."
Si diresse
verso una viuzza che doveva essere qualche scorciatoia, aperta fra una
piantagione d'indaco e di canne da zucchero, facendo segno ai due filibustieri
di seguirlo.
Dopo aver
percorsi parecchi viottoli che separavano le ultime case della città dalle
piantagioni e dalla laguna, don Raffaele si arrestò dinanzi ad un vecchio
palazzo annerito dal tempo e che era sormontato da due torrette munite di
campane.
"Il
convento dei Carmelitani" disse.
"Sembra
che sia stato lasciato dai suoi abitanti" disse Carmaux, che aveva
osservato che la porta era aperta.
"Tutti
sono fuggiti. Voi sapete che i corsari inglesi non risparmiano i nostri
frati."
"È
vero" rispose Wan Stiller.
"Entriamo?"
chiese il piantatore.
"Perbacco!"
esclamò Carmaux. "Voglio vedere quel bravo capitano, se ci sarà
ancora."
"Sono
certo che non è fuggito."
Spinsero la
porta ferrata che era socchiusa e si trovarono in una sala vastissima, in una
specie di chiesa con alcuni altari e molte torce.
Quantunque i
filibustieri di Morgan non fossero giunti fino là, vi regnava un gran
disordine. Banchi e sedie erano stati gettati sossopra; gli altari erano stati
frettolosamente spogliati di quanto avevano di più prezioso ed in terra si
vedevano quadri d'immagini sacre e crocifissi.
"È vasto
questo monastero?" chiese Carmaux.
"Assai"
rispose don Raffaele. "Ritengo però inutile frugare le sale e le celle. Se
il capitano si trova ancora qui, si sarà nascosto nei sotterranei."
"Dove si
trovano?"
Don Raffaele
indicò un angolo della chiesa:
"Sotto
quella pietra."
"Che
abbia dei compagni il vostro capitano?"
"Lo
ignoro."
"Ah!
diavolo!" esclamò Carmaux. "Forse siamo stati imprudenti a non
prendere con noi un rinforzo! Che cosa ne dici, amburghese?"
"Dico che
siamo solidi e ben armati" rispose Wan Stiller, "e che non è questo
il momento di rimandare l'impresa."
"Tu parli
come un libro stampato, compare. Giacché abbiamo cominciato, checché debba
succedere, dobbiamo condurlo a termine."
Raccolse da
terra un grosso cero, subito imitato dall'amburghese, l'accese e si diresse
verso l'angolo indicato dal piantatore.
"Spero,
don Raffaele" disse, "che non ci attirerete in qualche agguato. Io
andrò innanzi, ma il mio compagno vi terrà dietro colla spada in mano e vi
avverto che quando vibra un colpo inchioda un uomo come uno scarafaggio."
Il piantatore
fece un cenno affermativo col capo e si asciugò il sudore che gli bagnava la
fronte.
Entro una
specie di nicchia si vedeva una pietra circolare, fornita d'un anello di ferro,
che pareva l'ingresso di una tomba. Ed infatti si vedevano delle lettere incise
sulla lastra e anche uno stemma, che rappresentava due leoni rampanti su una
fascia diagonale.
"Qui"
disse il piantatore con voce soffocata.
Carmaux passò
la canna dell'archibugio nell'anello e aiutato dall'amburghese levò e rovesciò
la pietra.
Un tanfo di
muffa e d'aria corrotta sfuggì dal foro, facendo indietreggiare i due corsari.
"Un
rifugio punto profumato" disse Carmaux. "Possibile che quel capitano
si sia rifugiato qui dentro?"
"Sì"
disse il piantatore.
"Da chi
lo avete saputo voi?"
"Dal
governatore e dal padre superiore del monastero."
"Sapete
molte cose voi, don Raffaele. È stata una vera fortuna l'avervi incontrato
quella sera del combattimento dei galli."
"O una
disgrazia?"
"Per voi
forse, non certo per noi" disse Carmaux ridendo. "Orsù
scendiamo."
Una scaletta
di pietra a chiocciola conduceva nei sotterranei del monastero. Carmaux snudò
la spada, accese anche la torcia dell'amburghese, poi scese coraggiosamente,
badando dove metteva il piede.
Don Raffaele
lo seguiva brontolando; Wan Stiller veniva per ultimo col moschetto armato.
Dopo quindici
gradini, i due filibustieri ed il piantatore si trovarono in una specie di
cripta, sulle cui pareti, semi-murate, si vedevano dei feretri di pietra con
degli stemmi e delle iscrizioni.
"Sono i
sepolcri del monastero?" chiese Carmaux, facendo una smorfia.
"Sì"
rispose don Raffaele.
"Il luogo
è veramente poco allegro. Dove andiamo ora?"
"Entrate
in quella galleria; conduce, ne sono certo, al rifugio del capitano
Valera."
"Sarà
solo colla figlia del Corsaro Nero?"
"Io non
posso saperlo, ve lo dissi già."
"Andiamo,
compare" disse Carmaux, volgendosi verso l'amburghese. "Non voglio
che quest'uomo creda che noi abbiamo paura."
Alzò la torcia
per meglio vedere dove metteva i piedi e s'inoltrò risolutamente nel corridoio,
tenendo la punta della spada diritta innanzi a sé. Anche in quel corridoio si
vedevano numerose tombe e anche dei monumenti, rappresentanti per lo più dei
cavalieri spagnoli con corazze, spade ed elmetti.
Dopo qualche
minuto giunsero dinanzi ad un cancello di ferro semiarruginito, che non era
chiuso.
Al di là si vedeva
una seconda cripta e all'estremità, Carmaux e Wan Stiller scorsero, con viva
gioia, una sottile striscia di luce che si proiettava dall'umido e nero
pavimento del sotterraneo.
"Ci
siamo" mormorò Carmaux, spegnendo rapidamente le due torce.
"Ho mantenuta
la mia promessa?" chiese don Raffaele.
"Da
gentiluomo" rispose Carmaux. "È ben là che noi troveremo la figlia
del Corsaro Nero?"
"Ne son
certo."
"Le hanno
scelta una ben brutta prigione."
"Bisognava
sottrarla alle vostre ricerche."
"Compare
Wan Stiller, preparati a battagliare" disse Carmaux. "Il capitano non
si arrenderà senza lotta."
"Di
questo non ne dubito" disse don Raffaele. "È un valoroso."
S'avvicinarono
cautamente a quella striscia di luce e s'accorsero che sfuggiva al disotto di
una porta.
Carmaux
accostò un occhio alla toppa che era abbastanza larga e guardò attentamente,
rattenendo il respiro.
Al di là, vi
era una stanza piuttosto vasta, colle pareti coperte da tavoloni di legno e
arredata semplicemente, non essendovi che alcuni scaffali e delle vecchie
poltrone a bracciuoli in pelle di Cordova. Due uomini stavano seduti dinanzi ad
una tavola che si trovava nel mezzo e parevano intenti a finire una partita
agli scacchi.
Uno aveva
l'aspetto d'un gentiluomo e indossava anche l'elegante costume dei ricchi
spagnoli, l'altro sembrava un soldato, avendo indosso la corazza ed in testa un
mezzo elmetto d'acciaio con una piuma.
"Non sono
che due" disse Carmaux sottovoce, volgendosi verso l'amburghese.
"È aperta
la porta?"
"Mi
sembra."
"Spingi
ed entriamo. E le torce?"
"La
stanza è illuminata e non ne avremo bisogno."
"Avanti
dunque."
Carmaux spinse
violentemente la porta, che non doveva essere stata assicurata internamente e
s'inoltrò colla spada in pugno, dicendo con voce un po' ironica: "Buona
sera, signori!..."
Un
duello terribile
I due
giuocatori, vedendo entrare quei tre personaggi, di cui due armati di spada e
d'archibugio, balzarono rapidamente in piedi, allontanando le sedie.
Colui che pareva
un gentiluomo, era di statura piuttosto alta, magro come un biscaglino, colle
gambe e le braccia estremamente lunghe e poteva avere una quarantina d'anni.
Il suo volto,
dai lineamenti duri, angolosi, con due occhi grigi dal lampo vivido, non era
affatto piacevole.
L'altro, che
doveva essere un soldato, era invece piuttosto tozzo, basso di statura ed
abbronzato come un indiano o per lo meno come un meticcio.
Aveva gli
occhi nerissimi invece ed i lineamenti assai meno duri del compagno, quantunque
avesse nell'insieme qualche cosa che ricordava il muso astuto e feroce del
coguaro.
"Chi è di
voi che si chiama il capitano Valera?" chiese Carmaux sempre ironico,
scoprendosi con finta cortesia il capo.
"Sono
io" rispose l'uomo magro squadrandolo dal capo alle piante. "E voi
chi siete?"
"Vi preme
saperlo?"
"Certo,
prima di cacciarvi di qui a calci."
"Ah!... È
una cosa un po' difficile, mio signore" disse il filibustiere ridendo.
"Ho dunque l'onore di dirvi che noi siamo due corsari agli ordini del
capitano Morgan."
Una bestemmia
era sfuggita dalle labbra dello spagnolo.
"Chi vi
ha guidati qui?"
Carmaux aveva
gettato un rapido sguardo verso la porta e non vide che l'amburghese. Il
prudente don Raffaele non aveva osato comparire dinanzi al capitano, che
probabilmente lo conosceva.
"Siamo
venuti di nostra iniziativa" disse, ritenendo inutile compromettere il
piantatore.
"E che
cosa volete?"
"Null'altro
che la restituzione della signora di Ventimiglia, che il conte di Medina vi ha
affidata."
"Chi ve
lo disse?" gridò il capitano, sfoderando rapidamente la spada.
"Adagio
colle armi" disse Carmaux, facendo due passi innanzi, mentre l'amburghese
alzava l'archibugio.
"Ci
minacciate?"
"Siamo
gente di guerra, mio caro signore. Basta! Abbiamo chiacchierato abbastanza e
non abbiamo tempo da perdere. Consegnateci la figlia del Corsaro Nero."
"Alcazar,
a me!" urlò il capitano. "Cacciamo questi gaglioffi."
Il soldato era
già balzato innanzi snudando la spada, e con un urto improvviso aveva
rovesciata la tavola, gettando a terra il candeliere.
Wan Stiller
aveva fatto fuoco sul capitano, ma in causa dell'improvvisa oscurità aveva
mancato il colpo.
"Mano
alla spada, compare!" urlò Carmaux. "Ci piombano addosso.
"Don
Raffaele, accendete una torcia!"
Nessuno
rispose.
"Tuoni
d'Amburgo!" gridò Wan Stiller, indietreggiando verso la porta, e menando
colpi all'impazzata per impedire ai due spagnoli di accostarsi. "Il
piantatore è scappato come una lepre!..."
"Tieni
testa tu per qualche minuto?"
"Sì,
compare."
Carmaux,
indietreggiando, aveva ritrovata la porta. Avendo lasciate le due torce nel
corridoio, appoggiate alla parete, s'avanzò a tentoni per ritrovarle ed
accenderle, avendo con sé l'acciarino e l'esca.
L'amburghese, che
non correva più il pericolo di venire colpito dal compagno, tirava stoccate in
tutte le direzioni e si copriva con mulinelli fulminei, urlando a squarciagola.
"Avanti,
se l'osate!... Prendete questa, capitano!... A te, soldataccio, che tremi come
un coniglio!... Tuoni d'Amburgo!... Vi faccio in cinquemila pezzi!..."
I due
spagnoli, trincerati dietro la tavola, tiravano anch'essi colpi all'impazzata,
per tener lontani gli avversari, e non facevano meno fracasso gridando:
"Ladri!..."
"Assassini!..."
"Fuori di
qui, bricconi!..."
"Volete
la figlia del Corsaro? Eccola colla punta d'acciaio."
Mentre i tre
uomini battagliavano contro le tenebre, senza osare fare un passo innanzi,
Carmaux trovò finalmente le torce, ma non il piantatore, il quale aveva
approfittato per darsela a gambe. Carmaux ne accese una.
"Vedremo
ora come se la caveranno" disse.
Spalancò la
porta e si precipitò nella sala sotterranea, urlando:
"Giù le
armi o vi uccidiamo!"
Invece di
abbassare le spade, i due spagnoli si posero in guardia, gridando:
"Avanzatevi,
se l'osate!"
Carmaux piantò
la torcia in una fessura del pavimento, e si fece innanzi, dicendo:
"A te il
soldato, a me il capitano."
"Sì"
rispose l'amburghese.
Prima però
d'incrociare la lama, Carmaux fece un ultimo tentativo.
"Siamo
allievi del Corsaro Nero, che fu il più formidabile spadaccino della
Tortue" disse. "Noi vi uccidiamo, questo è certo. Volete arrendervi e
consegnarci la signora di Ventimiglia?"
"Il
capitano Valera non si arrende ad un mascalzone pari tuo" rispose lo
spagnolo. "Vedrai come ti scucirò il ventre."
"Tuoni
dell'aria!... A noi due!..."
Carmaux con un
salto si era gettato verso la tavola, dietro la quale si tenevano i due
spagnoli ed aveva incrociata la spada col capitano.
Wan Stiller,
dal canto suo aveva girato l'ostacolo, piombando addosso al soldato, il quale
era stato costretto a lasciare il riparo per non farsi prendere alle spalle.
I quattro
duellanti mostravano di conoscere a fondo tutte le sottigliezze della scherma e
di essere spadaccini di vaglia.
I due corsari
però, avendo fatte le loro prime armi sotto il Corsaro Nero, che fu il più
famoso schermitore del suo tempo, fino dai primi colpi avevano gettato un po'
di timore negli animi dei due spagnoli, i quali si erano illusi di sbrigare
presto la partita, non essendo generalmente i filibustieri che dei bravi
tiratori d'archibugio.
Carmaux
incalzava furiosamente il capitano, senza concedergli un istante di tregua.
L'aveva costretto a lasciare il riparo ed a rompere tre o quattro volte, ed ora
combattevano presso un angolo della sala.
Wan Stiller
tempestava il soldato di botte. Già due volte l'aveva toccato, ma avendo lo
spagnolo il petto coperto dalla corazza, non ne aveva avuto alcun danno.
Si capiva però
che il suo avversario, assai meno destro del capitano, non poteva durarla a
lungo e si vedeva che si esauriva rapidamente vibrando stoccate inutili.
"Ti
arrendi?" chiese ad un certo momento l'amburghese, accorgendosi che non
parava più colla rapidità di prima.
"Mai"
rispose il soldato. "I Bardabo muoiono, ma non si arrendono."
"Non vedi
che sto per ucciderti, e che non ne puoi più?"
"Allora
prendi questa!"
Il soldato che
si trovava quasi addosso al muro, con uno scatto improvviso si era gettato sull'amburghese
e, mentre gl'impegnava la spada guardia contro guardia, aveva allungata una
gamba, tentando di dargli uno sgambetto e di farlo cadere.
"Ah!...
Traditore!..." urlò l'amburghese. "Non è leale ciò. Muori
dunque!..."
Si gettò
bruscamente da una parte per disimpegnare meglio la lama, poi andò a fondo,
spingendo il ferro con velocità fulminea.
La punta,
entrata sotto l'ascella destra del soldato, che la corazza non difendeva, era
scomparsa nel corpo del disgraziato.
"Toccato"
brontolò lo spagnolo, con voce semi-spenta.
Si appoggiò
alla parete, lasciandosi sfuggire la spada, stravolse gli occhi, mormorò
qualche parola, poi stramazzò al suolo vomitando sangue.
"L'hai
voluto" disse l'amburghese.
Poi si slanciò
verso Carmaux, dicendo:
"Vengo in
tuo aiuto, compare."
Il capitano
teneva ancora testa al filibustiere, ma si trovava quasi addosso al muro e
appariva assai affaticato.
Aveva passata
la spada dalla destra alla sinistra, per cercare di imbrogliare vieppiù
Carmaux, il quale, non essendo mancino, non doveva trovare quel cambiamento di
suo gusto.
"Pensate
anche a me" disse Wan Stiller, piombandogli addosso.
"No,
compare, non sarebbe leale" disse Carmaux. "Lascia a me sbrigare la
faccenda."
Il capitano,
udendo quelle parole aveva fatto un ultimo salto indietro ed aveva abbassata la
spada.
"Vi
credevo un ladrone del mare" disse, "capace di assassinarmi anche a
tradimento, e ritrovo invece in voi un gentiluomo. Al vostro posto, un altro
non avrebbe rifiutato il concorso d'un compagno."
"Il
Corsaro Nero mi ha insegnato a essere leale" rispose Carmaux. "Vi
arrendete?"
Il capitano
prese la spada con ambe le mani, l'appoggiò su un ginocchio e la spezzò in due,
dicendo:
"Sono
vostro prigioniero."
"Non
sappiamo che cosa farne dei prigionieri" rispose Carmaux. "Morgan a
quest'ora ne ha perfino troppi. Noi siamo venuti qui a cercare la figlia del
Corsaro Nero"
"Mi è
stata affidata dal governatore e senza un suo ordine io non posso
cederla."
"È
fuggito dopo le prime cannonate e non sappiamo dove sia. Quindi non potrebbe,
in questo momento, darvi il permesso."
"È presa
adunque la città?"
"È in
nostra mano da tre ore."
"Allora,
signori, ogni resistenza da parte mia sarebbe inutile, da che tutti sono
fuggiti, compreso il governatore."
"Dov'è la
signorina di Ventimiglia?"
Il capitano
ebbe un'ultima esitazione, poi disse:
"Io ve la
cederò, se voi mi promettete di ottenere dal vostro capitano il permesso di
lasciare la città indisturbato."
"Il
signor Morgan ve lo accorderà" disse Carmaux. "Impegniamo la nostra
parola."
"Prendete
la torcia e seguitemi."
Wan Stiller obbedì. Lo spagnolo si
trasse dalla cintura di pelle, che portava ai fianchi, una chiave e si diresse
verso una porta che si vedeva all'estremità della sala sotterranea.
"Adagio,
signore" disse Carmaux che era sempre diffidente. "Eravate soli
qui?"
"Non vi è
nessun altro" rispose il capitano. "Al fracasso sarebbero già accorsi
e allora le sorti del duello sarebbero forse cambiate."
"Infatti
avete ragione" disse Carmaux.
Il capitano
introdusse la chiave nella toppa e aprì la porta, avanzandosi in un'altra sala
illuminata da un lampadario di stile veneziano, colle pareti rivestite di
pannelli, il pavimento riparato da un tappeto assai fitto e arredata con una
certa eleganza.
All'estremità
si vedeva un'alcova, le cui tende rosse, con ricami d'oro sbiadito dal tempo e
dall'umidità, erano abbassate.
"Signora"
disse il capitano. "Vi prego d'alzarvi. Delle persone che hanno conosciuto
vostro padre sono venute qui e vi aspettano."
Un grido si
udì dietro alle tende, un grido di stupore e anche di gioia; poi una fanciulla
con una mossa fulminea erasi slanciata fuori dall'alcova, fissando i suoi occhi
sui due filibustieri che si erano levati i berretti.
Era una
bellissima fanciulla, di quindici o sedici anni, alta e flessibile come un
giunco, dalla pelle pallidissima, quasi alabastrina, con la tinta che ricordava
suo padre il Corsaro Nero; aveva due occhi grandi, d'un nero intenso, e lunghe
ciglia che lasciavano cadere sul suo viso la loro ombra.
I suoi
capelli, neri come l'ala di un corvo, li teneva sciolti sulle spalle, legati
solamente presso la nuca da una piccola fila di perle.
Indossava una
semplice cappa bianco, con guarnizioni di trine e un sottile ricamo d'oro sulle
larghe maniche.
Vedendo i due
corsari, si lasciò sfuggire un secondo grido e rimase colla bocca aperta,
mostrando due file di denti piccoli come granelli di riso e più splendenti
dell'opale.
"Signorina
di Ventimiglia" disse Carmaux, inchinandosi goffamente e con un certo
imbarazzo, "noi siamo due fedeli marinai di vostro padre, qui mandati dal
suo antico luogotenente, il capitano Morgan..."
"Morgan!..."
esclamò la fanciulla. "Morgan!... Il comandante in seconda della
Folgore?"
"Sì,
signorina. Avete udito a parlare di lui?"
"Mio
padre è morto troppo presto perché me ne parlasse" disse la fanciulla con
profonda tristezza, "ma, nelle sue memorie, ho trovato molte volte il nome
di quel fedele e valoroso corsaro, che lo seguì sui mari e che lo aiutò a
compiere le sue vendette. Dov'è ora?"
"Qui, in
Maracaybo, signorina."
"Morgan
qui? Allora i filibustieri della Tortue hanno preso la città!"
"Da
stamane."
"E potrò
vederlo?"
"Quando
vorrete."
"E voi,
capitano, me lo permetterete?" chiese volgendosi verso lo spagnolo.
"Voi
siete libera, signora, dal momento che il governatore è fuggito."
"Ah!"
fece la giovane, con accento un po' ironico. "Il conte di Medina è
scappato dinanzi ai filibustieri della Tortue? Lo credevo più valoroso."
"Meglio
la fuga che la prigionia."
"Già, per
coloro che non sanno morire combattendo. Sicché io sono libera?"
"E sotto
la nostra protezione, signorina" disse Carmaux.
"Voi
siete..."
"Eravamo
due devoti servitori di vostro padre, il Corsaro Nero."
"I vostri
nomi."
"Carmaux
e Wan Stiller."
La giovane si passò
una mano sulla fronte, come per risvegliare delle lontane memorie, poi disse:
"Carmaux...
Wan Stiller... voi dovete aver accompagnato mio padre nella Florida... dopo
l'esplosione del vascello di mio nonno il duca... Nelle memorie scritte e
lasciate a me da mio padre io ho trovato molte volte i vostri nomi..."
Fece alcuni
passi innanzi e tese le sue belle mani dalle dita affusolate verso i due
filibustieri, dicendo:
"Una
stretta, eroi del mare, fedeli compagni di mio padre nella sua triste vita
avventurosa."
I due corsari,
confusi, impacciati, chiusero le due manine fra le loro dita ruvide e callose,
borbottando qualche parola.
"Ed
ora" disse la fanciulla "sono con voi, se il capitano non si
oppone."
Si gettò sulle
spalle una lunga mantiglia di seta nera con pizzi di Venezia, prese un grazioso
cappello di feltro oscuro adorno d'una piuma nera e si mise fra i due corsari,
dicendo al capitano con accento ironico:
"I miei
saluti al signor conte di Medina e Torres, e ditegli che se mi vorrà, bisognerà
che venga a prendermi alla Tortue, se ne avrà il coraggio."
Il capitano
non rispose; ma appena Carmaux e Wan Stiller furono usciti colla fanciulla,
disse:
"Stupidi!...
Non mi avete ucciso!... Miei cari, avrete ben presto mie nuove. Ed ora
cerchiamo di raggiungere il governatore, senza attendere il loro
salvacondotto."
Jolanda
di Ventimiglia
Quando i due
filibustieri e la figlia del Corsaro Nero uscirono dal convento dei
Carmelitani, trovarono sulla porta don Raffaele.
L'onesto
piantatore se l'era svignata, per paura che i due corsari avessero la peggio in
quel combattimento e che il capitano Valera gli facesse pagare ben caro il
tradimento, ma non aveva osato lanciarsi attraverso le vie della città, che
erano percorse dagli uomini di Morgan, i quali potevano fargli passare un
brutto quarto d'ora.
Si era perciò
tenuto nascosto dietro la porta del monastero, in attesa che il capitano od i
corsari comparissero, pronto a mettersi sotto la protezione dell'uno o degli
altri.
"Ah!...
Siete qui, don Raffaele?" disse Carmaux, scorgendolo raggomitolato dietro
la porta. "Non avete dato una bella prova del vostro coraggio, lasciando
noi soli alle prese coi vostri compatrioti."
"Voi
sapete che io non sono mai stato un uomo di guerra" rispose il piantatore.
"Che cosa volete che facessi per voi, non possedendo nessuna arma per di
più?
"Ah!...
La signora di Ventimiglia!... Che uomini siete voi!... Riuscite in tutte le
vostre imprese. Li avete uccisi gli altri?"
"Uno
solo, il soldato" rispose Carmaux. "Basta, conduceteci al palazzo del
governo per vie fuori di mano, se è possibile."
"Attraverseremo
le ortaglie" rispose don Raffaele.
"Vi
fidate di costui?" chiese la fanciulla a Carmaux.
"È una
nostra vecchia conoscenza" rispose il filibustiere, ridendo. "Non temete
di quel coniglio."
Si misero in
cammino, inoltrandosi attraverso a delle piccole piantagioni d'indaco e di
cotone, che si stendevano dietro i sobborghi.
Non si
scorgeva nessuno. Spagnoli e schiavi negri erano fuggiti o erano stati già catturati
dai filibustieri di Morgan, che avevano spinto fino là le loro scorrerie, a
giudicarlo dalle porte sfondate o sgangherate delle abitazioni e dagli ammassi
di mobili fracassati, che si scorgevano sulle vie e che dovevano essere stati
gettati dalle finestre.
Dopo un lungo
giro, il piccolo drappello giunse sulla Plaza Mayor, dove gran parte dei
corsari di Morgan vi si erano radunati.
Montagne di
barili, di balle di cotone, di botti di zucchero, di farina e di altre derrate,
ingombravano la piazza, che pareva fosse stata tramutata in un immenso mercato.
Parecchie
centinaia di prigionieri spagnoli, scelti fra le persone più cospicue della
città, si trovavano ammassati in un angolo, guardati da drappelli di corsari,
armati fino ai denti.
Vedendo
comparire Carmaux e Wan Stiller colla fanciulla e col piantatore, parecchi
filibustieri erano mossi loro incontro gridando:
"Buona
presa, Carmaux?"
"Corna di
toro!... Il vecchio marinaio ha scelta una vera perla!... Dove hai scovata
quella bellezza, furbone?"
"E questi
è il traditore che ha fatto impiccare i nostri camerati" urlarono
parecchi, circondando don Raffaele. Facciamolo ballare con una buona corda al
collo!..."
"Oh!...
Canaglia, non scappi più."
Venti mani si
erano allungate verso il disgraziato piantatore, che pareva più morto che vivo,
e stavano per afferrarlo, quando Carmaux si gettò in mezzo a loro colla spada
in mano, urlando:
"Largo!...
È preda mia e guai a chi la tocca!..."
"Impicchiamolo!...
Lascia fare, camerata. Te lo pagheremo egualmente."
"È del
capitano" ribatté Carmaux. "Me lo ha già pagato. Sgombrate! E questa
fanciulla è la figlia del Corsaro Nero"
Un grido di
stupore ed insieme d'ammirazione sfuggì da tutti i petti. Tutti lasciarono
cadere le spade e le sciabole, e si levarono i berretti ed i cappellacci.
"La
signora di Ventimiglia!" esclamarono.
La fanciulla
era rimasta impassibile, e guardava fieramente quei ruvidi uomini del mare,
colle ciglia aggrottate.
Fece solamente
un lieve cenno col capo, vedendo i filibustieri scoprirsi rispettosamente.
"Andiamo,
signora" disse Carmaux, ringuainando la spada. "Il capitano ci
aspetta."
Il circolo si
aperse. Carmaux e Wan Stiller si diressero verso il palazzo del governatore,
dove Morgan aveva preso alloggio.
Anche colà i
filibustieri avevano, secondo la loro abitudine, tutto devastato, colla
speranza di trovare oro e denaro nascosti.
I mobili erano
stati fracassati, le tappezzerie lacerate, i soffitti sfondati e sgretolati, e
sollevate perfino le lastre di pietra dei pavimenti.
Carmaux, che
conosceva il palazzo, avendo preso parte al saccheggio compiuto vent'anni prima
dai filibustieri dell'Olonese, del Corsaro Nero e di Michele il Basco, condusse
la fanciulla in una delle sale superiori, dicendole:
"Aspettatemi
qui, signora, e tu Wan Stiller, mettiti di guardia alla porta e impedisci a
tutti l'entrata. Vado a cercare il capitano."
Morgan si
trovava nell'ampia sala del Consiglio coi suoi ufficiali, tutti occupati a far
chiudere in casse il denaro, l'oro e le pietre preziose, frutto del saccheggio.
Vedendo
entrare Carmaux, che non aveva più veduto dal mattino, ma che era stato
avvertito come si trovasse sulle traccie della figlia del Corsaro Nero, gli
mosse sollecitamente incontro, chiedendogli premurosamente:
"Nulla, è
vero?"
"L'abbiamo
trovata."
"Jolanda
di Ventimiglia!..." esclamò Morgan trasalendo.
"È
qui."
"Tu sei
un uomo meraviglioso, Carmaux. Avrai doppia parte nella ripartizione del
bottino e altrettanto avrà l'amburghese.
"Conducimi
da lei."
"Un momento,
mio capitano. Ho appreso un segreto sul conto del governatore di Maracaybo, che
la figlia del Corsaro Nero probabilmente ignora, ma che voi dovete conoscere
prima di vederla."
Morgan lo
condusse in un gabinetto attiguo alla sala, chiudendo la porta.
Quando Carmaux
gli ebbe narrato tutto ciò che aveva appreso da don Raffaele, lo stupore
dell'almirante non ebbe più limiti.
"Il conte
di Medina, figlio di Wan Guld!" esclamò. "Ecco un nemico che se
somiglia a suo padre, ci darà del filo da torcere e che bisogna che cada nelle
nostre mani prima che noi lasciamo Maracaybo. Quella razza è implacabile nei
suoi odii. Sai dove si è rifugiato?"
"Tutti lo
ignorano, capitano."
"Finché
egli è libero, Jolanda di Ventimiglia avrà tutto da temere da lui, se è vero che
suo padre lo ha incaricato di vendicarlo anche sui discendenti del Corsaro
Nero."
Rifletté un
momento, poi disse:
"Dobbiamo
recarci a Gibraltar senza perdere tempo. So che la squadra spagnola è stata
veduta al largo di Puerto de Chimare e potrebbe, da un momento all'altro,
giungere qui ed impedirci l'uscita dalla laguna. Darò ordine ai miei
d'imbarcarsi oggi stesso, veleggeremo questa sera alla volta di Gibraltar.
Conducimi dalla fanciulla, mio bravo Carmaux. Sono impaziente di vederla."
Rientrarono
nella sala del Consiglio. Morgan conferì per qualche minuto coi suoi ufficiali,
dando gli ordini opportuni, onde prima che le tenebre scendessero, gli
equipaggi, i prigionieri e le ricchezze accumulate si trovassero a bordo dei
legni; poi seguì Carmaux entrando nel salotto dove si trovava la figlia del
Corsaro Nero.
Appena si
trovò in presenza della fanciulla, un grido gli sfuggì.
"Mi
sembra di vedere in voi, signora" le disse inchinandosi galantemente
"il fiero gentiluomo d'oltremare."
"Siete
voi il capitano Morgan?" chiese la fanciulla con voce armoniosa, fissando
sul formidabile filibustiere, che empiva ormai già il mondo delle sue audaci
imprese, i suoi grandi occhi neri.
"Sì"
egli rispose, "Io ero il luogotenente di vostro padre, signora."
"Morgan"
disse Jolanda, senza staccare un solo istante i suoi sguardi dal fiero
scorridore del mare. "Quante volte ho trovato questo nome nelle memorie
lasciate da mio padre! Sapete che io ho lasciato l'Europa, per venire a
chiedere la vostra protezione?"
"Contro
chi, signora?" chiese il filibustiere.
"Contro
il conte di Medina, che mi nega i diritti indiscutibili che io ho sull'eredità
di mia madre, la duchessa Honorata Wan Guld."
"Se voi,
signora, prima di salpare dai porti dell'Europa, mi aveste avvertito delle
vostre intenzioni, avrei lasciata la Tortue con una flotta imponente per
venirvi ad incontrare all'entrata del golfo del Messico. Sarebbe bastata la
notizia che la figlia del Corsaro Nero veniva a chiedere la protezione dei
Fratelli della Costa, perché tutti i filibustieri della Tortue si mettessero in
mare. Vostro padre, o signora, quantunque sia scomparso da molti anni, conta
ancora più amici che i più famosi corsari, me compreso."
"Sì"
disse la fanciulla con un sospiro. "Mio padre aveva qui, fra gli eroi del
mare, ancora molti devoti camerati."
"Signora"
disse Morgan con impeto. "Vi hanno usata qualche villania gli spagnoli?
Parlate e, parola di Morgan, voi ne avrete pronta vendetta."
Jolanda lo
guardò a lungo in silenzio, quasi sorridendo, poi disse: "No."
"Nemmeno
il governatore?"
"No."
"Eppure
io so che meditava di farvi sparire."
"Farni...
sparire?"
"Sì,
signora."
"Per qual
motivo?" chiese la fanciulla con stupore.
"Ve lo
dirò in un altro momento."
"Queste parole
mi sorprendono. So che il governatore insisteva perché rinunciassi in favore
del governo spagnolo ai miei diritti sulle vaste possessioni che appartenevano
a mia madre, dopo la morte del duca, mio nonno."
"E avete
rinunciato?"
"Oh,
mai!..."
"Non vi ha
minacciato?"
La fanciulla
parve riflettere qualche istante, poi disse:
"Mi ha
parlato di vendetta, che egli era stato incaricato di compiere."
"Miserabile!"
gridò Morgan. "Il giaguaro voleva ingannarvi, prima di divorarvi."
"Dite?"
chiese Jolanda.
"Signora,
si dice che il governatore sia fuggito a Gibraltar. In questo momento i miei
uomini stanno imbarcandosi per andarlo a trovare, non potendo essere io
tranquillo finché quell'uomo non sarà in mia mano. Vi offro sulla mia nave, che
porta il nome glorioso e temuto della invincibile Folgore che comandava vostro
padre, un posto. Mi seguirete voi? Sarete sotto la protezione della bandiera
dei Fratelli della Costa e nessuno potrà giungere fino a voi, se prima non ci
avranno distrutti dal primo all'ultimo. Accettate?"
"Ho fede
nella lealtà dei filibustieri, compagni di mio padre" rispose la
fanciulla. "Capitano Morgan, io appartengo alla filibusteria."
"Venite,
signora, e si provino gli spagnoli a strapparvi agli scorridori del mare della
Tortue."
Il
sacco di Gibraltar
La sera
stessa, la flotta corsara abbandonava Maracaybo, non lasciando in città che una
piccola partita di filibustieri, incaricati di scovare gli abitanti, che
dovevano trovarsi ancora in buon numero nascosti nei boschi dei dintorni, e di
sorvegliare l'entrata della laguna, onde le navi spagnole già segnalate non
chiudessero il passo.
Morgan
sperava, come già avevano fatto diciassette anni prima il Corsaro Nero,
l'Olonese ed il Basco, di sorprendere Gibraltar e di averla in sua mano senza
troppa resistenza.
Sapeva che la
città era risorta più bella e più ricca, in quel periodo di calma relativamente
lungo e che gli spagnoli l'avevano fortificata. Era quindi quasi certo che il
conte di Medina avesse trovato colà un rifugio, non essendovene altri di
considerevoli, in quell'epoca, in tutta la vasta laguna di Maracaybo.
A mezzanotte,
la flotta, forte di sette navi, avendone lasciata una ai filibustieri rimasti a
terra, si trovava già in mezzo al lago, avendo il vento favorevole e muoveva
velocemente verso la baia de la Mochila, sulle cui rive sorgeva la città!
Morgan, come
al solito, guidava in persona la sua nave, essendo più pratico di quei
bassifondi. Era d'altronde un uomo a cui bastava qualche ora di riposo per
rimettersi completamente, tanto era gagliarda la sua fibra.
Carmaux e Wan
Stiller, che erano, si può dire, i suoi aiutanti di campo e che godevano la sua
completa fiducia, gli tenevano compagnia, fumando dei grossi sigari spagnoli e
chiacchierando fra di loro.
La notte,
abbastanza chiara, quantunque la luna mancasse, permetteva alla flotta di
tenersi al largo dalle numerose isole che ingombravano allora, molto più di
adesso, la laguna. I piloti d'altronde, seguivano perfettamente la rotta della
nave ammiraglia, mantenendosi su una sola linea, non essendo tutti pratici di
quelle acque, che nascondevano banchi e bassifondi in gran numero.
Cominciava ad
albeggiare, quando la flotta giunse in vista delle coste verdeggianti de la
Mochila. Qualche lume si discerneva sull'orizzonte, ancora piuttosto fosco,
annunciante l'entrata del piccolo porto di Gibraltar.
"Carmaux"
disse Morgan, che non aveva lasciato, durante tutta la notte, la ribolla del
timore. "Ti ricordi ancora del porto?"
"Sì, mio
capitano, quantunque siano trascorsi ormai tanti anni."
"Dobbiamo
governare a levante?"
"Con una
quarta a greco."
"Il tuo
piantatore ti ha detto di quali mezzi di difesa può disporre la
guarnigione?"
"Quel
povero diavolo da ieri mi sembra assolutamente imbecillito e non ha saputo
dirmi nulla."
"L'hai
imbarcato con noi?"
"Si trova
nella mia cabina. È stato a pregarmi d'imbarcarlo, mentre io avrei fatto a meno
di quel poltrone, che non ha ormai più alcun valore per noi."
"Forse
t'inganni, mio bravo Carmaux. Può diventare ancora un uomo prezioso, essendo
uno dei notabili di Maracaybo e conoscendo il governatore. Ho più fiducia in
lui, che in tutti gli altri prigionieri."
"Colla
paura che lo ha preso, mi pare che non valga più d'un negro. Si è fisso in capo
che quel capitano Valera si sia accorto che è stato lui a guidare me e Wan
Stiller al monastero e trema continuamente per la sua pelle."
"Lo
lasceremo andare senza riscatto."
"Se avrà
il coraggio di andarsene" disse l'amburghese, ridendo.
"Va a
svegliarlo" disse Morgan.
Wan Stiller
vuotò la pipa e pochi istanti dopo tornava in coperta, spingendosi innanzi il
piantatore.
Il povero uomo
pareva che fosse diventato veramente un imbecille. Si vedeva perfino troppo
evidentemente che non era mai stato un uomo di guerra.
"Io ho
ancora un vecchio conto da saldare con voi" gli disse Morgan, quando se lo
vide dinanzi. "Direttamente od indirettamente voi foste la causa
dell'impiccagione dei marinai che vi scortavano Non ve l'ho perdonato, come
forse speravate."
"Ah,
signore" gemette il povero diavolo. "Voi credete ancora che..."
"Basta:
ho bisogno di voi."
"Ancora?
Allora uccidetemi."
"Vi farò
impiccare, se lo desiderate, ma più tardi. Conoscete Gibraltar?"
"Sì,
signore."
"Vi mando
colà come mio parlamentario."
"Io sono
un povero piantatore, senza influenza alcuna."
"Ve la
procureremo noi l'influenza che vi manca" disse Morgan, con accento secco
"appoggiata dai novantasei cannoni della nostra squadra."
"E se mi
uccidessero invece?"
"Sapremo
vendicarvi."
"Magro
compenso" brontolò don Raffaele. "Se mi trova non mi
risparmierà!"
"Chi?"
"Il
capitano Valera."
"Tanta
paura avete di quell'uomo?"
"È
l'anima dannata del conte di Medina."
"È
impossibile che voi lo troviate a Gibraltar" disse Carmaux. "Io sono
certo che è rimasto nascosto nei sotterranei del monastero..."
"Uhm!"
fece il piantatore, crollando il capo. "Non lo conoscete."
"Orsù,
finitela colle vostre paure" disse Morgan. "Voi porterete al
governatore di Gibraltar un mio messaggio, che ho già scritto, col quale invito
la guarnigione e la popolazione a consegnarmi il conte di Medina, sotto pena,
in caso di rifiuto, di distruggere la città da cima a fondo. E voi sapete che
Morgan ha sempre mantenute le sue promesse."
"E se non
fosse ancora giunto, signore?" chiese don Raffaele.
"M'indicheranno
dove si è rifugiato. Io d'altronde sono convinto che egli si trova già in
quella città. Carmaux, fa' armare una scialuppa con dodici filibustieri, onde
conducano quest'uomo a terra. Non siamo che a sei miglia dalla costa, e se alle
dieci non riceveremo risposta, parola di Morgan, la popolazione si ricorderà
per lunghi anni di me e dei filibustieri delle Tortue. A voi la lettera e
v'auguro buona fortuna, don Raffaele."
"E se
anche il governatore di Gibraltar facesse impiccare i vostri uomini?"
chiese il piantatore.
"Ci
saremo noi a proteggerli colle nostre artiglierie. D'altronde, sbarcherete solo
voi. Andate."
Il
filibustiere mise la nave attraverso il vento, onde permettere di calare in
mare la scialuppa, poi, quando la vide allontanarsi, segnalò alle navi della
squadra di stringere la fila e di entrare in porto.
Cosa appena
credibile: gli spagnoli di Gibraltar, pur sapendo che i corsari si erano
impadroniti di Maracaybo ed avendo già provati gli orrori del saccheggio
commessi dall'Olonese, non aveva presa misura alcuna per opporre una lunga
difesa, sicché alle sette del mattino le sette navi di Morgan poterono entrare
tranquillamente nella piccola baia e gettare le àncore dinanzi alle mura ed ai
fortini che si prolungavano lungo le rive della laguna.
La scialuppa,
dopo d'aver sbarcato don Raffaele, era tornata a bordo della Folgore, senza
essere stata disturbata, però pareva che gli spagnoli, quantunque molto meno
numerosi di quelli di Maracaybo, si preparassero alla difesa, vedendoli piazzare
le artiglierie di fronte alla squadra e coronare le cime degli spalti e le
merlature dei castelli.
Morgan, dopo
aver fatto disporre i suoi corsari ai posti di combattimento e d'aver fatto
calare in acqua, bene armate con petrieri, tutte le scialuppe, si era seduto
tranquillamente su un mucchio di cordami, sull'alto castello di prora della sua
nave, aspettando la risposta del governatore.
Jolanda di
Ventimiglia, che aveva lasciata la sua cabina, appena ricevuto l'annuncio che
la flotta si preparava ad assalire la città, si teneva presso di lui,
appoggiata alla murata di babordo, guardando, senza manifestare alcun timore,
le artiglierie nemiche che minacciavano la squadra.
Aveva
indossato un elegante vestito di seta nera con ricami e trine, il colore preferito
da suo padre, che faceva risaltare doppiamente il pallore alabastrino del suo
viso.
Non portava
nessun gioiello. Solo una fila di perle azzurre, che dovevano avere un valore
immenso per la loro tinta, era annodata intorno alla lunga capigliatura nera
che portava sciolta sulle spalle.
Pareva che non
facesse attenzione al formidabile corsaro, mentre invece, di quando in quando,
di sfuggita, i suoi occhioni neri si fissavano rapidamente su di lui.
Quasi come
sentisse la penetrazione di quegli sguardi, anche il filibustiere usciva
bruscamente dalla sua apparente tranquillità e alzava il capo, girandolo verso
la fanciulla.
Era già una
mezz'ora che la flotta aveva gettate le àncore, senza che gli spagnoli nulla
avessero tentato, quando un colpo di cannone rimbombò sulla più alta cima dei
castelli, seguíto dal ben noto fischio rauco del proiettile.
La palla andò
a spaccare la dolfiniera del bompresso e scheggiò la cima della polena,
passando poi fra Morgan e la fanciulla.
"Ci
salutano, capitano" disse Jolanda, volgendosi verso il filibustiere, che
era balzato in piedi, pallidissimo.
"Ho
tremato per voi" disse Morgan, gettandosi prontamente dinanzi alla
fanciulla, per farle scudo col proprio corpo. "Discendete: gli spagnoli ci
mirano."
"Non vi
spaventate, capitano" rispose Jolanda. "Mio padre non temeva certo le
palle nemiche."
"Qui fra
poco cadrà piombo e ferro, signora. Vi prego, ritiratevi."
Un altro colpo
di canone era partito da uno degli spalti e la palla era passata sopra le loro
teste, mandando in ischegge l'argano prodiero.
Morgan aveva
afferrata la fanciulla per un braccio, traendola sulla tolda.
"Gli
spagnoli pagheranno cari questi due colpi di cannone, sparati forse più contro
di voi che su di me. Essi sanno di certo, a quest'ora, che voi siete con noi.
Nella vostra cabina, signora di Ventimiglia."
"Quando
assalirete la città, mi avvertirete?" chiese la fanciulla.
"Ecco il
buon sangue del Corsaro Nero" disse Morgan, guardandola con ammirazione.
"Voi siete degna d'essere la figlia del più prode campione della
filibusteria."
La condusse
fino al quadro di poppa, mentre le navi della squadra facevano tuonare i
cannoni e le scialuppe s'empivano di combattenti per assalire i castelli.
"A noi,
ora" disse Morgan, salendo sul ponte di comando. "Rispondete alla mia
intimazione col ferro, e ferro e fuoco avrete, finché vorrete. Artiglieri!...
Fuoco di bordata!"
Le sette navi
avevano già cominciato a rispondere, con un crescendo spaventevole, tempestando
gli spalti e le merlature dei castelli con uragani di bombe, mentre le
scialuppe prendevano rapidamente il largo, montate da duecento bucanieri, che
erano i bersaglieri della flotta.
La fregata di
Morgan specialmente, avvampava come un cratere in piena eruzione, tirando delle
tremende fiancate, che aprivano degli squarci considerevoli nelle muraglie non
troppo resistenti della città.
La nave, non
ostante la sua mole, trabalzava sotto quelle formidabili scariche, come se
fosse lì lì per aprirsi, ed il rombo si ripercuoteva con tale intensità nella stiva
e nelle corsìe, che gli artiglieri non riuscivano a comprendersi.
Gli spagnoli
avevano dapprima risposto con molto vigore, ma dopo alcune scariche,
cominciarono a rallentare.
Vedendo
avanzarsi le scialuppe, volsero contro quelle le loro artiglierie, sparando a
mitraglia, ma i filibustieri avevano dei piloti così destri, che assai di rado
gli equipaggi, che le montavano, venivano colpiti. I pezzi avevano appena fatto
fuoco, che le imbarcazioni viravano con fulminea velocità, gettandosi fuori dal
campo di tiro.
L'abilità di
quegli uomini e soprattutto l'esattezza matematica del fuoco dei bucanieri, i
quali di rado mancavano ai loro colpi, non tardarono a sconcertare i difensori
ed a persuaderli che la resistenza era ormai vana.
Ed infatti le
prime baleniere erano appena sotto le muraglie, che si videro gli spagnoli
sgombrare rapidamente gli spalti e le merlature e fuggire all'impazzata verso
la città, senza nemmeno inchiodare le loro artiglierie.
Anche gli
abitanti, erano già scappati, per mettersi in salvo nelle foreste foltissime,
che circondavano il lago; troppo tardi però per sfuggire ai filibustieri, una
partita dei quali si era gettata verso le savane, per tagliare loro il passo.
In meno di
mezz'ora, i terribili scorridori del golfo del Messico si erano resi padroni
della città, dei castelli, delle artiglierie e dei magazzini delle armi.
Furibondi per
la resistenza trovata e anche per le perdite subìte, che erano state più
considerevoli che nell'impresa di Maracaybo, quei predoni si erano abbandonati al
saccheggio.
Morgan, come
aveva già fatto a Maracaybo, si era subito precipitato del palazzo del governo,
colla speranza di sorprendervi il conte di Medina, ma vi era giunto quando
ormai tutti erano fuggiti.
"È una
vera sfortuna" disse Carmaux a Wan Stiller. "Anche qui giungiamo
quando quelli che cerchiamo hanno già sloggiato. Che quel dannato conte sia un
diavolo simile a suo padre? Te ne ricordi, amburghese, come il duca di Wan Guld
sfuggì al Corsaro Nero, quando cercammo di catturarlo prima a Maracaybo e poi
qui?"
"Tuoni
d'Amburgo!" esclamò Wan Stiller. "Si direbbe che la medesima istoria
si ripete senza nessuna variante. Dove sarà fuggito quel maledetto conte?"
"Non
siamo ancora certi che si sia rifugiato qui."
"Se
potessimo trovare don Raffaele."
"Ci pensavo
in questo istante. Quel sornione, che finge non saper mai nulla, finisce sempre
col conoscere mille cose."
"Purché
non l'abbiano impiccato! Tu sai che i governatori spagnoli non sono mai stati
troppo teneri pei loro amministrati."
"Mi
rincrescerebbe" disse Carmaux, "se avesse fatta una tale fine. Non la
meritava."
"Orsù,
che cosa facciamo? È inutile ostinarsi a rimanere qui, ora che gli uccelli sono
scappati. Lasciamo agli altri l'incarico di frugare le cantine ed i solai. Il
governatore ed i suoi ufficiali non saranno stati così sciocchi da nascondersi
in questo palazzo. Cerchiamo anche noi di saccheggiare qualche casa."
"Preferisco
una cantina" disse Carmaux. "Mi ripugna rubare, e poi il Corsaro Nero
ci ha compensati a sufficienza, per aver bisogno di qualche mezzo migliaio di
piastre."
"Invecchi,
compare" disse l'amburghese, ridendo.
"È per
questo che preferisco ora la bottiglia."
"Vada per
la cantina, dunque. Non ne mancheranno a Gibraltar."
I due
filibustieri si presero sotto braccio e s'allontanarono, senza più occuparsi
dei loro camerati che si preparavano a far scontare orribilmente, a quei
disgraziati abitanti, la breve resistenza opposta.
Avevano già
percorse tre o quattro vie, tenendosi lontani dalle case, per non ricevere sul
capo i mobili che venivano lanciati dalle finestre, assordati dagli spari che
echeggiavano in tutte le direzioni e dalle urla strazianti degli abitanti, che
venivano terrorizzati in tutti i modi e anche tormentati, onde confessassero i
luoghi ove avevano nascosti i loro tesori, quando su una piazza s'imbatterono
in un gruppo di filibustieri che schiamazzavano a piena gola.
"È
preso!... È preso!..."
"Getta
una corda su quel palmizio!..."
"Non ci
scappi più."
"Facciamo
dondolare la botte!..."
"E
spilliamola per vedere se è piena di vino o di sangue!..."
"Chi
hanno preso?" chiese l'amburghese.
"Il
governatore di Maracaybo forse!" esclamò Carmaux.
"Accorriamo,
compare!..."
I
filibustieri, che pareva si divertissero come una banda di collegiali in
vacanza, avevano formato circolo intorno ad uno dei palmizi che ombreggiavano
la piazza, ed uno di loro erasi arrampicato fino alla cima, gettando ai
compagni una fune, che terminava in un nodo scorsoio.
"Ohè!...
Issa la botte!..." avevano gridato quelli che stavano abbasso.
Un urlo
straziante, che fece balzare innanzi, con maggior velocità, Carmaux e Wan
Stiller, si udì, poi un corpaccio grosso veramente come una botte s'alzò fra
quel gruppo d'uomini, agitando pazzamente le braccia e le gambe.
Era
l'impiccato, che veniva tirato in aria.
"Tuoni
d'Amburgo!" urlò Wan Stiller, sguainando la sua draghinassa. "Don
Raffaele!".
In pochi
slanci furono addosso ai filibustieri che ridevano a crepapelle, vedendo le
smorfie che faceva il povero piantatore e sfondarono impetuosamente il circolo,
mandandone parecchi a gambe levate.
"Ferma!...
Ferma!..." tuonò Carmaux, alzando minacciosamente la sua spada.
L'amburghese,
che era molto più alto del compagno, con un colpo di draghinassa aveva tagliata
la corda ed aveva ricevuto fra le braccia don Raffaele, che era già diventato
paonazzo e che aveva cacciato fuori mezzo palmo di lingua.
L'atto di Wan
Stiller e l'aria minacciosa di Carmaux, avevano prodotto un effetto così
profondo sui corsari, che nessuno si era mosso per impedire che il povero piantatore
venisse salvato. Solo uno di loro, forse più seccato degli altri di essere
privato di quel divertimento, s'alzò dinanzi a Carmaux, dicendogli con accento
irritato:
"Hai
proprio giurato di proteggere sempre quel pappagallo? Per la seconda volta ce
lo strappi dalle mani e cominciamo a perdere la pazienza."
"Saresti
capace di ripetere queste parole in presenza del capitano Morgan?" gli
chiese Carmaux, muovendogli incontro.
Il corsaro
fece una smorfia, che fece scoppiare dalle risa i suoi compagni.
"Andatevene
dunque" disse Carmaux. "E l'ordine."
Poi i
filibustieri, che sapevano che con Morgan non vi era da scherzare, e
l'amburghese e Carmaux godevano la piena confidenza del capo, si sbandarono in
varie direzioni, lasciandoli soli.
"Come va
don Raffaele?" chiese Carmaux al piantatore, a cui l'amburghese faceva
inghiottire alcuni sorsi d'aguardiente.
"È meglio
che mi uccidiate, signori" rispose il disgraziato. "Ormai sono un
uomo finito."
"Con
tutta quella polpa che avete indosso! Eh via, don Raffaele! State meglio di
noi."
"Se non
mi uccidete voi, lo faranno gli altri."
"No,
perché noi vi proteggiamo. Avete veduto il conte di Medina?"
"No, e
credo che non sia venuto qui, ne sono certo. Perderete inutilmente il vostro
tempo, se vorrete cercarlo."
"E il governatore
della città?"
"Fuggito
anche lui, signore, dopo le prime cannonate e dopo d'avermi fatto anche
bastonare."
"Voi? E
perché?"
"Perché
gli ho portata la lettera del capitano Morgan. Ho le ossa tutte rotte.
Maledetti galli!... Senza quella lotta, non mi avreste preso e non avrei dovuto
sopportare tante disgrazie."
"Vi
abbiamo fatto guadagnare un bel gruzzolo di piastre e vi lagnate ancora"
disse Wan Stiller, ridendo. "Ecco la riconoscenza degli uomini!..."
"Venite,
don Raffaele" disse Carmaux. "Vi faremo passare lo spavento con un
paio di bottiglie d'Alicante, di quello che tanto vi piace. Il mio camerata
saprà scovare qualche cantina."
Fra
il forte e la squadra spagnola
Per sei settimane,
i filibustieri di Morgan si fermarono in quella disgraziata città, tormentando
gli abitanti per far loro confessare dove tenevano nascosti i loro tesori e
frugando i boschi e le savane, colla speranza di scoprire il governatore di
Maracaybo.(2)
La taglia di
cinquemila piastre promessa da Morgan a chi riusciva a prenderlo, era stato uno
dei motivi principali per cui i filibustieri si erano accaniti contro la
popolazione, sperando di strappare qualche confessione sul rifugio scelto dal
conte di Medina, ma tutto era stato vano.
La notizia
recata da alcuni corsari lasciati in Maracaybo, che gli spagnoli avevano
rioccupato e riattato il forte della Barra e che tre grosse fregate, al comando
d'un ammiraglio, erano improvvisamente comparse all'entrata della laguna,
coll'incarico di distruggere la squadra corsara, decise finalmente i
filibustieri a lasciare Gibraltar, dove d'altronde non vi era ormai più nulla
da saccheggiare.
Non
soddisfatti però del bottino accumulato, si fecero promettere dagli abitanti un
riscatto di cinquantamila piastre, che doveva essere pagato a Maracaybo,
minacciando in caso di rifiuto di tornare per incendiare e distruggere da capo
a fondo la città.
Lo stesso
giorno i corsari salpavano, portando con sé i notabili che dovevano rimanere in
ostaggio come garanzia del versamento promesso.
Erano però
tutti inquieti per le notizie ricevute dai loro camerati di Maracaybo e anche
Morgan pareva che fosse un po' scosso.
Non li
preoccupava il riattamento e l'armamento del forte della Barra, bensì l'arrivo
della squadra spagnola, composta di navi d'alto bordo, armate ognuna di
sessanta cannoni e montate da forti equipaggi.
Che cosa
avrebbe potuto fare la squadra, composta quasi tutta di caravelle relativamente
piccole, assai vecchie e malamente armate? Solo la fregata di Morgan avrebbe
potuto impegnare la lotta e anche quella con nessuna probabilità di vittoria.
"Che cosa
farete, signor Morgan?" chiese Jolanda, quando il filibustiere scese nel
quadro per informarla della gravità della situazione.
"Non lo
so ancora" rispose il filibustiere "ma noi non ci arrenderemo di
certo e ci difenderemo finché rimarrà sulle nostre navi un solo uomo ed una
sola carica di polvere."
"Se vi
prendessero, che cosa vi farebbero gli spagnoli?"
"Ci
impiccherebbero, senza misericordia."
"E quale
sarebbe la mia sorte?"
Morgan guardò
la fanciulla, che gli aveva rivolta quella domanda con una voce assolutamente
tranquilla, come se la cosa quasi non la riguardasse.
"Signora,"
disse il filibustiere "non siete ancora nelle loro mani, e per
impossessarsi di voi, bisognerebbe che passassero prima sul corpo di noi
tutti."
"E se gli
spagnoli l'avessero piuttosto con me che con voi? Sapete a che cosa pensavo in
questo momento?"
"A
chi?"
"Al conte
di Medina."
"Al
governatore di Maracaybo?"
"Io sono
quasi certa che sia stato lui a far giungere la squadra spagnola per riavermi
in sua mano."
"Ciò è
possibile, signora. Quell'uomo ha infatti molto interesse a tenervi
prigioniera. Ci tiene ai milioni di vostro nonno; se così non fosse non avrebbe
mandato due fregate alle piccole Antille, per aspettare la nave che vi
conduceva in America."
"È il
governo spagnolo che vuole privarmi dell'eredità materna, o lui?"
"Lui,
signora."
"Non ha
diritti da vantare sulle possessioni lasciate dal duca, mio avo."
"Ne siete
ben certa?" chiese Morgan. "Non vi ha detto nulla, quando vi
condussero in sua presenza?"
"Mi ha
solamente invitata a firmare la rinuncia dei miei beni posseduti nel Venezuela
ed a Panama" rispose Jolanda.
"Con quale
pretesto?"
"Che mi
erano stati sequestrati dal vice re di Panama, per risarcire le popolazioni
danneggiate dalle scorrerie fatte da mio padre e dai suoi saccheggi."
"Miserabile!"
esclamò Morgan. "Tutti, gli spagnoli compresi, non ignoravano che vostro
padre non volle mai una sola piastra fruttata dalle imprese dei corsari. Egli
possedeva nella sua patria castelli e terre sufficienti per non averne bisogno,
e lasciava la sua parte, che gli spettava per diritto di conquista, ai suoi
marinai.
"Non
avete alcun sospetto di chi possa essere quel conte?"
"Perché
mi fate questa domanda, signor Morgan?" chiese la fanciulla con sorpresa.
"Desideravo
saperlo."
"È uno
spagnolo, che forse odiava mio padre più degli altri."
Morgan tacque
per qualche istante, facendo il giro del salotto, poi chiese:
"Quando
vostro padre morì da eroe sulle Alpi, combattendo contro lo straniero, chi
s'incaricò di voi?"
"Una mia
lontana parente."
"Non vi
siete mai accorta che attorno a voi si esercitasse una certa
sorveglianza?"
Jolanda, a
quella domanda era rimasta muta, interrogando cogli sguardi il corsaro.
Ad un tratto
si batté la fronte colla mano, dicendo:
"Fritz..."
"Fritz!..." esclamò Morgan. "Chi
era costui?"
"Un
fiammingo, venuto non so da dove, che la mia parente aveva preso ai suoi
servigi e che non mi lasciava un solo istante."
"Vecchio
o giovane?"
"Aveva
allora trent'anni."
"Quando
lasciaste l'Europa, vi accompagnò?"
"Sì,
capitano."
"Che cosa
è avvenuto di quell'uomo?"
"Non lo
so. Scomparve dopo l'abbordaggio dato alla nave olandese che mi conduceva in
America. È morto nel combattimento o fu fatto prigioniero, io non lo so."
"Ecco il
traditore" disse Morgan.
"Perché?"
"Deve
essere stato lui ad informare il governatore di Maracaybo della vostra partenza
per l'America."
"Voi dunque
credete?..."
"Io dico
che quell'uomo ve lo aveva messo a fianco il conte di Medina."
"Tanto
interesse aveva il governatore a sorvegliarmi?"
"Più di
quello che credete, signora" disse Morgan. "Un giorno ne saprete di più.
Se però gli spagnoli pensano di riprendervi, ora che siete sotto la protezione
dei Fratelli della Costa, s'ingannano. Ah!... Vengono a chiudermi il passo con
tre vascelli d'alto bordo!... Ebbene, noi la vedremo. Vivete tranquilla,
signora di Ventimiglia. L'antico luogotenente di vostro padre, mette la sua
spada a vostra disposizione."
Morgan, così
parlando, cosa strana, si era animato, ciò che accadeva ben di rado in un uomo
del suo carattere, piuttosto chiuso e freddo.
Lasciò il
quadro e risalì in coperta, più preoccupato però di quello che realmente
sembrasse.
Le navi della
squadra veleggiavano in gruppo, come se temessero da un momento all'altro la
comparsa dei tre formidabili vascelli spagnoli, che ormai sapevano lancianti
sulle loro tracce.
Stringevano
soprattutto il vento, per tenersi ben presso la fregata di Morgan, come uno
stormo di pulcini che non si sentono sicuri che presso la chioccia.
Gibraltar da
parecchie ore era ormai scomparsa ed il vento le spingeva rapidamente verso
Maracaybo.
"Ebbene,
capitano?" chiese Carmaux, abbordando Morgan che passeggiava sul ponte di
comando.
"Che cosa
vuoi, vecchio mio?"
"Come ce
la caveremo?"
"Ti
ricordi di Puerto Limon?" chiese ad un tratto Morgan, fermandosi dinanzi a
lui.
"Come
fosse ieri, comandante."
"Come ha
fatto il Corsaro Nero a sbarazzarsi delle navi spagnole, che gli chiudevano il
passo?"
"Ha
preparato un buon brulotto pieno di zolfo e di pece e lo ha mandato contro di
loro."
"E il
risultato?"
"Una nave
incendiata e l'altra in pericolo."
"E noi
faremo lo stesso" rispose Morgan. "Vi è la Caramada, che non vale
cinquemila piastre, compresi i suoi dodici cannoni.
"La
trasformeremo in un brulotto e la scaraventeremo contro le navi spagnole. Tutto
finirà bene, mio vecchio Carmaux: lo vedrai."
"Abbiamo
la figlia del Corsaro Nero e non possiamo ridarla nelle mani degli spagnoli. Io
sono pronto a dare la mia vecchia pelle per quella fanciulla."
"Ed io a
dannare anche la mia anima" rispose Morgan, con accento così caldo che
fece alzare il capo al vecchio marinaio. Poi, quasi si fosse pentito di aver
detto troppo, aggiunse con un accento freddo: "Faremo quello che
potremo." E riprese la sua passeggiata, con un passo però più agitato di
prima, borbottando: "Sì, quello che potremo."
Alla
mezzanotte, la squadra, che aveva avuto il vento sempre favorevole, giungeva
dinanzi a Maracaybo, accolta con grida di giubilo dalla piccola guarnigione che
vi aveva lasciata.
Disgraziatamente
le notizie recate a bordo da essi erano poco incoraggianti. Il forte della
Barra era stato munito formidabilmente di nuove artiglierie, durante quelle sei
settimane e occupato da una forte guarnigione, e le navi spagnole non avevano
lasciati i loro ancoraggi in attesa di dare ai corsari una terribile e decisiva
battaglia.
La via era
chiusa, per riguadagnare il mare dei Caraibi, e una lotta era impossibile ad
evitarsi.
Morgan, che
non si sentiva in grado di assalire le grosse navi spagnole, prese nondimeno e
senza esitare il suo partito, colla speranza di spaventare i nemici e deciderli
a lasciarlo andare.
Fece scendere
in una scialuppa alcuni prigionieri, scelti fra i più influenti e la stessa
notte li mandò all'ammiraglio spagnolo, intimandogli di lasciargli sgombra la
ritirata, se voleva evitare la distruzione della città ed il massacro di tutti
gli ostaggi che aveva a bordo.
L'alba non era
spuntata, che i messaggieri tornavano scoraggiati a bordo, recando la notizia
che l'ammiraglio avrebbe pagato il riscatto chiesto con delle palle di cannone
e che si sarebbe ritirato solamente dopo la restituzione del bottino preso
nelle due città e di tutti i prigionieri, gli schiavi negri compresi e
soprattutto della signora Jolanda di Ventimiglia.
Udendo quelle
pretese, soprattutto l'ultima, un terribile scoppio d'ira si era manifestato
fra gli equipaggi della squadra. Tutto, piuttosto che rendere la figlia del
Corsaro Nero; questo era stato il grido che era echeggiato su tutte le navi.
Morgan aveva
subito chiamato a bordo della Folgore i vari comandanti, dicendo loro:
"Volete
voi accettare la vostra libertà, col sacrificio del vostro bottino e della
signora di Ventimiglia, o difendervi?"
La risposta, a
nome di tutti, la diede Pierre le Picard, che, dopo Morgan, era quello che
godeva maggior influenza fra i filibustieri.
"Preferiamo
farci uccidere dal primo all'ultimo, piuttosto che rendere la figlia del
Corsaro Nero. I Fratelli della Costa mai si macchieranno d'una simile
viltà."
Avendo però
riflettuto meglio alle forze imponenti di cui disponeva l'ammiraglio spagnolo,
decisero di mandargli altri messaggeri, coll'incarico di dirgli che avrebbero
abbandonato Maracaybo senza distruggerla, che abbandonavano il pensiero di
esigere un riscatto e che si offrivano di mettere in libertà tutti gli ostaggi
e metà degli schiavi e dei prigionieri di Gibraltar.
Non vedendo
giungere risposta alcuna e sospettando che gli spagnoli cercassero di guadagnar
tempo, per avere qualche altra nave di rinforzo, Morgan decise di agire senza
ritardo e di sorprendere la flotta avversaria.
Aveva già
messi gli occhi sulla Caramada, che era una delle più grosse, ma anche delle
più vecchie navi della squadra, e che poteva prestarsi ottimamente per farne un
brulotto fiammeggiante da lanciare fra le navi spagnole.
Fece asportare
quanto poteva avere valore, poi fece riempire la nave di zolfo, di pece, di
bitume, di grassi e di legnami resinosi, onde, da un momento all'altro,
prendesse fuoco da prora a poppa, poi fece collocare sulla coperta dei fantocci
con cappellacci alla filibustiera, che volevano rappresentare uomini, e
piantare sulla ribolla del timone il grande stendardo d'Inghilterra, onde far
credere agli spagnoli che quella fosse la nave ammiraglia.
Sei giorni
furono impiegati in quei preparativi, durante i quali l'ammiraglio spagnolo,
che si credeva ormai sicuro di tenere in suo potere i corsari, non diede segno
di vita, mentre avrebbe potuto facilmente piombare sulla squadra, sgominarla e
affondarla senza troppa fatica.
Verso il
tramonto del settimo giorno, Morgan, dopo d'aver fatto giurare ai suoi uomini
di non chiedere grazia fino all'ultimo sospiro, diede il segnale della
partenza.
La
nave-brulotto, che era montata da un pugno d'uomini scelti fra i più valorosi,
apriva la marcia con tutte le vele sciolte, per meglio mascherare i fantocci
della coperta.
La seguiva a
breve distanza la fregata di Morgan, poi venivano le altre navi su due colonne.
Una profonda
ansietà regnava su tutti i ponti, poiché nessuno ignorava che se il colpo non
riusciva era la fine di tutti.
Morgan, al
momento di muoversi, era sceso nel quadro dove Jolanda si trovava.
"Signora"
le disse con una certa emozione. "Noi stiamo per giuocare una partita
disperata, forse la più tremenda di quante io ne abbia impegnate cogli
spagnoli. Checché succeda non lasciate il quadro. Se la nave affonderà all'ultimo
momento mi troverete al vostro fianco."
"Signor
Morgan" rispose la fanciulla, alzando su di lui i suoi begli occhi,
"voi potreste risparmiare questa battaglia che può costare tante vite
umane. Me soprattutto che gli spagnoli vogliono: cedetemi a loro. Sono una
donna e non mi faranno alcun male."
"Mai,
signora. I filibustieri sono pronti a dare la loro vita per la figlia di colui
che fu il più grande eroe del mare. E poi, signora, correreste più pericoli voi
che noi."
"Io?..."
chiese Jolanda con stupore. "Sono i miei possessi che vogliono e non già
la mia vita. Se li prendano dunque e dirò, come mio padre, che ho in Piemonte
abbastanza terre e castelli, per farne a meno di quelli che possedeva qui mio
nonno."
"Se si
trattasse solamente di questo, signora" disse Morgan, "non avrei
esitato, col vostro consenso, ad aprire trattative coll'ammiraglio spagnolo, ma
c'è ben d'altro che voi ignorate. Volete un consiglio? Guardatevi dal
governatore di Maracaybo, dal conte di Medina, perché quell'uomo cercherà di farvi
tutto il male possibile."
"Per
quale motivo? Io non l'ho mai veduto prima del mio arrivo in America."
"È un
segreto, che per ora non vi posso svelare. Addio signora, e se le palle mi
risparmieranno, ci rivedremo dopo la battaglia. Ecco il cannone che comincia a
tuonare. Pregate per le nostre armi."
Ciò detto,
Morgan si slanciò verso la scala, che metteva sul ponte, gridando:
"Pronti
per l'abbordaggio, miei prodi!..."
Il brulotto
non si trovava allora che a mille passi dalle navi spagnole, le quali stavano
salpando le àncore, per dare addosso alla squadra.
Erano tre
grosse fregate di sessanta cannoni ciascuna, dai bordi altissimi ed il castello
pure assai alto, già pieno d'armati.
Le navi
filibustiere, eccettuata la fregata di Morgan, facevano una ben meschina
figura, di fronte a quei poderosi colossi.
Pareva però
che gli spagnoli, confidando nelle proprie forze, non avessero troppa fretta di
muoversi, né di aprire il fuoco.
La sola nave
ammiraglia era stata lesta a salpare le àncore, e si dirigeva verso il brulotto
per tagliargli il passo.
Cosa appena
credibile: invece di far tuonare i suoi sessanta cannoni, che sarebbero stati
più che sufficienti per mandarlo a fondo in pochi minuti, tanto più che, come
abbiamo detto, Morgan aveva resa la Caramada un puro scheletro, gli muoveva
addosso per abbordarlo!...(3)
Era quello che
desideravano i filibustieri, i quali stentavano a credere d'aver tanta fortuna.
"Tuoni
d'Amburgo!..." esclamò Wan Stiller, che dal castello della Folgore seguiva
attentamente la marcia del brulotto. "Quegli spagnoli sono pazzi!..."
"Fanno a
meraviglia il nostro giuoco, compare" disse Carmaux, che gli stava presso.
"Fra poco vedremo un bel fuoco!..."
La distanza fra
il brulotto e la nave ammiraglia scemava a vista d'occhio, e nessuna cannonata
partiva ancora dall'enorme nave.
Solo le altre
due cominciavano a sparare qualche colpo sulla squadra, maltrattandola
abbastanza gravemente.
I marinai
della Caramada, nascosti dietro le murate, colle torce accese, aspettavano in
silenzio.
Ad un tratto
il pilota, che stava semi-coperto sotto il grande stendardo inglese, vedendo la
nave ammiraglia di traverso, con un colpo di ribolla le cacciò il bompresso fra
le sartìe, urlando:
"Fuoco!...
Date fuoco!... E gettate gli arponi d'arrembaggio!..."
I dieci o
dodici uomini, che montavano la Caramada, scagliarono le torce fra i cumuli di
zolfo, di bitume e di pece, che si trovavano dispersi per la coperta fra il
legname resinoso, che ingombrava la stiva, lanciarono poscia i grappini
d'abbordaggio fra le griselle della fregata; quindi, approfittando dello
stupore degli spagnoli, si gettarono in acqua, raggiungendo a nuoto la
scialuppa che si trovava dietro la poppa e recidendo la fune che la tratteneva.
Una fiammata
immensa, prodotta dall'esplosione di alcuni barili di polvere, nascosti fra le
materie infiammabili, s'alzò sulla Caramada, investendo la velatura ed il
sartiame della nave ammiraglia e costringendo gli uomini che si trovavano sulle
murate, pronti a respingere il temuto abbordaggio, a fuggire.
Una luce
intensa illuminava il mare e le navi. Il brulotto ardeva come uno zolfanello e
con lui l'ammiraglia, la cui alberatura era ormai tutta in fiamme.
Un urlo
immenso era echeggiato fra i filibustieri:
"Avanti,
Fratelli della Costa!... Addosso!..."
Mentre le navi
minori investivano l'ammiraglia, cannoneggiandola furiosamente, per impedire
agli spagnoli di spegnere l'incendio, Morgan si era gettato addosso ad un'altra
nave, la più grossa della squadra, tempestandola coi suoi quaranta cannoni.
La terza aveva
già ai fianchi le due navi della riserva, che erano le meglio armate dopo la
Folgore, e montate per la maggior parte da bucanieri, quegli impareggiabili
tiratori, che non avevano rivali al mondo e che con ogni palla uccidevano.
"All'abbordaggio,
figli del mare!"
La battaglia
si era impegnata con furore d'ambe le parti, fra grandi clamori e un rimbombo
assordante, essendovi su tutte quelle navi più di trecento pezzi d'artiglieria.
I
filibustieri, incoraggiati dal primo successo, combattevano col solito valore,
mirando soprattutto a distruggere l'ufficialità e facendo un fuoco infernale
sui ponti, sui casseri e sui castelli, per sgombrarli e tentare un fulmineo
abbordaggio.
La nave
ammiraglia, tutta avvolta dalle fiamme, era ormai perduta e bruciava assieme al
brulotto, che le era rimasto impiccicato al fianco.
I filibustieri
delle piccole navi non avevano trovata alcuna resistenza, poiché il fuoco era
avvampato così rapidamente, che la maggior parte degli spagnoli, che montavano
la fregata, erano rimasti arsi dal primo scoppio e soffocati dal fumo intenso e
nauseante, che si sprigionava dalla stiva della Caramada.
Per
compassione avevano salvato i pochi superstiti, compreso l'ammiraglio, che era
stato raccolto da una scialuppa, nel momento in cui stava per annegare.
Tuttavia la
vittoria non era ancora guadagnata, poiché le due altre navi si difendevano
terribilmente, mettendo a dura prova il valore dei corsari. Due volte Morgan
aveva tentato di abbordare la nave che aveva assalito e ne era sempre stato
respinto, con grande perdita d'uomini.
I sessanta
cannoni della spagnola, abilmente manovrati, avevano anzi causato alla Folgore
tali danni, da temere che da un momento all'altro affondasse o per lo meno
perdesse la sua intera alberatura.
Eppure,
dall'espugnazione di quella grossa fregata dipendeva la vittoria, essendo i
filibustieri ancora troppo inferiori di forze per tener fronte a tutte e due.
Morgan, che vedeva
sfuggirsi di mano tutte le speranze che aveva concepite e vedeva la sua squadra
in pericolo di venire dispersa e ricacciata verso Maracaybo, fece un supremo
appello ai suoi uomini.
"A me i
più valorosi!..." urlò, impugnando colla destra la spada e colla sinistra
la pistola. "Cento piastre a chi metterà i piedi sulla fregata!...
Carmaux!... Abborda!..."
Il francese,
che si trovava alla ribolla con Wan Stiller, con un brusco colpo di barra gettò
la Folgore addosso alla fregata, mentre i gabbieri dalle coffe e dalle gabbie
gettavano i grappini d'abbordaggio.
La spagnola
però era così alta di bordo, che le murate della Folgore si trovavano appena a
livello degli sportelli della batteria.
I corsari,
tuttavia, incoraggiati da Morgan e da Pierre le Picard, che pei primi si erano
aggrappati alle bancazze, tentando di issarsi fino ai bastingaggi, dopo d'aver
scagliate parecchie bombe sulla fregata spagnola, per allontanarne i difensori,
si erano slanciati all'arrembaggio, con urla tremende, tenendo fra i denti le
loro corte sciabole, colle quali solevano combattere nelle pugne corpo a corpo.
Disgraziatamente
gli spagnoli affacciati al parapetto della loro nave avevano buon gioco a
fucilarli mentre si arrampicavano.
Il momento era
terribile e lo scoraggiamento cominciava ad impossessarsi di quei forti e
rubidi uomini del mare, quando improvvisamente una voce metallica ed imperiosa,
che ricordava i comandi taglienti del Corsaro Nero, si levò sul ponte della
Folgore, dominando il rimbombo delle artiglierie e le urla dei combattenti:
"Su,
uomini del mare!... All'abbordaggio!..."
Tutti si erano
voltati, dimenticando per un istante che gli spagnoli stavano sopra di loro e
che li fucilavano.
Jolanda di
Ventimiglia, tutta vestita di nero, come usava suo padre, con una lunga piuma
pure nera infissa nei capelli ed una spada nella destra, era comparsa sul ponte
della Folgore, fra il fumo delle artiglierie, e additava ai corsari la fregata.
"Su,
uomini del mare!..." ripeté, con quell'accento che sapeva ritrovare suo
padre nei momenti più terribili. "All'abbordaggio! La figlia del Corsaro
Nero vi guarda!..."
Un clamore
spaventevole aveva risposto alla fanciulla. "All'abbordaggio!...
All'abbordaggio!..."
E quegli
uomini, che stavano per cedere, si erano inerpicati su per le bancazze e su per
le sartìe, come una legione di demonî, urlando a squarciagola:
"Morte!...
Morte agli spagnoli!..."
Un uomo solo,
che si teneva sospeso allo sportello d'un sabordo della batteria, era rimasto
immobile, fissando i suoi sguardi sull'eroica fanciulla, che colla sua presenza
stava per decidere della vittoria. Era Morgan.
Quella
contemplazione però non ebbe che la durata di pochi istanti.
Udendo sopra
la sua testa il fragore delle spade e delle sciabole, si inerpicò su per lo
sportello, aggrappandosi alle sartìe dell'albero maestro, e gridando con voce
tuonante:
"Su, su,
figli del mare!... La figlia del Corsaro Nero vi guarda!..."
I filibustieri
erano già sulla coperta della fregata e si erano rovesciati addosso
all'equipaggio spagnolo, con tale impeto, da ricacciarlo parte a poppa e parte
a prora, in completo disordine.
Il comandante
della fregata, vedendo la nave ormai perduta, si era lasciato uccidere e anche
gli ufficiali erano per la maggior parte caduti al primo urto.
L'arrivo di
Morgan e di Pierre le Picard, con un nuovo drappello di filibustieri, persuase
gli spagnoli a gettare le armi e chiedere quartiere.
L'equipaggio
della terza fregata, vedendo ammainare, dall'albero maestro della compagna, il
grande stendardo di Spagna e vedendo la nave ammiraglia affondare, fra un
vortice di fiamme e di scintille e fra l'orrendo fragore delle santebarbare,
prese rapidamente il suo partito, onde non venire a sua volta assalita e presa.
Con due
tremende bordate, eseguite dai suoi sessanta cannoni, respinse le navi più
piccole della squadra filibustiera, che le si stringevano addosso,
maltrattandole più o meno gravemente quasi tutte, poi, spiegate rapidamente
tutte le vele, prese la fuga in direzione del forte della Barra.
Sia per
partito preso, affinché i corsari non s'impadronissero più tardi delle
artiglierie, od imperizia dei suoi piloti, urtò così poderosamente contro le
scogliere dell'isolotto, da spaccarsi a metà e da colare a fondo in pochi
minuti, lasciando appena il tempo all'equipaggio di guadagnare terra e di
rifugiarsi nel forte.
Un urlo
formidabile, un urlo di vittoria, sprigionatosi da quasi quattrocento petti,
aveva salutata la fuga dell'ultima nave.
Mai, fino
allora, i filibustieri avevano ottenuto un trionfo così completo. Miracoli
molti e prodigi di valore quasi incredibili, ne avevano compiuti in cento altre
lotte, ma non come quelli.
Morgan, appena
fatti rinchiudere i prigionieri spagnoli nelle batterie e collocare alle porte
delle polveriere uomini fidati, onde evitare qualche tradimento, era sceso
sulla sua nave, dove Jolanda di Ventimiglia si trovava sempre, calma,
sorridente, colla spada ancora in pugno.
"Signora"
le disse, mentre i suoi occhi, ordinariamente freddi, s'accendevano d'un lampo
strano. "È a voi che noi dobbiamo la fortuna di aver vinto una delle più
terribili battaglie che ricordi la storia dei filibustieri della Tortue. Senza
la vostra improvvisa comparsa e quel grido, che imitava così bene la voce
squillante di vostro padre, l'invincibile Corsaro Nero, forse a quest'ora la
mia flotta sarebbe stata distrutta e noi tutti saremmo in fondo al mare."
"Io!..."
esclamò la fanciulla sorridendo. "Mi sono rammentata della frase che mio
padre lanciava, quando spingeva i suoi uomini all'abbordaggio e l'ho
pronunciata. Una cosa che qualunque altra donna avrebbe potuto fare."
"No,
signora" rispose Morgan, con insolito calore. "Un'altra donna non
avrebbe avuto il coraggio di esporsi al fuoco d'una così grossa fregata e si
sarebbe guardata dal lasciare la sua cabina. Solo voi, nelle cui vene scorre il
sangue del più grande eroe del mare, avreste potuto fare ciò che avete fatto.
Abbiate, signora, la riconoscenza mia e quella dei miei uomini."
Poi,
volgendosi verso i filibustieri, che dall'alto delle murate della fregata
spagnola o del cassero e dal castello della Folgore contemplavano muti la
fanciulla, gridò:
"Salutate
l'eroina del mare!"
Un urlo
entusiastico, che si ripeté su tutti i legni, che erano accorsi attorno alla
fregata di Morgan, s'alzò fra quei quattrocento uomini:
"Viva la
figlia del Corsaro Nero!... Evviva l'eroina del mare!..."
Quei ruvidi
uomini, che da un istante all'altro sembravano impazziti, agitavano i cappelli
e scaricavano in aria le armi, fra urrah strepitosi, che dovevano giungere fino
agli orecchi della guarnigione del forte della Barra.
La fanciulla,
profondamente commossa, fece colla mano un cenno di saluto; poi, aiutata da
Morgan, scese la scaletta del ponte, ritornando nel quadro, mentre i tre urrah
di rigore squarciavano l'aria ed i cannoni della vinta fregata tuonavano, con
orrendo frastuono, in onore della valorosa italiana.
"Tuoni
d'Amburgo!" esclamò Wan Stiller, che si trovava sotto il ponte di comando,
insieme all'inseparabile suo compare ed a don Raffaele. "Si direbbe che io
ho gli occhi umidi!..."
"Ed io li
ho davvero" rispose Carmaux. "Ah!... la brava fanciulla!... E quel
grido!... Mi pareva che noi fossimo tornati ai tempi in cui il Corsaro Nero comandava
l'abbordaggio dal castello della vecchia Folgore."
"Sì, una
bella e valorosa fanciulla" borbottò il piantatore. "Peccato che non
si trovasse sul ponte della fregata dei miei compatrioti."
"Che cosa
avete da mormorare, don Raffaele?" chiese Carmaux, che aveva realmente gli
occhi umidi.
"Dicevo
che se quella fanciulla non fosse uscita dalla sua cabina, non so se voi
avreste vinta la fregata" rispose il piantatore con un sospiro.
"Non dico
il contrario. Si difendevano bene i vostri compatrioti, parola di Carmaux. Ci
hanno ammazzati quindici o venti uomini e feriti quasi altrettanti."
"E non
siete ancora fuori dalla laguna. Il forte della Barra è stato rialzato più
formidabile di prima e non vi lascierà passare, senza bombardarvi per
bene."
"È
vero" disse Wan Stiller, guardando le imponenti opere di difesa che
munivano l'isolotto e che in sole sei settimane gli spagnoli avevano costruite.
"Quello sarà un osso ben duro da rodere."
"E che ci
darà dei grossi fastidi" aggiunse Carmaux. "Eppure bisognerà andarcene
al più presto. Pierre le Picard ha saputo da un pilota, caduto in nostra mano,
che queste tre fregate facevano parte di una squadra di sei vascelli incaricata
di sterminarci.
"Prima
ancora che gli altri giungano, dobbiamo sgombrare. Non si è due volte
fortunati. Ah!..."
"Che
cos'hai compare?" chiese Wan Stille.
"Don
Raffaele, devo darvi una notizia che non so se vi farà piacere o
dispiacere."
"Quale?"
"Sapete
chi ho veduto fra i difensori della fregata?"
"Non
saprei."
"Il
capitano Valera."
L'emozione che
provò il povero uomo nell'apprendere quella notizia fu tale, che cadde fra le
braccia dell'amburghese che gli stava dietro.
"Ohe, don
Raffaele!" gridò il filibustiere, rimettendolo in equilibrio, "che
cosa vi piglia?"
"È
morto?" chiese il piantatore, che era diventato livido.
"No, si
trova fra i prigionieri" rispose Carmaux.
"Allora
sono un uomo finito."
Il fischietto
del mastro d'equipaggio, che chiamava i filibustieri a raccolta, interruppe la
loro conversazione.
Morgan, dopo
un breve consiglio tenuto coi comandanti delle navi, che si erano radunati nel
quadro della Folgore, aveva dato ordine ai mastri di far alzare le vele e di
muovere, senza ritardo, verso il forte della Barra per tentare di espugnarlo, o
per lo meno di guadagnare il mar dei Caraibi, onde evitare il pericolo di farsi
rinchiudere nella laguna dalle altre tre fregate, che potevano comparire da un
momento all'altro.
Gli equipaggi
delle due navi più maltrattate e che erano diventate quasi inservibili, furono
imbarcati sulla nave spagnola e, alla mezzanotte, la squadra, aggiustati alla
meglio i danni riportati dalle alberature, muoveva risolutamente verso il
forte, per tentare l'ultimo colpo.
Già
entusiasmati dal primo successo, i filibustieri si tenevano quasi sicuri di
riuscire anche nella seconda impresa, sicché si fecero sotto il forte, senza
nemmeno degnarsi di rispondere al fuoco intenso degli spagnoli e, giunti
dinanzi alle scogliere, misero in acqua le scialuppe e presero terra in numero
di trecento, assalendo vigorosamente le torri e le trincee.
Avevano però
fatto troppo affidamento sulle loro forze e come aveva già detto Wan Stiller,
trovarono un osso troppo duro per i loro denti.
Nonostante
l'impetuosità dei loro attacchi e la moltitudine di bombe che lanciavano a mano
sugli spalti, due ore dopo erano costretti a ripiegare più che in fretta,
lasciando un numero considerevole di morti e portando con sé molti feriti.
La sconfitta
inaspettata, turbò profondamente quei formidabili uomini, che si reputavano
invincibili e anche lo stesso Morgan, il quale cominciava a dubitare di poterla
spuntare.
Egli tornò col
grosso della squadra, aveva fatto ritorno a Maracaybo, per vedere di prendere,
d'accordo coi capi delle navi, qualche decisione disperata.
Prevalse
dapprima l'idea di impressionare la guarnigione del forte, mandando al
governatore alcuni prigionieri, coll'incarico di chiedergli un forte riscatto
se voleva che risparmiassero la città. E così fu fatto.
Ottenuto un
formale rifiuto, Morgan si rivolse agli abitanti i quali, per non vedersi
completamente rovinati, si decisero, facendo uno sforzo supremo, a pagarlo.
Con quelle
migliaia di piastre non miglioravano affatto la posizione dei filibustieri, i
quali si vedevano sempre nell'impossibilità di lasciare la laguna e sopra il capo
la minaccia di veder comparire il resto della squadra spagnola.
Decisero di
scendere a patti, chiesero al comandante del forte che li lasciasse uscire,
offrendogli in cambio la libertà di tutti i prigionieri, che si trovavano come
ostaggi a bordo delle navi filibustiere, minacciando, in caso di rifiuto,
d'impiccarli tutti agli alberi ed assicurandolo poi che, dopo, passerebbero
egualmente sotto il forte.
La risposta fu
tutt'altro che quella sperata, poiché il governatore fece loro dire da un suo
messo, che se gli abitanti di Maracaybo avessero impedito l'ingresso ai pirati,
come egli era risoluto d'impedirne l'uscita, non si sarebbero trovati in quelle
tristi condizioni e che li impiccassero pure.
Morgan non era
inumano e d'altronde non voleva offrire alla figlia del Corsaro Nero un così
triste e feroce spettacolo. Aumentando però il pericolo e cominciando a mancare
i viveri in Maracaybo, decise di tentare nuovamente la sorte.
Fece dividere
fra i filibustieri le duecento cinquantamila piastre ricavate dal saccheggio
nelle due città, parte in oro, parte in argento ed in pietre preziose, gli
schiavi negri e le merci preziose che erano in grande quantità; poi, sopra
piccoli legni, fece passare dietro le boscaglie del forte della Barra duecento
dei suoi uomini, come se si preparassero ad assalire gli spagnoli da quella
parte.
Appena però
calarono le tenebre, li fece rimbarcare nascostamente sui legni.
Gli spagnoli,
ingannati da quella manovra, sospettando che i filibustieri assalissero il
forte dalla parte di terra, erano stati solleciti a piazzare da quella parte la
maggior parte delle loro artiglierie, per schiacciarli facilmente.
Quell'inganno
doveva essere la salvezza dei corsari. Infatti, col favor delle tenebre, la
stessa notte, la squadra lasciava tacitamente la laguna, coi fanali spenti,
imboccando audacemente lo stretto della Barra.
Quando gli
spagnoli s'accorsero dello strattagemma, era troppo tardi per impedire ai loro
odiati nemici l'uscita, ed invano fecero tuonare le loro artiglierie.
Appena giunto
fuori di tiro, Morgan fece sbarcare la maggior parte dei prigionieri, per non
avere le navi troppo ingombre, e, salutato il forte con una salva, si spingeva
in alto mare senz'altre molestie.
Ancora una
volta la fortuna aveva arriso a quell'audace filibustiere.
Fra
il fuoco e le onde
Da due giorni,
la squadra dei filibustieri aveva lasciate le acque di Maracaybo, navigando di
conserva per essere pronta a dare battaglia alle tre fregate spagnole, che
dovevano battere quel mare e che non avevano ancora preso parte al
combattimento, quando la sera del terzo, mentre si trovava a una cinquantina di
miglia dall'isola d'Oruba, s'alzò improvvisamente sull'orizzonte una nuvola
nerissima, che non prometteva nulla di buono,.
L'atmosfera
già da qualche ora aveva acquistata una trasparenza straordinaria, segno
infallibile d'un prossimo uragano, ed il mare, quantunque apparisse tranquillo,
esalava un odore strano, come se le acque si fossero improvvisamente corrotte.
Era la
stagione degli uragani e dei tremendi maremoti, o razzi di mare, prodotti dai
furiosi venti di ponente e che di frequente sconvolgono le Antille, grandi e
piccole, causando disastri immensi.
Al sentire
quell'odore caratteristico e al vedere il sole tramontare più rosso del solito,
una certa inquietudine si era impadronita di tutti gli equipaggi della squadra
che conoscevano per prova la violenza delle tempeste del mar dei Caraibi e
dell'immenso golfo del Messico.
"Si
prepara di certo una brutta notte" disse Carmaux a Wan Stiller, che
guardava attentamente le prime stelle alzarsi sull'orizzonte, e che apparivano
più grandi del consueto.
"Cattivo
odore" rispose l'amburghese, fiutando a più riprese l'aria.
"Odor di
bufera, compare."
"Il
capitano Morgan ha avuta una buona idea di farci passare su questa fregata. È
molto più solida della sua Folgore, che ha il cassero sconquassato e
l'alberatura danneggiata."
"Si
direbbe che presentiva la bufera" disse Carmaux.
"Abbiamo
però una mina nella stiva."
"Una
mina?"
"I
prigionieri spagnoli, che potrebbero approfittare della tempesta per giuocarci
qualche brutto tiro.
"Se io
fossi stato il capitano, li avrei sbarcati assieme agli altri. Già temo che non
caverà da essi grossi riscatti."
"Vi sono
fra loro dei pezzi grossi, amico Carmaux."
"Il
capitano Valera forse?"
"Ah!"
"Che hai,
amburghese?"
"Hai mai
chiesto a costui come è riuscito ad imbarcarsi sulla squadra spagnola, mentre
noi l'avevamo lasciato nei sotterranei del convento? Non hai trovato strana la
sua presenza su questa nave?"
"Infatti,
è vero" disse Carmaux, che era stato colpito dalla riflessione
dell'amburghese. "Perché quell'uomo invece di mettersi in salvo si è unito
alla squadra? Che si trovasse sulla fregata anche il governatore?..."
"Di cui
era l'anima dannata e l'amico intimo, come disse don Raffaele" aggiunse
Wan Stiller. "Vorrei vederci un po' chiaro in questa faccenda."
"Ed io
non meno di te, amburghese" disse Carmaux.
"E il
diavolo ce lo ha mandato qui, dove si trova la figlia del Corsaro Nero!"
"Teniamolo
d'occhio, compare. Il nemico peggiore per la signora di Ventimiglia, dopo il
conte di Medina, è quello."
Uno
scricchiolìo si era fatto udire in alto. Le vele di pappafico e di
contrapappafico giravano, sbattendo fortemente, sotto le prime raffiche.
Morgan era
comparso in quel momento sul ponte, con Pierre le Picard e la signorina di
Ventimiglia.
"Tempesta"
disse volgendosi verso la fanciulla, che guardava verso ponente, dove la nuvola
s'alzava rapidissima, tinta dagli ultimi riflessi del tramonto. "Non
avrete paura, signora?"
"Sono la
figlia d'un uomo di mare" rispose Jolanda, con voce tranquilla.
"Per
quanto violenta sia, noi potremo reggere alle onde e alla furia dei venti"
disse Morgan. "Sono le piccole navi della squadra che si troveranno a mal
partito e non potranno seguirci. Pierre le Picard, prendi tutte le disposizioni
necessarie per far fronte all'uragano. Non lasciamoci sorprendere. Temo qualche
razzo di mare."
"Che
cos'è?" chiese Jolanda.
"È
un'onda mostruosa che si solleva improvvisamente, nell'epoca delle grandi
maree, ed alla quale difficilmente le navi possono resistere. Fra il luglio e
l'ottobre si ripete ogni anno due o tre volte e cagiona sempre danni immensi,
specialmente sulle spiagge delle isole. Talvolta quel cavallone s'alza, quando
il mare è quasi tranquillo, s'avvicina alle coste così lento che niuno
crederebbe potesse causare incomodo alcuno. Quando però giunge a quattro o
cinquecento passi, s'alza fulmineo, come sollevato da una forza misteriosa e
piomba così tremendo, che spazza via città e borgate e trascina le navi,
ancorate nelle rade, attraverso le campagne dove le lascia in secco. Qualche
volta invece compare durante gli uragani e allora è più tremendo."
Un rombo
formidabile, che si ripercosse lungamente nel seno della nuvola nera e che parve
lo scoppio simultaneo d'una mezza dozzina di grossi pezzi d'artiglieria,
interruppe la loro conversazione.
Quasi subito
si udirono per l'aria dei lunghi fischi stridenti, come se mille correnti
s'incrociassero, provenienti da varie direzioni, e l'alberatura della fregata
fu scossa dalla cima degli alberetti ai travi inferiori.
Fra i fragori
delle prime ondate, i fischi del vento e le note stridule dei mastri e dei
contro-mastri, si udì la voce di Carmaux a gridare:
"Attenti
alle gabbie e che la fortuna ci protegga!"
Il mare
montava a vista d'occhio, mentre la nuvola nera copriva tutta la vôlta celeste,
con rapidità fantastica, intercettando la luce degli astri.
Sulle acque
del mar dei Caraibi era piombata una profonda oscurità, che i due grossi fanali
di poppa della fregata non riuscivano a rompere.
Da ponente, i
fischi continuavano a succedersi, seguìti da raffiche sempre più impetuose, che
facevano crepitare le vele. Le onde vi facevano eco, muggendo sordamente.
"Sai che
cosa mi ricorda questa notte?" chiese Carmaux, che stava alla ribolla,
essendo uno dei migliori piloti della squadra filibustiera.
"Lo
indovino" rispose l'amburghese, che lo aiutava in quella gravosa manovra.
"La notte in cui il Corsaro Nero abbandonava fra le onde, sola, su una
scialuppa, la madre della signora Jolanda, la figlia di quel maledetto
duca."
"Sì,
amburghese" rispose Carmaux, con voce commossa. "Anche allora il mare
montava e la tempesta ci minacciava. Chi avrebbe detto che un giorno, il
Corsaro avrebbe ritrovata la fanciulla che pur tanto aveva amata, regina d'una
tribù di antropofaghi caraibi e che l'avrebbe sposata?"
"E come
piangeva quella notte il Corsaro!..."
Un muggito
spaventevole, che si fece udire al largo, soffocò le ultime parole
dell'amburghese.
"È il
razzo di mare che si forma" disse Carmaux. "Che cosa accadrà delle
piccole navi della squadra? Badiamo che non ci piombi di traverso."
La fregata
teneva testa alle onde, che già l'assalivano con furore e la scuotevano
poderosamente, non ostante la sua mole relativamente enorme.
I gabbieri
avevano già ammainato tutte le vele basse, non conservando che le gabbie ed i
fiocchi, pure l'alberatura subiva ancora scosse violentissime, quando le
raffiche la investivano.
Le altre navi
cominciavano già a disperdersi. Si vedevano i loro fanali brillare in varie
direzioni, alcuni verso il sud, altri verso levante, come se fuggissero dinanzi
all'uragano. Morgan d'altronde, a mezzo di razzi, aveva loro segnalato di
rifugiarsi dove meglio credevano, ben comprendendo che non avrebbero potuto
seguirlo nella sua rotta.
A mezzanotte
tutte erano scomparse. Certo avevano cercato di rifugiarsi verso le numerose
isole che coprono le spiagge venezuelane, dove potevano trovare ottime rade.
La fregata
però non aveva ancora deviato dalla sua rotta, e proseguiva verso il
settentrione per raggiungere, se non la Tortue, almeno la Giamaica, dove non
poteva correre pericolo alcuno, essendo colonia inglese ed aperta alle navi
filibustiere che avevano ottenuto patenti di corsa contro gli spagnoli.
Il mare
diventava sempre più spaventoso e le raffiche aumentavano di violenza. Il vento
di ponente si scatenava, acquistando la forza prodigiosa che suole raggiungere
nelle grandi tempeste, allorquando riesce a spostare perfino i grossi cannoni
da trentadue delle batterie esposte alla sua furia.
Tuoni
assordanti rimbombavano in seno alla nube nera, con un crescendo terribile,
coprendo sovente la voce dei mastri e dei contro-mastri, mentre lampi
abbaglianti si succedevano senza posa.
Morgan,
quantunque prevedesse che la bufera avrebbe ben presto raggiunta la massima
violenza, mostrava una calma ed una tranquillità d'animo ammirabile. Se era un
formidabile uomo di guerra, era pure uno dei più valenti marinai dell'epoca.
Ritto sul
ponte di comando, col portavoce in mano, impartiva gli ordini senza che si
sentisse nel suo accento alcuna vibrazione che dimostrasse la menoma
apprensione.
Jolanda, che
si era rifiutata di scendere nella sua cabina, stava presso di lui, aggrappata
alle traverse dal ponte, sfidando intrepidamente gli spruzzi delle onde che
giungevano talvolta fino a quel punto elevatissimo della fregata, e guardando
con curiosità, esente da qualsiasi timore, i baratri che si formavano fra i
cavalloni ed entro i quali la grossa nave affondava con mille paurosi scricchiolii.
"Non
avete paura?" le chiedeva sovente Morgan.
"Sono la
figlia d'un uomo di mare" rispondeva ella, sorridendo. "Su questi
mari mio padre ha sfidato gli uragani. Perché non debbo sfidarli anch'io?"
Verso le due
del mattino, un clamore assordante s'alzò in mezzo alle onde. Pareva che
migliaia e migliaia di persone urlassero tutte insieme e che invocassero
soccorso.
Morgan era
diventato un po' pallido, e la sua fronte si era aggrottata.
"Che
cos'è?" chiese Jolanda.
"Il razzo
di mare che si forma" rispose il filibustiere.
A un tratto,
parve che il cielo s'incendiasse da levante a ponente. Alla notte tenebrosa
successe una vera notte di fuoco.
Le onde
parevano avvampare, come se nel loro seno si fossero aperti centinaia di
vulcani sottomarini.
I lampi si
succedevano ai lampi, e così vividi e intensi, che i marinai si sentivano
abbacinati. Una vera pioggia di folgori cadeva sul mare e se ne vedevano
perfino di quelle a due ed anche a tre branche.
L'equipaggio
della fregata guardava con terrore quello spettacolo, cogli occhi socchiusi.
Anche Jolanda, per la prima volta, sembrava scossa.
"Signor
Morgan!..." esclamava. "Che cosa succede?"
"Attraversiamo
una meteora di fuoco, signora. Scendete nel quadro!... Scendete!..."
In quel
momento si udì una voce a gridare:
"Lassù,
sul mostravento del maestro!..."
Tutti apersero
gli occhi, guardando sulla cima dell'alberatura.
Una sfera, non
più grossa di un arancio, che pareva incandescente e proiettava una luce
azzurrognola, girava intorno al mostravento del contrapappafico, come se
cercasse di posarsi sulla punta della banderuola.(4)
D'improvviso,
scoppiò con una detonazione secca, che parve prodotta dal frangersi d'una
granata, poi una lingua di fuoco serpeggiò lungo l'albero, avvolgendo le sartìe
ed i paterazzi e raggiunse la gran gabbia, spandendo all'intorno un acuto odore
di zolfo.
Un urlo di
spavento si era alzato fra i filibustieri della fregata.
"Al
fuoco!... Al fuoco!..."
La gran gabbia
si era incendiata e le fiamme, alimentate dal vento, si erano allungate verso
la vela latina dell'albero di trinchetto.
Morgan stava
per slanciarsi giù dal ponte di comando, seco trascinando la figlia del
Corsaro, quando udì Pierre le Picard a urlare:
"Anche la
latina ha preso fuoco ed il razzo di mare romba al largo!..."
Morgan soffocò
a stento una imprecazione, per non allarmare la fanciulla. Non poté però
trattenere un grido di furore.
"È la
maledizione che piomba su noi!"
Riacquistando
però prontamente il suo sangue freddo, aiutò Jolanda a scendere la scala, che
le onde volta a volta attraversavano.
"Signora"
le disse con voce un po' commossa, guardandola negli occhi. "Morgan non è
uomo da lasciarsi abbattere; abbiate fiducia in me."
"Non ho
paura" rispose Jolanda. "So che uomo siete."
"Lasciate
il ponte, signora. Siamo fra le onde ed il fuoco, ed i pericoli non si possono
sempre prevedere."
"Vi
obbedisco, capitano Morgan."
"Wan
Stiller, a te la signora!..." gridò il filibustiere, vedendo passare
l'amburghese con dei buglioli in mano.
Guardò la
fanciulla che si allontanava, stretta al braccio del filibustiere, sempre
tranquilla, come se nessun pericolo la minacciasse, poi si slanciò attraverso
la tolda, dove regnava una viva confusione, gridando con voce stentorea:
"Alle
pompe!..."
La fregata si
era messa alla cappa, colle sue vele della mezzana, per fuggire dinanzi
all'uragano che la investiva con forza terribile, trascinandola verso levante.
L'albero maestro ed il trinchetto erano entrambi in fiamme.
I paterazzi,
le sartìe, le manovre correnti, i pennoni e le coffe bruciavano come
fiammiferi, essendo imbevuti di catrame e le vele lasciavano cadere sulla
coperta lembi di tela accesa e scintille in gran numero.
L'alberatura
poteva considerarsi come perduta, pericolo gravissimo in mezzo ad una bufera,
che poteva durare molte ore. Senza le vele la nave era priva d'ogni stabilità.
Al comando di
Morgan, i corsari avevano messe in opera la pompa di prora e quella di poppa,
ma la manovra era tutt'altro che facile, colle onde che ad ogni istante
invadevano la coperta, minacciando di spazzare via gli uomini, che si erano
collocati alle traverse.
I getti,
d'altronde, non potevano avere grande efficacia in alto. Gli attrezzi, anche
bagnati, bruciavano egualmente e, lasciando cadere ad ogni istante od un pezzo
di pennone infiammato, od un lembo di tela ardente, od un paterazzo, esponevano
gli uomini ad un continuo pericolo.
Per di più,
essendo il vento instabile, vi era la probabilità che anche l'albero di mezzana
prendesse fuoco.
Tuttavia quei
fieri uomini, abituati da lunga pezza a tutti i pericoli, lottavano
disperatamente. Alcuni avevano già assalito i due alberi colle scuri, per farli
cadere in mare, quando Morgan, vedendo che non bastavano, diede l'ordine di
chiamare in coperta i prigionieri spagnoli, che si trovavano racchiusi nella
stiva e che, vedendo quei bagliori sinistri, urlavano spaventosamente.
Erano una
trentina, fra cui il capitano Valera e don Raffaele.
Udendo però
quel comando, Carmaux aveva fatto un salto.
"Ecco
un'imprudenza che noi possiamo pagare cara" aveva detto a Wan Stiller, che
lo aveva raggiunto. "Dei nemici in coperta, quando il fuoco è a bordo!...
Compare, apri gli occhi!..."
"Credo
che tu abbia torto" rispose l'amburghese. "La loro pelle vale la nostra
e ci terranno a salvarla."
"Gli
altri sì, ma ve n'è uno che sarebbe ben lieto di mandarci tutti in fondo al
mare. Apri gli occhi, compare."
"Di chi
sospetti?"
"Del
capitano Valera."
Un urlo
scoppiato a prora li fece rabbrividire.
"Largo!...
Cade il maestro!..."
Una turba di
gente passò a corsa sfrenata fra di loro, spingendoli verso le murate. Erano
gli uomini delle pompe, che si salvavano sul cassero, non ostante le grida ed i
sagrati di Pierre le Picard e di Morgan.
Nel medesimo
istante si udirono i gabbieri del bompresso ad urlare:
"Bada,
pilota!... Il razzo monta!..."
Il
razzo di mare
Uno sgomento
inenarrabile si era impadronito dei sessanta uomini che formavano l'equipaggio
della fregata, all'annuncio dato dai gabbieri, che il temuto razzo di mare
stava per montare ed irrompere contro la fregata.
L'incendio
dell'attrezzatura dunque non era un pericolo abbastanza grave, perché vi si
mescolasse la furia delle onde? Mancava ancora quel tremendo cavallone, terrore
dei naviganti del Golfo del Messico e del Mare dei Caraibi, per mettere a più
dura prova la sorte, già molto precaria, della nave?
"Siamo
perduti!" aveva esclamato involontariamente Carmaux, che si era
precipitato verso il cassero, dove si trovavano Morgan e Pierre le Picard.
La fregata,
investita da onde spaventevoli, che montavano sopra i bordi con muggiti
assordanti, e quasi priva di vele, trabalzava allora disordinatamente,
rovesciandosi ora sul babordo ed ora sul tribordo.
L'albero
maestro, già privo dei paterazzi e delle sartìe, tutto fiammeggiante dalla base
alla cima come una torcia colossale, oscillava in avanti ed indietro con mille
lugubri scricchiolii, lasciando cadere in coperta ora un pezzo di pennone ed
ora un frammento di coffa o di crocetta.
Una vera
pioggia di tizzoni ardenti rimbalzava in coperta, minacciando di dar fuoco al
catrame, sparso fra le connessure delle tavole e di bruciare le imbarcazioni,
che erano state levate dalle gru onde i cavalloni non le portassero via.
Morgan, che
conservava il suo solito sangue freddo, aveva dato ordine di abbandonare le
pompe, diventate ormai inutili. Non si preoccupava che del razzo di mare, che
poteva subissare di colpo la fregata.
"Quattro
uomini alla ribolla del timone!" aveva urlato. "Attenti, a virare!...
Salvate la mezzana!"
Uno scroscio
orribile aveva fatto seguito alle sue parole. l'albero maestro, già
carbonizzato alla base e privo dei paterazzi, delle sartìe e delle griselle,
dopo aver oscillato alcuni istanti, descrivendo un arco di fuoco, era caduto
attraverso la fregata fracassando le impagliettature e rovesciando in mare un
cannone da caccia della coperta.
Il rimbombo
era stato tale, che Morgan e Pierre le Picard, per un momento aveva temuto che
anche i corbetti di tribordo avessero ceduto.
Fortunatamente
sopraggiunse un'onda violenta era sopraggiunta che dopo aver spento, con mille
sibili, le antenne fiammeggianti ed i rimasugli della velatura, portò via
l'albero, permettendo alla nave di risollevarsi.
Era tempo. Il
razzo di mare stava per rovesciarsi sulla fregata con impeto irresistibile.
Si era
formato, o meglio, era apparso a cinque o sei gomene dalla prora e s'avanzava
con mille muggiti, come una immensa muraglia liquida, la cui altezza non poteva
misurarsi.
Sulla cima,
una frangia di spuma che rifletteva i bagliori delle fiamme, avvolgenti ancora
l'albero di trinchetto, s'arricciava e si rompeva sotto le incessanti e
poderose sferzate del vento.
I marinai
della fregata, vedendolo avanzarsi, si erano rifugiati precipitosamente sul
cassero, che era la parte più alta e quindi la meno esposta.
"Aggrappatevi
e tenetevi fermi!..." tuonò Morgan. "Wan Stiller!... Carmaux!... Nel quadro e impedite l'uscita alla
fanciulla!..."
Aveva appena
pronunciate quelle parole ed i due filibustieri erano scomparsi nel quadro,
chiudendo la porta, quando la mostruosa onda si rovesciò con un muggito così
potente da soffocare i tuoni del cielo.
La nave,
investita a prora da quell'enorme massa liquida, si rizzò bruscamente, quasi
verticalmente, poi piombò in un abisso che pareva non avesse fondo, con mille
scricchiolii. Pareva che i madieri ed i corbetti si spezzassero e che tutti i
puntelli del frapponte cadessero.
Un colpo di
mare la avvolse da prora a poppa, tutto spezzando e, frantumando le murate,
uscì sopra il cassero, sbattendo in tutte le direzioni gli uomini che
l'occupavano.
Quando la
fregata tornò a galla, il razzo era già passato e s'allontanava verso il sud
con un rombo spaventevole, ed una profonda oscurità avvolgeva il mare.
Il cavallone,
che si era rovesciato sulla tolda, aveva schiantato l'albero di trinchetto e
l'aveva portato via, come fosse stato un fuscello di paglia, spegnendo
contemporaneamente l'incendio.
Anche parecchi
uomini, fra cui non pochi prigionieri spagnoli, erano pure scomparsi, travolti
e spinti fuori dai bordi da quel torrente d'acqua, che si era infranto contro
il cassero, dopo aver spazzato il castello e la tolda.
La nave era
sfuggita al colpo datole dal razzo, ma in quali condizioni si trovava!... Si
poteva ormai considerare come un rottame, destinato, presto o tardi, a
diventare preda dei flutti.
Dei suoi
alberi non rimaneva che quello di mezzana, perché anche il bompresso, che primo
aveva ricevuto l'urto, era stato strappato di colpo; le sue murate erano state
sventrate in tutta la loro lunghezza; le scialuppe erano scomparse e perfino il
timone era ormai così sgangherato da non poter più servire a nulla. E, per
colmo di disgrazia, la tempesta continuava ad infuriare e non era improbabile
che un nuovo razzo si formasse e tornasse a piombarle addosso.
"È finita
o sta per finire?" chiese Pierre le Picard a Morgan che si era spinto fino
sul castello di prora, per rendersi conto dei danni subiti dalla fregata.
"Il
disastro non poteva essere maggiore" rispose il filibustiere. "La
nave è perduta e non vale più d'una zattera. Se si trattasse di noi soli, poco
m'importerebbe. Ne abbiamo viste di peggiori e ce la siamo sempre cavata con
fortuna."
" Ti
preoccupi per la figlia del Corsaro?"
"Sì"
rispose Morgan.
"La
salveremo a dispetto delle onde e dei venti" disse Pierre le Picard.
"Dove supponi che siamo?"
"Il vento
ci ha spinti sempre verso levante, e, tenendo conto della velocità che
imprimeva alla fregata, io ritengo che noi ci troviamo all'altezza dell'isola
della Tortuga."
"Che
corsa!... Dove andremo a dar di cozzo noi, o dove cercheremo un rifugio?"
"Certo
contro le isole della Nueva Esparta" rispose Morgan.
"Ci sono
spagnoli su quelle isole?"
"Lo
ignoro."
"Sarebbe
meglio evitarle."
"Faremo il
possibile."
"Se
potessimo cacciarci nel golfo di Paria?"
"È quello
che tenteremo, per non farci sorprendere, in così miserando stato, da qualche
nave spagnola. Aspettiamo che l'uragano si calmi, poi vedremo."
Pareva invece
che la tempesta non avesse, almeno per il momento, alcun desiderio di andarsene
altrove.
Il vento
continuava ad infuriare sempre da ponente, trascinando la fregata verso
levante, essendo rimasta spiegata la grande vela latina sull'albero di mezzana.
Anche il mare
non accennava a calmarsi e le onde si seguivano, sempre altissime, scrollando
incessantemente la povera nave e percuotendo poderosamente i malfermi fianchi.
L'equipaggio
però, vedendo che nessuna via d'acqua si era aperta nello scafo e che nessun
altro razzo di mare li minacciava, aveva ripreso animo e aveva messo un po'
d'ordine sulla tolda, sgombrandola dai rottami e dagli avanzi dei pennoni e dei
cordami.
Alcuni marinai
tentarono di saldare alla meglio il timone, ma dovettero rinunciarvi, a causa
dell'incessante irrompere delle onde.
Al mattino,
quando la luce riapparve, i filibustieri si contarono. Quattordici dei loro e
sei prigionieri spagnoli erano scomparsi durante la notte, strappati dal razzo
di mare.
"Fosse
stato almeno inghiottito anche il capitano Valera" disse Carmaux, che
presenziava all'appello fatto da Pierre le Picard.
"Invece è
là che ci guarda ridendo" rispose Wan Stiller. "Si direbbe che egli
ha indovinato il tuo desiderio."
"E don
Raffaele?"
"È ancora
vivo."
"Che
batosta però per la fregata!..."
"E delle
altre navi che cosa sarà accaduto?"
"Se il
razzo le ha raggiunte in alto mare le avrà sommerse di colpo" rispose
Carmaux. "Non erano in grado, eccettuata forse la Folgore, di resistere a
tale cavallone."
"Dovremo
dunque lasciarci trasportare dall'uragano, finché troveremo qualche scogliera o
qualche spiaggia che ci arresti?" si chiese Wan Stiller, che pareva
preoccupato. "Fosse almeno una spiaggia deserta!..."
" Tu temi
gli spagnoli che, è vero, compare?"
"Hanno
grosse colonie nel Venezuela e potrebbero scorgerci, e darci la caccia. Che
cosa ne dite, don Raffaele?" chiese, scorgendo presso di sé il piantatore.
"Se vi
prendono vi impiccheranno e che vi ritoglieranno la figlia del Corsaro"
rispose il piantatore con maligna compiacenza.
"In
quanto all'impiccarci, credo che non abbiano delle funi abbastanza resistenti
per noi" disse l'amburghese. "Siamo ancora in buon numero e abbiamo a
bordo polvere e palle in abbondanza."
"Palle
sì, ma polvere... vorrei un po' vedervi a caricare i cannoni."
"Che cosa
dite, don Raffaele?" chiese Carmaux, corrugando la fronte.
"Io non
so che cosa il razzo di mare abbia sfondato, vi posso solamente dire che ho
veduto entrare dell'acqua nel frapponte, presso la santabarbara e che i
depositi di polvere devono essere sommersi."
"Tuoni
d'Amburgo!" gridò Wan Stiller. "È impossibile. Noi non abbiamo urtato
in alcun luogo."
"Eppure
qualcosa ha urtato e sfondato i madieri" disse lo spagnolo. "Andate
un po' ad assicurarvi."
Carmaux e
l'amburghese non l'ascoltavano più. Stavano per scendere la scala che metteva
nel frapponte, quando udirono fra i fischi furiosi del vento ed i muggiti
crescenti delle onde, un rotolare cupo, accompagnato da colpi sordi, come se
degli arieti percuotessero furiosamente la nave.
"È acqua
che entra?" si chiese Wan Stiller, fermandosi, mentre Carmaux staccava una
delle lampade che illuminavano la camera comune dell'equipaggio.
"Si
direbbe che rotolino dei cannoni " rispose il francese, diventando
pallido. "Che i pezzi della batteria abbiano spezzati i freni?"
"O che
qualcuno li abbia invece tagliati?"
Scesero a
precipizio la scala ed entrarono nel frapponte, dove s'arrestarono, mandando un
urlo di furore.
Quattro pezzi
della batteria, spezzate le funi che li trattenevano ai sabordi, correvano
all'impazzata per il frapponte, a seconda che la fregata si piegava sul babordo
o sul tribordo.
Quelle masse
di bronzo, andavano e venivano con cupo fragore, che non si udiva sopra coperta
a causa degli ululati del vento e dei muggiti delle onde, e investivano i
fianchi del legno con foga irresistibile, schiantando i puntali e fracassando a
poco a poco i bagli, i corbetti ed i madieri.
Già uno
squarcio si era aperto all'estremità opposta del frapponte, in prossimità della
Santa Barbara e vi penetravano attraverso grossi fiotti d'acqua, che correvano
come torrenti verso poppa, colando nella sentina e nei depositi.
"Qui è
stato commesso un tradimento" disse Carmaux. "È impossibile che il
rollìo abbia potuto spezzare dei paranchi di quella robustezza."
"Da
chi?"
"Da chi?
Dai prigionieri spagnoli. Qualcuno deve aver approfittato dell'incendio
dell'alberatura, per scendere qui inosservato e tagliare le funi. Hanno scelti
i cannoni prossimi al deposito delle polveri per inondarci le munizioni."
"Se non
riusciamo ad arrestarli finiranno per sfondare i fianchi della fregata."
"Diamo
l'allarme, compare!"
Si erano
slanciati entrambi su per la scala, avvertendo Pierre le Picard del grave
pericolo che correva la nave.
Una rauca
imprecazione era sfuggita al filibustiere.
"Non
bastavano la perdita dell'alberatura ed il razzo che ci ha
sconquassati!..." esclamò. "A me, marinai!"
Quindici o
venti corsari erano accorsi, muniti di aspe e di manovelle, e si erano
introdotti con precauzione nel frapponte, portando parecchi fanali.
Quei quattro pezzi
parevano dotati di vita. Si arrestavano un momento, mostrando le gole nere, poi
riprendevano la corsa tutti insieme, scorrendo velocemente sopra le loro ruote
massicce, con un fragore di ferraccio.
Di quando in
quando, qualcuno andava a dare di cozzo contro uno dei pezzi collocati dietro i
sabordi, girava su sé stesso, poi tornava ad avventarsi in direzione opposta,
senza che si potesse prevedere dove sarebbe andato a vibrare un nuovo colpo.
"È il
nostro colpo di grazia!" aveva esclamato Pierre le Picard. "Se non
riusciamo a frenarli, spezzeranno i paranchi degli altri e allora sarà la fine
per la fregata.
"Coraggio,
camerati! Ci va di mezzo la salvezza di tutti!... Cento piastre a chi ne ferma
uno!..."
Poi, per
incitare i suoi uomini che titubavano, temendo di venire travolti da quei
pesantissimi pezzi, strappò ad un marinaio un'aspa e si slanciò risolutamente
nel frapponte, subito seguíto da Carmaux e da Wan Stiller.
L'impresa a
cui si accingevano era però così difficile e così pericolosa, che i loro compagni
si sentirono correre per le ossa un brivido di terrore. Avrebbero amato meglio
lanciarsi all'abbordaggio d'un legno, tre volte più grosso della fregata e
zeppo di nemici, piuttosto che arrestare quei mostri di bronzo.
Un violento
colpo di mare, che sollevò la nave da prora a poppa, aveva rimessi in movimento
i quattro pezzi.
Vedendoli
indietreggiare all'impazzata verso il quadro, Pierre le Picard ed i suoi due
compagni si slanciarono verso il più vicino, gettando fra le ruote dell'affusto
le loro aspe e balzando subito da un lato per non venire travolti.
Il pezzo girò
su se stesso fracassando gli ostacoli come fossero paglie, poi prese la corsa
verso la murata di babordo, sotto un colpo di rollìo, passando appena ad un
passo da Carmaux, e andò a dar di cozzo contro un cannone della batteria, con
tale violenza da spezzare di colpo i freni che lo trattenevano.
Quasi nel
medesimo istante un altro se ne staccava verso l'estremità poppiera del
frapponte.
Pierre le
Picard, Carmaux e Wan Stiller avevano avuto appena il tempo di mettersi in
salvo, verso la camera di prora, dove già si erano rifugiati i loro compagni.
I sei pezzi
attraversarono con rapidità vertiginosa il frapponte e abbatterono di colpo la
tramezzata di prora e l'estremità inferiore della scala, poi ripartirono in
senso inverso, urtando gli altri pezzi e staccandone altri tre.
"Siamo
perduti!..." aveva esclamato Pierre le Picard. "Fra dieci minuti
tutti i venti pezzi della batteria saranno in moto e sfonderanno i fanchi della
fregata."
Volerli
arrestare era ormai una follìa. Sarebbero state necessarie delle granate, per
scagliarle fra gli affusti e far saltare i pezzi; ma disgraziatamente si
trovavano nella Santa Barbara già inondata.
"Non
possiamo far nulla dunque?" chiese Carmaux, che si strappava i capelli.
"Prepariamoci
a colare a picco" rispose Pierre le Picard. "La fregata è
perduta."
Risalirono in
coperta, cupi e scoraggiati.
"Morgan"
disse Pierre le Picard, avvicinandosi al capitano. "Tutto è finito."
"Dunque,
è vero?"
"Sì, i
pezzi non si possono più frenare ed i fianchi cominciano a cedere."
"Maledizione!..."
esclamò Morgan, stringendo le pugna.
I suoi sguardi
si erano fissati sui prigionieri spagnoli che stavano raggruppati sul cassero.
"Sono
stati loro!" disse con voce minacciosa.
"Impicchiamoli
tutti" disse Pierre le Picard.
"Sì,
impicchiamoli!..." gridarono sette od otto marinai, che avevano udita la
proposta del filibustiere. Morte ai traditori!"
Morgan stava
per aprire la bocca e dare forse quell'ordine crudele, quando una voce dolce,
ma nel medesimo tempo ferma, si fece udire dietro di loro.
"Voi non
lo farete, capitano Morgan. I filibustieri che hanno combattuto con mio padre,
non devono mutarsi ora in carnefici."
Jolanda era
comparsa dietro i due comandanti, facendosi largo fra i marinai, che si erano
stretti attorno a loro e che già allungavano le mani verso un mucchio di
cordami.
"Voi,
signora?" disse Morgan, trasalendo.
"Giungo
in tempo per impedire una inutile crudeltà."
"Hanno
tagliati i freni dei pezzi, signora, e per colpa loro, noi fra poco forse
affonderemo" disse Pierre le Picard.
"I
filibustieri sono gente di guerra e non già dei carnefici" disse Jolanda.
"Quali prove d'altronde avete per condannare quei disgraziati? No,
capitano Morgan, non darete mai il vostro consenso, almeno fino a che io sarò
fra voi. La figlia di colui che voi chiamavate il gentiluomo d'oltremare, non
può assistere freddamente a simili crudeltà."
"Avete
ragione" disse Morgan. "Il luogotenente del Corsaro Nero non offrirà
mai un simile spettacolo alla signora di Ventimiglia."
"Grazie,
capitano" rispose la fanciulla. "Fieri e prodi sì, i filibustieri, ma
anche magnanimi."
Nessuno aveva
osato ribattere parola, tanto ormai era l'ascendente che esercitava su quei
ruvidi e battaglieri uomini del mare, la dolce figura della figlia del
gentiluomo piemontese.
"Signor
Morgan" disse la fanciulla. "È dunque perduta la nave? Ditemelo
francamente. La figlia del Corsaro Nero non deve aver paura."
"Spero
che resisterà, se la tempesta si calma" rispose il filibustiere.
"Anche se i pezzi sfondassero la batteria superiore, il pericolo non sarà
immediato.
"Non
dobbiamo essere lontani dalle isole della Nueva Esparta. Non vi nascondo,
signora, che tuttavia non mi faccio soverchie illusioni e che la nave potrebbe
affondare, prima di avvistare quelle terre. Non temete però. Abbiamo qui tanto
legname da poter costruire dieci zattere ed è ciò che noi faremo, appena le
onde si saranno un po' calmate."
"Ho piena
fiducia in voi, capitano Morgan."
"Siete
ammirabile, signora."
"Perché?"
chiese la fanciulla sorridendo.
"Una
tranquillità simile non si troverà mai in nessuna donna. Quale buon sangue
aveva il Corsaro Nero!..."
Una
sorpresa in alto mare
Durante tutta
la giornata, la tempesta continuò ad imperversare senza un momento di tregua,
malmenando la povera fregata, ed i pezzi non cessarono di sgangherarle i
fianchi, sfondando parecchi madieri e tutte le tramezzate.
Non fu che verso
sera, che il mare cominciò a calmarsi e che il vento cessò di soffiare da
ponente, girando verso il settentrione.
In quelle
dodici ore la nave si era ridotta in uno stato veramente miserando. Galleggiava
ancora, ma era mezza piena d'acqua, entrata dagli squarci aperti dagli urti
formidabili di tutti quei pezzi, che nessuno aveva più osato fermare.
Tutte le
murate, eccettuata quella poppiera del cassero, erano scomparse e solo ancora
resisteva, per un vero miracolo, l'albero di mezzana; ma non poteva essere di
alcuna utilità, poiché nessuno avrebbe osato spiegare alcuna vela per il timore
di vederlo rovinare.
"È
finita" disse Carmaux, che guardava desolato la tolda della nave, ingombra
di rottami. "Se non sarà questa notte, domani, questa povera carcassa si
inabisserà, a meno che troviamo qualche scogliera o qualche costa su cui
arenarla."
"Che cosa
dice il signor Morgan?" chiese don Raffaele che gli stava presso.
"Dice che
ha intenzione di far costruire delle zattere."
"Quando?"
"Questa
notte."
"Entra
ancora acqua?"
"La
fregata beve senza tregua" disse Carmaux.
"Allora
anche la figlia del Corsaro è in pericolo" disse don Raffaele. "Non
valeva la pena di assalire Maracaybo, per poi lasciarsela prendere dal
mare."
"Vi ho
detto che si costruiranno delle zattere e... Oh!... Là, là!... Non ci mancherebbe altro!... Se ci scorgono la finiremo
prima. Furie dell'inferno!..."
"Che cosa
avete?"
Carmaux non
rispose. Curvo innanzi, sull'orlo estremo del castello di prora, guardava
attentamente verso il settentrione.
"Che cosa
cercate dunque?" chiese don Raffaele. "Io non vedo che dell'acqua
nera."
"Aspettate
un po', deve esservi ancora mare agitato lassù. Aspettiamo che
ricomparisca."
"Ma
chi?"
Invece di
rispondere Carmaux scese a precipizio la scala che metteva sulla coperta e si
diresse correndo verso il cassero, dove Morgan cercava di far collocare una
specie di timone, formato con un pennone, alla cui estremità, che doveva
immergersi, aveva fatto inchiodare due ceppi d'àncora, onde poterlo far
funzionare come un remo gigantesco.
"Capitano"
disse il filibustiere, con voce agitata. "Vi è una nave in vista."
"Dove?"
chiese Morgan, traendolo da una parte.
"Viene
dal settentrione. Ho scorto or ora i suoi fanali."
"Sei
certo di non esserti ingannato?" chiese il comandante, dopo aver gettato
un rapido sguardo nella direzione indicata dal filibustiere, senza scorgere
nulla
"Ho la
vista buona."
"Seguimi
sulla coffa. Di lassù vedremo meglio."
Salirono le
griselle di babordo dell'albero di mezzana e, giunti sulla cima del primo
travo, scorsero infatti verso il nord due punti luminosi, che spiccavano
nettamente sul tenebroso orizzonte.
"Sì, una
nave" disse Morgan. "Non deve trovarsi che a cinque o sei miglia da
noi e ci si presenta di prua."
"Non vi
pare però che quei lumi siano immobili?" chiese Carmaux, dopo di aver
osservato con maggior attenzione.
"Forse
t'inganni" rispose il capitano. "Tuttavia non mi sembra che quella
nave cammini troppo, quantunque abbia il vento in favore."
"Che sia
una delle nostre?"
"Che
viene dal nord, ossia da Cuba o da San Domingo? Uhm!... Non può essere che una
spagnola, diretta a qualche porto del Venezuela, o a la Guayra od a
Cumana."
"Se
potessimo abbordarla e lasciare questa carcassa, ormai destinata a sparire?
Sono certo che i nostri uomini non esiterebbero, trattandosi di salvare la
pelle."
Morgan aveva
guardato Carmaux, come fosse stato colpito da quell'audace idea.
"E perché
no?" disse poi, quasi parlando fra sé. "Abbordarla in silenzio,
invadere bruscamente il ponte, assalire l'equipaggio colla sciabola, giacché la
polvere quasi ci manca? Forse che Braccio di Ferro non ha fatto altrettanto,
quando la sua nave, rotta dalla tempesta, stava per inabissarsi?"
Scese in
coperta e chiamò attorno a sé i suoi marinai. Aveva preso risolutamente il suo
partito.
"Una
nave, che ritengo sia spagnola, sta per attraversarci la rotta. Preferite
attendere qui, su questo rottame, la morte che non sarà lunga a venire o
tentare la sorte? Siamo ancora in sessanta e con tale numero altri filibustieri
hanno compiuti dei prodigi straordinarii. Se voi vorrete io cercherò di
guidarvi ancora alla vittoria. Chi si rifiuta esca dalle file."
Nessuno si era
mosso, anzi tutti avevano estratte le loro corte sciabole, come se la nave da
assalire fosse ormai a pochi passi.
"Verrete
tutti?" chiese Morgan.
"Sì,
tutti" risposero ad una voce i corsari.
"Che
nessuno accenda un lume, che nessuno mandi un grido ed io rispondo del
successo" disse Morgan. "La nave non è che a cinque o sei miglia,
cerchiamo di raggiungerla e chi ha un po' di polvere la tenga in serbo per gli
ultimi colpi."
L'impresa non
era certamente facile e poteva terminare in una completa catastrofe, ma i
filibustieri non erano uomini da esitare sulle loro decisioni e quella tenacia
costituiva probabilmente la loro forza.
Potendo
disporre solo dell'albero di mezzana e che per di più era pericolante,
pensarono a tutta prima di assicurarlo, onde poter spiegare la latina poppiera,
ciò che fecero rapidamente, non mancando a bordo né paterazzi né sartìe di
ricambio.
Issarono
quindi un palo a prora, al posto del trinchetto, per sciogliere al vento una
gabbia, e fissarono un pennone al posto del bompresso.
Il timone,
bene o male, già funzionava e poteva bastare per guidare il rottame per un
tratto relativamente così breve.
Dopo che il
mare si era calmato, anche i cannoni avevano cessato le loro sarabande, quindi
essi potevano accostarsi, col favor delle tenebre, alla nave, senza che alcun
rumore li tradisse.
Alle undici di
notte la fregata era sotto vela e si dirigeva lentamente verso i due punti
luminosi, che erano ormai perfettamente visibili anche agli uomini della
coperta.
Pareva però
che la spagnola, in quell'ora consumata dai corsari nei loro preparativi, non
avesse guadagnato gran che. Era stata anch'essa gravemente danneggiata dalla
bufera, che doveva aver battuto tutto il mare dei Caraibi e fors'anche il golfo
del Messico, oppure le mancava il vento?.
Quella
semi-immobilità preoccupava non poco i corsari, quantunque a loro giovasse
perché in tal modo potevano accostarla prima che sfuggisse.
"Che cosa
ne pensi, Carmaux?" chiese Wan Stiller, vedendo il compagno grattarsi
furiosamente la testa.
"Io penso
che quel legno deve avere le gambe rotte per non poter camminare. Se le avesse
sane, a quest'ora dovrebbe essere già qui."
"Che
abbia perduto il timone? Vedo parecchi lumicini brillare sul cassero."
"Anch'io
li ho osservati e tu, compare, potresti avere ragione. Quei lumi rischiarano
probabilmente i carpentieri, occupati a compiere qualche urgente riparazione.
Purché giungiamo prima che abbiano finito!..."
"Non
siamo che a tre o quattro miglia, e Morgan dirige il rottame, in modo da
tagliare la strada alla nave spagnola.
"Sono
certo che glielo getterà attraverso la porta."
"E farà
bene" rispose Carmaux. "Saliremo per le trinche e le dolfiniere del
bompresso e saremo sul castello prima che gli spagnoli possano rimettersi dalla
sorpresa causata dall'investimento."
"E la
figlia del Corsaro Nero?"
"Ci
saremo noi a proteggerla ed a salvarla, se la fregata andrà a picco. Morgan me
ne ha dato l'incarico."
Il rottame
intanto continuava ad avanzarsi lentamente, quasi senza far rumore. Essendo
semi-pieno d'acqua, era ormai così basso da non poterlo facilmente scorgere,
tanto più che Morgan aveva fatto tingere di scuro la vela di gabbia, che era
sufficiente per nascondere la latina poppiera.
I corsari
avevano fatti i loro preparativi di combattimento ed occupati i posti loro
assegnati da Pierre le Picard.
Il numero più
grosso era stato radunato a metà nave, e non era stato armato che di pistole e
di sciabole.
Due dozzine
d'uomini, divisi in due gruppi, erano stati piazzati sul cassero e sul castello
di prora, forniti d'archibugi, perché proteggessero i loro compagni nel caso
che la sorpresa non riuscisse.
Erano quasi
tutti bucanieri, tiratori infallibili: ogni archibugiata gettava un uomo fuori
di combattimento, morto o ferito.
A mezzanotte,
il rottame non si trovava che a poche gomene dalla nave e nessuno degli uomini
di guardia pareva che essersi accorto del pericolo.
Era un grosso
veliero, a due alberi, con numerosi sabordi; probabilmente qualche nave
mercantile armata da guerra e forse montata anche da un numeroso equipaggio.
Carmaux non si
era ingannato, affermando che gli pareva immobile. Ed infatti aveva le vele
quasi tutte imbrogliate e non s'avanzava che per la spinta del vento che agiva
sulla massa.
Verso poppa,
oltre i due grossi fanali, si vedevano agitarsi parecchi lumi, e si udivano
risuonare dei colpi sordi, come se l'equipaggio fosse affaccendato ad eseguire
qualche urgente riparazione.
"Io credo
che stiano cambiando il timone" disse Morgan a Pierre le Picard, che lo
interrogava. "Non scorgo alcuna ombra sul castello. Si tengono sicuri di
non fare cattivi incontri. Avverti gli uomini di tenersi pronti. Getterò la
fregata attraverso la prora del veliero."
"Sarò
alla loro testa" disse il filibustiere, scendendo sulla tolda colla spada
sguainata.
"Carmaux!..."
"Signore"
rispose il francese, che in quel momento saliva con Wan Stiller per ricevere
gli ultimi ordini.
"Nel
quadro, vecchio mio, presso la signora di Ventimiglia. Se la fregata nell'urto
dovesse sfasciarsi, gettatevi subito in mare assieme a lei e badate di non
farvi assorbire dal gorgo."
Per la prima
volta forse in vita sua, il fiero filibustiere pareva profondamente commosso.
"M'hai
udito, Carmaux" disse, dopo un istante di silenzio. "Perdere tutto
sì, ma non quella fanciulla."
"Contate
su di noi, signor Morgan" disse Carmaux. "Checché accada, la signora
di Ventimiglia sarà salva. Vieni compare Wan e stacca i salvagente."
Erano appena
scomparsi, quando si udì sul castello di prora del veliero una voce a gridare:
"Un'antenna!...
Che cos'è che s'avanza?... Ohe, del..."
La voce fu
coperta da uno scricchiolìo sinistro e da un cozzo non troppo forte.
Morgan, con un
colpo di barra aveva gettato il rottame attraverso la prora del veliero, da cui
non distava ormai che pochi passi.
Nel medesimo
istante si udì la voce di Pierre le Picard gridare:
"Su,
lesti!..."
Il bompresso
si trovava sopra la tolda della fregata, che attraversava da babordo a
tribordo, e la dolfiniera rasentava colla sua estremità inferiore il tavolato.
Al comando di
Pierre le Picard, quaranta uomini si slanciarono, senza mandare un grido, verso
le trinche, issandosi con rapidità fulminea sull'albero.
In un momento
vi sono sopra e si slanciano verso il castello di prora, silenziosi come una
legione di fantasmi.
Tre o quattro
marinai del veliero, appena rimessisi dallo stupore, prodotto da quell'urto
inatteso e allarmati dal grido del loro camerata, salivano in quel momento la
scala, mentre a poppa si udivano incrociarsi domande e risposte e si vedevano
delle ombre accorrere con delle fiaccole in mano.
Pierre le
Picard che per primo era giunto sul castello, balzò come una tigre sull'uomo di
guardia che aveva dato il primo allarme, e lo uccise.
Gli altri, che
vedono irrompere tutte quelle persone e che non sapevano lì per lì spiegarsi da
dove potessero essere salite, cercano di darsi alla fuga.
I
filibustieri, che sono già saltati in coperta, piombarono addosso turando loro
la bocca e li legarono, gettandoli verso la murata più vicina.
Morgan,
vedendo che la fregata, malgrado l'urto subito, continuava a galleggiare, aveva
intanto raggiunto il grosso dei bucanieri, occupando fortemente il castello.
L'attacco era
stato così fulmineo e così silenzioso, che, quando comparvero gli spagnoli che
lavoravano a poppa, quasi tutti i corsari della fregata si trovavano a bordo
del veliero.
Vedendoli
avanzare colle torce in mano, Morgan lanciò innanzi i suoi archibugieri,
gridando:
"Arrendetevi
o comando il fuoco!..."
Gli uomini di
guardia si fermarono di botto, terrorizzati. Non erano che sette od otto e non
avevano altre armi che dei martelli e qualche scure.
Vedendosi
puntare contro tutti quegli archibugi e scorgendo il castello ingombro di
gente, gettarono i loro istrumenti, dicendo:
"Non
opponiamo resistenza."
"Dov'è il
capitano?"
"Eccomi!..."
gridò una voce. "Chi mi vuole? Che cosa succede qui? Chi ha urtato?"
Un uomo sulla
quarantina, che teneva in mano una pistola, era uscito dall'ombra, esponendosi
alla luce proiettata dai due grossi fanali di poppa.
Morgan balzò
verso si lui, gridandogli: "Arrendetevi, signore!... Siamo ormai padroni
della vostra nave."
"Chi
siete voi?" chiese lo spagnolo con voce minacciosa.
"Morgan,
il filibustiere!..."
Lo spagnolo,
udendo quelle parole, aveva alzata rapidamente la pistola per fare fuoco.
Pierre le Picard, che lo sorvegliava, fu lesto a fargliela saltare di mano con
un colpo di spada.
Quattro o cinque
uomini si erano gettati addosso allo spagnolo, alzando su di lui le sciabole,
pronti ad ucciderlo.
"Rispettate
i valorosi" disse Morgan. "Legatelo e conducetelo in una cabina.
"Venti uomini nella camera di prora e che si assicurino dei marinai che
dormono. "A me, Pierre le Picard!... Nel quadro!..."
Si diresse
verso poppa, seguíto da una trentina dei suoi corsari e scese nel quadro, il
cui salotto era ancora illuminato.
Due uomini
stavano seduti dinanzi ad un tavolo e giuocavano tranquillamente al montes,
ancora ignari di quanto era avvenuto in coperta.
Uno doveva
essere un personaggio appartenente all'alta nobiltà spagnola, a giudicarlo
dalla ricchezza delle sue vesti e dalla magnificenza delle trine che gli
guarnivano le maniche.
Era un uomo di
trenta o trentadue anni, di statura alta, quantunque magrissimo, coi capelli e
la barba biondi, col naso leggermente ricurvo, gli occhi da falco, ed il mento
aguzzo, indizio certo d'una energia poco comune.
L'altro
invece, che doveva essere qualche ufficiale del veliero, era assai più giovane
e coi lineamenti più grossolani.
Vedendo
irrompere Morgan, seguíto da parecchi uomini, il gentiluomo era balzato
vivamente in piedi, mettendo la destra sulla guardia dello spadone.
"Che cosa
volete voi e da dove siete sbucati?" chiese, aggrottando la fronte.
"E chi, soprattutto, vi ha dato il permesso di disturbare la nostra
partita?"
"Il
permesso ce lo siamo presi noi, signore" disse Morgan, salutandolo colla
spada.
E, vedendo che
lo sconosciuto accennava a trarre la spada:
"Lasciatela
nel fodero, signor mio." aggiunse, con tono un po' ironico. "Non
guadagnereste nulla ad opporre resistenza. Siamo in sessanta, e voi dovreste
conoscere ormai quanto valgono i filibustieri della Tortue."
Il gentiluomo
aveva fatto due passi indietro.
"Siete
sorti dal mare o dall'inferno, voi?" gridò. "Razza infame che il
diavolo protegge per nostra disperazione!..."
"Basta!...
Gettate la spada!" comandò Morgan.
"E se mi
rifiutassi?"
"Vi farei
uccidere, signore."
Il gentiluomo
mormorò qualche cosa fra i denti e spezzò con dispetto la lama che aveva già
estratta, gettando i due tronconi fuori dal sabordo che era aperto.
"Chi
siete voi che m'imponete la resa?" chiese con ira.
"Morgan"
rispose il filibustiere. "Un nome che gli spagnoli di Puerto del Principe,
di Portobello, di Maracaybo e di Gibraltar conoscono già."
Un pallore
cadaverico si era diffuso sul viso dello spagnolo.
"Morgan"
disse con voce malferma. "Anch'io conosco questo nome.
"A quale
prezzo fissate il mio riscatto? So che voi assalite città e navi spagnole
perché siete spinti da una inestinguibile sete d'oro.
"Di ciò
parleremo più tardi, quando avremo saputo chi siete voi."
"Fatica
inutile, perché io sono qui per tutti uno sconosciuto. D'altronde non sono uso
a mercanteggiare. Fissate il prezzo e la città ove desiderate essere
pagato."
"Legate
questi due uomini e chiudeteli in qualche cabina" disse invece Morgan.
"Che si mettano due sentinelle alla loro porta. "Addio signore"
aggiunse poi con voce ironica, "ci occuperemo più tardi di voi."
Il
governatore di Maracaybo
Non erano
trascorsi cinque minuti, che tutto l'equipaggio, composto di sessanta uomini,
sorpreso in gran parte nelle amache della camera comune di prora, si trovava
prigioniero nel frapponte della nave, guardato da otto corsari armati
d'archibugi.
Nessuno aveva
osato opporre resistenza, tanto era il terrore che ispirano in quell'epoca i
filibustieri della Tortue, che godevano fama di essere invincibili, perché
uomini d'origine infernale. Qquella conquista non era costata che la perdita
d'un uomo, del marinaio di guardia sul castello, ucciso da Pierre le Picard.
Il cambio
della nave però non si rivelò così buono, come dapprima i filibustieri avevano
sperato, quantunque quel veliero valesse infinitamente di più della sgangherata
fregata destinata ormai a inabissarsi.
Anche la nave
spagnola aveva assai sofferto per l'uragano e per il razzo di mare, che l'aveva
sorpresa alcune ore dopo che si era rovesciato sulla fregata: essa aveva
perduto il timone, tutta la murata poppiera e gli attrezzi sopra coperta. Per
di più, l'equipaggio aveva affermato a Morgan che da otto ore la nave faceva
acqua e che esso aveva pompato tutta la giornata per vuotare la sentina che si
era riempita.
Comunque
fosse, i corsari si ritenevano più sicuri su quel legno che sul rottame, avendo
l'alberatura quasi intatta e legname sufficiente per costruire un nuovo timone.
"Signora"
disse Morgan a Jolanda, che aveva lasciato il rottame assieme a Carmaux ed a
Wan Stiller, salendo sul veliero. "Credevo di essere più fortunato,
tuttavia non dispero di poter condurre questa nave alla Tortue. Abbiamo fra noi
degli abili carpentieri, che non si troveranno imbarazzati a turare la falla ed
a costrurre un nuovo timone o meglio a finire quello che gli spagnoli avevano
cominciato."
"Ho
sempre avuta piena fiducia in voi, signor Morgan" rispose la fanciulla
"e questa fiducia non verrà meno neanche ora."
"Wan
Stiller conduci la signora nel quadro, e tu, Carmaux, preparale la migliore
cabina. I prigionieri ne faranno a meno e si accontenteranno del
frapponte."
"Andiamo,
compare" disse il francese, volgendosi verso l'amburghese.
"Prepareremo alla signora di Ventimiglia un grazioso nido."
Erano appena
scesi nel salotto del quadro che era rimasto illuminato, quando Jolanda si
arrestò, mandando un grido di sorpresa.
Si era fermata
dinanzi ad una miniatura sospesa ad una parete, che raffigurava la testa d'un
vecchio dalla barba e dai capelli bianchi e dall'aspetto severo.
"Che cosa
avete, signora?" chiese Carmaux.
"Io ho
veduto nel mio castello di Ventimiglia una miniatura identica a
questa!..." esclamò Jolanda.
"Ventre
di pescecane!..." gridò Carmaux, facendo un passo indietro. "Lui!...
Diciassette anni non me lo hanno fatto scordare!..."
"Tuoni
d'Amburgo!..." esclamò Wan Stiller. "Sì, lui!... Come questa
miniatura si trova qui?..."
"Avete
visto quell'uomo?" chiese Jolanda con una certa agitazione.
"L'abbiamo
conosciuto, signora" rispose Carmaux, con aria imbarazzata, facendo
contemporaneamente a Wan Stiller un rapido cenno.
"Chi
è?"
"Era un
governatore spagnolo che diede molto da fare ai corsari della Tortue."
"E come
si trova nel mio castello di Ventimiglia una miniatura precisa a questa?"
chiese Jolanda. "Che l'aavesse portata dall'America mio padre?"
"Certo,
signora" rispose Carmaux. "L'avrà avuta, nella divisione del bottino
ricavato dal sacco di Vera Cruz."
"Strana
combinazione!... Trovare qui la medesima miniatura!... Sì, sono i suoi occhi,
le fattezze del suo viso sono identiche, l'espressione dura è la medesima. Io
desidererei sapere a chi appartiene."
"Probabilmente
al comandante della nave. Cercheremo d'interrogarlo. Andate a riposarvi,
signora, è già la una del mattino."
Apersero varie
cabine e trovatane una che pareva non fosse stata abitata da alcuno e arredata
con una certa eleganza, la pregò di entrare e di coricarsi nel bianco lettuccio
che ne occupava il centro.
Quando Carmaux
e Wan Stiller furono tornati nel salotto, due esclamazioni sfuggirono
simultaneamente dalle loro labbra:"Suo nonno!"
"Il duca
di Wan Guld!"
"Compare
Stiller, bisogna sapere come questo quadrettino si trova qui. Io sono certo di
non ingannarmi, è lui!..."
"Mi pare
di vedermelo ancora dinanzi, la notte che comparve sul cassero della sua nave,
colla fiaccola in mano, fra i due barili di polvere" disse l'amburghese.
"E mi pare ancora, nel mirarlo, di udire lo spaventevole rimbombo che ne
seguì e di vedere la vampa alzarsi verso il cielo. Te ne ricordi, Carmaux?"
"Perbacco!...
Mi sento correre ancora indosso un brivido tutte le volte che ci penso.
Compare, cerchiamo di sapere a chi appartiene questa miniatura. Non sono meno
curioso della signora di Ventimiglia."
"Andiamo
a chiederlo al capitano del veliero."
"Sarà
meglio interrogare qualcuno dell'equipaggio, il pilota per esempio."
"Andiamo
Carmaux."
"Vuotiamo
prima questi due bicchieri, che sono rimasti miracolosamente diritti e che il
capitano ed i suoi ufficiali si sono dimenticati di tracannare.
I due compari,
che ci tenevano a bagnarsi l'ugola quando si presentava l'occasione, vuotarono
d'un fiato le due tazze, poi passarono nel frapponte dove si trovavano
allineati su due ranghi e legati i prigionieri, guardati dagli otto corsari.
Carmaux
s'accostò ai camerati, sussurrò loro qualche parola, poi s'accostò ad un
vecchio marinaio dalla barba bianca, che supponeva fosse uno dei piloti e, dopo
d'averlo slegato, lo trasse in un angolo, dicendogli:
"Ti
prometto del tabacco e anche una bottiglia se mi darai una indicazione che mi
urge" gli disse.
"Parlate"
rispose lo spagnolo.
"Tu
conosci il quadro della nave?"
"Vi sono
sceso un centinaio di volte."
"A chi
appartiene quella miniatura appesa a una delle pareti?"
"Una
testa di vecchio?"
"Sì,
sì" disse Carmaux.
"Al
viaggiatore che abbiamo imbarcato nella baia di Macuira, all'uscita del golfo
dei Caraibi."
"Mostratemelo."
"È il
primo della seconda fila, quello che si trova presso il capitano. Un gran
signore, a quanto pare, qualche gentiluomo di certo."
Carmaux fissò
gli sguardi sull'uomo indicato, che era lo stesso che aveva spezzata la spada
all'intimazione di arrendersi.
"Non lo
conosco e non l'ho di certo mai veduto" mormorò Carmaux dopo un attento
esame. "Eppure... guardalo anche tu, Wan Stiller."
"Il lampo
di quegli occhi non ti è nuovo, è vero camerata?" chiese l'amburghese.
"Ricorda il vecchio Wan Guld."
"Chi è
quell'uomo?" chiese il francese, volgendosi verso lo spagnolo.
"Non lo
so, signore."
"Quando
lo avete imbarcato?"
"Otto
settimane or sono."
"Era
solo?"
"No,
aveva con sé parecchi ufficiali che sono però rimasti a terra."
"Siete
rimasti sempre in mare fino ad oggi?"
"Siamo
stati a Cuba ed ora tornavamo sulle coste del Venezuela."
"Non sai
dirmi da dove veniva quell'uomo, quando lo imbarcaste nella baia di
Macuira?"
"Lo
ignoro, ma sono certo che il capitano lo aspettava, essendo noi rimasti una
settimana nascosti entro la baia, senza fare alcun carico. Vi dico però che
deve essere qualche pezzo grosso, a giudicarlo dal modo con cui lo trattava il
comandante. Era lui che dava gli ordini a bordo."
"Avrai il
tabacco e la bottiglia" disse Carmaux, riconducendolo tra i prigionieri.
"Chi
credi possa essere?" chiese Wan Stiller, quando risalirono in coperta,
dove i filibustieri lavoravano a tutta lena alle pompe per vuotare la sentina,
onde permettere ai carpentieri di scoprire la falla e di turarla.
"Deve
essere lui!"
"Chi
lui?"
"Cerchiamo
don Raffaele e, se non parlerà, parola di marinaro, lo getterò in mare."
Si era messo a
correre per la tolda, cercando fra i gruppi dei marinai e dei prigionieri della
fregata che erano stati lasciati ancora liberi, il piantatore e lo trovò,
finalmente, seduto su un rotolo di gomene, colla testa fra le mani e gli occhi
fissi sul tavolato.
"Non è il
momento di sognare questo, don Raffaele" gli disse Carmaux, scuotendolo.
"Non è
ancora finita dunque la mia triste esistenza?" chiese il poveraccio con un
sospirone. Che cosa volete?"
"Ditemi,
se vi mostrassi il governatore di Maracaybo, il conte di Medina, lo
riconoscereste?"
"Non sono
ancora interamente imbecillito" rispose il piantatore.
"Egli è
qui, sapete?"
Don Raffaele
s'era alzato di colpo.
"Scherzate?"
chiese. "È impossibile!..."
"Vi dico
che è qui" ribatté Carmaux.
"Su
questa nave?"
"Sì, e
sono certo che, vedendolo, lo riconoscerete subito."
"Voi
avete sognato?"
"Venite
dunque, testardo."
"Andiamo"
disse il piantatore. "Non ho ancora perduta la vista."
"Compare,"
disse Wan Stiller "ti devi essere ingannato."
"Aspetta,
prima di pronunciarti" rispose il francese. "Io sono convinto di
avere indovinato giusto. Un altro uomo che non fosse o suo figlio o qualche suo
stretto parente, non potrebbe possedere la miniatura di Wan Guld. Siamo sulla
buona strada, te lo dico io, ed il capitano Morgan rimarrà ben sorpreso quando
apprenderà che valore ha la sua preda."
Il piantatore,
un po' trascinato da Carmaux e un po' sospinto dall'amburghese, scese nel
frapponte, dove si trovavano ancora i prigionieri, illuminati da due lanterne
sospese al soffitto.
"Guardate
il primo di quella fila, don Raffaele" disse Carmaux, spingendolo innanzi.
"Guardatelo bene e, prima di dirmi se lo conoscete o no, pensateci due
volte."
Il piantatore
aveva appena fissati gli sguardi sul gentiluomo, quando un grido gli sfuggì:
"Voi
siete uno stregone!".
"È
lui?"
"Sì."
"Il conte
di Medina?"
"E di
Torres."
"Il
bastardo del duca?"
"L'ho
veduto cento volte e si è degnato di parlare con me."
"Lo
sospettavo!" esclamò Carmaux. "Ecco una preda che ci consola di aver
dato l'abbordaggio ad una nave che valeva ben poco.
"Il
capitano Morgan ne sarà ben lieto."
. . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . .
Mentre
Carmaux, tutto lieto della scoperta fatta, si recava ad informare il
filibustiere, un uomo che nessuno dei due corsari e nemmeno don Raffaele
avevano osservato, perché si era fino allora tenuto nascosto dietro il tronco
inferiore dell'albero di trinchetto, presso la scassa, si era bruscamente
alzato, mandando una sorda imprecazione.
Era il
capitano Valera, il quale, sospettando qualche cosa, li aveva silenziosamente
seguìti e si era collocato così vicino a loro, da non perdere una sola sillaba.
"Quella
canaglia di piantatore lo ha tradito" mormorò. "Non mi ero ingannato,
sospettando che fosse stato lui a condurli nel monastero. Ho fatto bene a
sorvegliarlo. A suo tempo ti pagherò come meriti."
Si diresse
verso i corsari di guardia, chiedendo loro:
"Permettete
di salutare un mio compatriota?"
"Non
abbiamo ordini per impedirvelo" rispose uno dei filibustieri. "Fate
pure."
"Grazie"
rispose il capitano. "Ho trovato qui una vecchia conoscenza."
Passò dietro
la seconda fila dei prigionieri e si accostò al governatore di Maracaybo, che
stava seduto su una curcuma, tutto concentrato in sé stesso.
"Ho molto
dispiacere di trovarvi qui, signor conte" gli disse, sedendoglisi presso.
"Sarete però anche voi molto sorpreso di vedermi."
Il governatore
si volse vivamente, e fece un gesto di stupore.
"Voi,
capitano!" esclamò. "Possibile!..."
"In carne
ed ossa, signor conte" disse Valera. "Non sono stato più fortunato di
voi, la fregata che montavo fu catturata da quel dannato Morgan, che il diavolo
se lo porti all'inferno."
"Quale
fregata?" chiese il conte.
"Ignorate
dunque che, dei sei legni che dovevano distruggere i corsari, tre sono stati
distrutti dai filibustieri?"
"E i
nostri si sono lasciati fare a pezzi?" disse il governatore, con ira.
"Sono dunque invincibili questi filibustieri!"
"Io li
credo tali, signor conte" rispose il capitano.
"È vero
che hanno saccheggiato anche Gibraltar?"
"Sì."
"E la
figlia del Corsaro è sempre al sicuro?"
"No,
signor conte, è in mano di Morgan."
Il governatore
aveva fatto un soprassalto, accompagnato da un gesto di furore.
"In mano
dei filibustieri!" mormorò con voce fremente. "Che cosa mi narrate
voi?"
"Che è
qui, a bordo di questa nave."
"Chi mi ha
tradito?"
"Non io
di certo, signor conte."
"Narratemi
tutto, tutto!" disse il gentiluomo, mordendosi rabbiosamente le dita.
Il capitano
non se lo fece dire due volte, e gli raccontò brevemente quanto gli era
accaduto, dopo la presa di Maracaybo da parte dei filibustieri.
Il conte di
Medina lo aveva ascoltato senza interromperlo, diventando, volta a volta, ora
smorto ed ora rosso, come fosse lì lì per coglierlo un colpo.
"Maledetti!...
Maledetti!..." mormorò coi denti stretti, quando il capitano ebbe finito.
"Chi può avermi riconosciuto?"
"Quel
piantatore, don Raffaele Caldara, che ho visto poco fa coi due filibustieri,
Carmaux e Wan Stiller."
"Io ho
udito ancora questi nomi."
"Erano i
due fedeli che accompagnavano sempre il Corsaro Nero."
"Sì, mio
padre mi aveva parlato di loro. Spero che quel traditore non vivrà a
lungo."
"M'incarico
io di farlo sparire," rispose il capitano, "tanto più che sospetto
sia stato lui a guidare i due filibustieri al convento."
"Che fare
ora? Morgan non accetterà alcun riscatto da me e mi terrà prigioniero, se
conosce i miei progetti sulla figlia del Corsaro."
"Su
vostra nipote, signor conte" corresse il capitano.
Il governatore
gli lanciò un'occhiata feroce.
"No"
disse "i miei progetti sulla figlia dell'uomo che fu fatale a mio padre e
che mi tolse, sposando la duchessa, una immensa fortuna. La lotta però è appena
cominciata e Morgan, giacché si è creato il protettore della signora di
Ventimiglia, troverà in me un avversario implacabile!"
"Per
questo occorre che voi siate libero, signore"
"Posso
contare su di te?"
"Sempre,
signore. Cosa devo fare?"
"Impedire
che questa nave ci trasporti alla Tortue."
"Non sarà
impresa facile."
Un sorriso
contrasse le labbra del conte.
"Che cosa
ci vuole per rovinare una nave? Una falla aperta al momento opportuno; un
barile di polvere che accidentalmente prende fuoco e la rovina parzialmente;
dei cannoni che spezzano i freni..."
"Ho già
fatto questo giuoco, signore, per rovinare la fregata e sarebbe pericoloso
ripeterlo" disse il capitano con un soffio di voce. "Ne so
abbastanza; però metterò in esecuzione una mia idea."
"Hai
amici su cui contare qui?"
"Due
soldati della guarnigione di Maracaybo che mi sono fedeli."
"Prometti
loro senza contare le piastre a nome mio..."
Una voce che
risuonò all'estremità del frapponte che fece trasalire il capitano, lo
interruppe.
Era Carmaux
che gridava:
"Conducete
nel quadro il gentiluomo. È aspettato."
"Morgan
vuole parlarvi" disse il capitano. "Negate tutto e giuocate
d'astuzia."
"Sarò un
avversario degno di lui" disse il conte, alzandosi. "Vedremo chi
proverà che io sia realmente il governatore di Maracaybo."
Due
rivali formidabili
Quando il
conte di Medina entrò nel quadro, trovò Morgan solo, appoggiato alla tavola che
occupava il centro del salotto, su cui stavano ancora i bicchieri vuotati da
Carmaux e da Wan Stiller.
Il
filibustiere, vedendolo entrare, aveva spinto innanzi due sedie, dicendo con
voce secca:
"Sedete,
signor conte; abbiamo da parlare di cose importanti."
"Conte!..."
esclamò il governatore di Maracaybo, fingendo un gesto di stupore. "Ecco
un titolo che sarei lieto di avere, ma per ora non lo possiedo. Vi siete
ingannato, capitano Morgan, chiamandomi così."
"Ne siete
ben convinto?" chiese il filibustiere con accento leggermente beffardo.
"Io sono
don Diego Miranda, e null'altro. Non ho mai avuto alcun titolo nobiliare."
"Piantatore
forse?"
"Fabbricante
di cioccolatto a S. Domingo."
"Possibile
che io mi sia ingannato o meglio che si siano ingannati coloro che avevano
conosciuto in piena funzione il governatore di Maracaybo?" disse Morgan,
sempre beffardo. "Signor conte di Medina, è meglio che giuochiamo a carte
scoperte."
"Conte di
Medina!" esclamò il figlio del duca. "È uno scherzo questo, capitano
Morgan, per aumentare il prezzo del riscatto? Se si tratta di piastre, parlare
pure. Sono abbastanza ricco per pagare e vi prego fin d'ora, di voler fissare
la somma necessaria per riacquistare la mia libertà."
Morgan si mise
a ridere; era però un riso secco, che non si udiva certo con piacere e che fece
sussultare il conte.
"Un
riscatto" disse. "Non vi ho fatto chiamare per spillarvi alcune
migliaia di piastre. Non ho terre e castelli come quel grande gentiluomo che fu
il Corsaro Nero, tuttavia sono oggi ricco a sufficienza. E poi che importa a me
l'oro? Signor conte, figlio del duca di Wan Guld, sia pure nato da altra donna,
gettate la maschera."
"Quale?"
chiese il governatore con voce sardonica.
"Quella
che cercate di applicarvi al viso per nascondere il vostro vero essere."
"Dunque
io sarei?"
"Il conte
di Medina e Torres, governatore di Maracaybo."
"Un bel
nome ed un bel titolo" disse il gentiluomo. "Vi hanno ingannato per
bene coloro che vi hanno detto ciò."
Morgan, che
cominciava ad impazientirsi, tese una mano verso la miniatura appesa alla
parete, che rappresentava il duca di Wan Guld.
"Ebbene,
signor conte, negate ora, se l'osate, che quell'uomo non sia vostro padre. Lo
conobbi troppo bene, quando lottava ferocemente contro il Corsaro Nero, a cui
aveva prima ucciso nelle Fiandre il fratello maggiore, a tradimento e poi
impiccati qui, in America, gli altri due: il Corsaro Verde ed il Rosso.
Negatelo!..."
Il conte era
rimasto silenzioso.
"Negatelo
dunque" ripeté Morgan. "Quella miniatura vi appartiene."
"Chi ve
lo ha detto?" chiese il conte. "Chi fu il miserabile che mi ha
tradito? Maledizione su di lui. Ebbene sì, io sono il conte di Medina e Torres,
figlio del duca di Wan Guld e della marchesa di Miranda, e governatore di
Maracaybo... Che desiderate ora da me?"
"Sapere
una sola cosa" disse Morgan.
"Quale?"
"Perché
avete mandato delle navi ad impadronirsi della figlia del Corsaro, della
signora Jolanda di Ventimiglia?"
"Voi volete
sapere troppo, capitano Morgan" disse il conte. "Sono affari che
riguardano me solo e non i filibustieri della Tortue."
"Voi
avete dimenticato che il Corsaro Nero fu uno dei più grandi capitani della
filibusteria e che, come tale, sua figlia ha diritto alla nostra
protezione."
"La
protezione di ladri di mare, di uomini posti fuori della legge!" disse il
conte con un sorriso ironico. "Bei gentiluomini, in fede mia!..."
Una vampa
d'ira era salita sul viso di Morgan. La sua destra si posò rapidamente sulla guardia
della spada ed estrasse a metà il ferro dalla guaina.
"Uccidetemi,
o meglio assassinatemi" disse il conte con voce pacata, aprendosi il
giubetto e mostrando la bianca camicia di seta. "Il cuore batte qui."
Quella calma e
quelle parole, furono come una doccia gelata per il filibustiere.
"Morgan
si batte, ma non assassina" disse ringuainando il ferro. "Avete la
lingua che taglia, signor conte."
"La mia
spada taglierebbe di più" rispose arditamente il figlio di Wan Guld.
"Lo
vedremo, se un giorno noi ci incontreremo l'uno di fronte all'altro, col ferro
in pugno."
"Accetto
fin d'ora la sfida."
"Volete
rispondere alla mia domanda?"
"Vi ho
detto che sono affari che riguardano la mia famiglia."
"Voi
odiate la signora di Ventimiglia."
"È
possibile che io possa odiare la figlia di colui che causò la morte di mio
padre, il duca di Wan Guld."
"Il
Corsaro Nero non lo uccise. Fu vostro padre che diede fuoco alle polveri,
quando la Folgore abbordò la sua fregata. Io ero presente a quella tragica
scena. D'altronde, il Corsaro aveva dei gravi motivi per odiare vostro padre,
che gli aveva assassinati tre fratelli."
"Ma non
di abbandonare sulle onde del Mare dei Caraibi, colla tempesta che stava per
iscoppiare, la figlia legittima di mio padre, Honorata di Wan Guld."
"Il
Corsaro Nero aveva giurato di sterminare tutti coloro che portavano quel nome
nefasto e l'aveva giurato sulle salme dei suoi fratelli, il Corsaro Rosso ed il
Verde. D'altronde Honorata, sfuggita miracolosamente alla tempesta, non solo
gli perdonò, ma divenne persino sua moglie."
"Ebbene
anch'io ho giurato... Ho raccolta l'eredità di mio padre."
"Nelle
vene della signora di Ventimiglia scorre il sangue della vostra famiglia."
"Mia
madre non era quella di Honorata; io non sono un Wan Guld, sono un
bastardo" disse il conte, con amarezza.
Si passò una
mano sulla fronte, come per scacciare un triste pensiero, poi disse, quasi con
impazienza:
"Orsù,
che cosa volete fare di me?"
"Promettetemi
di rinunciare ai vostri disegni, che non possono essere se non malvagi, sulla
signora di Ventimiglia e di lasciare per sempre le colonie spagnole
dell'America, ed io vi porrò in libertà."
"Non
sperate di strapparmi una simile promessa" disse il conte con voce
energica.
"Allora
vi condurrò alla Tortue e vi rimarrete prigioniero finché avrete cambiato
idea."
"Fate
pure."
"Vi
avverto che, fino all'arrivo, voi rimarrete chiuso in una cabina e guardato a
vista, non desiderando io che la signora di Ventimiglia sappia che voi siete a
bordo."
"Ah!...
Ella è qui!..." esclamò il conte, fingendo la più viva sorpresa.
"Non lo
sapevate?"
"Nessuno
me lo disse."
"Non
createvi delle illusioni."
"Che cosa
volete dire, signor Morgan."
"Lasciate
ogni speranza di poter agire contro di lei."
Il conte alzò
le spalle senza rispondere. Appena però Morgan gli ebbe voltato il dorso per
chiamare gli uomini che vegliavano al di fuori in attesa del prigioniero, un
sorriso sinistro gli apparve sulle labbra, mentre una cupa fiamma gli balenava
negli occhi.
"Signor
conte" disse Morgan, lasciando entrare i due corsari di guardia.
"Seguìte questi uomini."
"Sta
bene" rispose il governatore.
E uscì colla
fronte alta, senza tradire la menoma apprensione e senza nemmeno salutare il
suo nemico.
"Ecco un
uomo capace di darmi molto da fare" mormorò Morgan, quando si trovò solo.
"Sarà meglio affrettarci ad approdare alla Tortue. "In mare non
dormirò tranquillo finché vi sarà a bordo costui. Carmaux!..."
Il francese,
che forse s'aspettava quella chiamata e che fumava sull'ultimo gradino della
scala in compagnia dell'inseparabile amburghese, fu lesto ad accorrere.
"Che cosa
vuole il signor Morgan?"
"Affido a
te ed all'amburghese la sorveglianza del conte. Non è necessario che ti dica
che egli è un pericoloso personaggio."
"È il
figlio di Wan Guld, del terribile vecchio che ha dati al Corsaro Nero tanti
fastidi" disse Carmaux. "Io ed il mio compare Wan veglieremo a turno
dinanzi alla sua cabina."
"E non
una parola alla signora di Ventimiglia, sulla presenza del conte. Forse non
vivrebbe più tranquilla, sapendolo a bordo."
"Non
siamo che in quattro a conoscerlo, e se don Raffaele parla, lo butto ai
pesci."
"Lavorano
i carpentieri?"
"Sono
tutti nella cala e pare che la falla sia più larga di quanto supponevano gli
spagnoli.
"Non
potremo rimetterci alla vela prima di domani a sera."
"Andrò io
ad accelerare i lavori. Va', Carmaux, e apri gli occhi."
Il francese
raggiunse l'amburghese, che non aveva abbandonato il suo posto.
"Acqua in
bocca, compare, su quanto è avvenuto. È l'ordine."
"Non
parlerò."
"Hai
veduto don Raffaele?"
"Mi pare
di averlo scorto poco fa sul castello di prora."
"Andiamo
a cercarlo."
Attraversarono
la tolda, dove una parte dell'equipaggio, aiutato da parecchi prigionieri
spagnoli della fregata, lavorava accanitamente alle pompe, per vuotare la
sentina e salirono sul castello, ma non riuscirono a scorgerlo.
Percorsero
nuovamente la coperta, guardando sotto le vele che erano state calate in
coperta e fra i rotoli di cordami; poi scesero nelle batterie interrogando i
loro camerati, visitando perfino la camera comune dell'equipaggio e le dispense
senza trovarlo.
"Questa
sparizione è misteriosa" disse l'amburghese. "Che quel pauroso,
temendo qualche vendetta da parte del governatore, sia fuggito?"
"E
dove?" chiese Carmaux. "È più probabile che si sia annegato. La desiderava
tanto la morte!..."
"È
impossibile che abbia presa una così disperata risoluzione; cerchiamolo ancora,
compare."
Alcuni amici,
informati della scomparsa del piantatore, si erano uniti a loro, visitando la
nave dalla tolda alla cala; dovettero finalmente convincersi che quel povero
uomo non si trovava più a bordo del veliero.
Uno dei
prigionieri della fregata aveva detto loro che, trovandosi pochi minuti prima
sul cassero, gli pareva di aver udito un tonfo, come se un corpo o qualche
attrezzo fosse caduto in mare.
"Si è
annegato" disse l'amburghese. "Mi rincresce, parola di marinaio,
perché, quantunque spagnolo, era un buon uomo."
"O
l'hanno invece annegato?" disse Carmaux.
"E
chi?" chiese l'amburghese, che era stato profondamente colpito da quelle parole.
"Qualcuno
che forse sospettava di lui."
"Il
capitano Valera?"
"Chi lo
sa?"
"Avrebbe
gridato e opposta qualche resistenza."
"Possono
averlo prima pugnalato a tradimento od imbavagliato."
"Eppure
ho scorto poco fa il capitano giù nel frapponte, che chiacchierava
tranquillamente col capitano del veliero" disse l'amburghese.
"Comunque
sia, mi rattrista la miseranda fine di quel buon diavolo, che ci ha reso tanti
servigi. In guardia, amburghese. Il governatore è affidato alla nostra
sorveglianza e dobbiamo tenere gli occhi aperti. Quello è il più pericoloso di
tutti!..."
Il
tradimento
Quando l'alba
sorse, la nave non si trovava in condizioni di rimettersi alla vela.
I carpentieri,
quantunque avessero lavorato alacremente tutta la notte, non erano ancora
riusciti a turare interamente la falla, che si era aperta presso la ruota di
prora e che aveva delle dimensioni tali, da mettere in serio pericolo il
veliero.
Anche il
timone non era stato ancora finito, non avendo trovato nei depositi il legname
adatto a quel genere di costruzioni, cosicché Morgan si vedeva costretto ad
attender forse altre ventiquattro ore, prima di poter abbandonare quei paraggi
che potevano diventare pericolosissimi, essendo frequentati dalle navi
spagnole.
Durante la
notte il veliero, quantunque non soffiasse vento, trascinato forse da qualche
corrente, si era accostato alla costa venezuelana di tanto, che si poteva già
scorgerla vagamente. Quale tratto della costa fosse, nessuno poteva saperlo,
perché anche il capitano spagnolo, interrogato in proposito, non aveva data
alcuna informazione precisa, affermando di non aver potuto fare il punto del
mezzodì da quarantotto ore, in causa dell'uragano.
Anche il
rottame, abbandonato a sé stesso, era stato trascinato verso il sud durante la
notte e lo si poteva vedere, ad una distanza di dodici o quindici miglia, un
po' rovesciato sul babordo, ma sempre galleggiante.
Morgan, che
aveva premura di mettersi alla vela e di rifugiarsi alla Tortue, anche per
sapere se gli altri legni della squadra, che portavano buona parte delle
ricchezze predate, si erano salvati, non aveva lasciata la cala, e continuava
ad incoraggiare i carpentieri.
La riparazione
non era facile, anche in causa dell'acqua che continuava ad entrare dal foro e
che le pompe, quantunque energicamente manovrate, non riuscivano a vincere.
Perfino i
prigionieri spagnoli della fregata erano stati occupati a formare una doppia
catena, e si facevano passare con mastelli e buglioli, che venivano riempiti in
sentina e vuotati in coperta.
Ciò malgrado
calò la sera, senza che il duro lavoro fosse ancora stato ultimato, con grande
apprensione dell'equipaggio, il quale cominciava a disperare di poter venire a
capo di riuscire a mettere il veliero in grado di navigare.
"La va
male" disse Carmaux, che era salito in coperta a respirare una boccata
d'aria e che aveva appreso dai camerati quelle non liete notizie. "Si
direbbe che qualche santo o qualche diavolo protegga il conte di Medina. Se la
continua così, invece di andare alla Tortue, andremo a naufragare sulle coste
del Venezuela."
"Lo credi
compare?" chiese Wan Stiller, che si era fatto surrogare nella guardia da
un amico.
"Stamane
la costa era appena visibile, ed ora si distingue perfettamente. Vi è una
maledetta corrente che ci trascina fatalmente verso il sud."
"Non si
può dunque chiudere quella falla?"
"Pare
invece che se ne sia aperta un'altra. Mi hanno detto or ora che altra acqua
entra, scendendo dalla poppa."
"Non se
n'erano accorti prima?"
"No."
"Come si
spiega questa istoria?"
"Corrono
dei sospetti."
"Quali?"
"Che
qualche prigioniero spagnolo, approfittando della poca sorveglianza che
esercitano i nostri uomini, troppo occupati alle pompe, abbia sabotato la nave
da quel lato."
"Il
capitano dovrebbe farlo impiccare."
"Va a
cercarlo tu" disse Carmaux.
"Che cosa
dice il signor Morgan?"
"È
furibondo ed ha minacciato di far gettare in acqua tutti i prigionieri, se
riesce a scoprirne qualcuno con qualche attrezzo da trapanare."
"Hai
tenuto d'occhio il capitano?"
"Non ho
cessato di sorvegliarlo e credo che si sia accorto che io ho dei sospetti su di
lui."
"Che sia
stato lui a sabotare la nave a poppa?"
"No,
perché l'ho sempre veduto a pompare" rispose Carmaux.
"Che
abbia qualche complice?"
"Chi può
saperlo? Bah, non disperiamo" disse Carmaux.
Ahimè!...
Pareva che la sfortuna, unita forse al tradimento, avesse giurato di non
lasciar tregua ai vincitori di Maracaybo e di Gibraltar.
I carpentieri,
alla mezzanotte, quando già speravano di poter dare gli ultimi colpi alle
tavole e alle lastre di rame adoperate per chiudere la falla, erano stati
bruscamente scacciati dalla sentina da un'improvvisa irruzione d'acqua che
colava da babordo e così rapidamente che in meno di dieci minuti aveva coperto
il paramezzale.
Quasi
nell'istesso tempo, come se quella nuova disgrazia non bastasse, si era levato
un forte vento dal nord, spingendo la nave, con maggior velocità, verso la
costa venezuelana, che doveva essere ormai vicina.
Al grido di
allarme dei carpentieri, Morgan era prontamente accorso con Pierre le Picard ed
aveva dovuto, suo malgrado, constatare che, questa nuova via d'acqua, apertasi
improvvisamente, non era possibile vincerla colle pompe di bordo, tanto più che
l'equipaggio era completamente prostrato da quell'incessante e faticosa manovra
che durava da ventiquattr'ore.
"Tanto
valeva rimanere sul rottame" disse a Pierre le Picard, che si asciugava
alcune stille di sudore freddo. "Nel cambio non abbiamo fatto alcun
guadagno."
"Era
dunque un crivello lo scafo di questa dannata nave?" disse il secondo, con
ira. "O che una mano colpevole, malgrado le tue minacce, abbia sabotata
nuovamente la chiglia? Se avessimo urtato contro qualche roccia, il colpo si
sarebbe ripercosso anche sulla coperta."
"Sì"
disse Morgan, "qui è stato commesso un infame tradimento. Mentre i nostri
uomini cercavano di otturare la falla, una mano colpevole ne ha aperta
un'altra."
"A quale
scopo?"
"Per
impedirci di tornare alla Tortue; la cosa è spiegabilissima."
"Che il
governatore avesse qualche amico fra i prigionieri della fregata?"
"Può
darsi, Pierre" rispose Morgan.
"Avresti
dovuto gettarli tutti in mare, come io ti avevo consigliato" disse il
piccardo.
"La
signora di Ventimiglia non ci avrebbe mai perdonata una simile crudeltà, che
suo padre mai avrebbe permessa."
"È
vero" rispose Pierre le Picard, con un po' di malumore però. "Che
fare ora?"
"Non ci
rimane altro che far arenare la nave su qualche banco e tentare poi di chiudere
le falle."
"Il mare
monta, Morgan, ed il vento di tramontana soffia forte."
"Cercheremo
di arenarci su di una costa piana. Orsù, spieghiamo qualche vela e cerchiamo di
approdare, prima che la nave si riempia d'acqua."
Quando
salirono in coperta, trovarono Jolanda, la quale avvertita da Carmaux del
pericolo che correva il veliero, aveva lasciata subito la cabina.
"Affondiamo,
signor Morgan?" chiese colla sua solita voce tranquilla.
"Non
ancora, signora" rispose il filibustiere. "Prima che la nave sia
piena d'acqua passeranno almeno due ore ed a noi ne basta una per toccare la
costa. La scorgete laggiù verso il sud!"
"Non si
spezzerà il veliero? Vedo le onde a formarsi e precipitarsi all'assalto."
"Sì, il
mare diventa cattivo" rispose Morgan, "Tuttavia spero di trovare un
buon punto per arenare la nave."
Poi, alzando
la voce gridò:
"In
coperta anche la guardia franca e issate le vele!"
Tutti salirono
sulla tolda, compresi Carmaux e Wan Stiller, i quali ritenevano inutile la
guardia al governatore in un simile momento.
Il mare in
pochi minuti, forse per la vicinanza della costa e per la presenza di scogliere
e di bassifondi, oltre che per il vento, era diventato cattivo.
Enormi
cavalloni che si formavano sotto gli occhi dell'equipaggio, investivano
poderosamente la nave, scrollandola brutalmente.
Pierre le
Picard, per dare al veliero un po' di stabilità e anche per aumentarne la
corsa, aveva già fatto spiegare le due vele latine e qualche fiocco sul
bompresso.
La costa
venezuelana non doveva essere molto lontana. Si udiva il fragore formidabile
delle onde rompentisi contro la spiaggia o contro le scogliere, e si vedeva
estendersi dinanzi alla nave un immenso lenzuolo biancastro prodotto dalla
spuma.
Morgan si era
messo al timone, volendo dirigere la nave di suo pugno ed aveva pregato Jolanda
di non allontanarsi da lui, onde essere pronto a soccorrerla, ignorando se la
nave avrebbe potuto resistere all'urto, e Carmaux si era unito a loro, mentre
l'amburghese scandagliava il fondo assieme a Pierre le Picard.
I colpi di
mare, man mano che il veliero si accostava alla terra, si succedevano con
maggior frequenza. Dei cavalloni enormi varcavano di quando in quando le murate
e si rompevano in coperta, minacciando di trascinare via i prigionieri della
fregata e anche gli uomini dell'equipaggio.
Il fracasso
prodotto da quella terribile risacca, in certi momenti era tale, che non si
udivano quasi più i comandi di Morgan e di Pierre le Picard.
A mezzanotte
la costa non era più che a cinquecento passi, ma l'oscurità era così fitta da
non poter discernere se esistesse qualche rifugio o se vi erano delle scogliere
da evitare.
"Dove
andiamo noi?" si chiedeva Carmaux, che teneva con una mano la signora di
Ventimiglia, onde sorreggerla. "Ci fracasseremo contro le scogliere o la
nave affonderà prima di toccare?"
Il timore che
la nave s'inabissasse da un momento all'altro, non era ingiustificato. La falla
o le falle aperte dal traditore, dovevano essersi rapidamente allargate sotto
gli urti poderosi ed incessanti delle onde, poiché il veliero, in meno di
mezz'ora, si era immerso d'un paio di metri e l'acqua cominciava a trapelare
attraverso i sabordi della batteria, quantunque Morgan avesse fatti chiudere
tutti gli sportelli onde ritardare la sommersione.
Si udiva giù
nella stiva l'acqua muggire cupamente e rompersi contro le tramezze della
batteria e del frapponte, ogni qualvolta la nave, investita dalle onde, si
piegava su un fianco o sull'altro.
Morgan,
temendo che i prigionieri della nave morissero annegati là dentro, li aveva già
fatti salire, compreso il conte di Medina che era stato condotto a prora, e
affidato a Wan Stiller, affinché la fanciulla che si trovava a poppa, non
potesse vederlo.
Alle dodici ed
un quarto la nave si trovava fra la risacca, la quale si faceva sentire
fortemente. Morgan era sempre al timone e faceva sforzi prodigiosi per
mantenere il veliero in rotta.
Quell'intrepido
uomo di mare, quantunque non ignorasse che la tolda da un momento all'altro
poteva mancargli sotto i piedi, conservava anche in quel terribile frangente
una calma ammirabile ed impartiva i comandi con voce calma e limpida.
Solo i suoi
sguardi tradivano una profonda emozione, quando si fissavano su Jolanda,
quantunque la fanciulla si sfrozasse di non dimostrare alcuna ansietà, né
alcuna apprensione e avesse già tre volte detto:
"Non
preoccupatevi per me, signor Morgan. Questo naufragio non m'impressiona."
La nave,
urtata da tutte le parti, scrollata furiosamente, si dibatteva fra un mare di
spuma, non obbedendo quasi più all'azione del timone, né alla spinta delle vele
che il vento gonfiava.
S'avanzava,
poi indietreggiava, rovesciandosi violentemente ora su un fianco e ora
sull'altro, inalberandosi bruscamente, quasi verticalmente, per ricadere subito
dopo.
Sotto quelle
scosse l'acqua che la riempiva si precipitava come un torrente attraverso il
frapponte, alle corsìe della batteria e alla stiva e sfondava con muggiti
orribili le porte delle cabine, tutto travolgendo nella sua corsa.
Già la costa
non era che a qualche centinaio di metri, quando a prora si udì Pierre le
Picard urlare:
"Frangenti
dinanzi a noi!... Poggia tutto, Morgan!..."
Il
filibustiere che non aveva lasciata la ribolla, orzò alla banda con tutte le
forze, sperando di gettare la nave fuori dalla rotta, quando un'onda
spaventevole si rovesciò sulla poppa attraversandola da parte a parte.
Morgan s'era
precipitato verso Jolanda, afferrandola stretta fra le braccia, mentre Carmaux
veniva spinto sopra la murata.
"Aggrappatevi
a me, signora!" aveva gridato.
Aveva appena
pronunciate quelle parole che si sentì sollevare dall'enorme cavallone assieme
alla fanciulla e portare via.
Sprofondò in
un avvallamento, senza abbandonare la signora di Ventimiglia, fu coperto da
un'onda, poi rimontò alla superficie.
Quando poté
aprire gli occhi, scorse la nave ad una gomena di distanza, che veniva
ributtata al largo da una contro-ondata.
"Tenetevi
stretta a me, signora" disse. "La costa non è che a pochi passi e la
nave fra poco naufragherà!"
Jolanda gli si
era invece abbandonata fra le braccia, come se fosse svenuta.
"A me!...
A me!..." gridò Morgan, spaventato.
Una voce che
non era lontana, aveva risposto a quella chiamata disperata:
"Vengo,
capitano!..."
Una testa umana
era apparsa fra un fiotto di spuma, librandosi sulla cresta di un'onda, poi
subito scomparve.
Morgan,
vedendo che la fanciulla era inerte, cercava di tenerle la bocca fuori
dall'acqua onde sottrarla all'asfissia e si era messo a nuotare disperatamente.
Uomo gagliardo
e abituato a sfidare i flutti, quantunque la signora di Ventimiglia lo
imbarazzasse non poco, non temeva di annegare. Altre volte si era sottratto
alla morte, gettandosi audacemente fra le onde prima che la nave affondasse.
Ciò che invece
lo preoccupava era, oltre alla violenza dei cavalloni, la vicinanza della
costa. Se questa rappresentava la salvezza, poteva anche offrire dei gravi
pericoli, con quella risacca furiosa che tutto sconvolgeva.
Ripeté la
chiamata e udì la medesima voce di prima a rispondere:
"Un
momento, signor Morgan, auff!... Vengo!..."
Un grido di
gioia era sfuggito al filibustiere:
"Carmaux!..."
"Sì, sono
io, signor Morgan."
"Affrettati."
"Maledette
onde!..."
"La
signora di Ventimiglia è svenuta!..."
Il bravo
marinaio con un'ultima bracciata era giunto dietro a Morgan.
"Qui...
appoggiatevi, capitano... ho strappato un salvagente nel momento in cui l'onda
mi spazzava via...
"Tuoni
d'Amburgo, come dice l'amico Wan... la signora qui..."
Morgan,
vedendo presso di sé il marinaio che s'appoggiava all'anello di sughero, si era
voltato, allungando la mano che aveva libera, mentre colla sinistra alzava la
fanciulla che non era ancora tornata in sé.
"Grazie,
Carmaux" disse, mentre un'altra onda li portava via spingendoli
maggiormente verso la spiaggia.
"Avete
urtato, capitano?" chiese il marinaio.
"Io
no."
"La
signora è svenuta?"
"Forse
l'onda l'avrà sbattuta sul capo di banda. Aiutami, Carmaux, e facciamole scudo,
quando verremo scaraventati contro la spiaggia."
"Riceverò
io il primo urto, capitano" rispose Carmaux, passando un braccio attorno
alla vita di Jolanda.
"E la
nave, dov'è andata che non si scorge più?"
"L'ho
veduta respinta al largo... Badiamo!... Ho toccato... siamo addosso alla
riva."
"Non
lasciate la signora... Carmaux!"
"No...
signor Morgan..."
Le onde li
travolgevano, sbattendoli in tutti i versi. Il frastuono prodotto dalla risacca
era diventato tale che non potevano più udirsi. Morgan faceva sforzi sovrumani
per tenere la testa della fanciulla fuori dall'acqua, però, di quando in
quando, una massa di spuma li copriva tutti e tre obbligandoli a bere.
Già due volte
avevano toccato, quando un cavallone che si avanzava muggendo, li sollevò a
prodigiosa altezza, spingendoli innanzi con rapidità straordinaria.
"Non lasciare!..."
ebbe appena il tempo di gridare Morgan.
Sentirono le
loro gambe impigliarsi in qualche cosa e come imprigionarli. La cresta del
cavallone passò sopra le loro teste frangendosi contro i tronchi d'alcuni
alberi, che apparivano confusamente fra le tenebre, poi la massa liquida si
ritrasse verso il mare, cercando di trascinare seco i tre naufraghi, ma gli
ostacoli che li avevano imprigionati non avevano ceduto.
"Siamo a
terra!..." aveva urlato Carmaux con voce tuonante. "Siamo
salvi!..."
Il cavallone
li aveva trascinati in mezzo ad un caos di paletuvieri ed i rami contorti di
quelle piante li avevano non solo trattenuti, ma avevano anche smorzata la
violenza dell'urto.
"Fuggiamo,
prima che l'onda ritorni" aveva gridato Morgan.
Lasciò andare
il salvagente, che ormai non gli era più d'alcuna utilità, con un braccio si
strinse al petto la fanciulla, e passando di ramo in ramo, raggiunse il margine
della boscaglia.
Fortunatamente,
il secondo cavallone non fu così enorme come l'altro e si era sfasciato contro
le prime file delle rizofore.
"Ecco un
approdo veramente fortunato" disse Carmaux, che era stato lesto a seguire
Morgan. "Cerchiamo di far tornare in sé la signora di Ventimiglia."
"Speriamo
che non abbia riportata alcuna ferita" ripose Morgan, la cui voce era un
po' alterata. "Ci vorrebbe del fuoco, innanzi tutto."
"Ho
l'acciarino e l'esca chiusi in una scatola di metallo impenetrabile
all'umidità! Vediamo se tutto è asciutto."
"Sbrigati,
Carmaux. Sono inquieto."
"Batte il
suo cuore?"
"Sì."
"Non sarà
nulla, signor Morgan. l'esca è ben secca e non è entrata una sola goccia
d'acqua nella scatoletta."
"Raccogli
dei rami secchi mentre io preparo un giaciglio."
Morgan depose
dolcemente la fanciulla, poi, avendo ancora al fianco la spada, tagliò otto o
dieci foglie di banano e ne formò uno strato, che rese più soffice con dei
muschi strappati dal tronco d'un albero enorme.
Carmaux
intanto aveva raccolto a tentoni delle foglie secche e dei rami ed aveva
improvvisato un piccolo falò, accendendolo senza troppa fatica.
Appena la
fiamma s'alzò, rompendo le tenebre, fu vista la fanciulla alzare un braccio,
come se cercasse di allontanare qualche cosa.
Morgan aveva
mandato un grido di gioia:
"Ritorna
in sé!... Signora Jolanda!... Signora di Ventimiglia!..."
La fanciulla
aveva ancora gli occhi chiusi ed il suo bel viso era pallidissimo, però la
respirazione da qualche istante era diventata più libera.
"Signora...
signora... siete salva" ripeteva Morgan, che le stava curvo sopra, spiando
ansiosamente ogni suo minimo movimento. "Siamo sulla costa!..."
A un tratto la
fanciulla si scosse ed i suoi begli occhi si aprirono, fissandosi su Morgan.
"Voi...
signore..." mormorò.
"Sì, sono
io, Morgan..."
Un sorriso
sfiorò le labbra della figlia del Corsaro Nero e la sua destra strinse quella
del filibustiere.
"L'onda...
me la ricordo... ma sono ancor viva?..."
"Siete
ferita, signora?"
"No... ho
urtato... è vero... quando l'onda mi trascinava via... e la nave? e gli
altri?..."
"Non
pensate al veliero" disse Morgan. "Suppongo che si sia arenato in
qualche luogo."
"Ah!..."
esclamò la fanciulla, vedendo presso di sé il francese. "Siete voi,
Carmaux?"
"Dove si
trova la figlia del mio capitano, mi trovo sempre anch'io" rispose il
marinaio, sorridendo.
"Ma
dunque tu non sei stato trascinato dall'onda?" disse Morgan.
"Mi ero
già aggrappato alle griselle di babordo dell'albero maestro, quando vidi voi
fuori dal bordo colla signora di Ventimiglia ed allora mi sono lasciato andare
anch'io, pensando di potervi essere utile, tanto più che avevo potuto staccare
un salvagente."
"Grazie,
vecchio mio" disse Morgan con voce commossa. "Tu sei un marinaio
impareggiabile."
"Sono un
marinaio del Corsaro Nero" rispose modestamente Carmaux.
I
naufraghi
Per il resto
della notte, i due filibustieri e la signora di Ventimiglia, che si era
prontamente rimessa, non avendo riportata alcuna ferita, lo passarono accanto
al fuoco per asciugarsi le vesti, non osando allontanarsi dalla costa.
D'altronde,
prima di prendere una qualche decisione, volevano sapere che cosa era avvenuto
del veliero, che era scomparso fra le tenebre e non si era più vista. Non
credevano che fosse andato a picco, quantunque ormai quasi pieno d'acqua; era
più probabile che si fosse arenato in qualche altro punto della costa o sui
bassifondi che Pierre le Picard aveva segnalati, pochi minuti prima che quel
terribile colpo di mare si rovesciasse sulla poppa.
Se il veliero
si fosse spaccato a breve distanza, certo le grida dei naufraghi sarebbero
giunte agli orecchi di Morgan e del suo compagno, malgrado l'incessante
frastuono delle onde.
Un ardente
desiderio di conoscere la sorte toccata alla disgraziata nave aveva tormentato
incessantemente Morgan ed il francese, sicché, appena i primi albori ebbero
fugate le tenebre, furono lesti a dirigersi verso i paletuvieri, colla speranza
di scoprirla.
Fu un crudele
disinganno: la nave era scomparsa!...
"Che sia
andata a picco?" chiese Carmaux, che pensava al suo amico Wan. "Che
cosa ne dite, signor Morgan?"
"Se fosse
naufragata si vedrebbero dei rottami" rispose il filibustiere, che
osservava attentamente le onde che si accavallavano ancora violentemente,
rovesciandosi verso la spiaggia. "Vedi tu delle casse, dei barili, dei
pennoni o dei pezzi di murata?"
"No,
signore."
"E
nemmeno io" disse Jolanda che li aveva raggiunti. "Vedo laggiù una
punta che si protende verso il nord-est" disse Morgan. "Può darsi che
le onde l'abbiano spinta dietro quel capo."
"Mi
rincrescerebbe che il mio amico Wan Stiller si fosse sommerso senza di
me."
"Appena
potremo, ci spingeremo verso quella punta" disse Morgan.
"Capitano"
disse Jolanda, "sapete dove siamo naufragati?"
"Sulla
costa venezuelana, signora, ma dove precisamente, non ve lo saprei dire."
"Hanno
delle città qui gli spagnoli?"
"Sì, e
non poche, quantunque assai lontane le une dalle altre. Preferisco però
evitarle con somma cura."
"Come
farete allora a tornare alla Tortue?"
"Non lo
so, signora; per ora non pensiamo a ciò. In qualche modo ce la caveremo, è vero
Carmaux?"
"Un
filibustiere trova sempre il modo di tornarsene a casa."
"Potresti
intanto offrirci qualche cosa, vecchio mio. Le foreste del Venezuela non
mancano di risorse."
"Non ho
che il mio coltello di manovra, signor Morgan."
"Ed io la
spada e la mia pistola che non prenderà certamente fuoco. Magro armamento, se
troveremo gli indiani."
"Ve ne
sono qui?" chiese Jolanda.
"I
Caraibi sono numerosi su queste coste e vi sono anche delle tribù che hanno
ancora l'usanza di divorare i prigionieri di guerra. Dovremo guardarci da loro.
Convinti di
poter ben presto ritrovare i loro camerati, lasciarono la spiaggia e si
avviarono verso il margine della foresta, che formava come una immensa muraglia
di verzura e che, a prima vista, sembrava impenetrabile.
Quelle terre
bagnate dalle acque del golfo del Messico, irrigate da fiumi giganti e
benedette dal sole, sono di una fertilità prodigiosa e lo sviluppo che
viprendono le piante è straordinario.
Basta che una
piantagione venga trascurata per poche settimane, perché sia subito invasa da
un caos di piante che crescono quasi a vista d'occhio. Dopo un anno, una vera
boscaglia copre ogni cosa e fa sparire ogni traccia di coltivazione.
La foresta che
copriva tutta la costa, e che, molto probabilmente, si estendeva per un tratto
immenso anche nell'interno, esistendo in quell'epoca un gran numero di foreste
vergini nell'America Meridionale, pareva che fosse costituita, almeno sul
margine, da due sole qualità di piante: da palmizi e da bombax.
Infatti, fin
dove si estendeva lo sguardo, non si scorgevano che le foglie verdi cupe dei
primi, disposte come immensi ciuffi all'estremità di fusto non molto alti né
molto grossi e assai diritti, e quelle più chiare e meno lunghe dei secondi,
che avevano tronchi più grossi e biancastri ed i rami coperti di frutta irte di
spine, che sono poi così dure da potersi adoperare come chiodi.
Sotto quelle
vôlte di verzura, strette le une alle altre, ritte o aggrovigliate come
serpenti, o giacenti al suolo, si scorgevano ammassi di piante parassite, di
liane, di racchette che danno una specie di fichi di Barberia e di gambi
sarmentosi di niku, dalla scorza bruna e lucente.
Fra i rami
strillavano a piena gola dei macachi, scimmie voracissime e ghiottissime, e
svolazzavano dei tucani dal becco enorme e dei cassichi che facevano dondolare
i loro nidi in forma di borse.
In lontananza
un onorato, appollaiato sulla cima del più alto palmizio, lanciava con una
monotonìa noiosa le sue note musicali: do... mi... sol... do...
"La
colazione non mancherà" disse Carmaux, dopo d'aver dato uno sguardo alle
piante.
"Forse
quelle frutta spinose?" chiese Jolanda.
"Buone
appena per le scimmie quelle, signora." rispose Morgan. "I formaggeri
non sono d'alcuna utilità per gli uomini e sopratutto per gli affamati."
Quelle piante
dalla scorza biancastra si chiamano anche così e non già perché producano del
formaggio, ma per il loro legno che è bianco e poroso"
"E gli
altri?" chiese Jolanda.
"Sono
cavoli palmisti, è vero, Carmaux?"
"Sì,
signore, ed è un vero peccato non avere qualche animale da mettere allo spiedo,
avendo il pane ormai assicurato."
Anche
l'arrosto stava per offrirsi da sé."
Un grido
strano, che pareva emesso da una trombetta, era echeggiato a breve distanza.
"Che
cos'è?" chiese Jolanda, stupita.
"Un
segnale degl'indiani?" chiese Morgan, sfoderando rapidamente la spada.
"È
arrosto che si annuncia" disse Carmaux ridendo. "Buon uccello
l'agami. Rincresce ucciderlo, ma il ventre non ragiona. Signor Morgan, datemi
la vostra spada."
Un bel
volatile, grosso come un gallo, colle gambe lunghissime, colle penne nere sul
collo e sulle ali, a riflessi azzurro dorati sotto il ventre e rossastri sul
dorso, era balzato fuori da un cespuglio, salutando i naufraghi con un allegro
strombetto.
Quel grazioso
uccello non dimostrava alcun timore per la vicinanza di quelle tre persone,
anzi le guardava a testa alta, starnazzando le ali e continuando la sua
rumorosa fanfara.
"Non
scappa no quel bravo uccello" disse Carmaux, vedendo che Morgan cercava
qualche pezzo di ramo per lanciarglielo addosso, colla speranza di abbatterlo.
"Lasciate
fare a me, capitano."
Vedendo a
qualche passo un calupo diavolo, pianta che produce dei semi che si ritengono
ottimi contro i morsi dei serpenti, specialmente se messi in infusione
coll'acquavite, sgusciò alcuni di quei granelli e li gettò al volatile, il
quale si mise a beccarli tranquillamente.
"Vedete
come si familiarizza subito colle persone" disse Carmaux. "Mi
rincresce, lo ripeto, ma non abbiamo di meglio."
Mentre con una
mano continuava a gettare semi, coll'altra aveva impugnata la spada datagli da
Morgan e, lentamente, s'accostava al povero uccello, il quale non si accorgeva
del pericolo.
A un tratto la
lama scintillò in aria e l'agami, decapitato di colpo, stramazzò fra le foglie
secche, sbattendo le ali.
"Ah!
Poveretto!" esclamò Jolanda. "Tradire così la sua fiducia."
"Combattiamo
la lotta per l'esistenza, signora" rispose Morgan. "Occupati del pane
ora, vecchio mio, mentre io preparo l'arrosto."
Aiutato dalla
fanciulla fece raccolta di rami e riaccese il fuoco, poi si mise a
spennacchiare il volatile, mentre Carmaux, aiutandosi colle liane, dava la
scalata ad uno dei più grossi palmizi.
Pochi minuti
dopo un rumore di fronde scosse e di rami schiantati annunciava a Morgan che
anche il pane era assicurato.
Pane veramente
non era, poiché i cavoli palmisti non hanno nulla a che fare cogli artocarpi
che danno una pasta, che se non somiglia precisamente a quella che si ricava
dalla farina, ne fa benissimo le veci, quantunque abbia un gusto che la fa
piuttosto rassomigliare a quello di certe specie di zucche e del gambo dei
carcioffi.
I palmisti
producono invece una mandorla mostruosa, lunga talvolta quasi un metro e grossa
anche come la gamba d'un uomo, bianca, liscia, di sapore eccellente e che per
gl'indiani fa le veci della cassava, ossia delle gallette di manioca, quando
questo tubero manca.
Carmaux, che
era disceso, si era subito messo a scortecciare la mandorla, quando ai suoi
orecchi giunse un rumore di foglie e di rami, come se qualcuno cercasse di
aprirsi il passo fra le piante.
"Signor
Morgan, all'erta!" gridò, balzando in piedi e porgendogli la spada.
"Pare che qualcuno si avvicini."
"Qualche
animale?" chiese il filibustiere, gettandosi prontamente dinanzi a
Jolanda.
"Non lo
so, signore" rispose il marinaio, raccogliendo da terra un grosso ramo che
poteva servirgli da randello. "Mi pareva che qualcuno corresse fra le
piante."
"Io non
odo nulla; e voi, signora Jolanda?"
"Nemmeno"
rispose la fanciulla.
In quel
momento i rami d'un folto cespuglio s'erano aperti e due indiani erano comparsi
improvvisamente, impugnando un lungo arco di due metri e delle freccie pure
lunghissime, munite all'estremità d'una spina acutissima.
Erano quasi
nudi, di statura piuttosto alta, colla pelle bruno-rossiccia, solcata da strane
pitture fatte col succo di genipa, i capelli neri, grossolani e lunghissimi, e
gli occhi assai foschi.
Attorno alle
reni portavano un piccolo gonnellino di fibre vegetali ed al collo ed ai polsi
collane e braccialetti di denti d'animali feroci e di artigli di giaguaro o di
coguaro, con qualche scaglietta di tartaruga.
Vedendo i
naufraghi, si erano arrestati guardandoli con una certa curiosità, senza però
manifestare, almeno per il momento, alcuna intenzione ostile, poi uno dei due
che portava infisso nei capelli il becco d'un tucano, fece qualche passo,
dicendo in cattivo spagnolo:
"Che cosa
fanno qui gli uomini bianchi?"
"Siamo
naufragati la scorsa notte" rispose Morgan, che copriva sempre, col
proprio corpo, Jolanda. "E voi chi siete?"
"Caraibi"
disse l'indiano.
"Come mai
conosci lo spagnolo, tu?"
L'indiano
prese un atteggiamento fiero, poi con un gesto maestoso disse:
"Io sono
Kumara, il più valente guerriero della tribù, che ha uccisi molti nemici e che
ha veduto la grande città degli uomini venuti colle grandi piroghe dalla parte
ove il sole si leva. Io conservo nella mia capanna la collana di metallo bianco
che mi ha dato il capo dei volti bianchi. Kumara è un grande guerriero."
L'indiano,
terminata la sua presentazione, si era appoggiato all'arco, sporgendo il petto
e alzando la testa più che poteva in una posa eroicomica, che fece sorridere i
naufraghi.
"Signor
Morgan," disse Carmaux "aspetta la nostra risposta."
"T'incarico
di fare la mia presentazione" rispose il filibustiere.
"Sarà tremenda."
Fece a sua
volta due passi innanzi e alzando minacciosamente il randello come se volesse
spaccare il groppone a qualcuno, gridò con voce tuonante, indicando Morgan:
"L'uomo
che tu vedi è il capo d'una immensa tribù, che non è stata mai vinta nemmeno
dagli spagnoli. Ha un numero infinito di grandi piroghe, di tubi che scatenano
il fulmine e che uccidono a grandi distanze e può dominare, con un gesto, i
venti e le tempeste. Il suo braccio è invincibile e la spada che stringe ha
tagliate più teste di quanti sono gli alberi di questa foresta. Egli è il più
grande guerriero dei paesi dove il sole si leva."
"Non
mancava altro che mi proclamasse un nume" disse Morgan, ridendo.
I due indiani
avevano ascoltato in silenzio le spacconate di Carmaux, conservando una serietà
assoluta.
"Le mie
parole hanno fatto colpo" disse Carmaux. "Eccoci diventati
invincibili."
"Se vi
avranno creduto" disse Jolanda.
"Oh!
Bevono grosso quelle genti" rispose il marinaio. L'indiano che portava sui
capelli il becco di tucano, scambiò col compagno alcune parole, poi s'avanzò
verso i naufraghi, dicendo:
"Voi che
siete uomini così potenti, permetteteci di metterci sotto la vostra
protezione."
"Vi
minaccia qualcuno forse?" chiese Morgan.
"Sì, i
guerrieri Oyaculè" rispose l'indiano che si chiamava Kumara, guardandosi
paurosamente intorno.
"Chi sono
costoro?"
"Degl'indiani
assai cattivi, che ammazzano i prigionieri di guerra e che ci hanno sorpresi
stamane presso le rive d'una savana, mentre attendevamo a cacciare un maipuri
(tapiro)."
"Sono
uomini che hanno la pelle quasi bianca come la vostra, il naso ricurvo una barb
lunga" rispose Kumara. "Abitano le grandi foreste dell'interno e di
quando in quando fanno delle scorrerie fino sulle rive del mare, per
saccheggiare e devastare i nostri villaggi."
"Erano
molti quelli che ti hanno assalito?" chiese Morgan.
"No,
sette od otto" rispose l'indiano.
"Con
archi e frecce?"
"E anche
con delle pesanti vanaya."
"Che cosa
sono?"
"Delle
mazze di legno del ferro, di forma quadrangolare, che essi adoperano con
un'abilità veramente straordinaria."
"Vi hanno
inseguiti?"
"Sì."
"Che
siano vicini?"
"Non lo
so" rispose l'indiano. "Da un'ora li abbiamo perduti di vista."
"E non
aver nemmeno un fucile" disse Morgan, gettando uno sguardo inquieto su
Jolanda, la quale, quantunque avesse tutto compreso, conoscendo benissimo lo
spagnolo, conservava la sua solita calma.
"Avete la
pistola, signor Morgan?" disse Carmaux.
"Con due
soli colpi e la polvere bagnata."
"L'asciugheremo
e serberemo quei due colpi per le grandi circostanze."
"Facciamo
colazione in fretta, poi sgombriamo" disse il filibustiere. "Se
troviamo i nostri compagni, non avremo più nulla da temere da quei selvaggi.
Sedetevi signora di Ventimiglia, e non preoccupatevi per ora."
"Presso di
voi mi sento sicura" rispose la fanciulla.
Essendo il
volatile cotto, lo divisero, dandone un pezzo ai due indiani e tagliarono la
colossale mandorla che fu assai gustata da tutti.
Mentre
mangiavano, Kumara narrò loro che egli ed il compagno appartenevano ad una
grossa tribù di Caraibi, che avevano il loro villaggio sulle rive d'un profondo
golfo, non molto lontano da quel luogo e che egli era uno dei capi più
rispettati e più stimati.
Terminarono la
colazione senza essere stati disturbati.
Probabilmente
gli antropofagi avevano smarrite le traccie dei due indiani, o disperando di
poterli raggiungere, si erano ritirati nelle loro impenetrabili foreste.
"Sloggiamo"
disse Morgan, aiutando Jolanda ad alzarsi. "Andremo a vedere quella punta,
giacché io suppongo che la nave molto facilmente si sia sfasciata al di
là."
"E se
fosse andata a picco con tutti quelli che la montavano?" chiese la
fanciulla.
"Sarebbe
una grave disgrazia" rispose Morgan. "Come ritornereste alla
Tortue?"
"Non ci
rimarrebbe che tentare la traversata del golfo su una piroga indiana,
un'impresa pericolosa è vero, signora, ma io sono ben deciso a non finire qui i
miei giorni" rispose il filibustiere con accento risoluto.
"Non si
spingono fino su queste spiagge i corsari della Tortue?"
Preceduti dai
due indiani, che si sentivano più sicuri presso gli uomini bianchi e che non
osavano rientrare nella foresta per paura d'incontrare gli Oyaculè, che
ispiravano loro un terrore invincibile, si misero in marcia seguendo il margine
della foresta.
Essendo il
vento di tramontana cessato, le onde a poco a poco si erano calmate, invece la
risacca si faceva sentire sempre violentissima su quelle spiaggie, a causa dei
numerosi bassifondi e scoglietti che la proteggevano.
Nessun rottame
appariva fra i cavalloni che indicasse essere colà naufragata una nave;
piuttosto il veliero doveva essere stato respinto al largo e trascinato al di
là del capo dove probabilmente si era sfasciato.
Gli alberi
della foresta a poco a poco variavano. Di quando in quando fra i palmizi
apparivano enormi gruppi di banani dalle foglie immense, dei simaruba che hanno
proprietà toniche, sia nella scorza che nelle radici e sotto cui si nascondono,
se si deve credere agl'indiani, le testuggini terrestri; e di bambù colossali,
così grossi che gl'indigeni se ne servono per costruire delle belle canoe così
resistenti da sfidare le scuri meglio affilate.
Bande di
tucani dalle penne multicolori e dal becco enorme, d'una bella tinta gialla,
svolazzavano assieme a numerosi pappagalli, mentre fra i cespugli fuggivano
delle lucertole mostruose dai fianchi di smeraldo, orribili a vedersi e che
nondimeno sono pregiatissime per la loro polpa bianca che somiglia anche, per
sapore, a quella delicata dei polli.
I due indiani,
quantunque abituati ad attraversare i boschi, procedevano con precauzione,
guardando attentamente dove posavano il piede e frugando prima, colla punta dei
loro archi, le foglie secche e le alte erbe, per non venire morsi dai serpenti
che sono numerosissimi in quelle regioni o dalle grosse formiche che producono
dei dolori atroci e anche la febbre, specialmente quelle chiamate fiamminghe,
che sono le più tremende di tutte.
Già avevano
veduto più d'un rettile fuggire fra le foglie e uno, tutto nero, si era rizzato
dinanzi a loro mandando un sibilo acutissimo e tentando di morderli. Era stato
un ay-ay, uno dei più pericolosi, essendo il loro veleno così potente da
causare la morte in pochi istanti.
Un'ora dopo il
drappello, superato un bosco di enormi passiflore, che copriva quella penisoletta
che si protendeva verso il mare per alcune centinaia di metri, giungeva sulla
spiaggia opposta.
Un grido era
subito sfuggito a Morgan:
"Dei
rottami!... La nave si è sfasciata!..."
L'assalto
degli Oyaculè
I naufraghi
erano giunti sulle rive d'un vasto golfo che s'addentrava assai nella costa
coperta da foreste.
Fra i
cavalloni che si frangevano contro le scogliere, avevano scorto un gran numero
di rottami.
In mezzo alla
spuma ondeggiavano antenne, pezzi di fasciame e di ponte, casse e barili che si
urtavano rumorosamente fra di loro.
Alcune enormi
travi, strappate forse alle ruote di prora e di poppa dello scafo, si erano
arenate fra i paletuvieri, e al rifluire della marea erano rimaste in secco fra
i loro rami contorti.
Se i rottami
erano abbondanti, mancavano assolutamente gli uomini. La spiaggia, fin dove
giungevano gli sguardi, era deserta e anche in acqua non si scorgeva alcun
cadavere, cosa inesplicabile, considerato il gran numero di persone che si
trovavano a bordo del veliero nel momento in cui le onde ed il vento lo
spingevano verso i bassifondi.
"Possibile
che si siano tutti annegati!..." esclamò Morgan, con voce alterata.
"C'erano fra i nostri uomini dei valenti nuotatori, che non avevano paura
dei cavalloni. Che cosa ne dici, Carmaux?"
"Apparterranno
alla nostra nave questi rottami?" chiese invece il marinaio.
"Che cosa
volete dire, Carmaux?" domandò Jolanda.
"Che
potrebbero appartenere anche alla fregata che noi abbandonammo dopo
l'abbordaggio."
"E la
nostra nave?" chiese Morgan. "Dove vuoi che sia finita? Andiamo a
vedere quelle travi" disse Morgan, che era diventato pensieroso.
Aprendosi il
passo fra i paletuvieri, giunsero ben presto là dove le onde avevano spinto
quegli avanzi, e trovarono fra le sabbie parecchi altri rottami, fra cui un
affusto di cannone, mancante del pezzo.
Morgan vi si
era precipitato sopra, non ignorando che le bocche da fuoco ordinariamente
portavano dipinto il nome della nave a cui appartenevano.
"Hai
ragione, Carmaux!" gridò. "Questi avanzi appartengono alla fregata.
Ecco qui sull'affusto il suo nome."
"Ma
dunque che cosa è accaduto del veliero?" chiese Jolanda.
"Io non
oso rispondervi, signora" disse Morgan, la cui fronte si era oscurata.
"Temo che sia successa una catastrofe"
"Allora
voi credete che la nostra nave si sia inabissata?" chiese Jolanda con voce
commossa.
"I miei
uomini devono riposare tutti in fondo al mare; ecco la mia opinione, signora.
La nave deve essere stata respinta al largo, forse a molta distanza dalla
costa, e poi inghiottita."
"Ah!...
Mio povero Wan!" gemette Carmaux. "Andarsene senza di me!..."
"Noi non
abbiamo ancora alcuna prova che quella nave si sia sommersa" disse
Jolanda.
"Era
piena d'acqua, signora, ed a meno d'un miracolo, non può essere sfuggita alla sorte
che lo attendeva. Credo che a noi non rimanga che di occuparci dei casi
nostri."
"Che cosa
intendete di fare, signor Morgan?"
"Giacché
la fortuna ci ha mandati questi due indiani, seguiamoli alla loro tribù"
rispose il filibustiere. "Là almeno troveremo per il momento un rifugio e
una protezione. Non dimentichiamo che in queste foreste si aggirano gli
Oyaculè."
"Come ci
accoglieranno quegl'indiani?"
"I
Caraibi non sono cattivi, quando non si provocano" rispose Carmaux.
"Io li conosco per averli frequentati con vostro padre."
Morgan interpellò Kumara.
"Domani
sera potremo giungere al villaggio, se gli Oyaculè non ci arresteranno"
rispose l'indiano. "Abbiamo lasciata la nostra piroga su un fiume che
sbocca in una savana, nascosta fra le larghe foglie dei mucumucù e può darsi
che i nostri nemici non l'abbiano scoperta."
"È
lontana quella savana?"
"Tre ore
di marcia."
"Purché
quei maledetti Oyaculè non ci aspettino colà" disse Carmaux. "Amo
poco aver da fare con quei selvaggi, specialmente quando non ho fra le mani il
mio archibugio."
"Potremmo
venire egualmente sorpresi, anche rimanendo qui" rispose Morgan.
"D'altronde, non sono che otto e la polvere della mia pistola si è bene
asciugata con questo calore ardente. Tengo dunque la vita di due uomini e poi
ho la spada. Vuoi guidarci?" chiese poi all'indiano che aveva il becco del
tucano.
"Cogli
uomini bianchi io non ho paura" rispose Kumara. "Sono dei forti
guerrieri."
Si misero in
cammino, preceduti dai due indiani, che si tenevano l'uno dietro l'altro,
coll'arco in mano e le freccie pronte ad essere scagliate.
I tre
naufraghi erano tristi e molto preoccupati, specialmente Morgan, il quale oltre
ad aver perduti tutti i suoi fedeli compagni ed il frutto dell'audacissima spedizione,
si trovava senza nave e senza aiuti e con molte probabilità di cadere nelle
mani dei selvaggi o degli spagnoli, assieme alla fanciulla che aveva giurato di
salvare.
Anche Carmaux
aveva perduta la sua consueta allegria, pensando alla miseranda fine del suo
inseparabile compagno, il povero amburghese.
Man mano che
s'inoltravano nella grande foresta, la marcia diventava sempre più penosa.
Si trovavano
come impacchettati fra una vegetazione troppo esuberante, che aveva invasi i
più piccoli lembi di terra. A destra, a sinistra, dinanzi e dietro,
s'intrecciavano confusamente passiflore, liane, sarmenti di pimento, noci
moscate selvatiche, alberi del pepe, cedri del Venezuela, alberi del cotone
carichi di fiori gialli e porporini, gruppi di euforbie, cactiformi irti di
spine e di baspa butirracee, così chiamate perché si estrae da quelle piante
una specie di burro assai apprezzato dagl'indiani.
Fra quel caos
di rami e di foglie non si vedeva alcun volatile, nondimeno di quando in quando
il silenzio che regnava nella foresta veniva improvvisamente rotto da urla
assordanti e da muggiti formidabili che facevano arrestare di colpo i tre
naufraghi, credendo che fossero i temuti antropofagi che si preparassero ad
assalirli.
Erano invece
alcune truppe di scimmie rosse che si divertivano a dare una prova della
solidità dei loro polmoni o meglio del loro gozzo. Quei quadrumani sono
straordinariamente abbondanti nelle foreste del Venezuela e delle vicine
Guiane, e per potenza di voce possono gareggiare coi barbado brasiliani.
Si raccolgono
fra i rami d'un grosso albero e là gonfiano i loro gozzi, che sono grossi come
un uovo di tacchino, mandando degli hon-hon e dei muggiti così formidabili da
udirsi facilmente alla incredibile distanza di cinque chilometri.
Se quelle
scimmie erano inoffensive, altri pericoli minacciavano il drappello, il quale
era costretto ad avanzarsi colla massima prudenza.
Di quando in
quando fra le foglie secche, che formavano degli strati altissimi, si vedevano
uscire certi formiconi lunghi un centimetro e mezzo, neri, lucenti, coll'addome
gonfio, che subito si rizzavano per mordere i piedi nudi dei due indiani e che
non davano indietro.
Morgan, che
aveva già percorso altre volte le foreste dell'America Meridionale,
specialmente quelle delle Guiane e della Colombia, e che sapeva quanti pericoli
nascondono, vegliava attentamente su Jolanda, badando dove posava i piedi e
frugando le erbe e le foglie colla punta della spada, per paura che
nascondessero qualche formidabile trigonocefalo o qualche serpente corallo, dal
morso senza rimedio, od un serpente liana, tutti rettili che abbondano
straordinariamente in quelle regioni e che sono assai aggressivi.
E non guardava
solamente verso terra. Seguendo l'esempio dei due indiani, scrutava anche il
fitto fogliame delle piante, potendo piombare improvvisamente sulla fanciulla
qualcuno di quegli enormi rettili chiamati pitoni, che posseggono una forza da
stritolare senza difficoltà l'uomo più robusto o qualche coguaro, amando questi
sanguinari animali tenersi nascosti fra i rami per meglio sorprendere la preda.
Camminavano da
un paio d'ore, sempre inoltrandosi con grandi difficoltà, nella foresta, quando
un grido acuto ruppe improvvisamente il silenzio che regnava in quel momento
sotto le vôlte di verzura, arrestando di colpo i due indiani.
"Che cosa
c'è?" chiese Morgan, mettendosi prontamente dinanzi alla fanciulla ed
impugnando la pistola, mentre Carmaux le si poneva dietro, facendo un rapido
dietro fronte.
"Avete
udito?" chiese Kumara.
"Il grido
di qualche animale pericoloso?"
"No,
d'una bernaca."
"Ne so
meno di prima."
"Di
un'oca selvatica" disse l'indiano.
"E ti
spaventi d'un simile volatile?"
"Dove si
trova una capanna vi si trovano sempre di quelle oche, ma non è ciò che mi
preoccupa."
"Quale
altro motivo dunque?"
"Quel
grido non mi parve naturale e anche Jay, il mio compagno, è del medesimo
avviso."
"Che sia
stato qualche segnale?"
"È quello
che noi sospettiamo, signor uomo bianco" disse il caraibo.
"Fatto da
qualche Oyaculè?" chiese Carmaux.
"Non vi
sono tribù amiche qui."
"Puoi
esserti ingannato" disse Morgan.
Kumara scosse
il capo, poi disse:
"Un
caraibo non s'inganna mai."
"È
lontana la savana?"
"Deve
essere anzi vicinissima."
"Se
vogliono assalirci ci piomberanno egualmente addosso, sia qui che più innanzi"
disse Morgan a Jolanda. "Tenetevi presso di me, signora, e prendete la mia
pistola, a me la spada basta."
I due indiani
si consultarono a bassa voce, provarono l'elasticità dei loro archi, dando ad
ognuno un giro di corda onde avessero una portata maggiore, poi partirono in
silenzio, guardando l'uno a destra e l'altro a sinistra.
La foresta
cominciava allora a diradarsi un po' ed a diventare umidissima. In mezzo alle
piante si udivano scrosciare dei torrentelli che pareva scorressero tutti verso
un'unica direzione.
I due indiani
ascoltavano sempre e alzavano di frequente gli occhi, come se cercassero la
bernaca che aveva mandato quel grido; invece nessuna oca selvatica appariva.
Avevano
percorsi due o trecento passi, scivolando silenziosamente fra le passiflore che
ingombravano il suolo, quando tornarono a fermarsi, dicendo:
"Sentiamo
il fiume che si versa nella savana."
Infatti un po'
più innanzi, dell'acqua scrosciava. Pareva che un torrente rapidissimo si
aprisse il passo fra le piante.
"Dov'è il
tuo canotto?" chiese Morgan.
"Sul
fiume" rispose Kumara.
"M'avevi
detto nella savana."
"L'acqua
morta non è lontana."
Stavano per
riprendere le mosse, quando udirono ripetersi, e molto vicino, il grido della
bernaca.
I due indiani
si erano voltati rapidamente, tendendo gli archi.
"Ancora
il segnale?" chiese Morgan.
"Sì"
rispose Kumara. "Il grido dell'oca selvatica è stato molto bene imitato,
ma non c'inganna."
"Affrettiamoci
a raggiungere il fiume" disse Morgan. "Se possiamo trovare la vostra
piroga siamo salvi."
"Deve
trovarsi presso quell'albero" disse Kumara, indicando un bacaba, una
specie di palma vinifera dai cui rami pendevano dei fiori chermisini disposti a
festoni.
"Andate a
vedere, uomo bianco, mentre noi sorvegliamo la foresta col vostro compagno."
"Sì,
andate, capitano" disse Carmaux. "Mettete prima in salvo la signora
di Ventimiglia. "Affrettatevi, odo le fronde ad agitarsi."
Morgan si
spinse rapidamente innanzi, seguíto da Jolanda e giunse sulla riva d'un corso
d'acqua assai rapido, non più largo d'una mezza dozzina di metri, che scorreva
fra due vere muraglie di verzura.
Gli alberi
erano così immensi che congiungevano i loro rami e le loro foglie attraverso il
fiumicello, formando una vôlta quasi impenetrabile ai raggi del sole.
Morgan si
curvò sulla riva e scorse, semi-nascosto fra le larghe foglie dei mucumucu, uno
di quei canotti scavati nel tronco d'un bambù gigante, chiamati montarias,
armato di quattro pagaje dalla pala assai larga ed il manico molto corto.
"Eccola
la piroga!" gridò. "Presto, signora, imbarcatevi."
Aiutò la
fanciulla a scendere la riva che era molto ripida e coperta di arbusti spinosi
e la fece imbarcare nel canotto.
Stava per
risalire onde chiamare i compagni, quando delle urla spaventevoli scoppiarono
nella foresta.
"Signor
Morgan" udì a gridare Carmaux. "Salvate la signora!...
Fuggite!..."
Invece di
obbedire, il filibustiere si spinse fino sulla cima della sponda e vide Carmaux
ed i due indiani fuggire a precipizio verso il folto della foresta, inseguiti
da sette od otto uomini semi-nudi, di statura altissima, col viso adorno di
lunghe barbe e che lanciavano delle freccie con rapidità prodigiosa.
"Gli
Oyaculè!..." esclamò. "Qui, Carmaux, qui!... Il canotto!... Il canotto!..."
Era troppo tardi,
poiché gli antropofagi, forse senza volerlo, si erano gettati fra i fuggiaschi
ed il fiume, impedendo così loro di salvarsi nella piroga.
Udendo le
grida di Morgan, tre uomini si staccarono dal gruppo e gli lanciarono contro
alcune freccie, senza riuscire a colpirlo.
Il
filibustiere, comprendendo che ormai non poteva più contare sui suoi compagni,
con due salti raggiunse il fiume e si gettò nel canotto, gridando alla
fanciulla che aveva armata risolutamente la pistola:
"Gettatevi
nel fondo della piroga, signora!... Vengono!..."
Poi, mentre
Jolanda obbediva, prese due pagaie e, strappata la corda, si spinse al largo
remando affannosamente.
Si era
allontanato di una decina di metri, quando i tre selvaggi che gli si erano
volti contro, comparvero sulla riva.
Tre freccie
sibilarono, seguìte da un grido di dolore. Due si erano piantate sul bordo, la
terza invece, meglio diretta, si era conficcata profondamente nel petto del
filibustiere, quasi all'altezza della spalla destra.
Jolanda, che
lo aveva veduto strapparsi furiosamente il sottile cannello di bambù e che
aveva udito il suo grido di dolore, si era alzata di colpo e scorgendo i tre
selvaggi che stavano per tendere nuovamente gli archi, scaricò sul più vicino
un colpo di pistola.
L'antropofago,
colpito alla testa, rotolò giù per la riva sbattendo pazzamente le braccia e
piombò in acqua, affondando subito.
Gli altri due,
spaventati dallo sparo, forse il primo che udivano, e dalla morte fulminea del
loro compagno, risalirono precipitosamente la riva scomparendo fra le piante.
La fanciulla,
che era diventata pallidissima, s'accostò a Morgan il quale, non ostante il
dolore intenso che doveva produrgli la ferita, continuava ad arrancare con
suprema energia.
"Non sarà
cosa grave, signora" disse il filibustiere cercando di sorridere. "La
punta è rimasta nella carne, e più tardi la estrarremo."
"Mio Dio,
e se la punta fosse avvelenata!..."
"Non
conoscono i veleni questi selvaggi, rassicuratevi, signora Jolanda. Prendete le
pagaie e aiutatemi meglio che potrete. È necessario allontanarci prima che quei
furfanti ricompariscano. Oh!... Voi tirate meravigliosamente!...
Grazie!..."
"Vedo il
sangue trapelare attraverso la vostra giubba. Permettete che vi fasci la
ferita."
"Più
tardi... lasciate che coli... presto, signora... possono giungere a crivellarci
di freccie."
La fanciulla,
comprendendo che non sarebbe riuscita ad indurre il fiero corsaro a lasciarsi
fasciar la ferita e, temendo che gli antropofagi ricomparissero e tornassero
per dargli il colpo di grazia, prese le altre due pagaie e si mise a remare per
aiutarlo.
Era
profondamente commossa e voltava ad ogni istante il capo verso il filibustiere,
chiedendogli con premura:
"Volete
riposarvi, signor Morgan? Lasciate a me la cura di condurre il canotto. So
guidare una scialuppa."
"No,
signora, più presto, più presto" rispondeva Morgan.
Il fiume
fortunatamente aveva una corrente rapidissima ed i fuggiaschi si allontanavano
veloci. Era, più che un fiume, una specie di torrente, dalle acque pesanti e
quasi nerastre, sature di miasmi prodotti dal corrompersi delle foglie che
trasportava ed incassato fra i due margini della foresta fra i quali si era
aperto violentemente il passo.
Sotto la vôlta
di verzura che lo copriva intensamente, non soffiava il minimo alito d'aria e
regnava una temperatura da stufa, che faceva sudare prodigiosamente i due
remiganti.
Quella vôlta
invece li preservava dai colpi di sole che sono così frequenti in quelle
regioni quasi equatoriali, dal mezzodì alle quattro e quasi mai perdonano.
Morgan, quantunque
soffrisse assai per la punta della freccia che gli era rimasta conficcata nelle
carni, e sebbene continuasse a perdere sangue non cessasse di colare, resisteva
tenacemente, senza che gli uscisse dalle labbra un solo lamento.
Aveva però la
fronte bagnata da un freddo sudore e lo si vedeva stringere i denti, per non
lasciarsi sfuggire nessun grido di dolore.
Jolanda lo
secondava, manovrando energicamente le pagaie e cercando di mantenere il
canotto in mezzo al fiume, ma le sue inquietudini aumentavano, vedendo
formarsi, ai piedi del filibustiere, una chiazza di sangue che a poco a poco si
allargava.
"Basta,
signor Morgan" disse ad un tratto, sentendo che rallentava la battuta.
"Volete uccidervi? Lasciate a me la cura di condurre il canotto,
fasciatevi la ferita."
"Un
momento ancora, signora" rispose Morgan, con voce soffocata. "Vedo un
largo dietro di noi... deve essere la savana o qualche laguna..."
"Ve ne
prego..."
"Aspettate..."
"Ve
l'ordino, allora."
Il
filibustiere, che non si reggeva più, aveva ritirate le pagaie, comprimendosi
la ferita con ambe le mani.
Il canotto in
quel momento sboccava in una vasta laguna, ingombra di foglie di mucumucù e di
fasci di legno cannone dai fusti bianchi, lisci ed argentei.
Jolanda lo
spinse verso la riva più vicina, arenandolo su un banco limaccioso.
"Venite,
signor Morgan" disse, con voce commossa.
Il
filibustiere si era alzato, barcollando.
"È la
punta che mi lacera le carni" mormorò, tergendosi il sudore che gli
bagnava la fronte.
"Che sia
avvelenata?" chiese Jolanda, con terrore.
"No...
no..."
Scese sulla
riva, sorreggendosi sulla spada, ma giunto colà dovette appoggiarsi alla
fanciulla.
"Mio
povero amico, quanto dovete soffrire" disse Jolanda.
"Tutto
passerà" rispose il filibustiere, guardandola cogli occhi socchiusi.
"Legate il canotto, signora... la corrente può trascinarlo... E
Carmaux?... Dove sarà Carmaux?..."
Poi si ripiegò
bruscamente su sé stesso e si lasciò cadere sulla riva, mandando un sordo
gemito.
"Signor
Morgan!" gridò Jolanda, slanciandosi verso di lui per sorreggerlo.
"Non
spaventatevi, signora" rispose il filibustiere, rimettendosi prontamente.
"I corsari hanno la pelle dura."
Il
ferito
Il fiume si
riversava in una vastissima laguna o savana che fosse, interrotta qua e là da
banchi fangosi, su cui erano cresciuti rigogliosi mazzi di bambù, grossi quanto
il corpo d'un uomo e di manghi, i quali immergevano nelle acque le loro radici
contorte.
Le rive,
quantunque assai lontane, apparivano coperte da boscaglie che dovevano essere
foltissime, a giudicarle dalla enorme quantità di tronchi che si slanciavano a
grandi altezze, stendono in tutte le direzioni delle foglie mostruose.
Nessun canotto
scivolava fra le larghe foglie delle aninga e delle murici che coprivano vaste
zone d'acqua. Volavano invece in grossi stormi dei martini pescatori, dei
beccaccini e dei ciganas, specie di fagiani che difficilmente si allontanano
dalle rive dei fiumi o delle paludi.
Dopo essersi
assicurato che quel luogo era deserto e aver fatto legare il canotto, affinché
la corrente, che si faceva sentire abbastanza forte, non lo portasse via,
Morgan si sbottonò la casacca di grosso panno e la camicia di flanella,
mettendo allo scoperto la spalla destra, dove appariva uno squarcio, prodotto
dalla freccia, che dava sangue in abbondanza.
"Mio
povero amico" disse Jolanda, che guardava con visibile commozione la
ferita. "Quanto dovete soffrire!"
"Datemi
la spada, signora" disse Morgan.
"Che cosa
volete fare?"
"Allargare
la ferita per estrarre la punta che è rimasta nella carne."
"Mio
Dio!..."
"Bisogna
levarla, signora, o produrrà un'infiammazione pericolosa."
"Soffrite
assai."
"Non è la
prima freccia che mi colpisce. Sulle rive dell'Orenoco ne ho ricevuta un'altra.
Fortunatamente quest'indiani non hanno la triste abitudine d'avvelenarle, se no
a quest'ora non sarei più vivo."
"Aspettate,
signor Morgan" disse Jolanda.
"Che cos
volete fare?"
"Non
abbiamo nulla per fasciare la ferita."
"Ecco là
una pianta di cotone. Troverete al suolo delle capsule ben fornite di peluria.
Per fasciarla basterà una manica della mia camicia di lana.
"Andate,
signora Jolanda; è tempo di arrestare il sangue."
La fanciulla
aveva già osservata la pianta, che cresceva a cinquanta o sessanta passi dalla
riva, sul margine dell'immensa foresta.
Mentre si
allontanava, Morgan pulì la punta della spada sulla propria camicia, poi con
coraggio straordinario la cacciò delicatamente nella ferita allargandola,
finché trovò l'estremità inferiore della freccia. Afferrarla e strapparla
violentemente colle dita, fu l'affare d'un istante.
Il dolore però
era stato così intenso, che il disgraziato cadde all'indietro mezzo svenuto.
Quando la
fanciulla ritornò colle mani piene di cotone, Morgan non si era ancora rimesso
dall'atroce spasimo.
Giaceva
disteso sull'erba, cogli occhi socchiusi, pallidissimo, mentre il sangue usciva
a fiotti dalla ferita.
Nella mano
sinistra stringeva ancora, colle dita raggrinzate, la punta della freccia, una
spina d'ansara lunga un buon pollice, dalla punta acutissima e resistente
quanto un ago d'acciaio.
Vedendolo in
quello stato, la signora di Ventimiglia aveva mandato un grido d'angoscia:
"Signor Morgan!... Signor Morgan!..."
Il
filibustiere, a quel grido aveva riaperti gli occhi ed aveva tentato di
rialzarsi, senza riuscirvi. Le indicò la ferita, mormorando:
"Qui...
arrestate... la vita fuggirà... Non spaventatevi..."
Jolanda si era
inginocchiata presso di lui.
Con mano ferma
pulì la ferita da cui il sangue sfuggiva sempre, riunì delicatamente le due
labbra prodotte dalla spina, vi applicò una manata di bambagia, poi, strappato
un lembo del fazzoletto di seta che portava sul capo per difendersi dagli
ardori del sole, fasciò la piaga meglio che poté.
Morgan non
aveva mandato un lamento. Anzi le labbra del fiero scorridore del mare si erano
atteggiate ad un sorriso.
"Grazie...
signora..." mormorò, respirando a lungo. "Mi avete bendato... meglio
d'un... medico."
"Soffrite
molto?"
"Cesserà...
poi... la perdita del sangue... mi ha indebolito..."
"Riposatevi,
signor Morgan, io veglio su di voi..."
Il
filibustiere accennò col capo di sì e si abbandonò fra le erbe. Si sentiva
estremamente spossato e provava negli orecchi un ronzìo doloroso.
La febbre non
doveva tardare a sopraggiungere. Già le sue gote si colorivano d'una tinta
infuocata ed il suo respiro diventava affannoso.
La fanciulla,
temendo che prendesse qualche colpo di sole, colla spada tagliò alcune
gigantesche foglie di banano, piantò al suolo alcuni rami ed improvvisò una
minuscola tettoia, sufficiente a riparare il ferito.
"Ah, mio
Dio!" mormorava la povera fanciulla, che si era seduta presso il
filibustiere ormai assopito. "Se vi fosse qui Carmaux. Che i selvaggi
l'abbiano ucciso? Che cosa farò io, su questa laguna, con un ferito?..."
Morgan
cominciava a vaneggiare. Dalle sue labbra, arse dai primi assalti della febbre,
uscivano parole tronche e sconclusionate.
Parlava della
Tortue, della sua Folgore, di Pierre le Picard, di Carmaux.
Ad un tratto
un nome giunse agli orecchi della fanciulla, facendola sussultare.
"Jolanda"
aveva mormorato il ferito, con un tono di voce dolcissima. "Brava
fanciulla..."
"Sogna di
me" disse la figlia del Corsaro.
Un rapido
rossore le aveva inporporate le gote e i suoi sguardi si erano fissati sui
fieri lineamenti del filibustiere, che né il dolore prodotto dalla ferita, né
la febbre avevano alterati.
"Sogna"
mormorò per la seconda volta. "E sogna di me..."
D'improvviso
Morgan si scosse e aprì gli occhi, balbettando con voce rantolosa:
"Acqua...
acqua... la sete mi divora."
Aveva fatto
cenno di rialzarsi, ma la fanciulla gli pose una mano sulla fronte, dicendo:
"No,
signor Morgan, non muovetevi. Vi porterò da bere."
"Ah!...
Siete voi, signora Jolanda... quanto siete buona... Vegliate su di me...
maledetto selvaggio!..."
"Non
irritatevi. Nessuno ci minaccia."
"E
Carmaux?... E Carmaux?"
"Non ho
veduto più nessuno. Speriamo che siano riusciti a sfuggire all'inseguimento
degli Oyaculè."
"Voi...
sola..."
"Ho la
spada e anche una palla nella pistola. Non ho sparato che un solo colpo.
Attendetemi, signor Morgan."
Raccolse una
foglia di banano, ne staccò un pezzo che arrotolò in forma di cornetto e si
avviò verso il fiume, essendosi accorta che l'acqua della laguna era salmastra.
La foce del
rapido corso d'acqua non era lontana che tre o quattrocento passi.
La coraggiosa
fanciulla vi si diresse, costeggiando il bosco, e giunta presso la riva, si
curvò per riempire il cornetto.
Stava per
immergerlo, quando s'arrestò, guardando con ispavento verso la riva opposta,
che non distava più di quindici passi.
Su un albero
che si curvava sul fiume, adagiato su un ramo trasversale che radeva quasi
l'acqua, stava un animale lungo oltre un metro, colla testa piuttosto grossa,
il corpo robusto, coperto da un pelame fitto e morbido, grigiastro sul dorso
con macchie e striscie nere, e bianco sotto il ventre.
Guardava
attentamente la corrente e lasciava pendere dal ramo la coda, sfiorando
dolcemente l'acqua coll'estremità di essa.
"Che sia
un giaguaro?" mormorò la fanciulla, gettandosi prontamente dietro una
macchia di legno cannone.
Il fiume che
la divideva dalla fiera, come dicemmo, era poco largo in quel punto e
quell'animale poteva, con un salto, varcarlo e piombarle addosso.
Pareva però
che non si fosse nemmeno accorto della presenza della fanciulla, poiché
continuava la sua misteriosa manovra senza staccare gli sguardi dalla corrente.
"Ho
commessa un'imprudenza a non prendere con me né la spada, né la pistola"
mormorò Jolanda. "Eppure bisogna che porti dell'acqua a Morgan."
Stava per
uscire dalla macchia, quando vide l'animale fare un brusco movimento, quindi lo
udì mandare un rauco ruggito.
Aveva ritirata
rapidamente la coda a cui erasi attaccato qualche cosa d'informe, che a prima
vista Jolanda non comprese che cosa potesse essere, poi curvatosi innanzi
afferrò colle zampe anteriori quel corpo che si dibatteva.
"Una
testuggine" disse Jolanda. "Che abile pescatore!"
L'animale
soddisfatto della sua presa, con un salto immenso si era slanciato sulla riva,
scomparendo rapidamente fra i cespugli.
"Forse
quel povero rettile mi ha salvata la vita" pensò la fanciulla.
Riempì d'acqua
il cornetto e fuggì verso la laguna, guardandosi alle spalle per paura che
quell'animale si fosse deciso a varcare il fiume per procurarsi una preda più grossa.
Quando giunse
presso la piccola tettoia, Morgan era ricaduto in un profondo torpore e
giaceva, in mezzo alle foglie di banano, colle braccia allargate e la testa
rovesciata.
Jolanda stava
per chiamarlo, quando retrocesse vivamente mandando un grido d'orrore.
Sul petto del
ferito, fra la camicia e la casacca, stava accovacciato un ragno mostruoso, dal
corpo peloso e nero, le zampe lunghissime, pure pelose e rigate in giallo,
armate alle loro estremità di branche formidabili.
Aveva otto
occhi, brillanti come carbonchi, di grandezza ineguale, disposti gli uni vicini
agli altri in forma d'un X.
L'orribile
bestia pareva che si disponesse a rimuovere la fasciatura della ferita.
Jolanda,
inorridita, era rimasta immobile, mentre il ragno, accortosi della sua
presenza, la fissava coi suoi numerosi occhi, dardeggiando su di lei degli
sguardi feroci.
Ad un tratto
si volse, raccolse la spada e vibrò un colpo di punta, gettando il mostruoso
ragno a tre passi di distanza, poi con un fendente lo spaccò in due.
"Ah!...
L'orribile mostro!..." esclamò. "Se tardavo a sopraggiungere,
dissanguava Morgan!..."
In quel
momento vide il ferito riaprire gli occhi e tentare di alzarsi.
"Voi...
signora" mormorò, mentre un lampo gli illuminava gli sguardi.
"Avete
sete, signor Morgan?" chiese la fanciulla.
"Sì,....
ho la gola arsa... è la febbre che sopraggiunge e sotto questo clima non manca
mai di visitare i feriti."
Jolanda si
curvò su di lui, l'aiutò ad alzarsi un po' e gli accostò alle labbra il
cornetto che era ancora quasi pieno di acqua.
Il ferito la
trangugiò avidamente fino all'ultima stilla, mandando un sospiro di
soddisfazione.
"Grazie,
signora" disse.
Ad un tratto
fece colle mani un gesto, come di stupore.
"Che cosa
avete, signora?" chiese. "Siete pallidissima e le vostre braccia
tremano. Avete veduti gl'indiani?"
"No,
signor Morgan, rassicuratevi. Guardate là quella brutta bestia che agita ancora
le sue zampe. Si era accoccolata sul vostro petto."
"Una
migale" disse Morgan. "L'odor del sangue l'aveva attirata. Sono ben
brutti quei ragni."
"Uccidono?"
"Oh no,
non sono capaci di tanto le migale. È bensì vero che talvolta, se riescono a
trovare qualche bambino addormentato, lo dissanguano aprendogli una ferita al
collo, ma non sono pericolose per gli uomini. Avete veduto nessuno sulle rive
del fiume?"
"Solo un
animale che pescava le testuggini e che, ve lo confesso, mi spaventò non poco
dapprima, essendomi recata colà senza la spada."
"Grosso
molto?" chiese Morgan, che aveva provato un fremito di spavento, non già
per sé, bensì per la valorosa fanciulla.
"Pareva
una giovane tigre col pelame grigio, bruno e bianco, e striscie nere sul
dorso."
"Doveva
essere invece un maracaya od un pardino, grandi predatori sì, ma che non
assalgono mai l'uomo. Ricordatevi di prendere sempre la spada o la pistola, se
sarete costretta ad allontanarvi. Io sono ora impotente a difendervi! Vi fosse
qui almeno Carmaux!..."
"Che cosa
sarà avvenuto di lui, signor Morgan?" chiese Jolanda, con voce commossa.
"Che quei selvaggi lo abbiano ucciso?"
"Carmaux
non è uomo da lasciarsi ammazzare come un coniglio e poi era coi due
caraibi."
"Che
vengano a cercarci?"
"Non ne
dubito. Gl'indiani sanno trovare una traccia anche in mezzo alle boscaglie e,
non vedendo più il canotto, s'immagineranno che noi ci siamo messi al sicuro in
questa savana.
"Ecco la
febbre che torna. Passerete una brutta notte, signora."
"Voi, non
io."
"Allora,
insieme" disse Morgan, cercando di sorridere. "Ah!..." Infilò
una mano in una tasca della casacca e aveva estratto una scatoletta di latta.
"L'esca e l'acciarino di Carmaux" disse con voce lieta. "È stata
una vera fortuna che me l'abbia data."
"Volete
che accenda il fuoco?"
"Questa
sera, signora. Le belve temono la fiamma e non oseranno accostarsi."
"Vado a
fare raccolta di legna."
"E
cercate qualche frutto per voi, signora. Non avete nulla per la cena."
"Se
permettete tornerò al fiume onde questa notte non vi manchi dell'acqua."
"Siete
troppo buona, signora. Se poteste trovare una cuiera sarei lieto."
"Conosco
quelle piante" rispose Jolanda "e so come fanno gl'indiani per avere
dei buoni recipienti. Non sarà difficile trovarne.
"Addio,
signor Morgan, non inquietatevi."
La brava
fanciulla prese la spada e si diresse verso la boscaglia, coll'intenzione di
attraversare il lembo che copriva una specie di promontorio, dietro a cui
doveva scorrere il fiume.
S'inoltrò
dunque coraggiosamente fra le enormi piante, che crescevano in tale numero e
così vicine da non permettere al sole di attraversare la vôlta di verzura.
Ve n'erano di
tutte le specie, mescolate confusamente: saponieri, così chiamati perché le
loro corteccie e le loro bacche messe in acqua danno una schiuma densa che ha
le proprietà del sapone; cedri, che erano privi di frutta; formaggieri; cotonieri;
simaruba; palmizi e maot dalle foglie immense.
La fanciulla
ascoltò dapprima, per tema che vi fosse qualche carnivoro nei dintorni, poi,
non udendo che le note monotone dell'onorato, si cacciò in mezzo alle piante,
raccogliendo qua e là dei rami morti, che riuniva in piccoli fasci, legandoli
con dei pezzi di liana.
Non
dimenticava anche la cena e faceva raccolta di manghi, che abbondavano sul
suolo, staccatisi perché troppo maturi, e anche dei grossi aranci, che faceva
cadere dai rami più bassi servendosi della spada.
Continuò così
ad avanzarsi attraverso il promontorio, affrettando il passo, perché vedeva
ormai il sole declinare rapidamente e l'oscurità addensarsi sotto le macchie.
Udiva già il
mormorìo del fiume, quando scoperse la cuiera che cercava; una pianta enorme
con larghe foglie e numerosi rami, avvolti da piante parassite ed il tronco
coperto di muschio. Portava un numero infinito di grosse zucche, lucentissime,
di color verde-pallido, di forma sferica e assai più grosse dei poponi.
Ne staccò una,
la spezzò in due legandola forte con una liana e la vuotò della polpa bianca
che conteneva.
"Ecco due
ottimi vasi che riempirò d'acqua per il signor Morgan" disse.
E s'avviò
rapidamente verso il fiume, passando fra enormi cespugli, in mezzo ai quali scorgeva,
non senza un profondo senso di ribrezzo, numerose migali pelose che la
guardavano coi loro occhi lucentissimi, come se cercassero di affascinarla.
Alcune stavano
invece semi-nascoste in mezzo alle folte erbe, occupate certo a digerire gli
uccelli che avevano sorpresi nei loro nidi e le vedeva asciugarsi sul dorso
peloso le loro zampe ancora lorde di sangue.
Riempì in
fretta le due metà della cuiera, poi tornò nel bosco che attraversò più presto
di prima.
Morgan era sempre
coricato e aveva gli occhi aperti, fissi sulle acque nerastre della laguna. La
febbre però lo aveva ripreso ed il suo viso, rosso come la luna piena quando
s'alza in certi tramonti d'estate, sudava copiosamente.
"Avete
fatto nessun incontro?" chiese.
"No,
signor Morgan. Ecco l'acqua e delle frutta. Vado a raccogliere la legna per il
fuoco di questa notte" rispose la fanciulla.
"Affrettatevi,
la sera cala rapida."
"Le
fascine non sono lontani, signor Morgan."
La fanciulla
che non si sentiva affatto stanca, ritornò nella foresta e riportò alcune
fascine. Ne aveva però lasciati altri più innanzi e, temendo che la provvista
non bastasse per tenere acceso il fuoco tutta la notte, quantunque il sole in
quel momento fosse scomparso, fece una seconda gita.
Si era già
caricata degli altri fastelli, quando in mezzo ad una folta macchia di
passiflore, udì un miagolìo rauco che terminò in una specie di ululato.
"Un'altra
bestia" mormorò la signora di Ventimiglia. " Che brutta notte si
prepara."
Si mise a
correre e scese la costa senza essersi sbarazzata dei fastelli.
Trovò Morgan
seduto che stringeva nella destra la pistola. Pareva in preda ad una viva
agitazione.
"Ah!...
Grazie, signora!" esclamò, vedendo la fanciulla. "Ho tremato per
voi."
"Perché,
signor Morgan?" chiese Jolanda.
"Avete
udito quell'urlo?"
"Sì."
"Era d'un
giaguaro."
"Temevate
che mi assalisse?"
"Non
hanno paura degli uomini quelle belve e, quando sono affamate, non esitano a
gettarsi anche contro i cacciatori. L'avete veduto?"
"No, però
non doveva essere molto lontano dal luogo ove mi ero fermata a raccogliere la
legna."
"Accendete
subito il fuoco, signora."
"Che
venga a ronzare attorno al nostro accampamento?"
"Avete
paura?"
"Per ora
no, signor Morgan" rispose la valorosa fanciulla.
"Il
giaguaro si mostrerà, ne sono sicuro. E non sono in grado di difendervi! La
febbre fra poco m'atterrerà, lo sento."
"La
vostra pistola ha ancora una palla e se quella brutta bestia verrà, le farò
fuoco addosso.
Jolanda fece
due mucchi di legna e li accese a pochi passi di distanza l'uno dall'altro, poi
si sedette presso il ferito, che era ricaduto sul suo giaciglio, mostrando in
apparenza una calma ammirabile.
Nel medesimo
istante, nella tenebrosa foresta s'alzava un altro urlo, più prolungato del
primo.
Il giaguaro certamente
stava per scendere verso la laguna.
Il
giaguaro
La notte,
sulle rive di quella deserta laguna, al margine di un bosco vicino infestato
probabilmente da belve affamate, s'annunciava terribile per la valorosa fanciulla,
tanto più che Morgan, ripreso dalla febbre, che sotto quei climi assume
rapidamente dei sintomi gravissimi, ricominciava a vaneggiare.
Si era
accoccolata sotto la piccola tettoia, presso il ferito e dietro ai due fuochi
che mandavano bagliori sinistri sulle piante vicine. Si era messa dinanzi la
spada e la pistola e spiava ansiosamente il margine della foresta, dove udiva,
di quando in quando, echeggiare il lugubre ululato del giaguaro.
Mille rumori
cominciavano ad alzarsi, sia sugli isolotti e sui banchi della laguna ingombri
di legni cannone e di manghi, sia fra le folte macchie che proiettavano le loro
cupe ombre sulla riva.
Erano gracidii
di batraci o di quegli enormi rospi chiamati pipa, sibili di rettili acquatici
e terrestri, urla acute che si ripercuotevano senza posa sotto le vôlte di
verzura, mandate dalle scimmie rosse e dai cebi, a cui facevano di quando in
quando eco gli u-uh! rauchi dei coguari e dei maracaya.
Jolanda si
sforzava di mostrarsi tranquilla, tuttavia ad ogni ululato del giaguaro si
stringeva presso Morgan e rabbrividiva, credendo sempre di vedersi dinanzi quei
formidabili predatori che la fame doveva, presto o tardi, spingere verso il
piccolo accampamento.
"Come
finirà questa notte?" si chiedeva con angoscia. "Avessi almeno delle
munizioni, mentre non ho che un solo colpo da sparare e che può anche andare a
vuoto."
Il
filibustiere pareva che non udisse nulla. Dormiva o meglio era assopito dalla
febbre che abbatteva la sua vigorosa fibra, però di quando in quando si agitava
violentemente, sbarrava gli occhi e pronunciava parole che non avevano senso.
Jolanda si
sforzava di calmarlo, ma il disgraziato pareva che non udisse neanche la voce
della fanciulla. Pareva anzi che si fosse perfino scordato di averla vicina.
Solo a lunghi
intervalli, acquistava qualche istante di lucidità e allora la prima parola che
gli sfuggiva dalle labbra arse dalla febbre era per chiedere acqua.
Fortunatamente
le due mezze zucche erano molto capaci e Jolanda non aveva timore che la
provvista si consumasse prima dell'alba.
Verso la
mezzanotte però, la febbre essendo forse cessata, Morgan tornò completamente in
se stesso. Il suo primo sguardo fu per la fanciulla che gli stava vicino.
"Vegliate?"
chiese egli, con dolcezza. "Povera signora!... Fate la guardia, mentre io
dormo."
"Non ho
sonno, signor Morgan" rispose Jolanda. "E poi mi preme che non si
spenga il fuoco."
"Eppure
dovete essere stanca."
"Mi
riposerò quando si alzerà il sole. Io sto bene, mentre voi siete ferito e avete
perduto tanto sangue."
"Sì,
quella maledetta freccia!" esclamò Morgan, con rabbia.
"Nessuno
ci minaccia per ora."
"La notte
nasconde mille pericoli."
A un tratto,
con uno sforzo supremo, si alzò a sedere, fissando sulla fanciulla due occhi
smarriti.
Aveva udito in
quel momento echeggiare il rauco ululato del giaguaro.
"Dite che
nessuno vi minaccia?" esclamò. "Avete scordata quella belva?"
"Non si è
ancora mostrata presso di noi e poi non ho la spada e la pistola?" rispose
la fanciulla.
"Può
piombarvi addosso."
"I fuochi
ci proteggono."
"Sì, ma
non sono tranquillo, signora. Se vi dilaniasse? Aiutatemi ad alzarmi. Voglio
difendervi."
"Non
avete la forza di affrontare un simile carnivoro, signor Morgan. Rimanete
coricato o la vostra ferita invece di rimarginarsi s'inasprirà maggiormente."
"Divorerà
almeno me, invece di voi. Non voglio che voi cadiate fra gli artigli di quella
fiera."
"Vi
ripeto che non si è ancora mostrata. Orsù, ricoricatevi, ve ne prego. Ecco la
febbre che vi riprende."
"La
febbre" disse Morgan, con un brivido. "Acqua... la Tortue è sempre
lontana? Non vedo qui più la mia Folgore... Che quel cane d'un conte l'abbia
affondata?"
"Che cosa
dite, signor Morgan?" chiese Jolanda.
"Sì, è
stato lui, sai, Carmaux? Bisogna impiccarlo affinché non faccia del male alla signora
di Ventimiglia... Vuol riaverla in sua mano... Prepara una buona fune...
lassù... sul pennone di parrocchetto..."
Morgan tornava
a vaneggiare, mentre l'ululato del giaguaro si faceva udire sempre più vicino.
Jolanda lo
costrinse a ricoricarsi, poi afferrò la pistola e la spada e guardò con
profonda ansietà verso il margine della foresta.
L'urlo del
giaguaro era risuonò così vicino, da far credere che si trovasse solo a pochi
passi.
E infatti in
mezzo ad un folto cespo di passiflore che si alzava a metà costa, Jolanda vide
scintillare fra le tenebre due punti verdastri, simili agli occhi di un gatto.
"È là che
mi spia" mormorò la fanciulla, mentre si sentiva bagnare la fronte di
freddo sudore. "Potrò io resistergli o ci sbranerà tutti e due?"
Gettò su
Morgan uno sguardo disperato. Il filibustiere aveva rinchiusi gli occhi, però
continuava ad agitare le braccia e a pronunciare parole sconnesse.
Colla punta
della spada riattizzò il fuoco più vicino, poi vi gettò sopra un fastello di
legna resinosa.
La fiamma
s'alzò altissima, illuminando tutto il declivio della costa e gettando in aria
numerose scintille.
Il giaguaro,
senza dubbio spaventato o irritato da quell'improvvisa fiammata, si era
slanciato fuori dalla macchia di passiflore, ululando spaventosamente.
La luce
proiettata dalle fiamme lo illuminava pienamente.
Era un superbo
animale, grosso quanto una tigre di mezza età, di forme tozze ed un po'
pesanti, lungo quasi due metri, con un mantello corto, fitto e morbido, dalla
tinta giallo-rossiccia a macchie nere orlate di rosso ed il ventre biancastro.
Vedendo la
fanciulla ritta dinanzi ai due fuochi, in un atteggiamento risoluto, colla
spada in pugno che scintillava alla luce dei due falò, si era arrestato,
raggrinzando il muso e mostrando i suoi formidabili denti.
La sua coda
spazzava dolcemente le erbe, sollevando le foglie secche con uno scrosciare
ruvido. Non ululava più: coi baffi irti ringhiava sordamente, dardeggiando
sulla signora di Ventimiglia, che pareva che lo sfidasse, uno sguardo ripieno
d'ardente bramosìa.
La fame doveva
tentarlo, però i due fuochi lo trattenevano ancora e non osava slanciarsi verso
la piccola tettoia sotto la quale Morgan, in preda alla febbre, continuava a
vaneggiare.
Si leccò con
quella mossa che è familiare ai felini, le zampe anteriori, si lisciò le spalle
ed il petto, sbadigliò due o tre volte, poi fece qualche passo innanzi con un
rom-rom che non era certo di buon augurio.
Stette un
momento immobile, continuando a lisciarsi il pelame, poi fece alcuni passi
ancora, sempre fissando la fanciulla ed accostandosi al fuoco.
Si muoveva
lentamente, quasi avesse paura di spaventarla, rivoltandosi di frequente su se
stesso per leccarsi i fianchi. La signora di Ventimiglia, quantunque non
conoscesse le abitudini traditrici di quei formidabili animali, non si lasciava
sedurre da quelle dimostrazioni pacifiche.
Ritta sempre
dietro ai due fuochi, colla spada tesa e la pistola nella sinistra, lo fissava
intrepidamente, risoluta ad opporre la più fiera resistenza. Non tremava più:
si era irrigidita ed i suoi muscoli in quel momento si sentivano capaci di
sostenere qualsiasi urto, pur di difendere il filibustiere che dormiva dietro
di lei.
Il giaguaro
ebbe un po' di esitazione, poi cercò di girare attorno ai due fuochi, prima
quello di destra, poi quello di sinistra.
Jolanda,
comprendendo il pericolo che correva se l'animale riusciva a compiere quella
manovra, s'abbassò rapidamente deponendo per un momento la spada, raccolse un
grosso ramo resinoso e glielo gettò contro colpendolo sul muso.
L'animale,
sentendosi bruciare i baffi, mandò un ululato spaventevole, poi fuggì a
rompicollo facendo balzi di tre o quattro metri sul margine della foresta
s'arrestò guardando coi suoi occhi fosforescenti e minacciosi il piccolo
accampamento.
Jolanda trasse
un profondo respiro di sollievo. Il pericolo per il momento era scongiurato.
"Non
resisterei però ad un'altra simile prova" mormorò, asciugandosi il sudore
che le bagnava la fronte. "Non avevo mai veduta la morte così
vicina."
Guardò Morgan e
vide che dormiva tranquillo. La febbre doveva avergli concessa un po' di
tregua.
"Non si è
accorto che la belva stava per assalirci" disse. "Meglio così. Anche
ferito si sarebbe alzato per difendermi e forse avrebbe commessa qualche pazzia
e provocato lo slancio del giaguaro."
Alzò gli occhi
verso il margine della foresta e vide ancora il maledetto animale, ritto fra
due cespugli, che la osservava, seguendo attentamente tutti i movimenti che
essa faceva.
Pareva di
pessimo umore, perché lo si udiva brontolare. Quell'accoglienza che gli era
costata la perdita dei baffi non l'aveva certo soddisfatto.
"Pare che
non abbia voglia di ritentare la prova" disse la fanciulla, gettando sui
fuochi due altri fastelli di legna.
In quel
momento udì Morgan chiamare:
"Signora...
acqua... brucio."
"Avete
sempre la febbre, è vero, signor Morgan?" chiese Jolanda, presentandogli
la zucca ed aiutandolo ad alzarsi.
"Ne avrò
fino all'alba" rispose il filibustiere. "E voi non avete preso ancora
un istante di riposo? Vi ammalerete, signora."
"Non
pensate a me. Avrò tempo per riposarmi."
"Ah!..."
"Che cosa
avete, signor Morgan?"
"Ed il
giaguaro?"
"L'ho
fatto fuggire."
"Voi!..."
esclamò Morgan.
"Guardate,
non gira più attorno a noi. Si era bensì accostato il briccone, e gli ho
accarezzato il muso con un tizzone acceso e ci ha lasciati tranquilli."
"Siete
ben la figlia del Corsaro Nero voi" disse il filibustiere, guardandola con
ammirazione. "Così giovane, affrontare una simile fiera!... Nemmeno
Carmaux l'avrebbe osato."
"Eppure
la cosa è stata facilissima e non ho nemmeno sacrificato l'ultimo colpo di
pistola."
"Quanto
vi dovrò, signora!"
"Sì, un
po' d'acqua" disse Jolanda scherzando.
"No, la
vita, poiché se io fossi stato solo, assopito dalla febbre come ero, il
giaguaro mi avrebbe divorato. È lontana l'alba? Io ho perduta la nozione del
tempo."
"Abbiamo
ancora parecchie ore di oscurità. Cercate di riposare, signor Morgan; il sonno
fa bene agli ammalati. E la vostra ferita vi addolora?"
"Non
troppo, signora. Sotto questi climi si cicatrizzano rapidamente. È la febbre
che può diventare pericolosa."
"Ricoricatevi,
mentre io vado a riattizzare il fuoco."
Morgan, che si
sentiva effettivamente assai spossato, un po' in causa dell'eccessiva perdita
di sangue e un po' per la febbre, obbedì.
Jolanda, che
temeva sempre qualche altra sorpresa da parte del giaguaro, si accostò ai
fuochi che riattizzò sprigionando un nembo di scintille che fecero fuggire tre
o quattro grossi vampiri che volteggiavano in quel momento al di sopra della
piccola tettoia, forse colla speranza di sorprendere Morgan e dissanguarlo
colle loro trombe a ventosa, armate di papille perforanti.
Guardò verso
il margine del bosco e fu ben lieta di non vedere più il giaguaro.
O l'animale,
disperando di saziarsi colle delicate carni della fanciulla, aveva perduta la
pazienza e se n'era tornato nella sua tana, oppure aveva potuto sorprendere
qualche altra preda più facile da abbattere e se l'era portata più lontana per
divorarsela tranquillamente.
La fanciulla,
rassicurata, e vedendo che Morgan aveva ripreso nuovamente il sonno, si sedette
presso i due fuochi, aspettando pazientemente che il sole spuntasse.
Nella foresta
non si udivano più né ululati, né ringhii, né fischi di rettili. Le sole scimmie
davano ancora dei concerti spaventevoli, facendo rimbombare le vôlte di verzura
coi loro formidabili hon... hon.
Finalmente le
tenebre cominciarono a diradarsi verso oriente e le acque della laguna si
tinsero dei primi riflessi dell'alba.
Gli uccelli si
destavano. L'onorato riprendeva le sue note musicali, do... mi... sol... do; i
tucani mandavano le loro grida discordi e dure, somiglianti al cigolare d'una
ruota priva di grasso; i craci gorgogliavano imitando i tacchini; i pappagalli
schiamazzavano sulle più alte cime dei formaggieri od in mezzo alle sipe.
Jolanda si era
alzata avvicinandosi a Morgan. Il filibustiere dormiva ancora ed era
tranquillissimo.
La febbre
doveva essere cessata.
"Se
approfittassi del suo sonno per cercare la colazione?" si chiese Jolanda.
"Con un colpo di pistola potrei uccidere qualche animale. Ho udito
raccontare che i cervi non mancan nelle foreste del Venezuela."
Mise accanto a
Morgan una cuia onde potesse dissetarsi nel caso che si svegliasse, poi, dopo
d'aver ravvivati i due falò cogli ultimi fastelli, sapendo ormai per prova che
erano sufficienti a proteggere il piccolo accampamento, prese la spada e la
pistola e si mise a costeggiare la laguna, le cui rive erano coperte da
foltissime macchie di legno cannone e di passiflore.
Non aveva già
intenzione di allontanarsi troppo, per paura che il giaguaro approfittasse
della sua assenza per gettarsi sul ferito e dilaniarlo.
Si mise a
rasentare le macchie, frugandole colla punta della spada, colla speranza di
sorprendere qualche animale, volgendosi di quando in quando per guardare la
tettoia.
Aveva già
percorsi cinque o seicento passi, quando vide uscire da un cespuglio un branco
di grossi granchi di mare che fuggivano precipitosamente verso la laguna.
Erano dei
brutti crostacei, che rassomigliavano per grandezza alle migali, colle branche
adunche e robustissime ed il dorso rugoso.
"Fuggono!..."
esclamò la fanciulla. "Che vi sia qualche carogna in mezzo a quel
cespuglio?"
Allontanò con
precauzione i rami e s'avanzò lentamente, tenendo la spada tesa, ma ad un
tratto si fermò, poi indietreggiò mandando un grido d'orrore.
Steso fra le
foglie secche, stava un corpo umano, che indossava ancora un vestito di grosso
panno verde ed una corazza, ed il cui capo completamente scarnato o dai granchi
o dalle termiti, era privo della più piccola particella di carne.
Anche i lunghi
stivali di cuoio giallo, non stringevano che due stinchi e dalle maniche della
giubba spuntavano delle falangi prive di pelle e di nervi.
A pochi passi
stava uno spadone irruginito e snudato ed una fiaschetta di metallo, che pareva
di stagno.
"Un
morto!..." aveva esclamato la fanciulla, dopo il primo istante di
spavento. "Chi avrà ucciso questo disgraziato? Gl'indiani o qualche
belva?"
Lo guardò
meglio e non scorse sulle vesti alcuna traccia di sangue, né alcun strappo che
potesse indicare il passaggio d'una punta di freccia.
"Triste
scoperta" mormorò la signora di Ventimiglia. "Sarà serbata anche a
noi una sorte eguale?"
Stette qualche
momento a contemplare quel disgraziato, uno spagnolo di certo, a giudicarlo
dalle vesti; poi raccolse la spada e la fiaschetta, pensando che potevano
essere di maggior utilità ai vivi che ai morti.
Stava per
ritornare verso Morgan, quando i suoi sguardi si fermarono su alcuni segni che
parevano delle lettere incise sulla fiaschetta con qualche punta, forse quella
della spada.
Guardandoli
attentamente, riuscì, non senza fatica, a decifrarli.
La mano di
quel povero uomo aveva scritto in lingua spagnola:
"Smarrito
nella foresta, muoio di fame."
Vi era sotto
un R poi un Yup...
La morte
doveva averlo sorpreso prima che potesse scrivere completamente il suo cognome.
La fanciulla,
assai impressionata per quella lugubre scoperta, tornò lentamente verso
l'accampamento, dove trovò Morgan seduto, che stava fasciandosi nuovamente la
ferita.
"Come
state, signor Morgan?" gli chiese con premura.
"Molto
meglio di ieri, signora" rispose il filibustiere.
"La
ferita comincia già a rimarginarsi un po'; mi sento però sempre debolissimo.
Toh!... Dove avete
trovata quella spada?"
Jolanda lo
informò della lugubre scoperta.
"Avete
fatto bene a raccogliere quell'arma e quella fiaschetta" disse Morgan.
"Chi sarà quel disgraziato? Che vi sia qualche colonia o qualche borgata
spagnola non lungi da qui? Amerei meglio che non ve ne fossero."
"Nessuno
sa chi noi siamo. Potremmo inventare qualche istoria."
"Gli
spagnoli sono più da temersi degl'indiani, signora. Oh!... Avete udito?"
Verso la
laguna era echeggiato un fischio, seguíto poco dopo da un tonfo, che sollevò un
alto sprazzo di spuma.
Jolanda si
alzò vivamente
"Armatevi,
signora" disse Morgan.
"Prendo
la vostra spada."
Ciò detto
s'avanzò cautamente verso la laguna, aprendosi il passo attraverso i fusti di
legno cannone che ingombravano la riva.
Un'altra
notte terribile
Un animale, o
meglio un mammifero, di grosse dimensioni, era comparso fra le foglie delle
mucumucù che coprivano buoa parte della laguna, e si divertiva a sollevare
delle piccole ondate colla sua larga coda piatta, massacrando quelle piccole
zattere galleggianti.
Nelle forme
rassomigliava un po' ad una foca, essendo anche munito di pinne somiglianti a
delle braccia, la testa invece di essere rotonda era piuttosto allungata,
fornita all'estremità di peli ruvidi e lunghi che parevano dei baffi.
Sul petto
aveva due grosse mammelle che ricordavano quelle delle famose sirene
dell'antichità.
Doveva pesare
un paio di quintali di certo, a giudicarlo dalla sua lunghezza che superava i
due metri e mezzo e dalla sua rotondità.
Jolanda,
nascosta in mezzo ai legni cannone, lo guardava con curiosità, chiedendosi che
specie di mammifero potesse essere, non avendone mai visto uno simile, né
potendo ammettere che delle foche si trovassero nelle calde acque equatoriali.
Si rovesciava
ora sul dorso ed ora sul ventre, sbattendo vigorosamente l'acqua colle sue
lunghe pinne, si lasciava affondare, poi con una brusca spinta si slanciava
fuori più che mezzo, mandando dei lunghi fischi.
Jolanda,
sempre nascosta, si domandava come avrebbe potuto impadronirsi di quella grossa
preda, che avrebbe assicurato cibo a lei e a Morgan per parecchio tempo.
Aveva bensì la
pistola, ma dubitava con una sola palla di poter abbattere un animale così
enorme. Se Morgan non fosse stato ferito, forse avrebbero potuto raggiungerlo
col canotto e assalirlo a colpi di spada.
Stava per
ritornare onde consigliarsi col filibustiere, quando vide il mammifero
accostarsi alla riva e frugare col muso fra le erbe acquatiche che crescevano
abbondanti in quel luogo.
"Se mi
provassi a dargli un colpo di spada?" si chiese Jolanda. "L'arma è
solida e la punta aguzza, mentre quell'animale non mi sembra che debba avere la
pelle dura, non avendo squame."
Si gettò a
terra e allontanando dolcemente i fusti dei legni cannone, si mise a strisciare
verso la riva.
Udiva il
mammifero grugnire proprio sotto le erbe acquatiche che tappezzavano il margine
della laguna, quindi doveva essere a buona portata anche per un colpo di spada.
La speranza di
poter offrire al filibustiere un bel pezzo di carne, di cui aveva tanto bisogno
per rimettersi del sangue perduto, la spingeva a tentare la sorte.
D'altronde non
poteva correre pericolo alcuno, non avendo quell'abitante delle acque, né un
aspetto feroce, né armi di difesa d'alcuna specie.
Giunta sulla
riva la brava fanciulla scostò lentamente le erbe, che erano assai alte e si
spinse dolcemente innanzi, impugnando con mano ferma la spada del filibustiere.
Il mammifero
era lì sotto, occupato a mangiare le radici delle erbe e pareva che non si
fosse ancora accorto del pericolo che lo minacciava.
Si agitava
appena e continuava a grugnire come un maialetto.
Jolanda si
rizzò di colpo sulle ginocchia e affondò il ferro nel dorso dell'animale,
cacciandovelo dentro quasi fino alla guardia.
Udì un rapido
fischio, poi uno spruzzo di spuma l'avvolse, facendola cadere indietro e
costringendola ad abbandonare la spada che era rimasta nella ferita.
Quando poté
rialzarsi vide il mammifero a dibattersi furiosamente, a quindici passi dalla
riva. Aveva la spada ancora infitta nel dorso e dalla ferita colava un
rivoletto di sangue che arrossava l'acqua.
"Signor
Morgan!... È preso!... È preso!..." gridò Jolanda, con voce trionfante.
"Chi,
signora?" chiese il filibustiere che faceva sforzi disperati per alzarsi.
La fanciulla,
certa ormai che l'animale era agonizzante, si era slanciata verso la tettoia,
per armarsi della spada dello spagnolo.
"È
nostro!... E nostro!..." gridò, accostandosi a Morgan. "Avremo quanta
carne vorremo."
"Chi
avete ucciso?" chiese il filibustiere.
"Non so,
una bestia assai grossa, una specie di foca."
"Una
foca!... È impossibile, signora; qui non se ne trovano."
"Ne ha
almeno le forme."
"Quello
che avete ucciso non può essere che un manato o meglio un lamantino, una preda
squisita, la cui carne può gareggiare, per gusto e delicatezza, con quella dei
giovani vitelli."
"Salgo
nel canotto e vado a finirlo" disse la fanciulla. "Devo anche
ricuperare la vostra spada."
"Badate
che non vi rovesci in acqua. I manati non sono pericolosi, tuttavia hanno della
forza nella coda."
"Sarò
prudente:"
Impugnò lo
spadone dello spagnolo e si diresse verso il canotto che era legato alla riva.
Lo staccò, vi
balzò dentro, prese le pagaie e si spinse al largo.
Il lamantino
si dibatteva presso un banco di fango e pareva agli estremi. L'acqua
tutt'intorno al suo corpo era rossa di sangue.
Jolanda, con
pochi colpi di remo lo raggiunse, e, alzato lo spadone dello spagnolo, si mise
a tempestarlo, specialmente sulla testa, né cessò finché non lo vide esalare
l'ultimo respiro.
Essendo su un
bassofondo, era rimasto col dorso fuori dall'acqua.
Jolanda si
provò a levare la spada di Morgan e, sentendo che resisteva, passò nella
guardia una liana per rimorchiare la grossa preda alla riva.
Non fu impresa
facile, poiché il lamantino era grosso assai e tendeva ad affondare; nondimeno,
dopo un quarto d'ora, riusciva a tirarlo presso un mango che tuffava nelle
acque le sue radici contorte.
Morgan, che da
lontano aveva seguíto cogli sguardi e non senza una certa ansietà, le diverse
fasi della caccia, o meglio della pesca, salutò il ritorno della valorosa ed
intraprendente fanciulla con un fragoroso urrà.
"Un
momento ancora, signor Morgan" disse Jolanda "e vi offrirò una buona
colazione, se è vero che la carne di questi mammiferi è così squisita come mi
avete detto."
Dopo reiterati
sforzi trasse dal corpo del lamantino l'arma del filibustiere; poi, servendosi
dello spadone spagnolo che era più largo e più pesante, quindi meglio adatto
per servire da coltello, tagliò dal dorso una fetta enorme che portò presso la
capannuccia, dove ardevano ancora i due falò.
Con dei sassi
improvvisò alla meglio un fornello, infilzò la carne nel ferro del filibustiere
e ravvivò con alcuni rami il fuoco.
"Eccomi
diventata cuoca" disse Jolanda, che era assai di buon umore, per la
splendida riuscita di quell'impresa. "Fra breve assaggerete un pezzo della
mia preda."
"Sì,
apprezzerete fra poco la delicatezza della sua carne."
"Signor
Morgan, lasciate che completi la colazione."
"Che cosa
volete aggiungere ancora?"
"Ho
veduto poco fa, mentre tornavo da quella lugubre scoperta, un banano che aveva
un grappolo enorme."
"Eccellenti
quelle frutta, specialmente se cucinate sotto la cenere. Possono surrogare il
pane."
"Manca
però il sale."
"Vi sono
in questo paese delle piante che possono fornirne; non so dove si troveranno.
"Gli indiani non adoperano che quello."
"Come
fanno ad estrarlo?"
"Bruciano
i rami, fanno bollire la cenere, poi la filtrano e trovano sempre dei cristalli
di sale."
"Noi però
possiamo farne a meno."
"E come,
signor Morgan?"
"M'avete
detto che l'acqua della laguna è salata. Aspargete un po' l'arrosto ed ecco
trovato il rimedio."
"Che
pessima cuciniera sarei io! Rinuncio fin d'ora alla carica cui aspiravo a bordo
della vostra Folgore."
Anche
scherzando, la brava fanciulla non perdeva però il suo tempo e badava che
l'arrosto si cucinasse a perfezione.
Quando lo vide
quasi pronto, lo asperse con poche goccie d'acqua salata, poi andò a far
raccolta di banane e di manghi, e ficcò le prime sotto la cenere calda.
"Signor
Morgan" disse ad un certo momento. "Siete servito."
Avendo deposto
l'arrosto su una bella foglia di banano, appena tagliata, e si era seduta
presso il ferito, il quale aspirava con visibile soddisfazione il delizioso
profumo che esalava l'enorme fetta del lamantino.
La colazione,
non variata è vero, ma assai abbondante, fu molto gustata tanto dal ferito
quanto da Jolanda, ed entrambi, che dal mattino innanzi non avevano mangiato
che qualche frutto, vi fecero molto onore.
"Signor
Morgan" disse la fanciulla quand'ebbero finito. "Consigliamoci un po'
per cercare di uscire da questa situazione. Quando potrete, a vostro giudizio,
riprendere le vostre forze?"
"Fra due
o tre giorni noi lascieremo questo luogo" rispose il filibustiere.
"Le mie gambe sono sane e anche solide."
"E dove
andremo noi? Che cosa faremo? La vita dei Robinson non nego che abbia dei lati
belli, ma voi non siete uomo da vivere sempre sotto queste foreste."
"E
nemmeno voi, suppongo" rispose Morgan. "Il vostro posto non è
qui."
"Dunque?"
"Ascoltatemi,
signora. Se questa laguna ha l'acqua salata, io m'immagino che comunichi col
mare per qualche canale o direttamente. Appena io sarò guarito, noi
c'imbarcheremo sul canotto e cercheremo di raggiungere le rive del golfo del
Messico. Solo là noi potremo trovare la nostra salvezza. Ed ora, signora,
coricatevi e riposate; ne avete bisogno. Io intanto veglierò."
"Obbedisco
al vostro consiglio."
La fanciulla
andò a tagliare parecchie foglie di palmizio, per prepararsi un giaciglio e si
coricò all'ombra di un simaruba, che s'alzava a qualche passo dalla
capannuccia.
Morgan,
messosi accanto lo spadone dello spagnolo, s'immerse in profondi pensieri.
Di quando in
quando però si scuoteva e guardava la fanciulla che dormiva profondamente, con
un braccio ripiegato sotto la testa, in una posa graziosa, ed ascoltava il suo
respiro regolare e tranquillissimo.
"Bella e
valorosa" mormorava, con un sospiro. "Ecco una donna che farà felice
l'uomo cui vorrà bene."
Il sonno di
Jolanda durò molte ore. Il sole già precipitava all'orizzonte, quando riaprì
gli occhi e Morgan vegliava ancora.
Era più bella
che mai, con quei neri capelli che le scendevano sulle spalle, in disordine, e
che le incorniciavano graziosamente il fresco visino leggiermente roseo.
"Quanto
ho dormito!" esclamò, alzandosi in fretta. "Vi sarete molto annoiato,
signor Morgan?"
"No
signora Jolanda" rispose il filibustiere. "I volatili della laguna mi
hanno distratto, e poi provavo un vero piacere nel vedervi riposare."
"Mi
dispiace però, avendo molto da fare."
"E che
cosa, signora?"
"Rinnovare
la provvista d'acqua e la legna. Tornerà anche questa notte il giaguaro?"
"Speriamo
che abbia fatto buona caccia e che non venga a disturbarci. Quando i carnivori
si sono satollati, non inquietano nessuno."
"Al
lavoro" disse la fanciulla.
Si armò e si
diresse verso il fiume. Desiderava vivamente di giungere su quelle rive, colla
speranza di riveder comparire, se non Carmaux, almeno qualcuno degl'indiani.
Attraversò il
bosco, non incontrando che alcuni gruppi di scimmie barrigudo che la salutavano
con degli strepitosi escke!... escke!... e raggiunse felicemente il corso
d'acqua, ma non vide alcun essere umano aggirarsi su quelle rive.
Riempì le
cuie, poi s'affrettò a ritornare. Fatta la provvista d'acqua, s'occupò della
legna.
I rami secchi
e anche resinosi abbondavano sul margine della foresta, sicché poté formare,
senza alcuna fatica, parecchi fastelli che portò all'accampamento.
"Ora
possiamo attendere tranquillamente la notte" disse a Morgan.
"Avete
fatto alcun incontro?" chiese il filibustiere.
"Nessuno"
Cenarono con
un pezzo di lamantino avanzato dalla colazione ed alcuni manghi e banani, poi
Jolanda accese i due fuochi e ne preparò un terzo verso la riva, essendosi
ricordata che il giaguaro aveva cercato di girare intorno all'accampamento.
Aveva appena
terminati quei preparativi, quando il sole scomparve. Gli uccelli si erano già
ritirati nei loro nidi e soli volavano per l'aria, con dei bruschi zig zag,
quegli schifosi pipistrelli chiamati vampiri, dal corpo peloso e le ali
grandissime.
Morgan si era
a poco a poco assopito, dopo essersi fatto promettere dalla fanciulla, che più
tardi lo avrebbe svegliato perché montasse il suo quarto di guardia, se la
febbre non lo prendeva.
Jolanda si
sedette fra i due fuochi, come la notte precedente, sorvegliando il margine
della foresta, perché solo da quella parte poteva giungere qualche pericolo.
Erano passate
due o tre ore senza che si udisse alcun grido od un urlo sotto le folte piante,
quando, non senza una certa inquietudine, vide due ombre scendere cautamente la
costa e dirigersi verso la laguna.
Tuttavia
pareva che non avessero alcun desiderio di accostarsi all'accampamento, che i
due falò illuminavano come in pieno giorno.
Certo, il
fuoco li teneva in distanza.
Jolanda si
alzò per vedere quale specie di animali fossero e trasalì nello scorgere degli
occhi fosforescenti.
"Due
felini" mormorò. "Eppure non rassomigliano al giaguaro che è qui
venuto ieri sera."
E infatti
erano più piccoli, di forme più svelte ed eleganti, ed avevano il pelame
differente, d'un colore rosso-giallastro, che si oscurava sul dorso e diventava
bianco-rossiccio sotto il ventre.
"Che
siano due coguari?" si chiese Jolanda. "Mi hanno detto che anche
quegli animali, se non sono feroci come i giaguari, non sono tuttavia meno
pericolosi."
Le due belve
passarono a dieci passi dai due fuochi, voltando la testa verso la fanciulla e
mandando un rauco u... u!... poi continuarono a scendere verso la laguna.
Ad un tratto,
Jolanda li vide spiccare un gran salto e piombare su qualche cosa che dapprima
non seppe che cosa fosse.
"Che
abbiano sorpreso qualche animale?" mormorò la fanciulla, guardando con
maggior attenzione.
Un'esclamazione
di collera le sfuggì dalle labbra e si accostò rapidamente a Morgan,
svegliandolo bruscamente.
"Che cosa
avete, signora?" chiese il filibustiere, alzandosi a sedere. "È il
mio quarto?"
"Divorano
le nostre provviste?"
"Chi?"
"Non so,
vi sono due animali sbucati dalla foresta che cenano col nostro
lamantino."
"Che
bestie sono?"
"Mi
sembrano due coguari" rispose la fanciulla.
"Non
commettete l'imprudenza di andarli a scacciare, signora" rispose Morgan.
"Sono pericolosi quanto i giaguari e non esiterebbero ad assalirvi."
"Se
provassi a scaricare contro di loro la pistola?"
"Non
sprecate la nostra ultima palla. Potremmo più tardi rimpiangerla.
"Lasciateli
cenare; qualche cosa rimarrà anche per noi, essendo il lamantino assai
grosso."
Morgan
s'ingannava nelle sue speranze, poiché quando i due coguari, pieni da
scoppiare, se ne andarono, giunsero quasi subito per prendere parte al
banchetto, due coppie di maracaya, poi alcuni yaguarabundi chiamati anche gati
de monte, i quali divorarono gli ultimi avanzi del mammifero.
Quando
finalmente il sole riapparve, la povera fanciulla dovette constatare che
dell'enorme massa di carne non rimanevano che poche ossa triturate.
"Signor
Morgan" disse, tornando verso il ferito "dovremo accontentarci di
sola frutta. Quei ghiottoni hanno fatto scomparire tutta la nostra
riserva."
"Me lo
immaginavo" rispose il ferito.
"Mi
rincresce per voi, non avendo quasi nulla da offrirvi per la colazione di
stamane."
"Non
inquietatevi per me, signora. Nella mia vita avventurosa, della fame ne ho
sofferto e molta e nemmeno questa volta morirò. Fra tre o quattro giorni sarò
in grado di alzarmi e vedrete che in due riusciremo a scovare qualche animale
ed ucciderlo. Queste foreste devono essere assai ricche di selvaggina."
"Ma
no" disse a un tratto la fanciulla, la quale da qualche istante teneva
agli occhi fissi sulle isolette che ingombravano la palude, "la colazione
non ci mancherà! Anzi mi stupisco come non abbia pensato prima ai trampolieri.
"E come
volete cacciare quei volatili? Sapete bene che non abbiamo che un solo colpo da
sparare."
"Penso
alle uova dei trampolieri, signor Morgan. Sceglierò le più fresche e saranno
cento volte più nutritive dei manghi e dei banani."
"Siete
veramente una donna impareggiabile, signora di Ventimiglia.."
"Il
bisogno aguzza la fantasia e le idee, signor Morgan. Avete bisogno di me?"
"No,
signora. Lasciatemi una spada e non preoccupatevi di me. D'altronde nessun
pericolo mi minaccia e poi le belve raramente lasciano di giorno i loro
covi."
"Tornerò
subito, signor Morgan."
L'isola
galleggiante
La brava
fanciulla, certa che nessuno potesse minacciare il ferito e rassicurata dal
silenzio che regnava nella vicina foresta, scese la riva, portando con sé lo
spadone dello spagnolo, giacché poteva esserci qualche jacarè nella palude e
s'imbarcò sul canotto, spingendolo al largo.
Come abbiamo
detto, su quella savana sommersa si estendevano numerosi banchi melmosi, che le
piante palustri avevano subito ricoperto e che servivano di rifugio ad un
numero infinito di trampolieri chiassosi.
Jolanda,
avendone osservato uno che pareva vastissimo e che era ingombro di canne
altissime, si diresse verso quello, colla speranza di fare un'ampia provvista
d'uova.
Non era
lontano che mezzo miglio dall'accampamento ed essendo una canottiera abbastanza
abile, in meno d'un quarto d'ora lo raggiunse.
Fu però non
poco sorpresa, nel salirvi sopra, sentendolo muoversi ed abbassarsi lievemente,
come se quell'isolotto non posasse sul fondo della laguna.
"È
strana" mormorò. "Si direbbe che galleggia come una zattera. Che mi
sia ingannata?"
Si provò ad
avanzare fra le canne e si convinse che quell'isolotto doveva essere formato da
un'amalgama di rami, arrestatisi là forse intorno a qualche ostacolo e poi
intrecciatisi strettamente, in modo da formare una di quelle zattere
rassomiglianti a quelle che si scorgono sulle acque del lago del Messico.
"Purché
mi sostenga, non occupiamoci ad indagare come sia formato questo isolotto"
mormorò la fanciulla.
Legò il
canotto ad una delle canne, sfondò una linea di paletuvieri che formavano come
l'orlo della zattera e s'inoltrò cautamente, sollevando intorno a sé una vera
nuvola di trampolieri.
"I nidi
non mancheranno di certo" disse Jolanda. "La raccolta sarà
abbondante."
Si mise a
costeggiare l'isolotto e con viva soddisfazione s'avvide di non essersi
ingannata nelle sue previsioni.
In mezzo alle
canne, posate entro piccole buche col fondo coperto di foglie, vi erano delle
uova in gran numero, alcune piccole ed altre grosse quasi quanto quelle delle
galline.
La fanciulla
scartò quelle passate, raccolse quelle che dalla loro trasparenza le parevano
più fresche e le mise nella sottana, che aveva doppiata attorno alla cintola.
Stava per
ritornare al canotto, lieta di essersi procurata una colazione sostanziosa e
tutt'altro che cattiva, quando sentì l'isolotto inclinarsi dolcemente verso il
margine opposto, come se qualche grosso animale tentasse di salirvi.
Dapprima provò
un vago senso di terrore, trovandosi così lontana da Morgan; poi, ricordandosi
di avere lo spadone dello spagnolo, un'arma poderosa e di buon filo, non
ostante la ruggine che la ricopriva, la impugnò solidamente e fece una prudente
ritirata verso il canotto.
"Con
pochi colpi di remo raggiungerò la riva" si era detta.
Riaprì i
paletuvieri e subito un grido d'angoscia le sfuggì.
Il canotto,
che pochi minuti prima aveva legato ad una grossa canna, se ne andava
lentamente alla deriva, girando dolcemente su se stesso.
"Ah!...
Mio Dio!..." esclamò la disgraziata fanciulla. "Sono perduta!... Come
farò ora ad abbandonare questo isolotto?"
Gettò
all'intorno uno sguardo smarrito, e non vide alcuno aprirsi il passo fra le
canne ed i paletuvieri. Eppure l'isolotto subiva di quando in quando delle
leggiere oscillazioni, specialmente verso il margine opposto.
Qualcuno
doveva, per qualche segreto scopo, aver lasciato allontanare il canotto,
affinché la fanciulla rimanesse prigioniera sull'isolotto.
"Che vi
sia qualche indiano nascosto fra questi vegetali?" si chiese Jolanda.
"Eppure non ne abbiamo veduto. Che si tratti di quei terribili
selvaggi?" si domandò, retrocedendo fino sul margine dell'isolotto.
"Che cosa potrei fare io se mi assalissero in parecchi?"
Si era
fermata, coi piedi quasi in acqua, scrutando attentamente le canne e
sembrandole ad ogni istante di udire il sibilo di qualche freccia. Invece
nulla; anzi, l'isolotto non si agitava più e si manteneva perfettamente
immobile.
Un po' rassicurata,
guardò il canotto. La debole corrente l'aveva spinto verso un banco pantanoso
emergente dall'acqua di qualche palmo, lontano un centinaio di metri.
"Non
potrò mai raggiungerlo" mormorò. "Non oserei immergermi fra queste
acque, che possono nascondere dei voraci caimani: chissà anzi che non mi spiino
in questo momento, in attesa di divorarmi.
"Cerchiamo
di avvertire il signor Morgan, poi vedrò come potrò fare per raggiungere il
canotto."
Colle mani
fece portavoce e gridò con quanto fiato aveva:
"Signor
Morgan!..."
Il
filibustiere, che si trovava a meno di mezzo miglio, udì distintamente la
chiamata, poiché si sollevò più che poté, gridando a sua volta:
"Che cosa
desiderate, signora di Ventimiglia?"
"Hanno
tagliata la liana del mio canotto e non so come fare a ritornare."
"È
affondato?"
"No, si è
arenato a cento metri da me."
"E chi ha
recisa la corda?"
"Non lo
so, eppure temo che qualcuno si sia accostato all'isolotto."
"Non
potete costruire una zattera?"
"Non vi
sono che delle canne, qui."
Il filibustiere
fece un gesto di disperazione.
"E non
poterla aiutare in modo alcuno!" gridò. "Signora, sapete
nuotare?"
"Sì."
"Gettatevi
in acqua senza indugio e raggiungete il canotto."
"E gli
alligatori?"
"È vero,
non vi avevo pensato" rispose Morgan. "Cercherò io di venire verso di
voi."
"Ve lo
proibisco. La vostra ferita s'inasprirebbe, e poi chissà se voi potreste
riuscire nell'intento."
L'isolotto si
era nuovamente piegato verso il margine opposto, con degli scricchiolii sordi.
"Non
spaventiamo inutilmente il signor Morgan, e cerchiamo di cavarcela meglio che è
possibile" disse. "Io non devo contare su di lui o sarebbe capace di
commettere qualche pazzia per venire in mio aiuto. La figlia del Corsaro Nero
deve mostrarsi degna del padre."
Aprì
arditamente le canne colla mano sinistra e s'avanzò risolutamente colla spada
tesa, pronta a colpire.
L'isolotto non
aveva più di dieci metri di larghezza su una lunghezza di quindici o sedici,
quindi in pochi istanti giunse sulla riva opposta.
Con sua
sorpresa non vide nessuno. Solamente notò che un gruppo di fusti di legno
cannone che crescevano su di un minuscolo banco, lontano pochi passi, si
agitava ancora come se qualcuno vi si fosse nascosto nel mezzo.
"Deve
essere stato un caimano" disse Jolanda. "Spinto dalla fame, avrà
cercato di salire sull'isolotto colla speranza di sorprendermi.
"Lasciamolo
in pace e cerchiamo invece di trovare qualche mezzo per raggiungere il
canotto."
Ad un tratto
le sfuggì un grido di gioia.
"Io
dimenticavo che quest'isolotto è galleggiante!" esclamò. "Cerchiamo
qual'è l'ostacolo che lo trattiene e recidiamolo. Libero che sia, la corrente
può portarmi là dove si trova il canotto, o per lo meno, verso la riva."
Si mise a
percorrere l'isolotto in tutti i sensi, spiccando, di quando in quando, un
salto, per assicurarsi della sua solidità, facendolo ogni volta ondeggiare
vivamente, e s'arrestò verso il centro dove ergevasi una massa informe coperta
di muschi e di piante parassite.
"Che sia
questo l'ostacolo?" si domandò. "Si direbbe che questo è un pezzo di
tronco e che attorno ad esso tutte queste piante si sono fermate ed intrecciate
strettamente."
Prese lo
spadone e tagliò muschi e piante, mettendo allo scoperto un pezzo d'albero
ormai semi-imputridito che si scheggiava facilmente sotto i colpi dello
spadone.
"Me l'ero
immaginato" mormorò la fanciulla. "È questo che trattiene l'isolotto
come un'àncora.
"Tagliato
che sia, tutta questa massa seguirà la corrente ed in qualche luogo mi
condurrà."
S'appressò
all'orlo del galleggiante e si mise a gridare:
"Signor Morgan!... Signor Morgan!..."
"Signora"
rispose il filibustiere.
"Se
ritardo a tornare, non inquietatevi. Ho trovato il mezzo di raggiungere
egualmente la riva."
"Non
correte alcun pericolo? Ditemelo od io tenterò la traversata della laguna a
nuoto."
"Oh!...
Non fatelo, non muovetevi, signor Morgan. Rimanete tranquillo e prima di
mezzodì io sarò, spero, con voi."
Fece ritorno
al tronco e dopo d'aver tagliate all'intorno le radici delle piante acquatiche,
che formavano il fondo del galleggiante, e aver levato i detriti vegetali già
quasi convertiti in terriccio, si mise a lavorare a colpi di spadone con tutte
le sue forze.
La lunga
immersione aveva guastato il legno, una vera fortuna, poiché quell'albero,
spezzatosi chissà per quale causa, ed affondato, aveva una circonferenza
notevole, e certo la fanciulla non sarebbe mai riuscita a spezzarlo, senza
l'aiuto d'una buona scure.
Lavorava già
da una buona mezz'ora, con crescente accanimento, decisa a non interrompersi
fino all'esaurimento completo delle sue forze, quando sentì l'isola nuovamente
oscillare, poi piegarsi verso un lato.
"Che sia
il caimano che ritenta l'attacco?" si domandò, voltandosi rapidamente.
"Quel bestione vuole un buona lezione e gliela darò. Quei rettili non sono
già voraci né pericolosi come i coccodrilli, e poi non sono molto agili a terra
e le canne gl'impediranno di servirsi della sua coda.
"Finiamola!..."
Decisa ad
affrontare l'ingordo sauriano, onde non venire da un momento all'altro
sorpresa, si avanzò adagio adagio, scostando le canne dolcemente per non fare
rumore.
Era già giunta
dietro i paletuvieri, quando udì due tonfi, uno subito dopo l'altro e vide
balzare in aria un fiotto di spuma giallastra.
Con un salto
fu sul margine dell'isolotto e si curvò prontamente allungando lo spadone, poi
si ritrasse subito, facendo un gesto di terrore.
Attraverso
l'acqua, che era piuttosto trasparente, aveva veduta una forma umana nuotare
velocemente e scomparire in mezzo alle larghe foglie dei mucumucù e delle victoria.
"Un
uomo!..." avea esclamato. "E forse erano due!... Che siano indiani
antropofagi?"
Si abbassò
dietro le rizofore per non venire scorta e guardò il banco, che si trovava di
fronte all'isolotto e su cui poco prima aveva veduto agitarsi i fusti di legno
cannone.
Non erano
trascorsi cinque secondi, quando vide una testa coperta da lunghi capelli
biondastri, emergere quindi un corpo semi-nudo, scivolare fra le piante e
scomparire.
Poco dopo un
altro ne sorgeva a breve distanza e pure si nascondeva fra le piante.
"Sono due
cannibali" mormorò la povera fanciulla, rabbrividendo. "Il colore dei
loro capelli li ha traditi. Quei miserabili cercano di prendermi per divorarmi.
Che siano due di quelli che ci hanno fatti fuggire? Il pericolo è grave e bisogna
che mi affretti a liberare l'isolotto dall'ostacolo che lo tiene
prigioniero."
Per un momento
ebbe il pensiero di avvertire Morgan, poi, riflettendoci meglio, vi rinunciò.
Già non poteva esserle di alcun aiuto e nel tentativo di salvarla avrebbe
commesso qualche pazzia.
Rimase in
osservazione alcuni minuti, poi vedendo che i due indiani non si facevano vivi,
quasi persuasa che non osassero affrontarla direttamente e che fossero privi
d'armi, non avendo veduto indosso a loro alcun arco, anzi nemmeno un coltello,
ritornò verso il centro dell'isola, riprendendo il duro lavoro.
Il tronco era
già stato profondamente intaccato dalla grossa lama dello spadone, un'arma
impareggiabile, forse di vero acciaio di Toledo, temprato nelle acque del
Guadalquivir.
Ci volle una buona
ora prima che quel pezzo di legno fosse tagliato a sufficiente profondità per
permettere a quell'ammasso di radici e di piante di potersi liberamente
muovere.
"Va!..."
esclamò Jolanda. "l'isolotto si muove! Sono salva!"
Quel grido l'aveva
mandato troppo presto.
La massa
galleggiante si era appena messa in moto, quando s'inchinò bruscamente da un
lato lasciando filtrare abbondantemente l'acqua attraverso le radici ed il
terriccio, poi un urlo rauco, che sembrava l'urlo di guerra di un indiano,
squarciò improvvisamente l'aria.
Jolanda aveva
fatto un salto indietro, mentre un uomo di alta statura, quasi interamente
nudo, grondante d'acqua, le si precipitò addosso allungando le mani per
afferrarla.
Dalla tinta
della pelle, assai più chiara di quella degli altri indiani, dagli occhi
azzurrognoli invece d'essere neri e dal naso adunco come il becco d'un
pappagallo, la signora di Ventimiglia aveva subito riconosciuto nel suo
assalitore uno di quei feroci abitatori delle selve interne del Venezuela, che
si pascevano di carne umana; tuttavia non si smarrì.
Aveva nelle
vene il sangue del formidabile scorridore del mare e quantunque sola e
giovanissima fece fronte all'impetuoso attacco del selvaggio.
Questi
d'altronde era inerme.
"Indietro
o t'uccido!" gridò la valorosa italiana, spingendo minacciosamente innanzi
lo spadone.
L'indiano, che
si credeva abbastanza robusto per misurarsi con una creatura che gli pareva
debole, invece di dare indietro spiccò un salto per strapparle l'arma.
Jolanda con una
mossa fulminea si sottrasse all'attacco, poi allungò il braccio armato,
colpendo l'indiano sotto la gola e con tale violenza che la lama entrò nelle
carni per parecchi pollici.
Il ferito
mandò un urlo feroce, si portò le mani sullo squarcio per arrestare il sangue
che sfuggiva a fiotti, poi fuggì via come un pazzo, rantolando.
Jolanda stava
per slanciarglisi dietro onde costringerlo ad abbandonare l'isolotto quando udì
dietro di sé le canne aprirsi violentemente.
Ebbe appena il
tempo di voltarsi e di rimettersi in guardia che vide apparire il secondo
indiano, che teneva in mano un grosso bambù terminante in una rozza punta.
Vedendo
l'atteggiamento fiero e risoluto della fanciulla e soprattutto la spada che
impugnava solidamente, ebbe un momento di esitazione.
Jolanda che
vedevasi rizzare dinanzi la morte, ne approfittò per incalzarlo vigorosamente,
vibrando tre o quattro stoccate.
La scherma non
le era sconosciuta e sapeva valersi delle armi usate in quei tempi.
"T'uccido!..."
gli gridò.
L'indiano,
sorpreso di aver trovato quell'inaspettata resistenza e forse spaventato dal
grido di morte del compagno, indietreggiò verso l'orlo della zattera,
digrignando i denti e ruggendo come una belva.
Due volte
aveva tentato di colpire la fanciulla colla sua arma primitiva, senza
riuscirvi.
Vedendosi
presso il margine cercò, con un salto improvviso, di fare inclinare
quell'ammasso di radici e di piante, colla speranza di far cadere la valorosa
fanciulla e di gettarsele poi addosso a tradimento.
Venutogli meno
anche quel tentativo, tentò di scagliarsi sull'avversaria a corpo perduto e di
stringerla fra le braccia; invece cadde in acqua con una puntata in mezzo al
petto, che gli strappò un urlo di dolore.
Quasi nel
medesimo istante le acque si gonfiarono bruscamente presso di lui, due enormi
mascelle apparvero munite di denti formidabili e si chiusero con un lugubre
scricchiolìo intorno al suo corpo, tagliandolo in due.
Il disgraziato
ebbe appena il tempo di mandare un grido orribile e scomparve assieme al
caimano, diventato inconsciamente alleato della giovane.
Jolanda
atterrita da quell'atroce spettacolo era rimasta muta cogli occhi sbarrati,
fissi sul cerchio di sangue, che s'allargava a fior d'acqua.
"Non
supponevo che finisse così" disse, tergendosi il freddo sudore che le
bagnava la fronte. "È orribile!... È orribile. Cerchiamo almeno di
soccorrere l'altro, se è possibile."
Il primo
indiano, fuggendo, aveva tracciato un largo solco fra le canne e le piante non
si erano ancora alzate. Lo seguì fino sul margine dell'isolotto senza trovare
quel disgraziato. Le foglie dei paletuvieri erano imbrattate di sangue non
ancora coagulato, ma l'indiano non vi era più.
Probabilmente
era balzato in acqua ed era morto in fondo alla palude o era spirato su qualche
banco vicino.
"L'hanno voluto"
disse con voce triste. "Sarei stata ben felice di risparmiarli."
Ritornò
lentamente verso l'altro margine dell'isolotto e guardò verso la riva.
Morgan non si
scorgeva più e nemmeno l'accampamento. La zattera si era spostata e filava
dolcemente attraverso un ampio canale aperto fra i banchi, andando alla deriva.
La
marcia notturna
Jolanda, certa
che anche il primo indiano fosse morto, cominciava a rassicurarsi; tuttavia non
era troppo soddisfatta della via che seguiva l'isola galleggiante e che non
poteva in modo alcuno modificare, non avendo forza sufficiente per spostare una
simile massa, anche se avesse avuto a sua disposizione qualche remo.
Aveva dapprima
sperato che andasse alla deriva verso il banco su cui stava ancora arenato il
canotto; invece la corrente l'aveva tenuta assai lontana e la trascinava non
già verso la riva, bensì verso il mezzodì, dove non scorgevansi, almeno fino
allora, alberi di nessuna specie che indicassero la vicinanza d'una foresta e
quindi la terra ferma.
"Che
questa laguna sbocchi in mare?" si domandò con apprensione. "No, non
è possibile" aggiunse poi, dopo essersi orientata col sole. "Il golfo
del Messico sta verso il settentrione, ossia dietro di me.
"Dove va
dunque quest'acqua? Che si riversi in qualche grande laguna interna? Come sarà
inquieto il signor Morgan non scorgendomi più! Se potesse ancora udirmi ed
avvertirlo. Proviamo!..."
Si spinse
verso l'orlo dell'isolotto e con quanta voce aveva lo chiamò tre volte per
nome, poi attese.
Poco dopo una
voce assai lontana le rispose.
"Signora!...
Signora!... Dove siete?... La corrente mi trascina verso il sud. Appena
toccherò terra verrò a raggiungervi. Nessuno mi minaccia, quindi attendetemi
senza angosciarvi anche se tardo."
Si sedette
sull'orlo della zattera, mettendosi a fianco la spada e trangugiò una mezza
dozzina d'uova, fra quelle che aveva prese dai nidi, e deposte in una buca.
"Peccato
non poter invitare il signor Morgan" disse. "Ed è lui soprattutto che
ha bisogno di rinvigorirsi."
Terminato il
magro pasto, con alcune canne si costruì una piccola tettoia per ripararsi dai
raggi del sole diventati ardentissimi ed attese pazientemente che la zattera
approdasse in qualche luogo.
Il canale era
terminato e dinanzi all'isolotto si stendeva una immensa superficie liquida,
quasi sgombra di banchi, solcata solo da un numero infinito di uccelli
acquatici, che volteggiavano con piena sicurezza anche sopra la testa di
Jolanda e che si posavano senza alcuna diffidenza fra le canne.
Al sud invece,
si cominciava a discernere una striscia un po' oscura, che doveva essere il
margine di una foresta.
Doveva
trovarsi là dietro il bacino di raccolta delle acque, poiché la corrente,
quantunque fosse sempre debolissima, non variava direzione.
"Non
giungerò all'altra sponda prima del tramonto" disse la fanciulla, che si
era alzata per meglio osservare quella linea. "Quanta via dovrò poi fare
per raggiungere il signor Morgan?
"E dovrò
farla di notte, quando le belve escono dai loro covi per mettersi in cerca di
preda! Eppure non posso lasciare solo il filibustiere, che si trova ancora così
debole da non potersi difendere.
Tornò a
sedersi sotto la tettoia, guardando le acque, che di quando in quando qua e là
si gonfiavano, per mostrare qualche dorso rugoso coperto da scaglie fangose.
Erano dei
caimani che giuocherellavano, inseguendosi. Fortunatamente pareva che non
facessero nessuna attenzione all'isolotto.
La sponda
intanto diventava sempre più visibile. Era assai bassa, tanto che pareva si
trovasse a livello della laguna e coperta di alberi, che pareva appartenessero
alla specie dei manghi, piantati su radici altissime e contorte che parevano
uscire dall'acqua.
Il sole stava
per tramontare, quando l'isolotto finalmente si arenò su quella riva che pareva
costituita da pantani assai molli, i quali potevano benissimo nascondere delle
sabbie mobili.
I manghi erano
vicinissimi e le loro radici erano così unite da permettere il passaggio.
Jolanda, che
diffidava di quel terreno traditore, si appese lo spadone al fianco, poi,
aiutandosi colle mani e coi piedi, salì sulla radice più vicina, senza
preoccuparsi delle proteste rumorose ed affatto inoffensive d'una banda di
scimmie rosse che aveva occupati i rami per saccheggiarne le frutta.
Aggrappandosi
alle liane, che pendevano numerose dai tronchi e che erano resistenti come
corde di canapa e, guardando attentamente dove posava i piedi per non venire
inghiottita dalle sabbie, dopo un quarto d'ora di ginnastica faticosa si trovò
finalmente sul terreno solido, che era coperto di palme gommifere d'aspetto
bellissimo e pittoresco.
"Risaliamo
verso il settentrione" disse Jolanda, che pareva fosse instancabile.
"Le belve ordinariamente non lasciano i loro covi prima della mezzanotte e
per quell'ora avrò percorso un lungo tratto di via. Povero signor Morgan, come
sarà inquieto!..."
Raccolse
alcuni manghi che giacevano al suolo, se ne mise alcuni nella sottana ripiegata
per serbarti per il ferito, non avendo prese con sé le uova per essere più
libera, impugnò lo spadone e si mise coraggiosamente in cammino, costeggiando
la laguna.
Il sole era
già scomparso e lunghe file di trampolieri solcavano lo spazio per raggiungere
le isolette, in mezzo alle cui canne avevano i loro nidi. La luna cominciava a
mostrarsi al di sopra dei grandi alberi, tingendo di riflessi argentei le
acque.
I rumori a
poco a poco si spegnevano. Scimmie e volatili tacevano e cominciavano invece a
ronzare le terribili zanzare che s'alzavano a battaglioni dai paletuvieri.
Jolanda
affrettava il passo, tenendosi lontana più che poteva dal margine della
foresta, per non venire improvvisamente sorpresa da qualche giaguaro o da
qualche coguaro e si fermava sovente e tendere gli orecchi.
Fortunatamente
anche la foresta, almeno fino a quel momento, era silenziosa e non si udiva che
il lieve stormire delle fronde, appena agitate dal venticello notturno.
Nondimeno non
si sentiva tranquilla e, quantunque avesse lo spadone, delle vaghe paure
cominciavano ad infiltrarsi nel suo animo. Le pareva di vedere fra i cespugli
della foresta agitarsi delle forme umane e scintillare anche gli occhi
fosforescenti degli animali feroci.
Si fermò tre o
quattro volte, guardandosi intorno con spavento, credendosi seguita da uomini o
da animali, e chiedendosi se non sarebbe stato meglio rifugiarsi su qualche
albero e attendere l'alba.
Ogni volta il
timore che Morgan, l'uomo per cui, in fondo all'anima nutriva ormai qualcosa di
più d'un semplice affetto, potesse correre qualche grave pericolo, la spronò a
riprendere la marcia.
Camminava già
da un paio d'ore, affrettando sempre più il passo, quando le parve che una
figura mostruosa si agitasse sull'orlo della foresta a quaranta passi da lei.
La luna, che
splendeva in un cielo purissimo, la illuminava solamente in parte, essendovi in
quel luogo delle piante assai fronzute che proiettavano una folta ombra
Jolanda non
riusciva a capire bene che animale fosse; le sembrava però una scimmia
piuttosto che un giaguaro od un tapiro, e di dimensioni assolutamente
straordinarie.
"Che sia
un orangutan?" mormorò. "Eppure mi hanno assicurato che in America
non si trovano che scimmie di piccola statura."
Si provò a
fare qualche passo innanzi, sperando di spaventare quel singolare animale;
invece quello non lasciò il posto e continuò a dondolarsi comicamente ed a fare
degli inchini.
Jolanda non
sapeva che decisione prendere. Tornare indietro e riguadagnare la zattera non
voleva; d'altronde esitava a perché quel quadrumane si trovava appunto là dove
bisognava passare, essendovi la laguna da una parte ed il bosco dall'altra.
Finalmente si
decise e avanzò.
L'animale la
lasciò accostare senza fare alcuna dimostrazione ostile, poi, quando se la vide
a pochi passi, si alzò e scappò verso il bosco. Cosa strana!... Nel muoversi
erasi rimpicciolito e non sembrava più alto di una scimmia comune.
"Oh!...
Curiosa!..." esclamò la fanciulla, ridendo. "Che sia stata una
illusione ottica? Effetto di raggi di luna ripercossi sulle acque forse, che
hanno ingrandito quello scimiotto?
Tutta lieta di
essere sfuggita così bene a quel pericolo che non le era sembrato dapprima
immaginario, riprese animosamente la via.
Dopo un'altra
ora, mentre scendeva da una piccola altura che costeggiava la laguna, distinse
finalmente in lontananza un punto luminoso.
"Il
nostro accampamento!..." esclamò con voce giuliva. "Povero signor
Morgan, come avrà fatto ad accendere il fuoco, ferito come è? Sarà ben lieto di
vedermi."
Raddoppiò il
passo, senza più preoccuparsi delle urla dei lupi rossi, che di quando in
quando risuonavano sotto gli alberi; ad un tratto, quando già non distava
dall'accampamento che tre o quattrocento metri e cominciava a distinguere la
minuscola tettoia, un grido la fece trasalire.
"Prendi,
canaglia!..." aveva urlato una voce formidabile.
"Il
signor Morgan!..." aveva esclamato Jolanda. "Dio mio!... È in
pericolo!..."
Si mise a
correre disperatamente, gridando:
"Signor
Morgan, vengo in vostro aiuto!"
Vicino al
fuoco mezzo spento vedeva un gruppo che si agitava e che sembrava formato da un
uomo e da un animale.
Di quando in
quando balenava in aria qualche cosa, come la lama d'una spada, che poi calava
rapida, per rialzarsi subito.
La voce
continuava a urlare:
"Eccone
un'altra!... Non te ne vai ancora? Prendi dunque!..."
Poi si udivano
dei rauchi brontolii, che finivano in una specie di ruggito soffocato.
Il
filibustiere doveva essere stato assalito da qualche belva e si difendeva
disperatamente a colpi di spada.
Jolanda si precipitò
verso l'accampamento, gridando:
"Eccomi,
signor Morgan!... Giungo in tempo!..."
"Guardatevene,
signora" rispose il filibustiere. "È un coguaro quello che m'ha
assalito!"
"Così
saremo in due ad affrontarlo" rispose la valorosa fanciulla.
Il coguaro,
vedendo sopraggiungere quel rinforzo, si volse per far fronte a quel nuovo
nemico, e Morgan approfittò per tirargli un colpo di spada nelle natiche.
La belva mandò
un ruggito di rabbia e di dolore, con un urlo abbatté la tettoia e fuggì verso
il bosco, spiccando salti di tre o quattro metri.
"Grazie,
signora" disse Morgan, con voce commossa. "Stavo per essere
sopraffatto da quell'animalaccio. Come sono lieto di rivedervi! Cominciavo a
temere che vi fosse successa qualche grave disgrazia."
"Siete
stato nuovamente ferito?" chiese la fanciulla, premurosamente.
"No,
signora. Solamente la mia casacca è stata ridotta in cattivo stato. Ebbi il
tempo di afferrare la spada e potei così tenere il coguaro a distanza."
"Vi aveva
sorpreso?"
"Sì,
mentre stavo riattizzando il fuoco" rispose il filibustiere. Voi, da dove
venite? Esporvi così, di notte, sola, su queste sponde che sono infestate da
animali pericolosi.
"Non sono
forse la figlia del Corsaro Nero?" disse Jolanda, sorridendo.
"È
vero" rispose Morgan, imitandola. "Vi dico però che nessun'altra
donna, specialmente alla vostra età, avrebbe avuto un tale coraggio."
"Tacete,
signor Morgan e ditemi, come va la vostra ferita?"
"Comincia
già a cicatrizzarsi, signora."
"Avrete
sofferto fame e sete quest'oggi?"
"Ero
troppo inquieto per voi per accorgermene."
"Vi ho
portato alcuni manghi."
"Mi
basteranno. Sedetevi e riposatevi, signora, e poi mi racconterete le vostre
avventure."
"Che sono
terribili, signor Morgan. Per poco non venivo uccisa e divorata."
"Da
chi?" chiese il filibustiere, impallidendo.
"Da due
di quegli indiani che ci hanno inseguiti."
"Da
quegli antropofagi?..."
"Mangiate,
signor Morgan, poi vi racconterò tutto."
Ricompare
don Raffaele
Quattro giorni
dopo, il filibustiere si dichiarò pronto a mettersi in marcia.
La ferita si
era quasi interamente rimarginata, e, quantunque si fosse nutrito di sole
frutta, le forze a poco a poco gli erano ritornate.
La sua
robusta, anzi eccezionale fibra, aveva concorso non poco ad affrettare la sua
guarigione.
Già il giorno
innanzi si era provato a fare una breve passeggiata nel bosco vicino, senza
provare alcun dolore.
"Partiamo,
signora" disse dunque quella mattina, dopo una magra colazione di banane
cucinate sotto la cenere. "Dobbiamo raggiungere il mare al più
presto."
7"Là sta
la nostra salvezza."
"Supponete
che questa laguna abbia uno sbocco verso il golfo del Messico?" chiese
Jolanda.
"Sì,
perché io ho ieri osservato che la corrente scende verso il sud per sei ore, e
che poi risale verso il settentrione."
"Dunque
queste acque subiscono il flusso e riflusso del mare?"
"Precisamente."
"E
sperate di trovare là Carmaux?"
"O per lo
meno qualche villaggio di Caraibi. Quei selvaggi non sono più cattivi e
rispettano gli uomini dalla pelle bianca, ora che hanno subìto la
colonizzazione spagnola. Da loro potremo avere facilmente una buona piroga
colla quale riusciremo a giungere alla Tortue. Colla promessa di qualche
fucile, non si fanno pregare per accompagnarci."
"E
Carmaux?"
"Quando
saremo alla Tortue manderò qui un drappello di bucanieri o di filibustieri a
cercarlo.
"Dov'è il
nostro canotto?"
"L'ho
ricondotto qui ieri sera, mentre voi dormivate. La zattera che mi avete
insegnato a costruire, mi ha trasportata fino al banco dove si era
arenato."
"Siete
una fanciulla ammirabile, signora di Ventimiglia."
Presero le
spade e la pistola e scesero la riva, ma una dolorosa sorpresa li attendeva:
l'imbarcazione era nuovamente scomparsa!...
"Che si
sia affondata?" si chiese Morgan, diventando pallidissimo.
"Non lo
ammetterò mai" rispose Jolanda, che appariva non meno sgomentata del
filibustiere. "Era tutta d'un pezzo e non aveva alcuna crepatura."
"Allora
ce l'hanno rubata."
"E
quando?"
"Voi
siete certa che vi fosse ancora ieri sera?"
"Sì,
l'avevo legata con una liana nuova."
"Qualcuno
ce l'ha rubata approfittando dell'oscurità. Durante la vostra veglia non avete
veduto nessuno?"
"Non mi
parve, signor Morgan."
Il
filibustiere scese la riva e prese la liana che prima univa il canotto ad un
fusto di legno cannone e la esaminò attentamente.
"È stata
tagliata con un colpo di coltello o con qualche cosa di simile" disse.
"Signora, io suppongo che altri indiani abbiano scoperto il nostro accampamento
e la più elementare prudenza consiglia di andarcene di qui al più presto."
"E
dove?" chiese Jolanda.
"Nella
foresta dove gli Oyaculè hanno inseguito Carmaux ed i due caraibi. M'ingannerò,
eppure io spero di ritrovare ancora il mio marinaio"
"Sarà
necessario attraversare il fiume, ma mi pare che l'acqua non sia troppo
profonda e poi sono un buon nuotatore e non avrei difficoltà a portarvi sulla
riva opposta."
"Allora
andiamo, signor Morgan" rispose Jolanda. "Marciando sempre verso il
nord noi giungeremo in ogni modo al mare e voi avete una piccola bussola, è
vero?"
"Sì,
signora di Ventimiglia."
Raccolse un
grosso ramo per servirsene da bastone e si misero tutti e due in cammino,
attraversando il promontorio boscoso.
Morgan
s'avanzava adagio per non irritare troppo la ferita e di quando in quando si
arrestava per scrutare i dintorni, temendo sempre una sorpresa da parte di
coloro che avevano rubata la scialuppa.
La foresta
sembrava invece deserta, non si scorgevano che pochi gruppi di cebo brune, scimmie
dal corpo massiccio, ricche di pelo che si solleva in forma di cresta sul capo,
terminante in un ciuffo e che poi si allunga come una barba, girando intorno al
mento.
In dieci
minuti Morgan e Jolanda attraversarono il lembo della foresta e giunsero sulla
riva del fiume, in un luogo ove l'acqua non era molto profonda ed il guado
possibile.
"Permettete
che vi prenda in braccio, signora" disse Morgan. "Non voglio che vi
bagniate."
Stava per
curvarsi onde prendere la fanciulla fra le braccia, quando alcune freccie
sibilarono ai suoi orecchi, senza colpirlo, poi una turba d'indiani uscì
correndo dalla foresta, maneggiando le pesanti mazze quadrangolari ed agitando
gli archi.
Morgan snudò
rapidamente la spada, gettandosi dinanzi a Jolanda per proteggerla, poi,
coprendosi con un fulmineo mulinello, arrestò per un istante gli assalitori,
gridando in lingua spagnola:
"Fermatevi
o vi uccido!..."
Gl'indiani
invece di obbedire si schierarono in semicerchio tendendo gli archi e puntando
le frecce contro il petto del filibustiere.
Il momento era
terribile. Era impossibile che a così breve distanza gl'indiani, che sono
generalmente abilissimi arcieri, potessero mancare al bersaglio.
Morgan,
comprendendo che la sua vita e quella di Jolanda erano in grave pericolo, abbassò
la spada, dicendo con voce minacciosa:
"Che cosa
volete voi dall'uomo bianco? Io non sono vostro nemico. Perché mi
assalite?"
Un indiano che
era più alto degli altri e che portava infisse nei capelli alcune penne di
crace, con un cenno fece abbassare gli archi, poi s'avanzò di qualche passo,
dicendo pure in lingua spagnola:
"Chi sei
tu e da dove vieni?"
"Siamo
naufraghi che la tempesta ha gettati su queste coste."
"Sei tu
che hai ucciso uno dei nostri capi che era qui venuto a cacciare il maipuri
(tapiro) con un suo compagno e che poi non ha fatto più ritorno alla sua
città?"
"Intendi
parlare di Kumara, forse?" chiese Morgan, facendo un gesto di sorpresa ed
insieme di gioia.
"Come
conosci il mio nome?" chiese l'indiano, con non minore sorpresa.
"Io l'ho incontrato
cinque giorni or sono presso la costa, assieme al suo compagno. Era stato
sorpreso dagli Oyaculè e si era rifugiato nel mio accampamento."
"Sono
comparsi qui gli Oyaculè?" chiese l'indiano, con un tremito nella voce.
"Sì, e
furono essi a dividermi da Kumara."
"E dov'è
ora il capo?"
"Io non
lo so. È fuggito nella foresta assieme ad uno dei miei compagni e non ho più
riveduto nessuno"
"Tu mi
giuri sul tuo piaye che non l'hai ucciso?"
"Lo
giuro" disse Morgan.
L'indiano si volse
verso i suoi compagni e scambiò con loro alcune parole, in una lingua che il
filibustiere non comprendeva, quindi tornò verso Morgan che stava sempre
dinanzi a Jolanda e gli disse:
"Credo a
quanto hai raccontato, uomo bianco. Dove andavi ora?"
"Verso la
costa, colla speranza di veder passare uno dei nostri canotti."
"Vieni
invece al nostro villaggio che è situato pure presso le rive del mare,
all'uscita delle acque della laguna. Noi ti accordiamo larga ospitalità e non
avrai nulla da temere. Tu sai che i caraibi sono oggi gli alleati degli
spagnoli."
"Noi
siamo pronti a seguirti."
"È tua
figlia quella fanciulla?" chiese il caraibo.
"No, mia
sorella" rispose Morgan.
"Deve
essere coraggiosa quanto è bella."
"E saprà
difendersi quanto un uomo di guerra."
"È sotto
la mia protezione e nessuno oserà alzare gli sguardi su di lei. Facciamo
colazione, poi partiremo."
Gli indiani si
sedettero intorno a Morgan e a Jolanda e trassero dalle loro pagara (specie di
ceste formate di foglie intrecciate) dei pesci che avevano pescati di recente e
che avevano già arrostiti, alcuni quarti di kariacù (specie di cervo), dei
banani, delle gallette di manioca e alcuni fiaschi di casciri, forte liquore
che, bevuto in abbondanza, ubbriaca quanto l'acquavite.
Erano una
quarantina, tutti di statura media, come lo sono anche oggidì i pochi caraibi
sfuggiti alle stragi commesse dagli spagnoli, dai francesi, dagli olandesi, con
spalle larghe, nerboruti, dalla pelle d'una tinta giallo-rossiccia, resa ancora
più rossiccia da una mistura d'olio di cocco mescolato all'urina che solevano
spalmarsi per difendersi dalle punture delle innumerevoli zanzare.
Avevano il
viso tondo, grosso, d'aspetto un po' malinconico e gli occhi piccoli, neri e
vivacissimi ed i capelli assai oscuri e grossolani.
Tutto il loro
vestito consisteva in un piccolo gonnellino di cotone ornato di frange e
palline di diversi colori; invece abbondavano di collane e di braccialetti
formati con denti di belve, con cocche variopinte, becchi di tucano e cristalli
di monte; molti avevano il setto nasale bucato e attraversato da una spina di
pesce e sotto il labbro inferiore portavano, incastrato nella carne, un
dischetto di legno od un pezzo di scaglia di tartaruga.
Quand'ebbero
terminata la colazione, che fu consumata in silenzio, non avendo gli indiani
dell'America meridionale l'abitudine di parlare durante i loro pasti, si
dissetarono abbondantemente, poi diedero il segnale della partenza.
Morgan e
Jolanda si misero dietro al capo, il quale, per dimostrare meglio le sue
pacifiche intenzioni, non aveva prese nemmeno le loro spade.
Attraversarono
un lembo della foresta, aprendosi faticosamente il passo fra quegli ammassi di
verzura, e scesero verso la laguna, in una piccola cala dove si trovavano
arenati sulla riva sette lunghi canotti fra cui quello che aveva appartenuto a
Morgan.
"Sei
stato tu a rubarmelo?" chiese il filibustiere al capo dell'orda.
"Sì"
rispose l'indiano, ridendo. "Te l'ho preso ieri sera, poco dopo il
tramonto. Avendo scorti i fuochi che ardevano nel tuo campo, ho costeggiato la
laguna per vedere chi erano le persone accampate e, trovato il canotto, te l'ho
preso. D'altronde non era tuo."
"Apparteneva
a Kumara" rispose Morgan.
"L'ho
riconosciuto subito e, credendo che tu avessi ucciso quel valente guerriero, ti
ho teso l'imboscata per vendicarlo."
"Sospetti
ancora che io l'abbia ammazzato?"
"No."
rispose l'indiano. "Presto, imbarchiamoci."
I caraibi
presero posto nei canotti, afferrarono le pagaie e la piccola flottiglia si
spinse al largo, dirigendosi verso settentrione.
Morgan e
Jolanda si erano installati nella piroga del capo, che era la più lunga e anche
la più comoda, essendo riparata nel centro da una piccola piupa, ossia tettoia
formata con foglie di waie e di maripa.
Verso sera i
canotti giungevano alla foce d'un fiume o d'un canale che fosse, che pareva
comunicasse col mare, scendendo la corrente verso la laguna.
Gl'indiani
s'accamparono all'estremità d'un promontorio, accendendo numerosi fuochi per
tener lontane le belve. Al mattino, allo spuntare del sole, tornavano ad
imbarcarsi, remando con gran lena.
A mezzodì il
canale s'allargò improvvisamente e subito apparve, su una delle rive, un
villaggio acquatico, o aldè piantato su una enorme palizzata e composto di tre
o quattro dozzine di carbè, gigantesche case formate da una immensa tettoia,
lunghe da sessanta a ottanta piedi, alte diciotto o venti, coi tetti di canne e
di foglie di latania.
Attorno alle
palizzate, che sostenevano quelle ampie costruzioni, si scorgevano numerosi
canotti, alcuni scavati nel tronco d'un cedro ed altri di bambù.
Udendo le
grida dei guerrieri, dalle carbè e anche dalle jupa, che sono le capanne
destinate alle donne, uscirono numerosi indiani seguìti da un gran numero di
fanciulli, che salutavano l'arrivo della squadriglia con strilli così acuti da
sfondare gli orecchi.
La canoa del
capo, che era la prima, abbordò la palizzata più prossima ed il capo stesso
aiutò Morgan e Jolanda a salire sulla piattaforma, dove si erano radunati
alcuni sotto-capi, riconoscibili per le penne di craci e di tucani che
portavano infisse nei capelli.
Il capo
scambiò con loro alcune parole, poi facendo un gesto di sorpresa si volse verso
Morgan, dicendogli in lingua spagnola:
"Tu hai
detto il vero e ne sono lieto."
"Perché?"
chiese il filibustiere.
"Kumara è
giunto qui ieri sera, sano e salvo."
"E l'uomo
bianco?"
"Gli
uomini bianchi, vuoi dire."
"No, ve
n'era uno solo cogl'indiani."
"Ve ne
sono ora due: guarda. Ecco che giungono."
Due uomini si
erano precipitati fuori da una capanna e correvano verso Morgan e Jolanda,
balzando attraverso le piattaforme e agitando pazzamente le braccia.
"Carmaux!..."
aveva esclamato il filibustiere con gioia.
"E don
Raffaele" aveva aggiunto Jolanda.
"Da dove
è sbucato quello spagnolo?" si chiese Morgan, con stupore. "E lo
dicevano morto!..."
"Capitano!...
Capitano!..." gridò Carmaux, che arrivava come una bomba. "Salvi!...
Salvi!... Ecco il più bel giorno della mia vita!..."
Il
rapimento di Jolanda
Un quarto
d'ora dopo Morgan, Jolanda, Carmaux ed il piantatore di Maracaybo si trovavano
radunati in una comoda jupa coperta da tre lati di stuoie, messa a loro
disposizione da Kumara. Erano seduti davanti a due magnifiche oche marine
perfettamente arrostite e ad un cumulo di gallette di cassava, di manghi e di
ananassi.
Non mancava
nemmeno un monumentale fiasco di casciri.
Tutti erano
ansiosi di sapere in causa di quali fortunate circostanze erano riusciti a
sfuggire alla morte; ma, sopratutto, meravigliava l'inaspettata presenza di don
Raffaele che avevano creduto annegato.
La narrazione
di Carmaux non aveva destato molto interesse.
Il bravo
marinaio ed i due indiani, con una rapida corsa riuscirono a salvarsi nella
parte più folta della foresta, dove gli Oyaculè non avevano osato inseguirli;
più tardi, erano tornati verso il fiume per cercare Morgan e Jolanda e non
avendoli trovati si erano decisi di recarsi all'aldè per chiamare soccorso e
prendere un nuovo canotto onde perlustrare la laguna.
"Ora a
voi, don Raffaele" disse Jolanda, quando Carmaux ebbe finito. "La
vostra presenza fra questi indiani, per noi è assolutamente
straordinaria."
"Infatti,
signora, mi sono salvato e sono qui giunto in modo miracoloso" disse il
piantatore, che mangiava per due e baciava frequentemente il fiasco, con un
accompagnamento di profondi sospiri. "Mi pare impossibile di essere ancora
vivo. Mi avevano gettato in mare per affogarmi, signore; non è vero che io
fossi caduto da me" disse don Raffaele.
"Chi ti
aveva gettato?" chiese Morgan, aggrottando la fronte.
"Quel
dannato capitano, temendo che io avessi riconosciuto..."
"Alt,
camerata" disse Carmaux, strizzandogli l'occhio.
"...il
comandante della nave" riprese don Raffaele, che era già stato
precedentemente avvertito dal marinaio di non fare cenno alcuno sul governatore
di Maracaybo.
"E quale
capitano?" chiese Morgan.
"Il
signor Valera."
"Quello
che mi teneva prigioniera nei sotterranei del convento di Maracaybo?"
chiese Jolanda.
"Sì,
signora. Doveva essersi immaginato che ero stato io a condurre laggiù i due
filibustieri del signor Morgan e non aspettava che l'occasione propizia per
vendicarsi di me. Approfittando del momento in cui voi eravate occupati a
turare le falle apertesi nel veliero, mi seguì sul castello di prora e, presomi
a tradimento per le spalle, mi precipitò in mare, prima ancora che avessi avuto
il tempo di mandare un grido."
"E come
vi siete salvato?" chiese Morgan. "Eravamo allora assai lontani da
queste coste."
"Ora ve
lo narro. Quando tornai a galla, mezzo istupidito da quel bagno improvviso, la
vostra nave era già lontana; ma vidi, a qualche gomena da me, il rottame della
fregata che galleggiava ancora. Essendo un buon nuotatore, mi vi diressi ed
avendo trovata una fune pendente dal bordo, mi vi issai. Il rottame,
trasportato dal vento e anche da qualche corrente, s'infranse su queste coste e
mi salvai quasi miracolosamente sulla spiaggia, dove venni poi trovato da
alcuni indiani di questo villaggio e qui condotto."
"Abbiamo
infatti trovati gli avanzi della povera fregata" disse Morgan. "Don
Raffaele, voi dovete essere nato sotto una buona stella."
"Comincio
a crederlo anch'io" rispose il panciuto piantatore. "Vorrei
però..."
Che cosa
voleva? Né Morgan né Carmaux poterono mai saperlo, poiché la conversazione fu
improvvisamente interrotta da alcune scariche di fucili e da un gridìo
assordante.
I due corsari,
Jolanda e don Raffaele si erano precipitati fuori della capanna, mentre i
caraibi passano a corsa sfrenata attraverso le piattaforme, seguìti dalle loro
donne che urlavano disperatamente e dai loro bambini che strillavano a piena
gola.
Kumara,
vedendo comparire Morgan, gli si era slanciato incontro, dicendogli:
"Capo
bianco, difendici!..."
"Chi vi
minaccia?" chiese il filibustiere.
"Non so,
degli uomini bianchi s'accostano all'aldè facendo fuoco."
"Degli
spagnoli?"
"Non mi
pare."
"Andiamo
a vedere."
Morgan girò
intorno ad una gigantesca capanna, che gl'impediva di guardare verso la laguna
e giunto sul margine della piattaforma scorse due enormi zattere cariche di
persone, le quali sparavano dei colpi di fucile in aria e non già contro il
villaggio.
Morgan e
Carmaux avevano mandato due grida di gioia:
"I nostri
compagni!..."
Erano infatti
i filibustieri del veliero che s'inoltravano nel canale che comunicava col
mare, spingendo faticosamente innanzi le zattere, che parevano formate cogli
avanzi d'una nave.
C'erano, se
non tutti, quasi tutti e Pierre le Picard era con loro.
Come si
trovavano lì e sopratutto per quale combinazione fortunata erano riusciti, anch'essi,
a sfuggire alla morte?
"Amici!..."
aveva gridato Morgan con voce tuonante. "Cessate il fuoco!... Siete ospiti
d'indiani che non vi daranno fastidi."
Un urlo
immenso si era alzato fra i corsari:
"Il
capitano!... Il signor Morgan!..."
La prima
zattera, spinta innanzi da una dozzina di remi, giunse ben presto sotto le
palizzate e Pierre le Picard per il primo salì sulla piattaforma, gettandosi
fra le braccia di Morgan.
"Anche la
signora di Ventimiglia!..." esclamò, accorgendosi della presenza di
Jolanda. "Ah!... Quale fortuna!..."
"E la
nave?" chiese Morgan.
"Naufragata"
rispose Pierre le Picard "Coi suoi rottami abbiamo costruite queste
zattere."
"Io ho
percorsa la costa senza vederla."
"Si è
sfasciata su di un isolotto, lontano quindici miglia da queste spiaggie.
"Le onde
ci avevano respinti nuovamente al largo, nel momento in cui tu venivi portato
via assieme a Carmaux e alla signora di Ventimiglia e ci gettarono sopra dei
bassi fondi. E tu? Ah!... Un momento. Mi dimenticavo di dirti che per poco gli
spagnoli ci catturarono."
"Quali
spagnoli?"
"Una nave
si è ancorata a poche miglia da qui, in una baia e per poco non scoperse i
nostri galleggianti."
"Una
nave!" esclamò Morgan, nella cui mente era improvvisamente sorta un'idea.
"Sì e
grossa; a quanto mi parve."
"Pierre,
quanti uomini hai?"
"Cinquanta,
essendosene alcuni annegati. I prigionieri spagnoli sono invece fuggiti ieri
sera, approfittando d'una fermata a terra."
"Anche..."
"Sì"
rispose Pierre, che lo aveva compreso.
Morgan
trattenne a stento un gesto di rabbia, poi disse con voce sorda:
"Più
tardi ci occuperemo di loro; per ora abbiamo qualche cosa di meglio da
fare."
Si curvò
sull'orlo della piattaforma e, volgendosi verso i suoi corsari che attendevano
il suo ordine per sbarcare, gridò loro:
"Approdate
sulla riva opposta dove fra poco vi raggiungerò."
"Che cosa
vuoi fare, Morgan?" chiese Pierre le Picard.
"I tuoi
uomini hanno salvate le armi, è vero?"
"È stato
il loro primo pensiero e tutti hanno l'archibugio, la sciabola d'arrembaggio e
munizioni sufficienti."
"È grossa
e molto bene armata la nave che hai veduta?"
"Un bel
vascello, in fede mia" rispose Pierre le Picard.
"A noi
non resta che tentare un colpo disperato, Pierre" disse Morgan.
"Vuoi
impadronirti di quella nave?"
"Sì; è l'unica
risorsa che ci rimane per poter lasciare queste coste e tornare alla
Tortue."
"Diavolo!
Un'impresa che non sarà facile, Morgan. Quella nave, a giudicarla dalla sua
grossezza, deve avere un equipaggio assai numeroso."
"Noi non
siamo abituati a contare i nostri nemici" disse Morgan "Orsù, non
perdiamo tempo. Carmaux!"
Nessuno
rispose. Il bravo marinaio, scorgendo sulla seconda zattera l'amburghese, il
suo inseparabile amico, lo aveva subito raggiunto.
"Sarà con
Wan Stiller" disse Pierre.
"Non
importa" disse Morgan.
Si volse verso
Jolanda che aveva assistito al colloquio senza parlare.
"Signora"
le disse "noi partiamo per una spedizione che può riuscire pericolosissima
e non desidero esporvi. Se vi lasciassi qui, sotto la guardia di Kumara e di
don Raffaele, vi spiacerebbe? Quest'indiani sono brave persone, incapaci di
tentare qualche cosa contro di voi."
"Vi
aspetterò, signor Morgan e perfettamente tranquilla" rispose Jolanda.
"Quello che domando a voi è di non esporvi troppo. La morte d'un uomo così
valoroso e così cavalleresco, la piangerei troppo."
Morgan era
rimasto muto, cogli occhi fissi sulla fanciulla, poi, con un gesto rapido, le
aveva presa la destra portandola alle labbra.
"Signora"
disse, con voce alterata da una gioia intensa "vivrò per voi e se una
palla malaugurata mi attraverserà il petto, morrò col vostro nome sulle
labbra."
Un vivo
rossore erasi diffuso sulle gote della fanciulla.
"V'aspetto,
capitano" disse con un sospiro. "Che Iddio vi protegga."
"Addio,
signora, noi saremo di ritorno prima di questa sera."
Morgan
s'allontanò rapidamente come se volesse nascondere l'emozione che provava e
scese in un canotto, dove già si trovava Pierre le Picard con quattro caraibi.
Jolanda, ritta
sull'orlo della piattaforma, lo seguiva collo sguardo, sorridendogli, né si
mosse finché il canotto non scomparve dietro gli isolotti che ingombravano il
canale.
"Sono
sotto la vostra protezione, don Raffaele" disse al piantatore. "Spero
che, quantunque voi siate spagnolo, non mi tradirete."
"Preferirei
farmi uccidere, signora" disse il piantatore, con enfasi. "Ormai io
sono amico dei filibustieri e se qualcuno vorrà toccarvi, proverà la forza
delle mie braccia."
"Conducetemi
nella jupa che Kumara ha messa a nostra disposizione."
"I vostri
desideri sono ordini per me, signora."
Le fece largo
fra gl'indiani che si erano radunati in buon numero sull'ultima piattaforma e
la precedette fino alla capanna; poi andò in cerca di Kumara che si trovava
all'altra estremità del villaggio, onde mettesse una scorta d'onore a
disposizione della fanciulla.
Aveva già
combinato ogni cosa e stava per tornarsene alla capanna, girando le piattaforme
meridionali, quando i suoi sguardi caddero su un canotto montato da una dozzina
d'uomini e che sbucava in quel momento fra le isolette che si estendevano in
buon numero anche da quel lato.
Fu tale
l'emozione che provò nel riconoscere le persone che lo montavano, che dovette
aggrapparsi ad un palo per non cadere.
Il pover'uomo
non aveva torto a spaventarsi in quel modo, poiché fra quei dodici uomini che
s'avvicinavano rapidamente al villaggio, aveva veduto il conte di Medina e la
sua anima dannata, il capitano Valera.
Quando si
riebbe, il canotto era ormai giunto dinanzi alle prime palizzate e gli spagnoli
stavano salendo sulla piattaforma.
"Sono
perduto!..." mormorò don Raffaele. "Il capitano mi getterà nella
laguna e con una pietra al collo questa volta."
Per un momento
ebbe l'idea di correre alla jupa ed avvertire la signora di Ventimiglia, ma
comprese che era troppo tardi e che non avrebbe potuto ormai fare nulla per
salvarla.
"Se mi
recassi ad avvertire il signor Morgan e Carmaux?" si chiese. "Forse
non sono molto lontani e potrebbero tornare ancora in tempo per impedire al
conte d'impadronirsi della fanciulla.
"Animo,
non perdiamo tempo e mostriamoci coraggiosi una buona volta."
Sotto la
piattaforma vi erano parecchi canotti legati alla palizzata, forniti di pagaie.
Don Raffaele,
che per la prima volta forse in vita sua si sentiva nel cuore un coraggio da
leone, si lasciò scivolare lungo un palo e scese nel canotto più leggiero.
Stava per
spingersi risolutamente al largo, quando un'idea balenatagli improvvisamente
nel cervello, lo trattenne.
"Io stavo
per commettere una sciocchezza" disse. Spinse il canotto sotto le
piattaforme, passando abilmente fra la moltitudine di pali che le sorreggevano
e si diresse verso l'angolo orientale del villaggio.
Mentre le
attraversava udiva distintamente, sopra la sua testa, le donne e gli uomini
chiacchierare ed i bambini ridere o strillare, essendo i pavimenti delle
abitazioni formati da travicelli di bambù, coperti da tralicci di fibre legnose
che non impedivano ai suoni di trasmettersi.
"Benissimo,
benissimo" mormorò don Raffaele. "Non perderò una sillaba di quanto
dirà il conte alla signorina di Ventimiglia, così potrò raccontare tutto al
signor Morgan."
Giunse così
inosservato presso l'angolo orientale dell'aldè, dove sopra sorgeva la jupa che
il capo aveva destinata a Jolanda.
Tese gli
orecchi e udì un passo leggiero che ora s'accostava ed ora s'avvicinava.
"La
signorina è sopra di me" mormorò. "Aspettiamo."
Non erano
trascorsi dieci minuti, quando udì dei passi pesanti, poi la voce del conte
dire:
"Rimanete
qui di guardia, capitano."
"Maledetto
briccone!" mormorò Don Raffaele. "Se potessi afferrare quel dannato
Valera e tirarlo giù, sarei ben contento. Ah!... È entrato il conte!... Apriamo
gli orecchi."
. . . . . . .
. . . . . . . . . . . .
Vedendo
giungere quegli uomini bianchi e salire senza diffidenza sulle piattaforme,
Kumara, seguíto dai sotto-capi, si era affrettato ad andarli a ricevere.
Appena
trovatosi di fronte al conte di Medina, non aveva potuto frenare un grido di
stupore ed insieme di gioia.
"Mi
riconosci ancora, mio bravo caraibo?" chiese il governatore di Maracaybo,
con un sorriso di contentezza.
"Tu sei
il grande uomo bianco che comandava quella bella città che io ho visitato due
anni or sono e che mi accolse da amico" rispose l'indiano.
"Sì"
disse il conte "io ero allora governatore di Cumana. Sono lieto che tu
abbia serbato buona memoria dell'accoglienza che ti feci in quella città degli
uomini bianchi."
"Tengo
ancora i regali che tu mi hai dati. Che cosa posso fare ora per te? Sei mio
ospite."
"Fa dare
una capanna e dei cibi ai miei uomini che hanno fame, poi conducimi al tuo
carbè avendo io bisogno di parlarti."
Il caraibo
diede ai suoi sotto-capi alcuni ordini, poi rivolgendosi al conte:
"Seguitemi,
grande uomo bianco" gli disse.
"Venite,
capitano" disse il governatore, facendo a Valera un cenno.
Mentre gli
uomini che li avevano accompagnati, e che altro non erano che marinai del
veliero abbordato da Morgan, venivano condotti in una capanna. Kumara si
diresse verso il suo carbè, che era assai vasto, introducendo il conte ed il
capitano in una stanza appartata, prospettante la laguna.
"Siete in
casa mia" disse, prendendo una zucca piena di casciri ed empiendo alcuni
bicchieri che aveva ricevuto in dono dagli spagnoli di Cumana.
"Ascoltami
attentamente" disse il conte "e se mi servirai fedelmente, io
regalerò a te ed alla tua tribù armi, vesti e l'acqua che brucia la gola."
"Conosco
la generosità del grande uomo bianco" rispose Kumara, mentre i suoi occhi
s'accendevano d'una fiamma vivida.
"Stamane
io ho veduto passare per il canale sette od otto delle tue canoe, e su una vi
erano un uomo bianco ed una fanciulla."
"È
vero" rispose l'indiano.
"Sono
ancora qui?"
"L'uomo è
partito due ore or sono assieme a molti altri uomini bianchi che erano qui
giunti con delle zattere."
Il conte guardò
il capitano Valera.
"Che
Morgan si sia riunito ai suoi uomini?" chiese.
"Certo"
rispose il capitano.
"È il
demonio che protegge quell'uomo? Lo credevo annegato ed invece ha ritrovato
ancora i suoi maledetti corsari!... Quando finirà la sua fortuna?
"Sai,
Kumana, dove si sono recati?"
"Lo
ignoro, grande uomo bianco" rispose il caraibo. "Ho udito però
parlare di uno di quei grandi canotti che hanno le ali."
"D'una
nave?"
"Sì, così
voi li chiamate."
"Che
qualche legno corsaro abbia approdato su queste coste?" disse il capitano.
"La
fanciulla è partita con quell'uomo?"
"No, è
qui."
Il conte aveva
fatto un soprassalto.
"Qui!..."
esclamò.
"Nella
jupa che le lo destinata" disse l'indiano.
"Ecco una
fortuna che non speravo!... Che superba rivincita!... Me la ritolga Morgan, se
è capace. Bisognerà che ceda, la figlia del Corsaro."
"Adagio,
signor conte" disse il capitano. "Morgan può aver lasciata qui una
scorta per proteggerla."
"Non è
rimasto che un uomo solo a guardarla" disse Kumara "e mi sembra,
anzi, che sia uno spagnolo."
"Se
cercherà opporre resistenza lo getteremo nella laguna" disse il capitano,
con accento risoluto.
"Andiamo
a vederla e lasciatemi entrare solo" disse il conte. "Tu, Kumara,
avrai quanto ti ho detto."
"L'altro
uomo bianco nulla mi aveva promesso" pensò il furbo indiano.
"Serviamo questo."
Prese il suo
arco e le sue freccie e uscì seguíto dai due spagnoli, facendo cenno
agl'indiani che si trovavano sul suo passaggio di allontanarsi.
Attraversò il
villaggio acquatico e si fermò dinanzi alla jupa di Jolanda, dicendo:
"La bella
fanciulla bianca è qui."
"E l'uomo
incaricato di vegliare su di lei?" chiese il capitano.
"Sarà
andato a procurarsi del casciri" rispose l'indiano. "Mi ha già
vuotato tre fiaschi, e del migliore, preparato appositamente per me."
"Rimanete
qui di guardia, capitano" disse il conte.
Si levò il
cappello piumato, ed entrò risolutamente nella capanna, aprendo bruscamente la
porta, non senza chiedere:
"Si
può?"
La fanciulla
stava in quel momento rassettando la casuccia, che era ingombra di canestri
contenenti delle provviste e di stuoie di nipa.
Udendo quella
voce si era vivamente voltata, mandando un grido di sorpresa.
"Voi,
signore?" chiese, inarcando le sopracciglia, e facendo due passi indietro,
mentre le sue gote si scolorivano.
"Mi
riconoscete, signora di Ventimiglia?" chiese il conte di Medina con
accentò un po' ironico, mentre s'inchinava e spazzava il suolo coll'estremità
della lunga piuma del suo feltro.
"Non
dimentico mai coloro che si sono dichiarati miei nemici" rispose Jolanda,
che si era prontamente rimessa dalla sorpresa.
"Io
credo, signora, che voi abbiate avuto sempre torto a considerarmi come vostro
nemico" disse il governatore di Maracaybo, con studiata cortesia.
"Avete mai pensato che io potessi essere, in qualche modo, un po' vostro
parente?"
"Voi!..."
"Vostra
madre era, se non m'inganno, una duchessa di Wan Guld."
"E così,
signore?"
"E nelle
mie vene" disse il conte, alzando fieramente il capo, "scorre pure il
sangue dei Wan Guld."
"Mentite!..."
"Vostra
madre, signora, nacque dalla prima moglie del duca; io sono nato da un'altra
donna che fu come seconda moglie del duca di Wan Guld. Quale differenza passa
dunque? Ma queste sono cose che non vi riguardano. Sangue ducale scorre pure nelle
mie vene e basta."
"Allora
dovreste..."
"Proteggervi,
è vero, signora?" chiese il conte con voce beffarda.
"Disgraziatamente, io non sono tale uomo da difendere le persone che sono
amiche dei ladri di mare e degli amici di vostro padre."
Jolanda si era
rizzata con una mossa di leonessa ferita, col viso rosso di collera, la destra
tesa.
"Siete
venuto qui a offendere la memoria di mio padre, signore?" gridò.
"Vostro
padre" disse il conte "Chi era? Un filibustiere della Tortue, un
ladro di mare al pari degli altri, insomma."
"Signore!...
Uscite!..."
"Sì,
quando avrete firmata la rinuncia dei beni che mio padre il duca di Wan Guld
possiede qui, nelle colonie spagnole dell'America meridionale e centrale. Un
milione di piastre stanno meglio nelle mie tasche che nelle vostre. Voi,
d'altronde, in Piemonte avete terre e castelli a sufficienza."
"Non
firmerò mai quella carta, signore."
"Mai! Eh
via, signora, altri hanno pronunciata quella parola e poi non sempre l'hanno
mantenuta. Non mi conoscete ancora."
"Sì, per
un miserabile!" gridò Jolanda.
Il conte di
Medina diventò pallido come un cencio lavato. Per un momento, la fanciulla lo
vide curvarsi come un toro che si prepara a gettarsi sul toreador, poi
inchinarsi profondamente, dicendo:
"Allora,
signora, rimarrete mia prigioniera."
"E non
pensate che io sono sotto la protezione dei filibustieri della Tortue?"
disse Jolanda.
"Sono
ladri di mare!"
"Sono
uomini formidabili."
"Disgraziatamente
per voi torneranno troppo tardi." Poi con voce recisa, disse:
"Firmate?"
"No."
"Badate!....,
"Delle
minaccie a me!... No, non firmerò mai poiché ho la certezza che in seguito non
potrei riacquistare la mia libertà!"
Una fiamma
sinistra era balenata negli occhi del conte.
"Devo
vendicare mio padre!..." gridò. "Mi avete indovinato!... Vi spezzerò
in due!... A me, capitano!"
Valera, che
stava presso la porta e che tutto aveva udito, con un salto si slanciò nella
capanna, dicendo:
"Eccomi,
signor conte."
"Impadronitevi
di questa fanciulla."
Jolanda aveva
fatto altri due passi indietro, cercando qualche arma. Il capitano, che aveva
forse indovinata la sua intenzione, in un baleno le fu addosso, afferrandola
attraverso la vita.
La fanciulla
mandò un grido:
"Aiuto,
caraibi!..."
Kumara era
diventato però, almeno in quel momento, completamente sordo. Pensava alle armi,
alle vesti e all'acqua che rode la gola del grande uomo bianco e credette
opportuno di non muoversi.
"Firmate
ora?" chiese il conte.
"No...
mai!..." rispose Jolanda, che si dibatteva disperatamente fra le braccia
del capitano.
Il conte uscì
dalla jupa.
"Hai una
canoa pronta?" chiese a Kumara.
"Ne ho
più di cinquanta" rispose l'indiano.
"Chiama i
miei uomini e falli salire sulla più grossa. Io ti aspetto a Cumana per
consegnarti i regali che ti ho promesso."
"Tu sei
generoso, grande uomo bianco" rispose l'indiano. "Ed io stesso ti
condurrò a Cumana. Prima di questa sera noi vi saremo."
"E prima
di mezzanotte noi salperemo per la Costarica e di là passeremo a Panama, è vero
capitano?" disse il conte. "Vedremo se Morgan sarà capace di venire
fin là a prenderla. Là abbiamo truppe e cannoni in così grande numero da tener
fronte ad un'armata. Signora" disse poi. "Vi prego di seguirci."
"E dove,
signore?" chiese la fanciulla.
"Lo
saprete più tardi."
"E se mi
rifiutassi?"
"Mi
vedrei costretto, con mio grande rincrescimento, ad impiegare la forza."
"Lasciate
almeno che scriva un biglietto per il capitano Morgan" disse Jolanda.
"Io ho contratto degli obblighi verso di lui."
"Non
acconsentirò mai. Sbrigatevi, signora, non abbiamo tempo da perdere."
"Siete
dei miserabili!" gridò Jolanda, con supremo disprezzo.
Il conte
impallidì sotto quell'oltraggio, poi riprese subito il suo sangue freddo.
"Le
offese d'una donna non si lavano col sangue" disse. "Basta: venite o
chiamo i miei uomini."
"Non
voglio che i vostri sgherri mi tocchino. Vi seguo; il capitano Morgan saprà
raggiungervi e vendicarmi."
"Vedremo"
rispose il conte, con un sorriso ironico.
Le offerse il
braccio, che ella sdegnosamente respinse e uscirono dalla jupa.
Un gran
canotto montato dagli spagnoli, da sei indiani e da Kumara, li attendeva
dinanzi all'ultima piattaforma.
Don Raffaele,
che temeva di essere scorto, si lasciò cadere nel fondo della sua imbarcazione.
Vide scendere
prima il capitano, poi Jolanda, quindi il conte; poi il gran canotto prese
rapidamente il largo dirigendosi verso settentrione.
"La
conducono a Panama" mormorò il brav'uomo, asciugandosi la fronte. "La
signora di Ventimiglia è perduta; i corsari mai riusciranno ad espugnare quella
grande città, che è così lontana.
"Orsù,
andiamo a dare la triste notizia al signor Morgan."
Passò sotto le
piattaforme remando con gran lena e si diresse là dove aveva veduto sbarcare i
corsari, prendendo terra sul margine della immensa foresta.
La
corvetta spagnola
Mentre il
conte di Medina, con un colpo fortunato s'impadroniva della figlia del Corsaro
Nero, Morgan alla testa dei suoi fidi corsari, si recava in cerca della nave
spagnola che era approdata sulle coste venezuelane e che gli era necessaria per
fare ritorno alla Tortue. Non aveva fatto ancora il suo piano d'attacco,
tuttavia era più che certo che, prima che il sole cadesse, in un modo o
nell'altro, avrebbe avuto in suo potere il legno spagnolo.
Pierre le
Picard si era messo a capo della comitiva, avendo rilevato approssimativamente
il luogo dove la nave aveva gettate le àncore. Con una marcia rapidissima, tre
ore dopo giungevano sulla riva del mare, all'estremità d'una insenatura assai
profonda, dove il legno, sia per fare provvista di acqua o per riparare delle
avarie, aveva cercato un momentaneo rifugio.
I corsari si
fermarono sotto una folta boscaglia, lasciando che solo i due capi si
spingessero fino sulla spiaggia, per timore di venire scoperti e di mandare a
male l'impresa.
La nave che
era penetrata nel golfo, era una magnifica corvetta armata da guerra.
"Che cosa
ne dici, Morgan?" chiese Pierre le Picard, che si era coricato presso al
filibustiere.
"La nave
è grossa e probabilmente avrà un bel numero di artiglierie e un equipaggio
numeroso" rispose Morgan. "Eppure non dispero di sorprenderla col
favore delle tenebre.
"Quel
vascello ci è assolutamente necessario per ritornare alla Tortue. Chi oserebbe,
in questa stagione, che è quella dei tremendi razzi di mare, tentare la
traversata su dei canotti indiani, colla signora di Ventimiglia?"
"Hai
ragione, Morgan. Ah!... Ecco una combinazione fortunata."
"Che
cos'hai, Pierre?"
"Non vedi
gli spagnoli calare in acqua delle scialuppe cariche di barili?"
"Ebbene?"
"Scendono
a terra."
"Pierre"
disse Morgan, alzandosi "credo di aver un bel colpo da tentare."
"Quale?..."
"Lascia
pensare a me. Raggiungiamo i nostri uomini senza perdere tempo. Ti prometto che
prima di sera la corvetta sarà nostra. Andiamo ad imboscarci."
"Che cosa
vuoi tentare?"
"Lo
vedrai fra poco."
L'equipaggio
aveva calato in acqua due grosse scialuppe ed una baleniera e vi avevano preso
posto trenta o trentacinque uomini, tutti armati di archibugi e di scuri.
I due
filibustieri, che si tenevano coricati dietro una macchia di passiflore,
attesero che le scialuppe si dirigessero verso la costa, poi si alzarono e
raggiunsero frettolosamente i loro compagni.
"Preparate
le armi" disse loro Morgan. "Abbiamo da sorprendere le scialuppe che
stanno per toccare la costa." Poi, volgendosi verso Pierre, gli parlò
sottovoce.
"Farò
come vorrai" disse il luogotenente, dopo d'averlo ascoltato senza
interromperlo. "La tua mente è sempre ricca d'espedienti. Mi crederanno
poi?"
"Tu parli
lo spagnolo benissimo e non dubiteranno di nulla."
"Dove mi
aspetterete?"
"Qui, in
mezzo a questi alberi. È necessario che gli uomini rimasti a bordo non si
accorgano dell'imboscata o leveranno le àncore e prenderanno il largo."
"Bada che
i nostri uomini non fucilino anche me."
"Al primo
colpo d'arma da fuoco gettati a terra."
Pierre le
Picard si levò la giacca ed i calzoni, non conservando che le mutande che
strappò qua e là, gettò via anche gli stivali e la spada, raccolse un grosso
ramo e s'allontanò, dicendo:
"Se mi
uccideranno, mi vendicherete."
"Saremo
pronti ad impedire loro d'impiccarti" rispose Morgan.
Mentre i
filibustieri si gettavano a terra, nascondendosi dietro le macchie, Pierre le
Picard si era messo risolutamente in cammino, avanzandosi attraverso la foresta
che era foltissima.
Si orientava
in modo da poter giungere sulla spiaggia dove gli spagnoli dovevano aver preso
terra.
Camminava da
dieci minuti, quando udì dei colpi sonori echeggiare a breve distanza. Pareva
che degli uomini abbattessero delle piante.
Pierre alzò
gli occhi e vide che si trovava in mezzo di una vasta macchia di palmizi
caraibici.
"Cercano
i cavoli palmisti" disse. "Che siano a corto di viveri o che abbiano
degli uomini colpiti dallo scorbuto a bordo? Animo, e badiamo di non raccontare
delle sciocchezze."
S'appoggiò al
bastone, dandosi l'aria d'un uomo sfinito da una lunga marcia e si avanzò
attraverso gli alberi, dirigendosi là dove risuonavano i colpi di scure.
Aveva
attraversato un folto gruppo di simaruba, quando udì una voce esclamare:
"Toh!...
Un selvaggio!..."
Quattro
marinai stavano intorno ad un cavolo palmisto, occupati ad abbatterlo. Vedendo
comparire Pierre, avevano deposte le scuri e raccolti precipitosamente i loro
archibugi.
"Non fate
fuoco, ragazzi" disse il filibustiere, in lingua spagnola. "Io non
sono un selvaggio."
"È vero,
è un uomo bianco" disse uno dei quattro, abbassando l'archibugio. "Da
dove venite, voi?"
"Sono un
povero naufrago" disse Pierre, avanzandosi, "e vostro
compatriota."
I quattro
marinai, pienamente rassicurati, lo avevano circondato, guardandolo con
curiosità mista a compassione.
"Povero
uomo" disse il più vecchio dei quattro. "È molto tempo che errate in
questa foresta?"
"Tre
settimane" rispose Pierre.
"Si è
sfasciata la vostra nave?"
"Completamente
e senza poter salvare nulla."
"Come si
chiamava?"
"La
Pinta."
"Ed i
vostri compagni si sono tutti annegati?"
"La
maggior parte, sì."
"Non
siete dunque solo?"
"Ci siamo
salvati in sette."
"Dove
sono gli altri?"
"In una
capanna che abbiamo costruita poco lungi da qui e sono tutti così sfiniti dalla
fame che non possono nemmeno camminare."
"Eppure
abbondano i cavoli palmisti qui" osservò un altro.
"Non
abbiamo nemmeno una scure per abbatterli."
"Non vi
lascieremo morire d'inedia" rispose il primo. "Aspettate che vada ad
avvertire l'ufficiale e voi, camerati, date a questo povero uomo un po' di
biscotto ed un sorso d'aguardiente, se ne avete ancora nelle fiaschette."
Pierre le
Picard, che recitava a meraviglia la parte insegnatagli da Morgan, aveva appena
stritolati due biscotti e bevuto un po' di acquavite, quando vide tornare il
marinaio accompagnato da un luogotenente e da una trentina di marinai.
"Dove
sono i vostri compagni?" chiese l'ufficiale al filibustiere, che si era
subito alzato. "Il mio marinaio Pedro mi ha raccontato che voi non siete
solo."
"È vero,
signore" rispose Pierre le Picard "e non sono molto lontani."
"Avete
incontrati degl'indiani in questa foresta?"
"Non ne
abbiamo veduto, signore."
"La
vostra nave si chiamava?"
"La
Pinta."
"Ed
apparteneva?"
"Al
dipartimento marittimo di Uraba. Nel Darien."
"Sì,
signore."
"È vivo
il capitano?"
"È morto
nel naufragio."
"Conducetemi
dai vostri compagni. La nostra nave è abbastanza grossa per poter imbarcare
otto o dieci uomini."
"Grazie,
signore" rispose Pierre le Picard, con sottile ironia. "Voi siete
troppo buono. Se non vi rincresce, seguitemi."
"Avanti"
disse l'ufficiale volgendosi verso i suoi uomini.
Il drappello
si dispose su una doppia fila e seguì il filibustiere che si era accompagnato
al luogotenente.
Attraversarono
un lembo della foresta, procedendo con una certa precauzione, poi ad un tratto
Pierre le Picard finse d'inciampare in una liana, lasciandosi cadere come corpo
morto.
Quasi nel
medesimo istante si udì la voce di Morgan gridare:
"Fuoco!..."
Una terribile
scarica era partita in mezzo ai cespugli, gettando a terra una decina di
spagnoli, poi i filibustieri si erano slanciati fuori colle sciabole
d'abbordaggio in mano, gridando:
"Arrendetevi!..."
Lo stupore dei
sopravvissuti era stato tale, che non avevano nemmeno pensato di reagire.
D'altronde, il numero dei nemici era così superiore da togliere loro ogni
desiderio di tentare la resistenza.
Solo il
luogotenente estrasse rapidamente la spada e si avanzò contro Morgan che era
dinanzi a tutti, gridando:
"Chi
siete voi che assassinate degli uomini bianchi al pari di voi?"
"Siamo
dei nemici ben più formidabili degl'indiani" rispose il filibustiere, che
aveva pure messo mano alla spada. Volete sapere chi siamo? Filibustieri della
Tortue. Gettate le armi ed arrendetevi."
Udendo quelle
parole, il luogotenente fece un gesto di stupore.
"Voi,
filibustieri della Tortue!..." esclamò
"Vi
arrendete sì o no? Noi non abbiamo tempo da perdere."
L'ufficiale
esitava, poi vedendo che i suoi uomini lasciavano cadere gli archibugi, non
sentendosi il coraggio di dare battaglia ad una così grossa partita di nemici
tanto temuti, ruppe la spada, gettando i due pezzi in un cespuglio.
"Cedo
alla forza" disse, facendo un gesto di rabbia. "Fucilateci, se lo
credete."
"Sono abituato
a rispettare il valore sfortunato" rispose Morgan. "Voi avrete salva
la vita, ve ne dò la mia parola."
Quindi,
volgendosi verso i suoi uomini che tenevano i fucili imbracciati, pronti a far
fuoco, disse:
"Legate
questi Signori."
Mentre
eseguivano i suoi ordini, mosse incontro a Pierre le Picard che rideva a
crepapelle, sempre sdraiato fra le folte erbe.
"Grazie,
Pierre" gli disse. "Tu mi dai in mano quella nave."
"Non
l'abbiamo ancora presa" rispose il luogotenente, sempre ridendo.
"Non
dubito dell'esito finale" rispose Morgan. "Mancano due sole ore al
tramonto e questa sera non si alzerà la luna.
"Una
sorpresa la si può tentare."
"E non
s'inquieteranno, quelli rimasti a bordo, non vedendo ritornare i loro
compagni?"
Morgan, invece
di rispondere, chiamò sette od otto corsari, poi disse a Pierre le Picard:
"Conducimi
là dove sono le scialuppe."
"Non
siamo lontani più di un chilometro."
"In
marcia, dunque."
Il drappello
partì di buon passo, mentre i filibustieri rimasti legavano agli alberi, con
delle robuste liane, i prigionieri spagnoli.
Dieci minuti
dopo, Morgan, Pierre ed i loro uomini giungevano presso la riva del mare. Si
nascosero in mezzo alle piante, poi il capitano ordinò di fare una scarica in
aria.
Un istante
dopo i cannoni della corvetta tuonavano con un rimbombo assordante.
"Credono
di spaventare dei selvaggi" disse Morgan. "Certo suppongono che i
loro camerati siano stati sorpresi da qualche banda di caraibi.
"Inoltratevi
nel bosco e continuate a sparare, allontanandovi dalla spiaggia più che potete;
e noi, Pierre, sorvegliamo la nave."
I corsari
partirono di corsa, sparando di tratto in tratto e dirigendosi verso il centro
della boscaglia per far credere che inseguissero i selvaggi.
"Vedi che
non si muovono?" disse Morgan, dopo alcuni minuti. "Udendo i colpi
d'archibugio sempre meno distinti, il comandante non dubiterà che i suoi uomini
siano vincitori."
"Sei un
demonio, tu" disse Pierre le Picard.
"Cerco
d'ingannarli" rispose Morgan, "e vedrai che noi ci riusciremo."
Gli uomini
rimasti a bordo non si erano mossi. D'altronde mancavano di scialuppe, non
vedendosi sospesa alla grue che una piccola jola, appena capace di contenere
tre o quattro persone.
Quando il sole
scomparve, fecero tuonare nuovamente i cannoni del cassero per chiamare gli
uomini rimasti a terra, poi accesero i due grandi fanali di poppa.
"È il
momento d'agire" disse Morgan. "Va' a radunare i nostri corsari e
conducili qui senza ritardo."
"Devo
lasciare delle sentinelle a guardia dei prigionieri?"
"Basteranno
quattro" rispose Morgan. "Affrettati, Pierre, sono impaziente
d'impadronirmi della nave."
Il
luogotenente partì di corsa. Un quarto d'ora dopo i corsari si trovavano
radunati sulla spiaggia, pronti ad imbarcarsi.
"Pierre"
disse Morgan "tu che parli lo spagnolo meglio di qualunque altro dei
nostri, dà la voce a quelli di bordo."
Il
luogotenente gridò con quanto fiato aveva:
"Ohè,
camerati!..."
Dalla corretta
si udì un uomo rispondere tosto:
"Siete
voi?"
"Sì."
"Tutti?"
"Tutti."
"Imbarca
e tornate a bordo. Ed i selvaggi?"
"Sono in
fuga."
"Bene: a
bordo."
"Salite
nelle scialuppe e non parlate" comandò Morgan. "Sono carichi i vostri
archibugi?"
"Sì,
capitano" risposero i corsari.
"Appena
saremo sulla tolda del legno date dentro senza misericordia."
I cinquantasei
uomini s'imbarcarono in silenzio nelle scialuppe.
Morgan aveva
preso posto nella più grossa, che era montata da diciotto corsari; Pierre nella
baleniera; gli altri si erano stipati nella terza.
Staccatesi
dalla spiaggia, le tre imbarcazioni si diressero velocemente verso la corvetta,
in modo d'abbordarla da due lati.
La scialuppa
di Morgan fu la prima a giungere sotto la scala di babordo che era rimasta
abbassata.
Il
filibustiere impugnò le armi e salì in fretta, seguíto dai suoi diciotto
uomini.
Appena giunto
in coperta, vedendo avvicinarsi alcuni marinai, scaricò contro di essi i due
colpi della sua pistola, che furono subito seguìti da una scarica d'archibugi e
dalle grida:
"Arrendetevi
ai filibustieri o siete morti!..."
Gli uomini di
guardia, spaventati, presi da un improvviso panico e vedendo cadere parecchi di
loro, si erano dati alla fuga verso la camera di prora, precipitandosi
all'impazzata giù per la scala.
"Occupate
il quadro e fate fuoco su chi tenta di uscire!..." gridò Morgan.
Le altre due
scialuppe avevano intanto abbordato il legno a tribordo e gli equipaggi erano
saliti frettolosamente, mandando clamori feroci.
Pierre le
Picard fece subito occupare il cassero ed il castello, dove si trovavano alcuni
pezzi di cannone e collocare un forte drappello dinanzi alla camera comune di
prora.
Nelle batterie
del frapponte si udivano i marinai spagnoli a correre e urlare:
"Tradimento!... Tradimento!....,
Morgan fece
accendere quante lanterne poté trovare, poi ordinò di aprire il boccaporto.
Gli spagnoli,
compresi gli ufficiali, avevano disertate le cabine del quadro e la camera
comune, rifugiandosi nel frapponte, dove forse pensavano di opporre qualche
resistenza.
Morgan si
curvò sull'orlo del boccaporto, gridando: "Arrendetevi: la nave ormai è in
nostra mano."
Due o tre
colpi di fucile, sparati a casaccio, furono la risposta.
"Vi
prometto salva la vita" ripeté Morgan.
"Fuoco su
quei ladri di mare!..." comandò una voce, che doveva essere quella del
capitano.
Morgan si
ritirò prontamente, mentre il frapponte s'illuminava di lampi. Gli spagnoli,
invece di arrendersi, rispondevano vigorosamente.
"Vi
snideremo egualmente" disse Morgan. "Pierre..."
"Eccomi"
rispose il filibustiere, accorrendo.
"Guarda
se nella camera comune o nel quadro vi è qualche cassa di granate."
"Vuoi
bombardare gli spagnoli?"
"Non ho
alcun desiderio di salpare le àncore con tante persone a bordo che potrebbero
giuocarmi qualche brutto tiro."
"Saranno
poi un centinaio?"
"Andiamo
a vedere" disse Pierre. "Anche gli spagnoli conoscono le granate e ne
fanno uso."
Pochi minuti
doop Pierre tornò, seguíto da otto marinai che portavano con precauzione due
casse pesantissime.
"Ve ne
sono qui tante bombe, da far saltare la nave" disse, facendole deporre
dinanzi a Morgan.
Mentre i
corsari svitavano le casse colle dovute precauzioni, gli spagnoli non avevano
cessato di fare fuoco verso il boccaporto, massacrando le manovre dell'albero
maestro e facendo cadere un gran numero di cordami. Erano però polvere e palle
sprecate, poiché i corsari si guardavano bene di esporsi a quelle scariche che
si succedevano con una frequenza furiosa.
Ad ogni
intimazione di arrendersi quei valorosi, ignari del grave pericolo che li
minacciava, rispondevano con colpi di archibugio e con insolenze, promettendo
che avrebbero fatto saltare la Santa Barbara piuttosto di lasciarsi prendere.
Morgan, sicuro
di tenerli, non si preoccupava però gran che. Prese una granata, accese
tranquillamente la miccia e la scagliò nel frapponte. Lo scoppio fu seguíto da
urla terribili e da passi precipitosi.
Gli spagnoli,
che non s'aspettavano di certo quella sorpresa, si erano ritirati verso le
estremità delle corsìe per mettersi al coperto dai frammenti delle granate e
continuare a tenere testa.
I
filibustieri, furiosi per quella inaspettata resistenza, avevano cominciato a
lanciare i proiettili in tutte le direzioni, per impedire ai loro avversari di
organizzare la difesa.
Già una
ventina di granate erano cadute nel frapponte, quando, fra i lampi dei colpi
d'archibugio, si vide un uomo avanzarsi sotto il boccaporto e lo si udì
gridare:
"Basta!...
Ci arrendiamo, se ci promettete salva la vita."
"Sia!..."
rispose Morgan. "Salite a due a due dal quadro di poppa."
"Giurate
che ci risparmierete."
"Morgan
non ha che una parola."
Un grido di
stupore e di spavento era echeggiato nel frapponte della corvetta:
"Morgan!... Il famoso filibustiere!..."
Poi la voce
che poco prima aveva comandato il fuoco, disse:
"Siete
voi veramente Morgan, il vincitore di Portobello?"
"Sì, io
sono Morgan il filibustiere" rispose il corsaro.
"Allora
mi arrendo."
"Uscite
dal quadro a due a due, o noi continueremo a scagliare bombe finché sarete
tutti distrutti."
Nel frapponte
si udirono dei bisbigli, poi dei passi affrettati, quindi un fragore sordo come
di fucili che vengono lasciati cadere al suolo.
Morgan aveva
fatto radunare una ventina dei suoi uomini dinanzi alla scala del quadro, cogli
archibugi spianati.
Poco dopo un
uomo comparve tenendo in mano una spada.
"Dov'è il
signor Morgan?" chiese.
"Eccomi"
rispose il filibustiere avanzandosi e puntando sullo spagnolo la pistola.
"Ecco la
mia spada. Io sono il comandante della corvetta."
"Conservate
la vostra arma" disse il filibustiere. "Voi siete un
coraggioso."
"Grazie,
signore" rispose lo spagnolo, ringuainandola. "Ditemi però che cosa
farete di me e dei miei uomini."
"Vi
sbarcheremo senza fare né a voi, né a loro alcun male. A me basta avere la nave
che ormai mi appartiene per diritto di conquista."
"Voi
avete ragione, signore, dal momento che noi non siamo stati capaci di
difenderla. Non sperate tuttavia di sbarcarmi vivo."
Nel medesimo
istante, con un gesto fulmineo, il valoroso comandante si puntava una pistola
alla fronte, bruciandosi le cervella e cadendo esanime ai piedi di Morgan.
"Ecco un
uomo che poteva rivaleggiare col nostro coraggio" disse il filibustiere,
profondamente impressionato. "Presentate le armi al valore
sfortunato."
Mentre i
corsari, non meno commossi, obbedivano, altri ufficiali e marinai si
presentavano all'uscita del quadro.
Morgan li fece
condurre nelle scialuppe, sotto buona scorta, ordinando di tradurli a terra.
Dieci minuti
dopo sulla corvetta non rimaneva più degli spagnoli che il cadavere del comandante,
coperto dal grande stendardo di Spagna, ammainato appositamente dal corno
dell'artimone.
Un'impresa
pericolosa
Dopo tante
disgraziate vicende, la fortuna aveva finalmente arriso a quel pugno di
valorosi.
La nave, che
con tanta astuzia ed audacia avevano conquistata e senza subire perdita alcuna,
non valeva certo la fregata che li aveva affrontati dinanzi al forte della
Barra di Maracaybo, era però infinitamente migliore di quella montata dal conte
di Medina che avevano abbordata col rottame.
Si trattava
d'un solido veliero, alto di ponte, armato di dodici pezzi di grosso calibro e
quasi nuovo. Doveva aver fatto parte di qualche squadra incaricata di scortare
qualche convoglio di navi mercantili od i famosi galeoni, recanti in Europa
l'oro estratto dalle ricche miniere del Perù e del Messico.
Probabilmente
qualche colpo di vento lo aveva separato dal grosso, costringendolo a cercar
rifugio sulle coste venezuelane.
Morgan e
Pierre le Picard, accertatisi che la corvetta, contrariamente a quanto avevano
supposto, era anche sufficientemente fornita di viveri, deliberarono di
richiamare senza ritardo gli uomini che avevano lasciati a terra a guardia dei
primi prigionieri e di muovere verso il villaggio dei caraibi per imbarcare la
signora di Ventimiglia.
"Tu"
che hai percorso quel canale comunicante colla laguna, credi che troveremo
acqua sufficiente per inoltrarci fino all'aldè di Kumara?"
"Sì, il
canale è profondo quanto basta" aveva risposto Pierre.
"Fa
dunque ritirare i nostri uomini e portare ai prigionieri alcuni moschetti e dei
viveri, onde non muoiano di fame in mezzo alla foresta."
Pierre le
Picard stava per obbedire, quando, verso la costa, si udì la voce di Carmaux
che gridava:
"Signor Morgan!... Signor Morgan!... Mandate subito una scialuppa!... Presto!... Presto!..."
"Che cosa
vuole quel brav'uomo?" si chiese il filibustiere, il quale provò nondimeno
un sussulto.
"Otto
uomini nella baleniera!..." comando Pierre. La scialuppa che non era stata
innalzata sui paranchi, partì quasi subito montata da otto corsari, dirigendosi
frettolosamente là dove Carmaux continuava a gridare:
"Presto,
camerati!... Più presto!..."
La baleniera
toccò la spiaggia, poi tornò con rapidità fulminea verso la nave,
coll'equipaggio aumentato di due uomini.
"Uno è
Carmaux di certo" disse Pierre, che si era collocato dietro Morgan.
"Chi può essere l'altro?"
Morgan non
aveva risposto. Curvo sulla scala, guardava attentamente l'uomo che sedeva
presso Carmaux, tentando di ravvisarlo.
Quando la
baleniera giunse presso la corvetta, un grido di doloroso stupore sfuggì dalle
labbra del filibustiere:
"Don
Raffaele!..."
"Il
piantatore!..." esclamò Pierre. "Per quale motivo ha lasciato l'aldè
dei caraibi?"
Morgan era
impallido. Presentiva già una disgrazia.
Il piantatore,
quantunque fosse rotondo come una botte e pesante come un piccolo ippopotamo,
saliva in fretta, spinto da Carmaux.
"Signor
Morgan..." grido con voce affannosa... "l'hanno rapita... i
birbanti..."
"Chi?"
urlò il filibustiere, afferrandolo per un braccio e scuotendolo violentemente.
"Lui...
il conte... ci ha sorpresi ed ha condotta via la signora di Ventimiglia."
Morgan mandò
un urlo come di belva ferita e aveva fatto due passi indietro, portandosi una
mano sul cuore. Quell'uomo, ordinariamente così calmo e freddo, era in quel
momento così trasfigurato da un dolore intenso, che i suoi uomini, accorsi
subito alla notizia che don Raffaele era tornato, ne furono profondamente
commossi.
"Udiamo"
disse Pierre le Picard. "Spiegatevi meglio, don Raffaele."
Il piantatore
narrò meglio che poté quanto era avvenuto nell'aldè dei caraibi dopo la loro
partenza, e riferì il colloquio che aveva udito fra il conte di Medina, il
capitano Valera e la signora di Ventimiglia.
"A
Panama!... La conducono a Panama!..." gridò Morgan, facendo un gesto di
disperazione.
Poi,
completamente accasciato da quella notizia, si era appoggiato contro la murata,
tergendosi nervosamente il sudore freddo che gli bagnava la fronte.
"Tu
l'ami, è vero?" gli sussurrò Pierre, avvicinandoglisi.
"Sì"
rispose il filibustiere.
"Me n'ero
accorto. Che cosa dobbiamo fare per strapparla un'altra volta dalle mani di
quel maledetto conte? Tu sai come noi tutti ti amiamo e di che cosa siamo
capaci. Speri di poter raggiungere la nave prima che tocchi i porti
dell'America Centrale?"
"È quello
che tenteremo" rispose Morgan, che riacquistava a poco a poco la sua
energia.
"Don
Raffaele" disse Pierre. "Siete mai stato a Panama?"
"Vi sono
nato, signore" rispose il piantatore.
"Allora
conoscete il passo dello Chagres?"
"È il
solo che conduce a Panama."
"Vi è una
guarnigione colà?"
"Sì, e ce
n'è una nell'isola di Santa Caterina, abbastanza numerosa... ma, signore, io,
dicendovi ciò, tradisco la mia patria."
"Anche
senza le vostre spiegazioni nessuno ci tratterrebbe. "Comanda, Morgan.
Dove dobbiamo andare, innanzi tutto?" chiese Pierre
"A
bruciare il villaggio dei traditori" rispose Morgan. "Guai se Kumara
cadrà nelle mie mani."
"A
quest'ora, signore, egli è a Cumana ed il conte sarà salpato per l'America
Centrale" disse don Raffaele.
"Ritengo
inutile perdere del tempo prezioso" disse Pierre. "Veleggiamo senza
ritardo verso la Tortue e là vedremo cosa dovremo fare.
"Non ci
mancano né uomini, né navi."
Morgan trasse
in disparte il suo luogotenente, dicendogli:
"Giuro su
Dio che se non raggiungeremo il conte prima che sbarchi a Chagres, io vi
condurrò sotto le mura di Panama."
"Tu
mediti una simile impresa!..." esclamò Pierre. "Come vorresti
attraversare l'istmo ed espugnare una così grande città, la più popolosa e la
meglio fortificata di tutte quelle che posseggono in America gli
spagnoli?"
"Eppure
mi sento l'animo di condurre a buon fine una simile impresa, che renderebbe
maggiormente temuta la filibusteria" disse Morgan.
"Alla
Tortue non mancano uomini audaci, pronti a qualsiasi cimento e quanto alle
navi, oggi ve ne sono in abbondanza nella nostra isola. Che mi diano mille
corsari ed io li condurrò a vedere la regina dell'Oceano Pacifico e darò loro
milioni e milioni di piastre."
"Sarebbe
meglio per noi poter mettere le nostre zampe sul conte, prima che sbarchi sulle
coste dell'istmo!" disse Pierre le Picard. "Se si potesse sapere
quale rotta terrà, sarebbe una gran bella cosa."
"Ed in
quale modo?"
"Dove
supponi che si sia recato colla signora di Ventimiglia?"
"L'avrà
condotta nel porto più prossimo."
"A
Cumana, allora, che è vicino. Se potessimo mandare là qualcuno ad informarsi
qualcuno dei nostri..."
"L'idea
non mi dispiace. Uomini di fegato ne abiamo finché vogliamo. Ah!..."
"Che cosa
vuoi?"
"Don
Raffaele che può esserci ancora molto utile."
Si guardò
intorno e scorgendo sul cassero il piantatore che chiacchierava con Carmaux e
coll'amburghese, lo raggiunse, chiedendogli:
"Aveva
cavalli il conte di Medina?"
"Nessuno,
signore."
"Dove si
è diretto?"
"A
Cumana, che è la città più vicina e dove troverà navi in abbondanza, essendo
quel porto assai frequentato."
"Conoscete
qualcuno laggiù?"
"Sì, un
notaio che anni orsono abitava in Maracaybo e che è un po' mio parente."
"Vorreste
recarvi colà assieme a due dei miei uomini?"
"Correrei
il rischio di farmi impiccare come traditore."
"La
vostra vita mi appartiene e ve l'ho risparmiata già un paio di volte."
"Riflettete,
signore, e non dimenticate che io sono uno spagnolo."
"Che
sarebbe ben lieto però di vendicarsi del capitano Valera."
"Non lo
nego" rispose don Raffaele; "ed è appunto del capitano che io ho
paura. Se è ancora a Cumana potrebbe riconoscermi e farmi stringere il collo
con una buona cravatta."
"Vi
trasformeremo in modo da rendervi irriconoscibile, se lo desiderate, e poi non
vi obbligo a mostrarvi al vostro nemico. Non vi chiedo altro che di condurre
due dei nostri in quella città e di farli ospitare nella casa del vostro amico.
Non desidero altro da voi."
"Non mi
comprometteranno i vostri uomini?"
"Non vi
daranno alcun fastidio e vi lasceranno libero, dopo che li avrete condotti da
quel notaio. Accettate?"
"Farò
quello che vorrete" rispose don Raffaele, con un sospiro.
"Seguitemi
nel quadro e tu, Pierre, prepara tutto perché all'alba la nave possa salpare
senza ritardi."
Mentre stava
per scendere nel quadro assieme allo spagnolo, Carmaux e Wan Stiller
s'accostarono a Pierre, che si preparava a mandare a terra delle scialuppe,
onde far ritornare gli uomini rimasti a guardia dei prigionieri.
"Si parte
dunque, signor Pierre?" chiese Carmaux.
"È vero
che si va a Panama?"
"Sembra"
rispose il filibustiere.
"Benone"
disse il francese. "Speriamo questa volta di torcere il collo a quel
furfante di conte. Amico Stiller, andiamo a dormire."
Invece però di
ritirarsi nella camera comune, si cacciarono sotto il castello di prora che era
ingombro di vele e di cordami e trassero da un bugliolo due bottiglie polverose
che guardarono amorosamente.
"Beviamo,
compare" disse Carmaux "e scacciamo un po' il malumore. Devono
contenere dello Xeres eccellente, avendole prese nella dispensa del capitano
spagnolo." Baciò il collo della bottiglia, poi: "Tuoni di Brest!...
Perdere ancora la signora di Ventimiglia, quando era ormai nostra!..."
esclamò.
"La
riprenderemo, compare."
"E
quando?"
"Il
capitano Morgan è un uomo capace di andare anche a Panama."
"Un'impresa
che nessun filibustiere ha mai sognato di tentare."
"La
tenterà lui. Bevi, compare."
"Corpo..."
Carmaux si alzò
bruscamente alzato, vedendo un'ombra comparire sotto il castello.
"Il
capitano!..." aveva esclamato, cercando di nascondere le bottiglie.
"Continua
pure a bere, Carmaux" disse Morgan, poiché era lui in persona.
"Intanto, rispondi."
"Se posso
offrirvi, signor Morgan" disse il francese, con aria imbarazzata.
"Più
tardi. Ho altro da fare per il momento."
"Voi
sapete, capitano Morgan, che noi siamo i pezzi vecchi della filibusteria,
sempre pronti a qualunque sbaraglio."
"È perciò
che ho pensato a voi, che siete stati i più fedeli marinai del Corsaro
Nero."
"Avete
qualche missione da affidarci, capitano Morgan?" chiese Wan Stiller.
"Voi
conoscete Chagres?"
"Ci siamo
stati, anni or sono, coll'Olonese" rispose Carmaux. "Brutta borgata
dove si beve male e si mangia peggio."
"Hai
conoscenze laggiù?"
"Sì,
signor Morgan, un taverniere basco che mi ha fatto assaggiare del Malaga che
poi non ho più bevuto in vita mia."
"Fidato?"
"Eh!...
Un basco non è né spagnolo, né francese, sta fra gli uni e gli altri, a seconda
che gli conviene. Si chiamava... aspettate, capitano."
"Ribach" disse Wan Stiller.
"Sì,
Ribach" ripeté Carmaux.
"Dovrete
andarlo a trovare, mentre io alla Tortue organizzerò una poderosa spedizione
per attraversare lo stretto e piombare su Panama" disse Morgan.
Carmaux aveva
fatto un soprassalto.
"Milioni
di cannoni!..." esclamò.
"Io non
so ancora se sarà necessario spingersi così lontano ed affrontare i gravi
pericoli che presenterà tale impresa. Se però tu e Pierre le Picard giungerete
troppo tardi a Chagres per arrestare il conte di Medina, noi marceremo su
Panama, parola di Morgan. Sono risoluto tentare tutto pur di riavere la
contessa di Ventimiglia, dovessi dare fondo a tutte le mie ricchezze.
"Ho già
preso gli accordi opportuni con Pierre le Picard perché mi preceda a Chagres
assieme a voi e ad un buon numero di filibustieri. Vi domando ora di rendermi
un servizio urgente."
"Lo so,
miei bravi" rispose Morgan. "Siete mai stati a Cumana?"
"Mai,
signore."
"Vorrei
mandarvi colà assieme a don Raffaele."
"Ci andremo"
risposero Carmaux e l'amburghese ad una voce.
"Sapete
come gli spagnoli trattano i filibustieri che cadono nelle loro mani."
"Nessuno
ignora che tengono sempre in serbo un bel numero di cravatte di canapa per
noi" disse Carmaux ridendo. "Ce ne guarderemo, signor Morgan, non
datevene pensiero. Diteci invece che cosa dobbiamo fare a Cumana."
"Informarvi
della rotta che terrà il conte di Medina, della nave che avrà noleggiata e
della sua esatta destinazione."
"Volete
possibilmente assalirlo prima che sbarchi nell'America Centrale?"
"Sì, se
farò in tempo" rispose Morgan.
"Come
andremo a Cumana? A piedi?"
"Colla
baleniera che Pierre sta già fornendo di vele e di reti."
"Fingeremo
di essere dunque dei pescatori?"
"Sì,
cacciati dalla tempesta sulle coste venezuelane. Io verrò ad incrociare fra due
giorni dinanzi a quella baia per raccogliervi e non partirò senza avere vostre
notizie. Ho fatto collocare nella scialuppa dei razzi, che voi accenderete su
qualche punto della costa. Noi saremo pronti ad accorrere."
"Va bene,
signor Morgan" risposero i due corsari.
"La
baleniera è già in acqua."
Carmaux e Wan
Stiller vuotarono i bicchieri, poi si alzarono frettolosamente, scomparendo
nella camera comune di prora.
Il
notaio di Maracaybo
Non era ancora
trascorsa mezz'ora, quando Carmaux, l'amburghese e don Raffaele scendevano la
scala di tribordo, sotto cui ondeggiava una svelta baleniera fornita di due
piccole vele e d'un fiocco.
Morgan li
aspettava sulla piccola piattaforma inferiore, per dare loro le ultime
istruzioni.
I due
filibustieri e lo spagnolo indossavano dei vestiti da pescatori, di grosso
panno azzurro, con larga fascia di lana rossa e berretto di tela cerata.
Inoltre don Raffaele, per rendersi meno riconoscibile, si era tagliato i baffi
e le lunghe basette.
"Ricordatevi
del segnale e usate le maggiori cautele" disse loro Morgan. "Io
incrocerò solo di notte, cominciando da domani sera e di giorno mi celerò in
fondo al golfo di Cariaco, che è lungo e sicurissimo. Avete tre razzi di
diverso colore e voi sapete che cosa significano."
"Il
verde, aspettateci in mare, il rosso, mandate una scialuppa, l'azzurro
fuggite" rispose Carmaux. "Addio, signor Morgan, e se gli spagnoli ci
impiccano vi auguro fortuna a Panama."
"Siete
troppo prudenti e troppo astuti per lasciarvi prendere" rispose il
filibustiere.
Strinse loro
la mano e risalì in coperta, mentre Carmaux prendeva la barra del timone e
l'amburghese e lo spagnolo si collocavano a prora.
"Lascia"
disse il francese.
L'amburghese sciolse
la corda e la baleniera prese il largo, filando rapidamente verso oriente.
La nave di
Morgan rimase all'ancoraggio, non avendo premura di mostrarsi nelle acque di
Cumana, che potevano essere battute da navi da guerra, avendone gli spagnoli in
quasi tutti i porti, principali.
"Andiamo
a meraviglia" disse l'amburghese fregandosi le mani. "Mare calmo e
vento in poppa. Quando potremo giungere, don Raffaele?"
"Non
prima di domani sera" rispose il piantatore.
"Così
lontani siamo dunque da quel porto?" chiese Carmaux.
"Lo
suppongo e poi è meglio per voi e anche per me giungervi a notte
inoltrata."
"Siete
già stato a Cumana?"
"Conosco
tutte le città del Venezuela" rispose il piantatore.
"E chi è
quel vostro amico, di cui mi ha parlato il capitano?" riprese Carmaux.
"Un
notaio, che un tempo abitava a Maracaybo."
I due
filibustieri si guardarono, facendo un gesto di sorpresa.
"Aspettate,
don Raffaele" disse l'amburghese. "Quel vostro amico, vent'anni or
sono, esercitava a Maracaybo?"
"Sì."
"Un
giorno la sua casa fu distrutta dal fuoco, è vero?"
Don Raffaele
lanciò uno sguardo interrogatore sui due filibustieri, i quali risposero con
una risata clamorosa.
"Lo
conoscete forse?" chiese il piantatore, con inquietudine.
"Perbacco!...
È un nostro carissimo amico!..." rispose Carmaux, che schiattava dalle
risa. "Che bottiglie deliziose aveva quel briccone!... Ah!... Ah!... Il
notaio di Maracaybo!..."
Il piantatore
si era fatto oscuro in viso, mentre i due filibustieri non cessavano di ridere.
"Don
Raffaele" disse finalmente Carmaux "vi ricorderete forse di quel
tragico e comico episodio che ha privato quel povero notaio della sua casa. I
vostri compatrioti ci avevano assediati in quella bicocca assieme al Corsaro
Nero."
"Che
aveva fatti prigionieri il notaio ed anche un certo conte di Lerma, un valoroso
e cavalleresco gentiluomo" aggiunse l'amburghese.
"Sì, me
lo ricordo" disse don Raffaele. "Voi eravate fuggiti sul tetto dopo
aver fatto saltare la casa di quel povero uomo."
"Per
scendere poi nel giardino d'un conte o marchese Morales, scappando così ai
vostri compatrioti" disse Carmaux.
"Eravate
voi quei demoni che per ventiquattro o trenta ore teneste testa ad una o due
compagnie di archibugieri?"
"Sì, don
Raffaele."
"Eccomi
in un bell'imbarazzo. Se il notaio vi riconoscesse?"
"Sono
passati vent'anni, non sarà quindi facile che ricordi ancora i nostri
volti" disse l'amburghese.
"Non
commettete imprudenze almeno."
"Saremo
tranquilli come due agnellini" promise Carmaux.
Una viva
ondulazione, che fece rollare la baleniera, li avvertì che si trovavano presso
delle scogliere.
"Sono le
isole di Pirita" disse don Raffaele, prevenendo la domanda che stava per
rivolgergli Carmaux. "Stringete verso la costa."
Carmaux
vedendo delinearsi verso il settentrione delle isole, spinse la scialuppa verso
la costa, dove il mare appariva sgombro di scogliere.
All'alba,
avvistavano una grossa borgata annidata in fondo ad una vasta insenatura e dove
si scorgevano le alberature di non poche navi.
"Barcellona"
disse il piantatore. "Siamo già a buon punto e giungeremo a Cumana prima
che il sole tramonti. D'ora innanzi non parlate che lo spagnolo e se qualche
nave ci accosta, lasciate che risponda io."
"Vi
avverto, però, don Raffaele, che noi vi sorveglieremo rigorosamente. Per il
vostro bene siate leale".
"Vi ho
dato prove sufficienti della mia lealtà, signor Carmaux" rispose il
piantatore.
Verso le sei
della sera la baleniera, che aveva avuto quasi sempre il vento favorevole, si
trovava dinanzi a Cumana, che in quel tempo era una delle città più ricche e
più popolose della Venezuela e che era anche ben difesa, trovandosi a non molte
centinaia di miglia dalla Tortue.
Appunto in
quel momento entravano in rada parecchie barche di pescatori, montate per la
maggior parte da indiani.
Carmaux spinse
dietro di esse la scialuppa, onde passare inosservato fra due grosse caravelle
che stazionavano presso l'entrata della rada.
"Non
credevo di passarla così liscia" disse Carmaux, dirigendo la scialuppa
verso la gettata più prossima. Dove abita il notaio?"
"Non
siamo lontani; aspettate che il sole sia tramontato. Sta già per
scomparire."
Carmaux fece
calare le vele latine e servendosi solamente del fiocco, approdò dinanzi ad un
vecchio fortino caduto in rovina.
"Ecco un
bel luogo per fare il segnale a Morgan" disse, guardando le muraglie che
ancora rimanevano in piedi.
Legarono la
scialuppa, misero in ordine le reti, arrotolarono le vele, poi si nascosero
sotto le fascia di lana un paio di pistole ognuno ed una di quelle navaje che,
aperte, diventano lunghe come spade.
"Possiamo
andare" disse Carmaux a don Raffaele. "Non ci si vede più."
"Mi
promettete di non commettere violenze?" chiese il piantatore.
"Non
siamo così sciocchi" rispose l'amburghese.
"Allora
seguitemi."
"Adagio,
don Raffaele. Sarà ancora vivo il notaio?"
"Sei mesi
fa non era ancora morto."
"Deve
essere assai vecchio."
"Sessant'anni.
Andiamo."
Si orientò per
qualche istante, si diresse verso una viuzza che passava in mezzo a dei
giardini tenuti con gran cura, poi imboccò una larga strada fiancheggiata da
belle case a due piani, tutte in pietra ed illuminata da qualche lampada
fumosa.
Dopo un
centinaio di metri, s'arrestò dinanzi ad una abitazione piuttosto vecchia, un
po' più alta delle altre, e sormontata da una terrazza coperta di piante.
"Aspettatemi
qui" disse. "Vado ad annunciare la vostra visita."
"Fate
pure" rispose Carmaux.
Don Raffaele
lasciò cadere il pesante martello di ferro sospeso alla porta e, appena questa
s'aprì, entrò in un andito buio, scomparendo agli sguardi dei due filibustieri.
"Sei
tranquillo?" chiese Carmaux all'amburghese.
"Non
diffido di quel brav'uomo. Sa che noi siamo capaci di fargli passare un brutto
quarto d'ora."
Poco dopo il
piantatore ricomparve sulla soglia del portone e pareva che non fosse di
cattivo umore.
"Possiamo
dunque entrare?" chiese Carmaux.
"Sì"
rispose il piantatore. "Il notaio vi accorda ospitalità e vi offre anche
una cena."
"È la
perla dei notai!..." esclamò l'amburghese.
"Lo
dicevo io che era un uomo eccellente."
"Seguitemi"
disse don Raffaele.
I due
filibustieri entrarono in un androne malamente illuminato da una fumosa lampada
ad olio e vennero introdotti in un salotto a pianterreno, modestamente
ammobiliato, dove si trovava una tavola coperta di tondi su uno dei quali faceva
bella mostra un'anitra assai grassa.
Il notaio si
era già seduto al desco e pareva che si preparasse a cenare, senza attendere
gli ospiti.
Era un uomo
sulla sessantina, molto magro e molto rugoso, d'aspetto bonario. Vedendo
entrare i due filibustieri li guardò quasi sospettosamente, poi, senza nemmeno
salutarli, fece loro cenno di accomodarsi alla tavola, dicendo:
"Se
credete, tenetemi compagnia."
Carmaux e
l'amburghese si scambiarono uno sguardo e fecero una smorfia che indicava un
certo malcontento.
Non
s'aspettavano un'accoglienza così fredda, né una cena così magra, tuttavia
Carmaux rispose:
"Grazie,
signore, questo invito giunge in buon punto poiché siamo affamati, anzi
tremendamente affamati."
"E molto
assetati anche" aggiunse Wan Stiller.
"Ah!..."
fece il notaio.
Tagliò
l'anitra e ne offerse a tutti, ma non fece aggiungere nulla.
"Quest'uomo
è diventato estremamente avaro" pensava Carmaux. "Non è più quello
che ci ha ospitati a Maracaybo. È vero che allora aveva le nostre spade alla
gola. Le bottiglie le tirerà fuori: a questo ci penso io."
Quand'ebbero
finito, il notaio, che durante il pasto non aveva più aperto bocca, limitandosi
a guardare di tratto in tratto i due filibustieri, andò a prendere una fiasca
di vino e riempì i bicchieri, dicendo:
"Bevete
pure. Poi mi direte chi siete voi e che cosa desiderate da me."
"Signor
notaio" disse Carmaux "se don Raffaele non vi ha ancora detto chi noi
siamo, vi dirò allora io che siamo due personaggi in missione, mandati qui dal
signor Presidente dell'Udienza Reale di Panama, per avere informazioni precise
sul signor conte di Medina, di cui non si hanno più notizie dopo la sua fuga da
Maracaybo."
"Dovevate
rivolgervi al governatore di Cumana."
"Non
abbiamo creduto di farlo, signor notaio, per certi motivi che non vi posso,
almeno per ora, esporre. È vero che il conte è giunto qui?"
"Sì"
rispose il notaio. "È arrivato improvvisamente, con una piccola scorta ed
una fanciulla."
"Ed è già
ripartito?" chiese Carmaux con ansietà.
"A
mezzodì."
"Per
dove?"
"Per
Chagres, mi hanno detto."
"Allora
si reca a Panama?"
"Lo
credo."
"Su quale
nave si è imbarcato?"
"Sull'Andalusa."
"Vascello
da guerra?"
"Una
corvetta di ventiquattro cannoni" disse il notaio.
Carmaux fece
imprudentemente un gesto di furore. Il notaio che da qualche po' l'osservava
attentamente, alzò vivamente la testa, e chiese:
"Quale
interesse ha il signor Presidente dell'Udienza Reale di Panama di conoscere
queste cose? Sarei curioso di saperlo, mio caro signore."
"Lo ignoro"
rispose prontamente il francese.
"Ah!..."
fece il notaio. Poi, dopo qualche istante di silenzio e guardando fisso fisso
Carmaux, gli chiese a bruciapelo:
"Siete
mai stato a Maracaybo, molti anni or sono?"
Il
filibustiere per poco non fece un soprassalto, poi rispose:
"Una sola
volta, signore, due mesi or sono. Perché mi fate questa domanda?"
"Che
volete? Mi pare di aver già udito la vostra voce."
"Forse vi
confondete con un altro, signore."
"Ne sono
convinto" disse il notaio con un certo tono che turbò i due filibustieri.
"E poi è passato tanto tempo che posso essermi ingannato. Viveva allora
ancora il terribile Corsaro Nero."
"L'avete
conosciuto voi?" chiese Carmaux, per meglio ingannarlo.
"Sì, per
mia disgrazia e vi ho perduta una casa per colpa sua, una bella casa che fu
distrutta dal fuoco."
"Mi avete
già raccontata quell'avventura" disse don Raffaele.
"Era
insieme a due corsari e ad un negro gigantesco" proseguì il notaio,
"ed avevano avuta la malaugurata idea di rifugiarsi nella mia casa."
"E non vi
hanno ucciso?" chiese l'amburghese, che tratteneva a stento le risa.
"No, si
accontentarono di vuotarmi mezza cantina."
"Che
paura però dovete aver provata" disse Carmaux.
"Non
avevo più sangue nelle vene."
"Sfido
io, godeva una fama terribile, il Corsaro Nero."
"E poi,
come vi dissi, era insieme a due dei suoi... Oh!..."
"Che cosa
avete signore?" chiese Carmaux.
"Il caso
è stranissimo!..."
"Quale?"
Il notaio non
rispose. Guardava attentamente l'amburghese, il quale dal canto suo raggrinzava
il volto per dargli un'altra espressione.
"La mia
memoria deve essersi indebolita" disse finalmente il notaio. "Non mi
ricordo più come io sia riuscito a salvarmi quando la casa ardeva."
"Sarete
saltato dalla finestra" disse Carmaux, che cominciava però a sudar freddo.
"È
probabile. Signori, è tardi ed ho l'abitudine di alzarmi presto. Don Raffaele,
conducete questi signori nella stanza che ho loro assegnata. Ci rivedremo
domani a colazione, signori."
Il piantatore
accese una candela e fece segno ai due filibustieri di seguirli.
"Buona
notte, signore, e grazie della vostra cortese ospitalità" disse Carmaux,
inchinandosi dinanzi al notaio.
Il piantatore,
che doveva conoscere la casa, fece percorrere ai due filibustieri un lungo
corridoio, poi li introdusse in una stanza piuttosto vasta e ammobiliata con un
certo sfarzo.
Appena la
porta fu chiusa, due imprecazioni sfuggirono a Carmaux.
"Il
vecchio ci ha riconosciuti, è vero compare?" chiese Wan Stiller.
"Ne ho
quasi la certezza, e faremo bene a filare questa notte stessa. Che ne pensate
voi, don Raffaele?"
"Lasciate
che vada ad interrogare il notaio. Se correrete qualche pericolo verrò subito
ad avvertirvi."
"O ci
farete invece arrestare?" chiese Carmaux.
"No,
perché intendo di seguirvi."
"Voi!..."
esclamarono ad una voce i due filibustieri.
"Voi
andate a Panama, è vero?"
"Certo."
"Verrò
anch'io: voglio vendicarmi di quell'odiato capitano."
Appena lo
spagnolo fu uscito, Carmaux aprì una delle due finestre e guardò al di fuori.
"Mette su
un'ortaglia" disse a Wan Stiller "e non vi sono che due metri
d'altezza. Un piccolo salto, compare, che anche don Raffaele può tentare, senza
pericolo di rompersi le gambe."
"Che sia
già giunto Morgan?" chiese l'amburghese.
"Col
vento che ha soffiato quest'oggi non sarà rimasto dietro di noi. Vedrai che
risponderà subito al nostro segnale."
"Taci:
ecco don Raffaele che ritorna."
Il piantatore
un momento dopo entrava precipitosamente nella stanza.
"Fuggiamo
subito" disse.
"Che
c'è?" chiesero ad una voce i due filibustieri.
"Il
notaio vi ha riconosciuti."
"Per le
sabbie d'Olonne, come diceva Pietro l'Olonese" rispose Carmaux. "Che
memoria ha quel diavolo d'uomo per ricordarsi ancora di noi dopo
diciott'anni!"
"Vi dico
di fuggire e senza perdere tempo" ripeté don Raffaele. "È già andato
ad avvertire le guardie."
"Allora"
disse l'amburghese "non abbiamo altro da fare che questo."
Salì sul
davanzale e saltò nel giardino, massacrando una splendida aiuola di rose.
Carmaux lo
aveva subito imitato, dicendo al piantatore: "Se credete, fate come
facciamo noi."
E per poco non
era caduto addosso all'amburghese.
Don Raffaele,
misurata l'altezza, a sua volta si era lasciato andare.
"Come le
lepri, ora" disse Carmaux. "Dritti alla baleniera."
In un baleno
attraversarono l'ortaglia che non era molto vasta, sfondarono una siepe di
cactus e si slanciarono su una viuzza deserta.
"Don
Raffaele" disse Carmaux "guidateci fino alla gettata."
Malgrado la
rotondità del suo ventre, il piantatore si era messo a correre come se avesse
già le guardie alla calcagna.
In meno di
cinque minuti giunsero sulla gettata, dove trovarono ancora la baleniera
semi-arenata sotto il fortino in rovina.
"Il
segnale" disse Carmaux.
Prese un
razzo, s'arrampicò su un bastione diroccato e l'accese, mentre Wan Stiller
alzava le due vele della baleniera e don Raffaele spiegava il fiocco.
Il razzo era
appena scoppiato in aria che al largo, verso il nord, si scorse una striscia di
fuoco fendere le tenebre, quindi dileguarsi.
"È
Morgan!..." gridò Carmaux, imbarcandosi precipitosamente.
"Al
largo, compare!..."
Si erano
allontanati da soli dieci minuti, quando udirono una voce gridare:
"Eccoli!...
Fuoco!..."
Quattro o
cinque colpi d'archibugio rimbombarono verso la spiaggia.
"Buona
notte!..." gridò Carmaux. "Fila verso la bocca del porto,
amburghese!..."
Essendo il
vento notturno piuttosto fresco, la baleniera si allontanò rapidamente, mentre
sulla gettata rimbombavano altri spari.
Con due
bordate la scialuppa giunse all'imboccatura del porto e uscì in mare.
Una massa nera
passava in quel momento, a meno di trecento metri, dinanzi al porto.
"A noi,
Fratelli della Costa!..." urlò Carmaux. "Ci danno la caccia!..."
La nave virò
quasi sul posto, mettendosi attraverso il vento, mentre un'altra voce
rispondeva:
"A bordo,
Carmaux."
Con una
bordata la scialuppa giunse sotto la nave, presso la scala che era stata subito
abbassata.
Due paranchi
furono calati per issarla, mentre Carmaux, l'amburghese ed il piantatore si
slanciavano su pei gradini.
Un uomo li
aspettava: era Morgan.
"Dunque?"
chiese.
"Partito,
signore" rispose Carmaux.
"Quando?"
"Stamane."
"Per
dove?"
"Per
Chagres."
"Sta
bene" rispose Morgan. "Andremo a prenderlo a Panama."
. . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . .
Quattro giorni
dopo la corvetta di Morgan faceva la sua entrata nella piccola baia della
Tortue.
Era
quell'isola il covo dei famosi filibustieri del Golfo del Messico, che avevano
giurata una guerra spietata agli spagnoli per vendicare la inumana distruzione
degl'indiani compiuta dai primi conquistadores, o piuttosto per alleggerire gli
spagnoli di una parte delle immense ricchezze che traevano dalo sfruttamento
delle loro colonie.
Il ritorno
improvviso di Morgan, che tutti avevano creduto morto, produsse un'emozione
straordinaria fra tutti i corsari, che tenevano in grande stima l'antico
luogotenente del Corsaro Nero, per il suo coraggio e per le sue audaci imprese.
Le notizie
della presa di Maracaybo, della liberazione della signora di Ventimiglia, del
sacco di Gibraltar e della distruzione della flotta spagnola erano già giunte
alla Tortue, portate dai compagni di Morgan i quali, più fortunati del loro
capo, erano riusciti a porsi in salvo assieme alle ricchezze predate.
La scomparsa
della fregata predata all'ammiraglio, sulla quale Morgan si era imbarcato con
la signora di Ventimiglia, aveva dato luogo a gravi timori, e molti capi della
filibusteria avevano finito per ammettere che tutti dovevano esser morti
annegati nel mar dei Caraibi.
Perciò il
ritorno quindi dell'audace corsaro, che contava un gran numero di amici e di
ammiratori, era stato salutato con grande gioia.
La nave si era
appena ancorata fra i velieri corsari che ingombravano la piccola baia, che già
i più famosi scorridori del mare si trovavano a bordo.
C'era Brodely,
che più tardi doveva rendersi famoso nella presa del castello di S. Felipe,
giudicato la più formidabile fortezza degli spagnoli; Sharp, Harris, Sawkins,
tre uomini terribili, le cui imprese dovevano far meravigliare il mondo;
Watling, il saccheggiatore delle coste peruviane; Montauban, Michel ed altri
allora poco noti, ma che dovevano diventare a loro volta famosi.
Nell'apprendere
che la signora di Ventimiglia era stata ripresa e condotta a Panama, un urlo di
furore scoppiò fra quegli uomini formidabili e in tutti i cervelli si affacciò
l'idea di tentare la grande impresa ideata da Morgan.
Quella grande
città, emporio delle ricchezze del Perù e del Messico, aveva già da tempo
risvegliato la cupidigia dei filibustieri. Tuttavia la distanza e le difficoltà
che potevano incontrare nella traversata dell'Istmo, che a quel tempo non era
tagliato da nessun canale ed era per essi terreno completamente sconosciuto,
più che le forze imponenti che potevano opporre loro gli spagnoli, li avevano
fino allora trattenuti.
Udendo Morgan
fare la proposta di tentare la grande impresa, nessuno sollevò alcuna
obbiezione.
"Là"
aveva detto il filibustiere, "oltre liberare la signora di Ventimiglia,
che si è messa sotto la protezione delle nostre spade, troverete tesori tali da
diventare tutti ricchi."
Un'ora dopo la
spedizione veniva decisa dai più celebri e più audaci capi della Tortue.
Nell'America
Centrale
Lo stesso
giorno, la Vasquez - tale era il nome della corvetta spagnola predata da Morgan
sulle coste venezuelane - spiegava le vele per l'America Centrale, col grande
stendardo di Spagna sciolto sull'artimone.
Era comandata
da Pierre le Picard e montata da ottanta uomini, scelti fra coloro che
parlavano correntemente il castigliano e che indossavano i vistosi costumi
usati in quell'epoca dagli spagnoli delle colonie americane.
Carmaux e Wan
Stiller, i due inseparabili, ne facevano parte col grado di mastri
d'equipaggio, essendo i soli che conoscevano la piccola borgata di Chagres e
che potevano dare preziose informazioni e più preziosi consigli.
La Vasquez
doveva costituire l'avanguardia della spedizione, ancorarsi nella piccola baia
e assicurarsi, innanzi tutto, se il conte di Medina aveva già iniziata la
traversata dell'Istmo per raggiungere Panama ed, in caso contrario, doveva
abbordare la sua nave e riprendergli la signora di Ventimiglia.
Morgan, come
grande ammiraglio della squadra filibustiera, che doveva essere numerosissima
per poter tener testa alle grosse navi spagnole, si era fermato alla Tortue,
onde preparare ogni cosa e assicurare il buon esito della grande ed audacissima
impresa.
Scarseggiando
però in quell'epoca i viveri alla Tortue, subito dopo la partenza della
corvetta, egli mandò quattro a farne provvista nei porti spagnoli più vicini,
affidandone il comando a Brodely, che godeva fama d'uomo arditissimo.
La Vasquez,
spinta da buon vento, mise la prora verso il sud-ovest, frettolosa di avvistare
le coste dell'istmo di Panama.
Era una
buonissima veliera, tant'è che al mattino del quinto giorno, il suo equipaggio
già salutava con gioia l'alta vetta del Castello Chico e le cime accidentate
della Sierra di Veragua, visibili in mare a grande distanza.
Pierre le
Picard fece chiamare in coperta Carmaux e Wan Stiller, i quali in tutto quel
tempo non avevano fatto altro che giuocare e bere, senza affatto curarsi del
regolamento che proibiva il giuoco a bordo delle navi filibustiere in
spedizione guerresca.
"Alla
ribolla, amico Carmaux" gli disse Pierre. "Spetta a te condurre in
porto la corvetta."
"Signor
Pierre" rispose il francese, "preparate intanto voi la farsa. Che non
manchino né i pifferi, né i tamburi per salutare il fortino. Del resto rispondo
io. Vieni, compare, e apri bene gli occhi e dimentica la tua lingua."
La Vasquez,
che aveva il vento in poppa, puntò verso una piccola insenatura che s'apriva
sulla costa, ormai perfettamente visibile.
Era quella di
Chagres. Il suo villaggio, che in quei tempi aveva molta importanza, passando
per di là la via che conduceva alla regina dell'Oceano Pacifico, a poco a poco
cominciava a delinearsi, col suo fortino e le sue casette a un solo piano,
sormontate da belle terrazze coperte di fiori.
Carmaux, che,
come dicemmo, vi era già stato molti anni prima, con due bordate sorpassò
felicemente la punta meridionale che difendeva la rada dai forti venti del
nord-est e spinse innanzi la corvetta, facendola ancorare fra due vecchie navi
in demolizione.
Udendo tuonare
i cannoni di bordo e vedendo sventolare sull'artimone il vessillo spagnolo,
tutta la popolazione, composta di due o tre centinaia di anime e di due
compagnie di soldati, s'era affollata sulla spiaggia, mentre il forte
restituiva il saluto.
Ad un cenno di
Pierre, i pifferi ed i tamburi avevano intuonata una marcia spagnola, con un
accordo passabilmente discreto.
Le àncore
erano appena affondate, quando una scialuppa si staccò dalla spiaggia. Era
montata dalle due maggiori autorità della borgata: l'alcalde ed il comandante
della guarnigione e da una mezza dozzina di barcaiuoli.
"Signor
Pierre" disse Carmaux, che aveva indossata una divisa fiammante e che si
era cinto un lungo spadone. "Badate all'inglese!... Se vi sfugge una
parola guasterete la faccenda."
"Non
temere" rispose il corsaro, che s'era avanzato fino sul pianerottolo della
scala per ricevere le autorità. "Da questo momento io sono don Juan
Perredo, cavaliere dell'ordine di Sant'Jago..."
L'alcalde ed
il comandante della guarnigione stavano allora salendo la scala. Il primo era
un uomo sulla cinquantina, rotondo quasi come don Raffaele; l'altro invece
aveva l'aspetto d'un vero uomo di guerra e, malgrado fosse più vecchio del
primo, s'avanzava impettito tenendo fieramente il pugno sul fianco.
"Don Juan
Perredo, cavaliere di Sant'Jago, comandante della Vasquez, ha il piacere di
salutarvi" disse Pierre, stringendo la mano prima all'alcalde, poi al
comandante. "Eravate già stati avvertiti del mio arrivo?"
"No,
capitano" rispose l'alcalde, che sbuffava ancora per la faticosa
ascensione. "Anzi siamo rimasti assai stupiti di veder giungere questa
nave e per poco non la credemmo montata da quei diavoli di mare che si chiamano
filibustieri."
"Come!..."
esclamò Pierre, fingendo abilmente un gesto di stupore. "Il conte di
Medina non vi aveva annunciato il mio arrivo?"
"Il
signor governatore di Maracaybo è giunto qui ieri mattina ed è partito subito
per Panama, senza annunciarvi. Aveva molta fretta, il signor conte."
"Non
comprendo come non mi abbia atteso" disse Pierre le Picard, fingendosi
assai contrariato da quella risposta.
"Dovevate
scortarlo fino a Panama, capitano?" chiese il comandante.
"Sì"
rispose il filibustiere.
"Gli ho
dato io una buona scorta, composta di uomini fidati e valorosi."
"Aveva
con sé una fanciulla?" chiese Pierre.
"Sì,"
rispose l'alcalde "una giovane e bellissima signorina."
"Quanto
si è fermato qui?"
"Appena
una mezz'ora, il tempo sufficiente per provvedersi di cavalcature."
"E la
nave che lo ha condotto è ripartita pure?"
"Credo
che sia andata a Costarica."
"Forse il
conte mi farà pervenire i suoi ordini" disse Pierre.
"Vi fermate
qui?" chiese l'alcalde.
"Ho
l'ordine di non rimettermi alla vela."
"In che
cosa possiamo esservi intanto utili?"
"Mettete
qualche casa a nostra disposizione e forniteci di viveri freschi."
"Il
palazzo del governatore è pronto ad ospitare voi ed i vostri ufficiali, signor
capitano."
"Arrivederci,
signori, e grazie" rispose Pierre, facendo un gesto di congedo.
I due
rappresentanti le autorità della borgata, comprendendo che il colloquio era
finito, ridiscesero nella scialuppa e tornarono a terra.
"Non
abbiamo fortuna, Carmaux" disse Pierre, quando furono soli.
"È quello
che dicevo poco fa a Wan Stiller" rispose il francese, "Il conte non
sarà andato molto lontano però."
"Se ci
provassimo ad inseguirlo?"
"Era
venuta anche a me l'idea, ma ho udito a parlare del castello di S. Felipe che
chiude la via e sotto a cui non si passa se non si ha un ordine dal Presidente
dell'Udienza di Panama. Se non fosse lontano!... Eh!... Bisognerebbe
informarci. Lo chiederò al basco, se non sarà morto. Sono dieci anni che non
vengo più qui."
"Un
taverniere, mi hai detto."
"Sì,
signor Pierre."
"Tu sei
amico di tutti i tavernieri del mondo."
"Mi ci
trovo bene fra le botti" rispose Carmaux, ridendo. "Volete che vada a
cercarlo?"
"Ti do
carta libera, purché sii prudente."
"Oh!...
Non uscirà dalla mia bocca una parola che non sia spagnola. Compare Stiller,
andiamo."
Le scialuppe
erano già state messe in acqua. I due inseparabili si munirono di un paio di
pistole e si fecero condurre a terra, sbarcando un po' lontano dalle prime
case.
"Orientiamoci"
disse Carmaux all'amburghese. "In dieci anni questa borgata è
cambiata."
Due o tre
viuzze strette e fangose si offrivano dinanzi a loro. Scelsero la più vicina e
s'avanzarono strascinando rumorosamente i loro spadoni.
Gli abitanti
che incontravano, riconoscendoli per marinai della corvetta, facevano loro buon
viso, invitandoli ad entrare nelle case a bere una tazza di cioccolata, bevanda
allora assai in uso nelle colonie spagnole d'America, essendo il caffè ancora
sconosciuto.
Chiedendo ora
all'uno, ora all'altro, dopo un buon quarto d'ora, i due corsari si trovarono
finalmente dinanzi ad una tavernaccia di meschina apparenza, sulla cui soglia
stava un ometto magro come un'aringa e dalla pelle un po' olivastra.
"Che il
diavolo mi impicchi se costui non è il basco" disse Carmaux. "Non è
molto invecchiato l'amico."
"Con
quelle bottiglie!" esclamò Wan Stiller. "In cantina non s'invecchia
mai, compare."
S'accostarono
all'ometto che li guardava curiosamente, facendo una serie d'inchini e lo
spinsero nella taverna, chiedendogli:
"Non si
riconoscono più gli amici?"
Il basco aveva
fatto un soprassalto.
"Misericordia!...
I filibustieri!..." esclamò.
"Silenzio
o ti taglio la lingua, amico" disse Carmaux. "Noi non siamo più coi
ladri di mare. Siamo arruolati sotto le bandiere della grande Spagna e ti
assicuro che non ci troviamo male."
"Avete
lasciato Laurent? Eravate con lui, dieci anni or sono, quando veniste qui a
saccheggiare la borgata."
"Ma non
la tua cantina, che noi proteggemmo contro la rapacità dei nostri
camerati."
"Non mi
sono mai scordato di quella vostra buona azione."
"Veniamo
a farci pagare quel debito di riconoscenza" disse Wan Stiller.
"La mia
cantina come la mia borsa è a vostra disposizione" disse l'ometto, con
voce grave. "Non vi ho mai dimenticati."
"Porta
dunque da bere per ora e non spaventarti" disse Carmaux. "Non siamo
venuti né per prenderti la borsa, né per asciugare le tue botti."
Non aveva ancora
terminato di parlare, che già il taverniere era scomparso per tornare poco dopo
con due polverose bottiglie che promettevano di essere delle migliori.
"Basco"
disse Carmaux, dopo d'aver assaggiato il vino. "Tu hai una cantina degna
d'un re. Scommetterei che il grande Carlo V, se fosse ancora vivo, non
sdegnerebbe di trincare con noi."
"Ho altre
bottiglie come questa; bevete senza darvi pensiero."
"Possiamo
fidarci di te?"
"Senza di
voi, sarei stato rovinato completamente dai corsari del signor Laurent, ve lo
dissi già."
"Hai
veduto, tu, la nave che è entrata in porto ieri mattina?"
"Ero
sulla gettata quando affondò le àncore."
"Ne è
disceso un signore, accompagnato da una fanciulla, è vero?"
"Mi hanno
detto che era il conte di Medina, governatore di Maracaybo."
"Ed è
partito subito per Panama?"
"Circa
mezz'ora dopo."
"Il
signor conte ci deveuna grossa somma, che non siamo stati fin'ora capaci di
riavere e vorremmo raggiungerlo al più presto con un manipolo dei nostri
camerati che hanno anche essi dei conti da saldare con quel pezzo grosso sì, ma
pessimo pagatore. Dove credi che si trovi a quest'ora?"
"Non
troppo vicino di certo. Ha fatto requisire i migliori cavalli e deve aver
oltrepassato anche il castello di S. Felipe."
"L'oltrepasseremo
anche noi; è lontano?"
"Tre sole
leghe, ma senza un lascia-passare il comandante non vi permetterebbe di
proseguire. L'avete voi?"
"Vedremo
di procurarcelo."
"Uhm!"
fece il taverniere, scuotendo il capo.
"Che
cos'è quel castello?"
"Un forte
piantato sulla cima d'una rupe, che domina la via che conduce nella valle del
Chagres."
"Credi
che sia impossibile passarvi sotto senza venire scorti?"
"Di notte
il passo è chiuso e guardato da sentinelle."
"Affare
perduto" disse poi. "Il conte non ci pagherà più. Brutto spilorcio, derubare
così degli onesti marinai. Se potessi mettere il piede in Panama! A proposito,
conosci quella città, tu?"
"Vi sono
stato l'anno scorso."
"È vero
che gli spagnoli l'hanno fortificata formidabilmente?"
"È tutta
cintata, ha torri e artiglierie in gran numero e si dice che non vi siano mai
meno di ottomila uomini di guarnigione."
"Mi
piacerebbe visitarla" disse Carmaux. "Bah!... sarà per un'altra
volta. Bevi, compare Stiller."
Vuotarono
coscienziosamente le bottiglie, poi se ne tornarono lentamente a bordo, non
poco malcontenti della magra riuscita della loro missione.
Erano appena
saliti sulla corvetta ed avevano informato Pierre le Picard di quanto avevano
appreso dal basco, quando una scialuppa montata da un ufficiale e da parecchi
remiganti, abbordò il legno, fermandosi presso la scala.
"Qualche
notizia sul conte?" si chiese Pierre le Picard, muovendo incontro
all'ufficiale, che teneva in mano una lettera:
"Salite,
signore."
"Da parte
dell'alcalde, capitano" disse il messo, mettendo piede sulla tolda.
La lettera
conteneva un invito per gli ufficiali della nave e pei marinai, ad un fandango
notturno, onde festeggiare il loro arrivo.
"In
mancanza di altro, divertiamoci" mormorò il filibustiere. "Non avremo
nulla da fare fino all'arrivo della squadra."
Quindi,
alzando la voce, disse all'ufficiale che aspettava una risposta:
"Dite
all'alcalde che noi siamo riconoscenti di questo invito e che lo accettiamo con
piacere."
"Conducete
il maggior numero possibile di marinai, signore" disse il messo.
"Non lascerò
a bordo che gli uomini puramente necessari."
"Sono
cortesi questi abitanti" disse, volgendosi verso Carmaux, quando
l'ufficiale ridiscese nella scialuppa. "Se sapessero che razza di spagnoli
siamo noi!... Ehi, Carmaux, hai il viso oscuro?"
"Non ho mai
avuto gran fiducia negli inviti degli spagnoli" rispose finalmente il
francese.
"Che cosa
temi? Oh!... già, preferiresti cacciarti in qualche cantina. Anche al fandango
il buon vino non mancherà, vecchio mio."
Carmaux non
rispose, ma scosse ripetutamente il capo.
Una
festa finita male
Appena
tramontato il sole, una diecina d'imbarcazioni montate dagli ufficiali della
guarnigione spagnola e dai notabili della borgata, abbordarono la corvetta per
fare scorta d'onore all'equipaggio.
Pierre le
Picard, volendo mostrarsi sensibile a quella dimostrazione di simpatia verso
gli uomini di mare, e non avendo d'altronde nulla da temere, aveva scelti
sessanta marinai, stimando sufficienti gli altri venti per la guardia della
nave. Per precauzione aveva ordinato a tutti di non separarsi né dalla spada,
né dalla pistola.
L'alcalde era
salito a bordo, seguíto da una diecina di barcaiuoli muniti di canestri
contenenti tortillas - specie di focaccie dolci - e bottiglie destinate agli
uomini che dovevano rimanere sulla corvetta, onde avessero la loro parte.
"Vi
aspettiamo, signor capitano" disse inchinandosi.
Le scialuppe
della corvetta, munite di fanali e di torce, erano già state calate in acqua. I
sessanta corsari, che avevano indossati per la circostanza i più vistosi
costumi, ad un comando dei mastri lasciarono la nave e la piccola flottiglia si
diresse verso la gettata ingombra di gente che applaudiva calorosamente i baldi
giovani della flotta spagnola.
Tutti i
corsari, che non dubitavano di nulla, erano allegrissimi ed entusiasti di
quelle accoglienze alle quali non erano certo abituati nelle colonie spagnole,
dove invece di applausi ricevevano ferro e piombo e granate. Solo Carmaux,
contrariamente al solito, pareva preoccupato e borbottava.
"Ehi,
compare" disse l'amburghese, che gli camminava al fianco "Che cosa
mastichi? Tabacco o parole?"
"Io non
so per quale motivo, compare amburghese, ho questa sera dei brutti
presentimenti."
"Che cosa
temi? Siamo in buon numero innanzi tutto e nessuno dubita che noi non siamo dei
bravi marinai spagnoli."
"Spero
d'ingannarmi" rispose Carmaux.
La festa era
stata allestita nel palazzo del governo, una massiccia costruzione a due piani,
con solide inferriate alle finestre ed il portone laminato in ferro, dovendo
talvolta quegli edifici servire anche da fortezza.
Le ampie sale
erano state splendidamente illuminate e brulicavano di borghesi, di ufficiali e
anche di fanciulle.
I corsari, accolti
da evviva entusiastici e dal suono d'una mezza dozzina di chitarre, si
dispersero per le sale, dove altri chitarristi intuonavano già chi il bolero,
chi il fandango, due ballabili assai in voga in quell'epoca.
Carmaux e Wan
Stiller, che preferivano le bottiglie a quella ginnastica indiavolata, si
spinsero subito in un angolo della sala maggiore, dove c'erano dei tavoli
forniti di fiaschi di mezcal e di vini di Spagna.
"Lasciamo
che si divertano i giovani" aveva detto Carmaux. "E noi invece
apriamo gli occhi."
La festa
prometteva di riuscire brillantissima. Nuovi arrivati giungevano ad ogni
istante e fanciulle, borghesi, ufficiali e soldati andavano a gara per colmare
di cortesie i corsari.
Soprattutto
l'alcalde ed il comandante della guarnigione si facevano in quattro per
mostrarsi gentilissimi con tutti, oltre che con Pierre le Picard. Si erano
perfino degnati di dare due vigorose strette di mano a Carmaux ed a Wan
Stiller, indicando loro i fiaschi contenenti il vino migliore.
Alla
mezzanotte la festa era al colmo e l'allegria regnava sovrana. Già Carmaux
cominciava a rassicurarsi, quando ad un tratto udì verso un angolo della sala
un grido, poi vide due uomini aprirsi violentemente il passo fra le coppie
danzanti e uscire.
Il francese si
era alzò precipitosamente.
"Vieni, Wan Stiller!..." esclamò.
"Che cosa
ti piglia, compare?" chiese l'amburghese.
"Vieni,
ti dico" ripeté Carmaux.
L'amburghese,
colpito dall'accento di Carmaux e anche dalla sua agitazione, si alzò
borbottando:
"Peccato
lasciare lì questo Porto."
Carmaux aveva
fatto rapidamente il giro della sala, cercando cogli sguardi Pierre le Picard.
Vedendolo chiacchierare tranquillamente coll'alcalde, uscì sperando di
raggiungere i due uomini che avevano mandato quel grido.
La folla che
ingombrava le sale vicine era d'altronde tanta da non permettergli di avanzare
in fretta.
"Che
cos'hai dunque?" gli chiese Wan Stiller, che lo aveva finalmente
raggiunto, barcollando sulle malferme gambe.
Carmaux,
invece di rispondere lo trasse verso una finestra, lasciando cadere dietro di
sé le tende.
"Non hai
udito quel grido?" gli chiese.
"L'avrà
mandato qualche fidanzato geloso" rispose l'amburghese.
"L'hai
udito bene?"
"Sì."
"Non ti
ricorda nulla?"
"Assolutamente
nulla e poi col Porto che stavo bevendo... Oh!... Avevo altro da fare."
"Eppure
io non posso essermi ingannato."
"Spiegati
meglio, compare."
"Giurerei
d'aver udito il grido del capitano Valera."
"Tuoni
d'Amburgo!..." esclamò Wan Stiller, diventando livido. "Il capitano
qui!... Allora verremo scoperti."
"Cerchiamolo,
e non lasciamolo scappare."
I due compari
rialzarono la tenda e si misero a girare fra le coppie danzanti, poi passarono
al pianterreno dove corsari, spagnoli e fanciulle alternavano il fandango al
bolero con grande slancio e fra un chiasso indemoniato.
Stavano per
passare dinanzi ad una porta, quando quella si aprì e comparve il comandante
della guarnigione col volto abbuiato. Egli fissò su di loro uno sguardo acuto
come la punta d'uno spillo.
"Pare che
vi annoiate" disse lo spagnolo, affettando un sorriso. "Non vi ho
ancora veduti a danzare."
"Siamo
troppo vecchi, comandante" rispose Carmaux. "Lasciamo il posto ai più
giovani."
"Fatevi
servire del vino e dei cibi nella sala superiore e cercate di divertirvi meglio
che potete."
"Grazie,
comandante" risposero i due compari, salendo lo scalone che metteva al
secondo piano.
"Hai
notato quello sguardo?" chiese Carmaux, quando si trovarono al loro
tavolo.
"Sì,
compare" rispose l'amburghese. "Aveva l'aria corrucciata e anche
imbarazzata, il comandante."
"Avvertiamo
Pierre. Io non sono tranquillo."
Stavano per
alzarsi, quando un tumulto spaventevole scoppiò improvvisamente nella sala,
ripercuotendosi in quelle vicine.
Le danzatrici
avevano lasciati improvvisamente i loro cavalieri e fuggivano disordinatamente
verso le scale seguìte dai borghesi, dagli ufficiali e dai suonatori, mentre si
udivano echeggiare dovunque le grida di: "Tradimento!...
Tradimento!..."
I marinai
della corvetta, sorpresi da quella fuga improvvisa, erano rimasti intontiti,
chiedendosi che cosa era avvenuto.
"Camerati!..."
gridò Carmaux, sfoderando la spada. "Alle armi!..."
Nel medesimo
istante si udirono rimbombare verso la rada alcuni colpi di cannone, seguìti da
nutrite scariche di moschetteria.
I corsari,
rimessisi dal loro stupore, comprendendo che erano stati traditi, stavano per
precipitarsi giù dallo scalone per unirsi ai loro compagni che si trovavano
nelle sale inferiori, quando comparve Pierre colla spada in pugno.
"È troppo
tardi!..." gridò con voce alterata. "Le truppe ci hanno bloccati ed i
nostri stanno barricando il portone."
"Ve lo
avevo detto, signor Pierre, che avevo dei brutti presentimenti" disse
Carmaux. "Fu lui che aveva mandato quel grido."
"Chi
lui?" chiese il filibustiere.
"Il
capitano Valera."
"Ancora
quel furfante?"
"È lui
che ha preparato l'agguato, ne sono certo."
"Mille
demoni!..." gridò Pierre.
"Tentiamo
un'uscita" disse l'amburghese.
"Hanno
piazzato quattro pezzi di cannone dinanzi al portone e vi sono due compagnie di
archibugieri" disse Pierre. "Ci faremmo massacrare inutilmente."
"Siamo
dunque assediati?" chiesero parecchie voci.
"Non
perdetevi d'animo, camerati" rispose Pierre. "L'edificio è solido e
resisteremo a lungo. D'altronde, la squadra di Morgan non tarderà a
giungere."
"E la
corvetta?" chiese Wan Stiller, udendo rombare con maggior intensità le
artiglierie.
"Temo che
quella sia perduta" rispose Pierre. "I venti uomini che abbiamo
lasciati a bordo non la dureranno a lungo. Si scorge il molo dalle
finestre?"
"No"
rispose Carmaux. "Abbiamo due file di case dinanzi a noi."
"Organizziamo
la resistenza" disse Pierre. "Barrichiamo la scala e le porte e
ritiriamoci tutti quassù. Vedremo se gli spagnoli avranno il coraggio di
assalirci anche qui dentro."
Mentre i corsari
accorrevano in aiuto dei loro camerati, che stavano accumulando dietro il
portone tutta la mobilia delle sale inferiori, Carmaux e Wan Stiller
s'accostarono cautamente ad una finestra.
Essendo
l'edificio isolato in mezzo alla piazza della borgata, potevano scorgere quello
che facevano gli spagnoli e valutare le loro forze.
Il presidio
aveva prese le sue misure per bloccare completamente i corsari. Due compagnie
di archibugieri avevano occupati fortemente i quattro sbocchi delle vie,
erigendo frettolosamente delle barricate con carrette, botti e tronchi d'albero
ed avevano collocati anche quattro cannoni di fronte alla porta, alla distanza
di cento passi.
Pareva però
che gli spagnoli non avessero alcuna fretta di assalire il palazzo. Forse
contavano di prendere egualmente i corsari affamandoli.
"Brutto
affare" disse Carmaux all'amburghese. "Si tengono sicuri di averci
nelle mani, senza consumare la polvere."
"I nostri
della corvetta sapranno che Morgan aveva deciso di mandare una forte
avanguardia all'isola di Santa Caterina?"
"Moriz,
che ha ora il comando della nave, non deve ignorarlo e si recherà subito là per
vedere se le navi sono giunte. Se le trova, questo assedio non durerà a
lungo."
"Odi
Carmaux?"
"Sì, i
colpi di cannone rallentano. La corvetta deve essersi messa alla vela."
"Almeno
quelli si salvano."
"Speriamo
di cavarcela anche noi, compare."
Stavano per
ritirarsi, quando videro accendersi sulla piazza alcune cataste di legna, poi
avanzarsi un ufficiale che teneva sulla punta della spada un fazzoletto. Un
trombettiere lo seguiva.
"Un
parlamentario" disse Carmaux.
Udendo il
primo squillo, Pierre le Picard si era slanciato verso la finestra occupata da
Carmaux e dall'amburghese.
"Vengono
ad intimarci la resa" disse il filibustiere. "Che nessuno faccia
fuoco."
L'ufficiale si
era fermato a dieci passi dal portone, mentre il trombettiere faceva squillare
poderosamente il suo istrumento.
"Che cosa
vogliono dunque?" chiese Pierre affacciandosi.
"D'ordine
del comandante della guarnigione e dell'alcalde, v'intimo la resa" gridò
l'ufficiale, alzando il capo.
"Per chi
ci prendete?" gridò il filibustiere, fingendosi incollerito. "Così
voi trattate i marinai della flotta? Quale scherzo è questo?"
"Ah!...
Lo chiamate uno scherzo!..." esclamò l'ufficiale. "È inutile che voi
prolunghiate l'equivoco; ormai siete stati riconosciuti."
"Per
chi?"
"Per
filibustieri della Tortue."
"Ma voi
siete pazzi!" gridò Pierre. "Finitela, o noi vi daremo l'assalto alla
borgata e la bruceremo. I miei marinai sono furiosi e non son più capace di
trattenerli."
"Volete
prolungare la commedia?"
"Ditemi
almeno chi è quell'imbecille che pretende di riconoscere in noi, onorati
marinai della flotta spagnola, dei ladri di mare."
"È un
uomo che fu vostro prigioniero: il capitano Juan de Valera."
"Che
l'inferno l'inghiotta..." mormorò Carmaux. "Non mi ero
ingannato."
"Dite a
quel capitano che è un imbecille!" urlò Pierre. "Noi non siamo
corsari."
"Ho
l'ordine d'intimarvi la resa. Poi si vedrà se voi siete realmente spagnoli o
ladroni della Tortue."
"La
marina non cede dinanzi a simili intimazioni."
"Badate
che vi sono qui cinquecento soldati e che la vostra nave ha già preso il largo
abbandonandovi."
"Noi
siamo in numero sufficiente per resistervi finché ci piacerà. Attaccateci, se
l'osate, e i miei marinai vi mostreranno di che cosa sono capaci."
"Lo
vedremo" rispose l'ufficiale allontanandosi, seguíto dal trombettiere.
"Se
avessimo i nostri archibugi non m'inquieterei troppo, quantunque si trovino di
fronte a noi cinquecento uomini, se sono veramente tanti."
"Dubito
che siano così numerosi" rispose Carmaux.
"Devono
però essere in buon numero e hanno cannoni e archibugi."
"Ci siamo
lasciati prendere come ragazzi inesperti. Non ci rimane che sperare
nell'avanguardia della flotta di Morgan, che doveva partire all'alba del giorno
successivo a quello della nostra partenza. Se è già approdata a Santa Caterina
verrà avvertita dalla Vaquez e l'assedio non durerà molto. Come stiamo a
viveri, Carmaux?"
"C'è da
bere, signore."
"Intanto
berremo" concluse pacatamente Pierre, che non era uomo da perdersi
d'animo. "Le muraglie sono grosse, le finestre del piano inferiore sono
munite di solide inferriate, la porta e lo scalone sono barricati ed infine
abbiamo le nostre spade e le nostre pistole. Non faranno di noi un solo
boccone."
Gli spagnoli,
anche dopo il ritorno del parlamentario, non diedero segno di voler forzare il
palazzo del governo.
Per il momento
si accontentavano di sorvegliare gli assediati; quella tregua non doveva
tuttavia durare a lungo, tutti i corsari ne erano convinti.
E infatti ai
primi albori, un colpo di cannone, la cui palla sfondò uno dei due battenti del
portone, diede il segnale della battaglia.
Gli spagnoli
durante la notte si erano poderosamente trincerati agli sbocchi delle vie ed
avevano anche scavato una piccola trincea per mettere al coperto i loro pezzi e
gli artiglieri.
"La festa
comincia" disse Carmaux. "Difendiamo la pelle, compare Wan."
"Siamo
tutti pronti" rispose l'amburghese.
Al primo colpo
di cannone ne era venuto dietro un altro, poi un terzo, quindi delle furiose
scariche di moschetteria si erano seguìte.
Mentre i pezzi
miravano a sfondare la porta, gli archibugieri dirigevano il fuoco contro le
finestre, per impedire ai corsari di affacciarsi e di rispondere.
Pierre le
Picard, che non voleva esporre inutilmente i suoi uomini e che voleva
sopratutto economizzare le munizioni per l'ultima difesa, aveva dato ordine di
non occuparsene. Già le massiccie pareti erano più che sufficienti a ripararli
e la barricata innalzata fra il portone e la scala li garantiva da un immediato
attacco.
Quel fuoco
violentissimo durò una buona ora, con grande spreco di polvere da parte degli
spagnoli e con scarso successo. Solo il portone, scardinato e semi-fracassato
dal tiro dei quattro pezzi d'artiglieria aveva finito per rovinare addosso alla
barricata, ma l'ingresso era ostruito da tanti rottami da osatacolare ogni
tentativo di attacco.
Quando gli
zappatori si mossero per sgombrare quell'enorme cumulo di mobili sfasciati,
furono accolti da parte dei corsari con una tale scarica di pistolettate che
più della metà rimasero dinanzi al palazzo morti o moribondi. Gli altri,
nonostante le imprecazioni degli ufficiali, rinunciarono subito alla pericolosa
impresa, rifugiandosi dietro le trincee.
"L'osso è
duro da rodere" disse Carmaux, che da una finestra, prudentemente riparato
dietro un angolo, spiava le mosse degli assedianti. "Non oseranno prendere
d'assalto il palazzo. Ti sembra, compare?"
"Ne sono
convinto anch'io" rispose Wan Stiller. "Hanno troppa paura dei
filibustieri."
"Ah!...
Se potessi vedere quel maledetto capitano!..."
"Si
guarderà bene dal mostrarsi. Vorrei sapere perché non ha seguíto a Panama il
conte di Medina."
"Quello
avrà fiutato il pericolo e lo avrà lasciato qui per sorvegliare la costa.
Volpone!... Ci ha giocati per bene; se capita ancora fra i piedi non commetterò
la sciocchezza di risparmiarlo come feci nel monastero di Maracaybo."
"Hanno
sospeso il fuoco!..."
"Si
ritengono certi di prenderci anche senza sprecare palle e polvere" disse
Carmaux. "Contano sulla fame e più di tutto sulla sete, compare. Se
posdomani nessuno viene in nostro aiuto o saremo costretti a tentare una
sortita disperata o lasciarci morire d'inedia."
"Non
aspetteremo quel momento" disse l'amburghese. "Usciremo finché avremo
forza per lavorare colle spade."
Fra
il piombo ed il fuoco
Dopo quel
primo scacco, gli spagnoli persuasi delle difficoltà che si presentavano
nell'espugnazione di quell'edificio difeso da quei sessanta disperati, non
avevano più rinnovato il tentativo.
La prima
giornata era così trascorsa relativamente calma, ma l'assedio era stato
convertito in un blocco strettissimo onde impedire ai filibustieri di invadere
e saccheggiare le case vicine per provvedersi, se non di viveri, almeno d'acqua
nelle cisterne dei cortili.
Anche durante
la notte, gli assedianti si mantennero tranquilli attorno ai fuochi che avevano
accesi in gran numero per far comprendere agli assediati che vegliavano
rigorosamente.
Il secondo
giorno le cose non variarono. Qualche colpo di cannone sparato contro la
barricata, qualche scarica d'archibugi verso le finestre e null'altro.
Pierre le
Picard cominciava ad impensierirsi. La corvetta doveva essere giunta fino dal
giorno innanzi all'isola di Santa Caterina. Se non era tornata era segno che
colà non doveva aver trovata l'avanguardia della squadra flibustiera.
Come
continuare la resistenza?
Le tortillas
erano finite, i fiaschi erano vuoti e la sete più che la fame cominciava a
farsi sentire, specialmente a causa del gran caldo che regnava.
"La va
male" brontolava Carmaux, che si affacciava ora ad una finestra ed ora ad
un'altra colla speranza di veder gli spagnoli levare l'assedio. "Siamo in
un bell'impiccio e se non facciamo un colpo di testa, creperemo di fame e di
sete."
Già i più
vecchi ed i più influenti avevano proposto a Pierre le Picard di tentare una
sortita; ma il filibustiere che non disperava ancora, si era recisamente
parendogli quella un'impresa troppo arrischiata.
"Sessanta
e senza archibugio non riusciranno mai a vincerne quattro o cinquecento, armati
anche di cannoni" aveva risposto. "Aspettiamo ancora. Forse gli aiuti
sono già in viaggio."
Stava per
calare la notte, quando Carmaux e Wan Stiller, che spiavano le mosse degli
assedianti, notarono fra loro un movimento insolito.
Il numero dei
soldati, soprattutto degli archibugieri, era aumentato e ai quattro pezzi della
trincea se n'era aggiunto un quinto.
"Uhm!..."
mormorò il francese, scuotendo la testa. "Temo che la notte non passerà
liscia."
Fece chiamare
Pierre le Picard e lo mise a parte dei suoi timori.
"Sì, si
preparano ad un assalto decisivo" disse il filibustiere, dopo aver notato
a sua volta il movimento che regnava fra gli assedianti.
"Signor
Pierre" disse Carmaux, "mi viene un sospetto."
"E
quale?"
"Che gli
spagnoli siano stati avvertiti che si viene in nostro aiuto. È impossibile che
l'avanguardia della flotta, che doveva partire dodici ore dopo di noi dalla
Tortue, non sia ancora giunta a Santa Caterina. Sono trascorsi già tre giorni e
non mi stupirei che fosse arrivato anche il capitano Morgan col grosso"
"Che tu
sia un veggente, Carmaux?"
"Non è
che una semplice supposizione, signor Pierre."
"Che io
condivido. Prepariamoci ad una difesa disperata."
I corsari,
avvertiti dei preparativi d'attacco che facevano gli spagnoli, si erano messi
alacremente all'opera per prolungare la difesa il più possibile.
Accesero tutte
le lampade, che erano ancora in buon numero; raccomodarono alla meglio la
barricata, quindi coi mobili rimasti ne formarono una seconda sull'ultimo
pianerottolo dello scalone, dinanzi alla porta della sala maggiore del secondo
piano, dove intendevano opporre l'ultima difesa.
Avevano appena
ultimati quei preparativi, quando i cinque pezzi della trincea tuonarono
insieme con un rimbombo assordante, sfondando i rottami del portone.
Pierre le
Picard aveva divisi i suoi uomini in due drappelli: uno doveva incaricarsi
della difesa della scala, l'altro far fuoco dalle finestre nel caso che gli
spagnoli tentassero qualche scalata.
I colpi di
cannone si succedevano ai colpi, fracassando a poco a poco i mobili accumulati
dinanzi alla scala.
Quella musica
infernale durò un quarto d'ora, poi, quando la barricata crollò, una compagnia
d'alabardieri, sostenuta da un grosso drappello di archibugieri, mosse
risolutamente all'assalto dello scalone con urla formidabili.
Malgrado i
colpi di pistola dei filibustieri, gli assalitori entrarono ben presto sotto
l'atrio, occupandolo fortemente, e sgombrandolo dai rottami per far posto ad
una seconda compagnia che si era formata per l'assalto decisivo.
I
filibustieri, radunatisi sull'ultimo pianerottolo, li aspettavano colle spade
in pugno.
Pierre le
Picard era in prima linea ed incoraggiava i suoi uomini, gridando:
"Tenete
duro!... I soccorsi stanno per giungere."
La compagnia
d'assalto, entrata a sua volta, fece una scarica contro gli assediati
gettandone a terra parecchi, poi si slanciò su per la scala colle picche in
pugno.
Era il momento
atteso dai filibustieri per riprendersi la rivincita. Con un urto poderso
rovesciarono giù per la scala i mobili che avevano accumulato dinanzi la porta
della sala maggiore, poi, approfittando della confusione e dello spavento che aveva
colto gli spagnoli, vedendosi precipitare addosso quella valanga, si
scagliarono a loro volta col ferro in mano, impegnando una mischia furiosa.
La loro
discesa era stata così fulminea, che gli archibugieri rimasti sotto l'atrio non
avevano avuto nemmeno il tempo di fare fuoco. Se li trovarono dunque addosso
mentre la compagnia d'assalto, disorganizzata da quella tempesta di mobili che
ne aveva uccisi parecchi e anche storpiati non pochi, scappava a tutte gambe.
Gli spagnoli,
anche in quell'epoca, non erano uomini da cedere facilmente il passo e fecero
animosamente fronte al poderoso assalto dei corsari, difendendosi
disperatamente.
La lotta
durava da qualche minuto con gravi perdite d'ambo te parti, quando si udì una
voce gridare:
"Al
fuoco!... Al fuoco!...."
La barricata
si era incendiata, o forse era stata incendiata appositamente dagli assedianti,
e fiamme vivissime si sprigionavano fra quell'ammasso di rottami, sollevando
fra i combattenti una barriera ardente.
"In
ritirata!..." aveva urlato Pierre le Picard, che era uscito incolume da
quella lotta sanguinosa.
I filibustieri
che si sentivano avvolgere dal fumo, risalirono precipitosamente la scala,
mentre le fiamme si comunicavano alle tappezzerie ed ai tendaggi delle vicine
porte.
Un'ondata di
fumo e di scintille, spinta dalla corrente d'aria che entrava per il portone,
s'allungava su per la scala.
"Ci
bruciano vivi!" gridò Carmaux. "Chiudete la porta della sala o
soffocheremo."
Fu subito
obbedito, ma ormai l'incendio si propagava rapidamente per le sale inferiori.
I corsari si
contarono rapidamente: erano ancora in quarantadue. Diciotto erano rimasti
sulla scala e nell'atrio uccisi dalle scariche di moschetteria e dalle
alabarde.
"Amici"
disse Pierre le Picard "non ci rimane che di saltare dalle finestre e
morire vendendo cara la pelle. Sfondiamo una inferriata e mostriamo agli
spagnoli come sanno cadere i filibustieri della Tortue."
Nella sala
erano rimasti ancora alcuni mobili assai pesanti, fra cui una lunga tavola.
Venti braccia
la sollevarono e servendosene come d'una catapulta percossero poderosamente una
delle inferriate, rinnovando l'urto per tre volte di seguito.
Al quarto le
sbarre, strappate dal loro alveolo, caddero sulla piazza.
"Io apro
la via" gridò Pierre, mentre il fumo, passando fra le fessure, stava per
invadere la sala.
Misurò
l'altezza: non vi erano che cinque metri, un'inezia per quegli uomini che
avevano dell'agilità da vendere.
Pierre impugnò
la spada, e per il primo saltò, cadendo in piedi.
Aveva appena
toccato terra e si preprava ad avventarsi contro i nemici, quando un rimbombo
assordante echeggiò verso la baia. Pareva che venti o trenta cannoni avessero
fatto fuoco contemporaneamente.
Pierre aveva
mandato un urlo di gioia:
"Ecco la
nostra squadra!... Saltate, amici!..."
Si guardò
intorno: non vi erano più spagnoli sulla piazza.
Udendo quegli
spari che annunciavano l'arrivo d'altri filibustieri, si erano affrettati a
porsi in salvo sulla via di Panama per rifugiarsi forse nella formidabile rocca
di S. Felipe.
Anche gli abitanti
fuggivano all'impazzata verso i boschi, fra le urla delle donne ed i pianti dei
bambini.
I corsari, che
temevano di veder sprofondare il pavimento della sala, saltarono tutti,
compresi Carmaux e Wan Stiller.
Pierre le
Picard organizzò la sua banda e mosse velocemente verso la rada. Le cannonate
erano cessate e si udivano invece gli urrà strepitosi degli equipaggi.
Quando il
drappello giunse sulla gettata, dieci scialuppe cariche di gente armata vi
giungevano.
Un uomo sbarcò
per il primo e mosse verso Pierre, dicendogli:
"Sono ben
lieto di essere giunto in tempo per salvarti."
Era Morgan.
L'assalto
di Panama
La spedizione
organizzata da Morgan per muovere all'attacco della regina dell'Oceano
Pacifico, era la più formidabile che fino allora avessero potuto formare i
filibustieri della Tortue.
Essa si
componeva di trentasette legni fra grossi e piccoli, montati da duemila
combattenti, senza contare i marinai, muniti di artiglierie, di fuochi
artificiali e di abbondanti munizioni da bocca e da guerra: una vera armata per
quei tempi.
Da tutte le
parti erano accorsi uomini per arruolarsi sotto la bandiera di Morgan, colla
speranza di arricchirsi prodigiosamente nel saccheggio di quella grande ed
opulenta città, la maggiore che possedessero gli spagnoli dopo la capitale del
Perù.
Ne erano
giunti dalla Giamaica, da S. Cristoforo, da Goave e quasi tutti i bucanieri di
San Domingo; quei terribili e famosi bersaglieri, avevano aderito per odio
contro gli spagnoli.
Con un tatto e
con un'abilità straordinaria, Morgan era riuscito a riordinare
quell'accozzaglia di ladri di mare, formata dalla più indisciplinata canaglia
dell'universo.
Separata la
squadra in due divisioni, aveva nominato sé stesso ammiraglio col comando della
prima e un altro contrammiraglio per il comando della seconda. Quarantotto ore
dopo la partenza della corvetta di Pierre le Picard, muovendo risolutamente
verso l'isola di Santa Caterina che era allora tenuta fortemente dagli spagnoli
e dove contava di lasciare parte della sua gente onde avere sempre una buona
riserva.
Raggiunto in
alto mare dai quattro legni comandati da Brodely, che aveva mandato in cerca di
viveri e che si erano riforniti abbondantemente, prendendo d'assalto e
saccheggiando la città di Rancaria, presso Cartagena, dopo cinque giorni aveva
calato le àncore nella baia dell'isola di Santa Caterina.
Il presidio
spagnolo, spaventato per la comparsa di forze così imponenti, non aveva osato
opporre la menoma resistenza, quantunque disponesse di forze abbastanza
numerose.
Alla prima
intimazione di resa era subito sceso a patti, cedendo ai filibustieri dieci
forti armati di un gran numero di pezzi d'artiglieria ed i magazzini ben
forniti d'armi, di munizioni e di provviste alimentari.
La resa era
appena avvenuta quando nella rada era entrata la corvetta. Udendo la triste
avventura toccata ai corsari di Pierre le Picard, le due squadre non avevano
indugiato a levare le àncore, dopo d'aver lasciato un forte presidio a Santa
Caterina e, come abbiamo veduto, erano giunti dinanzi alla borgata nel momento
in cui gli assediati si credevano ormai irremissibilmente perduti.
. . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . .
La sera stessa
Morgan, che temeva che la notizia del suo sbarco potesse giungere a Panama
troppo presto e che gli spagnoli potessero chiedere soccorsi alle colonie del
Perù, del Cile e del Messico, organizzava tosto una forte colonna per
impadronirsi del forte di S. Felipe, chiamato anche forte di San Lorenzo, per
aprirsi la via che conduceva all'Oceano Pacifico.
Ne affidò il
comando a Brodely, che si era acquistata molta fama, e che godeva la fiducia di
tutti, dandogli per sottotenente Pierre le Picard.
Carmaux e Wan
Stiller, sempre all'avanguardia delle imprese più arrischiate, ne facevano
parte assieme a don Raffaele che era giunto con la squadra e che per odio
contro il capitano Valera, aveva ormai abbracciato definitivamente la causa dei
filibustieri, quantunque gli spiacesse, e non poco, di dover agire contro la
bandiera della sua patria.
La colonna si
componeva di cinquecento uomini, scelti fra i più valorosi, poiché non si
ignorava che quel castello era uno dei più solidi e che anzi era ritenuto
inespugnabile.
E infatti,
eretto con enormi spese sulla cima d'una rupe ed incaricato di chiudere l'unica
via che conduceva a Panama, poderosamente armato di grosse artiglierie e difeso
da una guarnigione numerosa e anche valorosa, quel castello era ostacolo così
formidabile da fare indietreggiare i più audaci.
I filibustieri
però, abituati a non dare mai indietro, si erano animosamente mossi, più che
certi di venire a capo di quella pericolosa spedizione.
Al mattino
erano già sotto il castello, e intimavano altezzosamente alla guarnigione la
resa, minacciando in caso contrario di sterminare la guarnigione.
La risposta
che ottennero fu una terribile grandinata di palle di fucile e di cannone.
I filibustieri
non si sgomentarono per questo. Animati dalla voce dei sotto-capi, si
slanciarono intrepidamente all'assalto, smaniosi di venire all'arma bianca. Ma il
fuoco degli assediati, lungi dal rallentare, diventò invece formidabile.
Già
cominciavano a scoraggiarsi, quando un bucaniere ebbe un'idea luminosa. Aveva
osservato che le tettoie del forte erano coperte di foglie di palma secche,
entrò in un campo coltivato a cotone che si estendeva a fianco della rupe,
raccolse alcune manate di bambagia e, formata una palla l'attaccò alla
bacchetta dell'archibugio, dopo aver passata l'estremità inferiore nella canna.
Ciò fatto
diede fuoco al cotone e scaricò il fucile. Quello strano proiettile andò a
cadere sulle tettoie del forte le cui foglie non tardarono ad accendersi.
I suoi
compagni vedendo quel buon risultato, lo imitarono e cominciò a cadere sulle
fortificazioni una pioggia di fuoco anziché di piombo che cadde, che sviluppò
un incendio terribile.
Mentre gli
spagnoli, che correvano il pericolo di morire arrostiti, cercavano di domare le
fiamme, i filibustieri giunsero sotto le palizzate. Abbattutene alcune ed
incendiatene altre, dopo un sanguinoso combattimento riuscivano finalmente ad
impadronirsi della rocca.
Di
trecentoquaranta spagnoli soli ventiquattro erano riusciti a sfuggire alla
morte; ma anche i filibustieri avevano pagata a caro prezzo quella prima
vittoria, poiché centosessanta di loro erano rimasti sul terreno e ottanta
erano feriti.
Spento dopo
lunghi sforzi l'incendio, Brodely, che nonostante la perdita delle gambe non
aveva ceduto il comando, s'affrettò a fare restaurare il forte onde difendere
quel passo importante nel caso che da Panama fossero mandate truppe a
riconquistarlo.
Morgan
informato di quel primo successo, qualche giorno dopo arrivò al castello col
grosso. Aveva fretta di giungere a Panama per non lasciar tempo agli spagnoli
di chiamare truppe dal Perù e dal Messico, dove vi erano numerose guarnigioni e
poi per paura che il conte di Medina gli sfuggisse nuovamente riparando nelle
altre colonie.
Lasciati
cinquecento uomini a guardia del castello, il 18 gennaio del 1671 si metteva
risolutamente in marcia, non avendo altra guida che don Raffaele che aveva
condotto con sé, non essendovi nessuno dei suoi che conoscesse la via che
attraversava l'istmo.
Il povero
piantatore si era bensì dapprima recisamente rifiutato di far la parte del
traditore, ma minacciato di esser fatto morire fra i più atroci tormenti, aveva
dovuto cedere alla volontà del formidabile corsaro.
Gli spagnoli,
già avvertiti dell'avanzarsi di quel piccolo esercito, non essendo ancora in
numero sufficiente per tentare la sorte delle armi, avevano invece distrutti
tutti i villaggi e bruciarono perfino le piantagioni, perché i nemici non si
rifornissero di viveri.
Morgan però
non era uomo da spaventarsi. Sebbene la fame travagliasse crudelmente i suoi
uomini, continuò la sua marcia ora attraverso a boscaglie od ora salendo in
canotti il fiume Chagres.
Don Raffaele
aveva assicurato che nela borgata di Cruces dovevano trovare grandi magazzini,
essendo quel borgo il deposito principale di tutte le merci, che andavano a
Panama o ne venivano seguendo per un tratto la via fluviale del Chagres.
Fu una crudele
delusione. Gli spagnoli, fuggendo dinanzi alle avanguardie dei filibustieri,
avevano tutto bruciato e portato via.
Quegli
affamati ebbero nondimeno la fortuna di trovare un sacco di cuoio pieno di pane
e sedici giare di vino, ben poca cosa per tanta gente.
Si rifecero
invece coi cani e coi gatti che erano in buon numero e che distrussero per
metterli ad arrostire.
Là finiva il
corso del Chagres.
Morgan rimandò
alla costa, colle scialuppe che aveva portato, sessanta dei più sfiniti, non conservando
solo una piccola barca che doveva servirgli per mandare notizie alla flotta, e
dopo una notte di riposo riprese la terribile marcia.
Aveva ancora
mille e cento uomini, forza certo imponente, se non tale da fronteggiare gli
spagnoli rinchiusi in Panama, che si supponevano quattro o cinque volte più
numerosi. Tuttavia Morgan non disperava dell'esito finale di quell'ardita
impresa.
Si impegnarono
allora fra le aspre gole della Cordigliera di Veragua. Avanzando non scorgevano
che burroni e abissi profondi, immense rupi che pareva da un momento all'altro
dovessero precipitare sulle loro teste e boscaglie dove non vi erano tracce
d'alcun sentiero.
Guidandosi
colle bussole, quegli uomini intrepidi non esitarono a spingersi avanti ed a
superare tutti gli ostacoli.
Guai se gli
spagnoli li avessero assaliti in quelle gole!...
Se non osavano
mostrarsi, mandavano però contro i filibustieri grosse partite d'indiani che li
tribolavano non poco.
Di quando in
quando dalle foreste o dai picchi piombavano loro addosso nembi di freccie e
tempeste di sassi, senza che mai riuscissero a scorgere le mani che scagliavano
quei proiettili, perché gl'indiani subito fuggivano colla velocità dei daini,
sottraendosi abilmente alle scariche degli archibugieri.
Nel penultimo
giorno dovettero sostenere una furiosa battaglia che per poco non riuscì loro
fatale.
Si erano
inoltrati in una gola strettissima, colle pareti tagliate quasi a picco e dove
cento uomini ben risoluti e bene armati sarebbero stati sufficienti per
sterminarli tutti, quando si videro assaliti da una turba d'indiani coi quali
furono costretti a venire alle mani e combattere con tutte le loro forze.
Per parecchie
ore la sorte rimase indecisa e già i filibustieri scoraggiati stavano per
ritirarsi, quando un fortunato colpo di fucile abbatté il capo degl'indiani. I
suoi uomini, perdutisi d'animo, abbandonarono il campo, fuggendo sulle
montagne.
Il nono giorno
quell'orda affamata, dopo d'aver superata con infiniti stenti la Cordigliera,
giungeva in una vasta pianura caldissima, dove corse il pericolo di morire di
sete, non avendo trovato una sola goccia d'acqua; e forse non avrebbe avuto il
coraggio di seguire più oltre Morgan, se una pioggia abbondantissima, seguita
da un violento uragano, non li avesse un po' ringagliarditi.
Lo stesso
giorno scoprivano da lontano l'Oceano Pacifico, ed in una vallata trovarono un
gran numero di bovi, di asini e di cavalli.
Fu un vero
ristoro per quei disgraziati, che in tanti giorni non avevano fatto un solo
pasto abbondante.
Si erano
appena rimessi in marcia, avanzando a casaccio perché don Raffaele aveva
dichiarato di non riconoscere più quei luoghi, quando videro sorgere
all'orizzonte le torri di Panama.
L'opulenta
regina dell'Oceano Pacifico stava dinanzi a loro!...
Un entusiasmo
indicibile si era impadronito di quegli uomini che avevano temuto di rimanere
sopraffatti dalle crescenti difficoltà dell'impresa.
"Andiamo
all'assalto!..." tale fu il grido che sfuggì da tutti i petti.
Morgan che non
voleva cimentarsi subito con uomini ancora stanchi e che desiderava esplorare
il terreno, promise l'attacco per l'indomani.
Gli spagnoli,
avvertiti della presenza di quei formidabili nemici, rimasero stupefatti e
spaventati. Fino allora non avevano creduto che quegli uomini fossero capaci di
tanta audacia.
Nondimeno,
mentre si organizzava la difesa, il Presidente dell'Udienza Reale spinse alcuni
corpi di truppe verso i filibustieri, sperando di bloccarli, e fece tagliare le
vie che conducevano in città ed alzare qua e là trincee e batterie.
Morgan avendo
scorta una boscaglia dove non vi era la menoma traccia di sentiero, approfittò
della notte per farla attraversare dai suoi uomini, giungendo alle spalle dei
corpi spagnoli, i quali si videro costretti a lasciare le trincee e le
batterie, diventate ormai inutili.
Al mattino i
filibustieri erano pronti per muovere all'attacco della città.
Gli spagnoli
si erano già riuniti fuori delle mura per dare loro battaglia. Le loro forze si
componevano di quattro reggimenti di linea, di duemila quattrocento uomini di
truppa leggera, di quattrocento cavalieri e di duemila tori selvaggi condotti
da parecchie centinaia d'indiani.
I filibustieri
invece non erano che mille e senza un solo pezzo di artiglieria.
"Compare"
disse Wan Stiller a Carmaux, che dal margine della foresta osservava, assieme a
don Raffaele, gli spagnoli che si spingevano per la pianura in ordine di
battaglia, coi tori in testa
"Qui noi
tutti vi lascieremo le ossa."
"Vedremo,
vedremo, compare Wan" rispose Carmaux, con voce tranquilla. "Sono
forse i tori che ti spaventano?"
"Io mi
domando che cosa accadrà di noi quando ci rovineranno addosso tutte quelle
bestie indemoniate e dietro di esse tutti quei reggimenti."
"Finché
non vedo Morgan preoccupato, non ho alcun timore. Che le forze che abbiamo
dinanzi siano imponenti non lo nego, ma noi siamo sempre i terribili
filibustieri della Tortue. Don Raffaele, voi sapete dove si trova il palazzo
del conte di Medina, è vero?"
"Sì"
rispose il piantatore.
"Appena
saremo entrati in Panama ci condurrete là assieme a Morgan. Il conte non deve
sfuggirci."
"Se
sarete capaci di entrare" disse don Raffaele, coi denti stretti.
"Spero che i miei compatrioti vi diano fra poco una tale batosta da farvi
scappare più che in fretta fino a Chagres."
"Voi
avete ragione di dire così, mio caro don Raffaele. Siete spagnolo."
I primi colpi
di cannone sparati dagli spagnoli, interruppero la loro conversazione.
La battaglia
stava per cominciare.
Morgan, che al
pari degli altri, temeva l'irrompere di quelle masse d'animali, aveva
raccomandato ai suoi uomini di non lasciare il margine della foresta.
Essendo colà
il terreno assai malagevole, frastagliato da burroncelli e da crepacci, contava
su quegli ostacoli per disorganizzare le colonne dei tori. Aveva avuto anzi la
precauzione di mettere in prima fila tutti i bucanieri, quei formidabili
bersaglieri che erano abituati a misurarsi con quei robusti animali che nelle
boscaglie di San Domingo e di Cuba costituivano il loro principale nutrimento.
Gli spagnoli
muovevano all'attacco in linee profonde, fiancheggiati dalla cavalleria e
preceduti dagl'indiani che conducevano i tori.
Quando i
filibustieri videro quella massa enorme slanciarsi innanzi, aizzata dalle urla
selvagge degl'indigeni, furono lesti ad aprire un fuoco formidabile per
arrestarla prima che potesse giungere sul margine della foresta.
La carica di
quei duemila animali era spaventosa. Correvano all'assalto a testa bassa, colle
corna tese orizzontalmente, pronti a sgominare le linee dei corsari e muggendo
furiosamente.
Il terreno
invece non si prestava ad un assalto compatto. Costretti a dividersi e
suddividersi in causa dei burroni, furono accolti dai bucanieri con un fuoco
così terribile, che in pochi minuti la metà di essi rimase sul terreno.
Gli altri si
dispersero e tornarono verso gli spagnoli, spargendo il panico fra le loro
file.
Imbaldanziti
da quel primo successo, i corsari ormai sicuri della vittoria, lasciarono la
boscaglia assalendo con impeto disperato le forze spagnole.
Si impegnò una
mischia sanguinosissima, che durò ben due ore con grande strage d'ambo le
parti.
Eppure,
incredibile a dirsi, non ostante l'accanita resistenza opposta dagli spagnoli,
alle dieci del mattino, fanti, alabardieri ed archibugieri, quelle truppe che
il Presidente dell'Udienza Reale aveva mandate contro il piccolo esercito dei
filibustieri, colla speranza di schiacciarlo completamente, fuggivano
disordinatamente verso Panama.
Tutta la
cavalleria era stata distrutta dal fuoco implacabile dei bucanieri, e seicento
spagnoli erano rimasti morti sul campo a testimoniare il loro valore, oltre un
gran numero di feriti e di prigionieri.
Morgan,
radunati i suoi capi, additò loro le torri di Panama, dicendo:
"Ed ora
non ci rimane che d'impadronirci della città. Avanti, miei prodi!... La regina
dell'Oceano Pacifico è in nostra mano!..."
La
morte del conte di Medina
Quantunque la
battaglia in campo aperto si fosse risolto con la completa sconfitta degli
spagnoli, Panama era ancora in grado di opporre una lunga ed ostinata
resistenza e di far pagare cara ai filibustieri la loro audacia
Oltre ad
essere la più grossa città dell'America Centrale e la più opulenta, era anche
la più fortificata, essendo stata cinta interamente dal lato di terra e munita
di torri e d'una formidabile artiglieria.
Aveva inoltre
nella sua rada navi in buon numero, bene equipaggiate e poderosamente armate e
la maggior parte dei suoi abitanti era gente abituata ai combattimenti.
Morgan, che
più che la smania di conquista lo spingeva il desiderio di liberare la figlia
del Corsaro Nero, alla quale ormai era legato da un affetto ben più profondo
che una semplice amicizia, da buon capitano non indugiò a muovere all'assalto
della poderosa città.
Voleva
approfittare del terrore e della confusione che vi regnava, dopo la disastrosa
sconfitta subìta dalle truppe.
Formate
quattro colonne d'assalto e dati gli ordini necessari ai suoi capi, mezz'ora
dopo la vittoria i suoi uomini, già sicuri d'impadronirsi della città, erano
sotto le mura.
Malgrado la
dolorosa impressione prodotta dalla perdita della battaglia, soldati e
cittadini avevano organizzata rapidamente la resistenza.
Un formidabile
fuoco d'artiglieria aveva accolse le colonne d'attacco dei filibustieri,
facendo delle vere stragi; ma quei coraggiosi non si perdettero d'animo
Tre ore durò
la lotta dinanzi alle mura, mettendo a durissima prova il valore ormai
leggendario di quei ladroni di mare. Finalmente, malgrado il fuoco infernale degli
spagnoli, Pierre le Picard per il primo, riuscì, alla testa d'un pugno di
disperati, a impadronirsi d'uno dei più solidi bastioni, dopo aver distrutto
fino all'ultimo i difensori, compresi i frati che il Presidente dell'Udienza
Reale aveva inviati sulle mura, perché colla loro presenza incoraggiassero i
difensori.(5)
Voltate le
artiglierie contro la città e contro le torri, quel primo manipolo diede tempo
agli altri di scalare le mura e di rovesciarsi attraverso le vie come un
torrente che rompe gli argini.
Ormai più
nessuno opponeva resistenza. Fuggivano i soldati, fuggivano i cittadini, fra un
frastuono orrendo e le bordate che scaricavano le navi della rada facevano più
danno alle case che ai filibustieri.
Un panico
indescrivibile si era impadronito di tutti, cosicché mancò la difesa interna,
che avrebbe potuto disputare ancora a lungo la vittoria dei terribili
scorridori del golfo del Messico.
I capi,
d'altronde, avevano perduta la testa, ed erano stati i primi od a fuggire o ad
arrendersi, compreso il Presidente dell'Udienza Reale.
Morgan,
temendo che i suoi uomini, dopo tante sofferenze si abbandonassero all'orgia,
s'affrettò a far spargere la voce che gli spagnoli avevano avvelenati i cibi e
le bevande.
Mentre i
filibustieri, occupati i punti principali, bombardavano le navi della baia che
erano ormai le sole a opporre ancora qualche resistenza, Morgan con una schiera
di corsari scelti, fra i quali Pierre le Picard, Carmaux e Wan Stiller, si
diresse velocemente verso il centro della città. Don Raffaele, continuamente
minacciato di morte, li guidava al palazzo del conte di Medina che era uno dei
più noti e dei più belli di Panama.
A Morgan
premeva precludergli la fuga e di strappargli Jolanda.
Certo il
fulmineo assalto dato dai filibustieri, gli aveva impedito di prendere il largo
per tempo.
Un quarto
d'ora dopo il drappello, che si cacciava innanzi turbe di fuggenti, giungeva su
una vasta piazza, nel cui centro sorgeva un bellissimo edificio a due piani.
Sul portone si scorgeva lo stemma del conte: due leoni rampanti in campo
azzurro.
Dei servi
fuggivano in quel momento, carichi di pacchi che contenevano probabilmente
degli oggetti preziosi.
Vedendo
comparire quel drappello di uomini armati, gettarono ogni cosa a terra per
essere più lesti nella corsa, ma Pierre le Picard giunse in tempo per fermarne
uno.
"Non
uccidetemi!" aveva gridato il povero uomo, con voce tremante. "Sono
un misero servo."
"Tu sei
proprio il tipo che ci occorre, giovanotto" rispose Pierre. "Noi non
ti faremo male alcuno se risponderai e subito alle nostre domande."
"Dov'è il
conte di Medina?" gli chiese Morgan, mentre i suoi uomini occupavano
l'atrio del palazzo per impedire la fuga a coloro che erano ancora rimasti
dentro.
"Non lo
so, signore" rispose il servo, diventando livido.
"Pierre",
disse il filibustiere, "fa fucilare quest'uomo, giacché cerca
d'ingannarci."
Il poveretto,
comprendendo che la sua vita era appesa ad un filo, aveva alzate le mani,
gridando:
"No,
signori, parlerò."
"Dov'è
dunque?" chiese Morgan, con voce terribile.
"Nel
palazzo."
"Non è
fuggito?"
"Gli è
mancato il tempo. Non credeva che la città cadesse nelle vostre mani così
presto."
"Vi è una
fanciulla con lui?"
"Sì,
signore."
Morgan non
aveva potuto frenare un grido di gioia:
"Finalmente
Jolanda è mia!..."
"C'è
qualcuno col conte?"
"Il
capitano Valera e due dei suoi ufficiali."
"Dove si
trova il conte?"
"Si è
nascosto""
"Guidaci"
disse Morgan. "A me Carmaux con Wan Stiller. Gli altri circondino il
palazzo e facciano fuoco su chi cercherà di uscire."
"E anche
voi, don Raffaele, seguiteci" disse Carmaux.
Mentre i
filibustieri circondavano il palazzo, Morgan, Pierre, Carmaux, Wan Stiller e
don Raffaele, seguivano il servo.
Invece di
salire il marmoreo scalone che metteva nelle sale superiori, il prigioniero li
condusse in un corridoio alla cui estremità si scorgeva un quadro di grandi
dimensioni rappresentante una Madonna.
"Dove
andiamo?" chiese Pierre, che diffidava.
"Vi
conduco dove si trova il conte" rispose il servo.
"Mano
alle spade, amici" comandò il filibustiere. "Rammentatevi dei colpi
che vi ha insegnati il Corsaro Nero."
"Silenzio,
signori" disse il servo. "Pare che alterchino."
Tutti si erano
accostati al quadro tendendo gli orecchi. Si udiva la voce del conte confusa ad
altre.
Pareva che là
dietro si discutesse animatamente. Morgan, che aveva il cuore stretto,
ascoltava attentamente rattenendo il respiro.
Ad un tratto,
dopo un brevissimo silenzio, udì il governatore di Maracaybo dire con voce
minacciosa:
"Firmate,
signora, siete ancora in tempo!... Firmate o non uscirete viva di qui!..."
Morgan era
diventato pallido come un morto.
"Attenti
amici: vi è la signora di Ventimiglia ed il conte potrebbe ucciderla. E tu,
apri!..."
Il servo toccò
un bottone nascosto fra i fregi della cornice ed il quadro scivolò sotto,
scomparendo entro una fessura apertasi nel pavimento.
Dinanzi ai
filibustieri s'apriva una sala assai ampia, illuminata da due doppieri. Non
conteneva che una lunga tavola, collocata nel mezzo, su cui stavano delle carte
ed un calamaio.
Il conte di
Medina vi stava appoggiato, tenendo in mano una penna. Dietro di lui si
scorgevano il capitano Valera e due ufficiali che tenevano le spade snudate.
Di fronte,
dall'altro lato della tavola, si trovava Jolanda, ritta, in una posa fiera e
risoluta.
"No,
signore, non firmerò giammai!" aveva gridato.
In
quell'istante i quattro filibustieri si slanciarono come un solo uomo nella
sala, gridando:
"A noi,
signori!..."
Pierre le
Picard, che era il primo, si era gettato verso Jolanda, mentre Wan Stiller e
Carmaux, con una spinta irresistibile, mandarono all'aria la tavola onde non
servisse di barriera ai quattro spagnoli.
Il conte di
Medina vedendo irrompere quei quattro uomini che ben conosceva, aveva mandato
un urlo di furore.
Gettò la
penna, estrasse rapidamente una pistola che teneva alla cintura, e prima che
alcuno potesse impedirglielo fece fuoco verso Jolanda, urlando:
"Muori
per mano del bastardo!..."
Un grido di
dolore aveva seguíto lo sparo, ma non lo mandò Jolanda, bensì Pierre le Picard.
Il bravo
filibustiere con una mossa fulminea aveva coperto la fanciulla ed aveva
ricevuto la palla nel petto.
Tuttavia era
rimasto in piedi. S'appoggiò al muro per non cadere, levò a sua volta la pistola
e fece fuoco contro il gruppo formato dai quattro spagnoli abbattendo uno dei
due ufficiali.
"Sono
vendicato" ebbe appena il tempo di dire.
E stramazzò al
suolo, mentre Jolanda si curvava su di lui. Quella scena si era svolta così
rapidamente, che Morgan non aveva potuto impedirla. Cieco di rabbia si era
scagliato addosso al conte che l'aspettava a pie' fermo, colla spada in mano,
gridandogli:
"Difendetevi,
signore, perché non vi accorderò quartiere."
Carmaux si era
gettato invece contro il capitano, mentre Wan Stiller caricava furiosamente
l'ufficiale.
Don Raffaele,
istupidito, erasi fermato in un angolo, appoggiandosi contro la parete. La
presenza del capitano, del suo implacabile nemico, lo aveva come inchiodato al
suolo.
I sei uomini
combattevano ferocemente, decisi a uccidere i loro avversari o farsi uccidere.
Erano tutti
abilissimi spadaccini, che conoscevano a fondo tutte le sottigliezze della
terribile scuola dell'acciaio.
Morgan,
accortosi fino dai primi colpi d'aver dinanzi un avversario pericoloso, che non
ignorava le botte segrete dei più famosi maestri di quell'epoca, dopo i primi
fulminei attacchi era diventato prudente, frenando l'eccitazione dei propri
nervi.
Non incalzava
più coll'impeto dei primi momenti. Stava invece sulla difensiva, aspettando che
il conte, assai meno vigoroso e meno muscoloso, esaurisse le proprie forze per
tentare qualche botta segreta insegnatagli dal cavaliere di Ventimiglia.
Il governatore
di Maracaybo, che forse si era accorto dell'intenzione dell'avversario, si
risparmiava più che poteva, limitandosi a fare delle finte e non rompendo che
di rado.
Carmaux ed il
capitano Valera s'attaccavano invece rabbiosamente, facendo sprizzare scintille
dai ferri.
"Questa
volta non vi risparmierò come l'altra" diceva Carmaux, incalzando
vigorosamente l'avversario.
Il capitano
conservava un silenzio feroce. Pareva che qualche sinistro pensiero lo
preoccupasse più che la spada di Carmaux ed il pericolo di cadere con tre
pollici di ferro nel petto.
Colla fronte
aggrottata, le labbra contratte da un sogghigno crudele, lanciava a destra ed a
sinistra degli sguardi obliqui come se cercasse di scoprire qualche rifugio.
Rompeva di frequente, come se non fosse capace di tener testa agli assalti più
impetuosi del francese e per calcolo o per caso, s'accostava a poco a poco a
don Raffaele che era sempre addossato al muro, a breve distanza dalla signora
di Ventimiglia.
L'amburghese
invece, più flemmatico del francese, quantunque non meno valente di lui, scambiava
vigorose stoccate coll'ufficiale, spingendolo a poco a poco verso la parete
contro la quale pensava d'inchiodarlo.
Jolanda,
inginocchiata presso il cadavere di Pierre le Picard, pareva che pregasse.
Ad un tratto
un urlo selvaggio echeggiò nella sala coprendo il fragore dei ferri, subito
seguíto da un grido di dolore e da una voce che diceva:
"Son
morto!..."
Era il
capitano Valera che aveva fatto il suo colpo.
A poco a poco,
sempre indietreggiando, si era accostato a don Raffaele e, dopo essersi assicurato
con un rapido sguardo, che ormai si trovava a buona portata, con un salto da
tigre si era gettato fuori dalla linea della spada di Carmaux, poi con una
stoccata fulminea aveva immerso il ferro nella gola del piantatore.
Il
disgraziato, colpito a morte, era stramazzato al suolo mandando quel grido:
"Son
morto!..."
Carmaux,
vedendosi sfuggire l'avversario, era piombato su di lui, urlando:
"Ora
vendicherò don Raffaele!..."
Il capitano,
agile come un gatto, si era nuovamente gettato da una parte, precipitandosi
addosso alla signora di Ventimiglia che non si era accorta del grave pericolo.
Già stava per
trafiggerla alle spalle, quando Wan Stiller, che era a pochi passi, e che aveva
udito il grido di furore di Carmaux, con una stoccata poderosa inchiodò l'ufficiale
alla parete, poi, ritirato il ferro fumante di sangue, tese il braccio armato
per coprire la fanciulla.
Il capitano,
che non s'aspettava quel nuovo avversario, spinto dal proprio slancio, si era
infilzato da sé contro la spada dell'amburghese.
Cacciò un urlo
feroce, alzò le mani, poi rovinò al suolo mandando un'ultima bestemmia.
Il ferro gli
aveva attraversato il cuore.
La signora di
Ventimiglia, vedendosi cadere intorno quei due uomini, l'ufficiale ed il
capitano, si era alzata di scatto, facendo un gesto d'orrore. Pareva che solo
in quel momento si fosse accorta che in quella sala sei uomini lottavano
ferocemente, decisi a vincere od a morire.
"Basta!...
Basta sangue!..." gridò.
Un urlo di
rabbia e di dolore le rispose. Il conte di Medina era stato toccato da Morgan,
sopra la mammella sinistra.
"E questa
è la botta segreta del Corsaro!..." gridò il filibustiere, portandogli un
secondo colpo dal basso in alto, essendosi ripiegato fino a toccare quasi il
suolo.
Udendo quella
voce e vedendo il conte arretrare, Jolanda aveva gridato:
"No,
Morgan... risparmiatelo!"
Era troppo
tardi. La botta segreta del Corsaro Nero era partita ed il ferro del
filibustiere era scomparso più che mezzo nel petto del conte.
Il figlio di
Wan Guld aveva lasciò cadere la spada, portandosi ambe le mani sul cuore.
Fece tre passi
indietro, come un automa, cogli occhi sbarrati, le labbra bianche, poi piombò
al suolo come un albero sradicato dall'uragano.
Jolanda si
precipitò verso di lui, pallida come una morta, commossa.
"Signor
conte!..." gli disse, inginocchiandosi presso di lui e prendendogli le
mani che diventavano ormai già fredde. "Perdonatemi... non volevo la
vostra morte..."
Il bastardo
aprì gli occhi già velati e li fissò sulla fanciulla.
Fece cenno che
lo rialzassero.
Morgan,
gettata via la spada con un gesto di orrore, si era pure inginocchiato presso
il morente e lo aveva aiutato a sollevarsi, onde il sangue non lo soffocasse.
"Sono...
stato... malvagio..." mormorò con voce semispenta. "Perdonatemi...
Jolanda... perdona...temi... dite...lo..."
"Vi
perdono, signor conte" rispose la fanciulla, singhiozzando.
Il conte girò
il capo verso Morgan che era pure profondamente commosso.
"L'ama...te...
è... vero?..." chiese.
Il corsaro
fece col capo un cenno affermativo.
Il conte gli
prese la destra e gliela strinse fortemente, poi rovesciò il capo.
Era morto.
Jolanda si era
alzata piangendo. Staccò dalla parete un crocefisso, lo depose sul petto del
conte, poi gli chiuse gli occhi.
"Andiamo,
signora" disse Morgan.
E la trasse
con dolce violenza fuori da quella sala dove cinque cadaveri giacevano al
suolo, illuminati dalla funebre luce dei doppieri.
. . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . .
Due settimane
durò il sacco di Panama e sarebbe di certo durato assai di più, poiché immense
ricchezze rimanevano ancora da raccogliere, quantunque gli abitanti avessero
nascoste le cose più preziose, quando un incendio spaventevole scoppiò quasi
contemporaneamente in più luoghi, avvolgendo la regina del Pacifico in un mare
di fuoco.
Gli spagnoli
accusarono i filibustieri, o meglio Morgan, di averlo provocato; questi invece
ne diede la colpa ai primi, che l'avrebbero suscitato per interrompere il sacco
e tentare anche di soffocarli.
Comunque sia,
l'intera città andò distrutta totalmente, ma anche in mezzo alle ceneri i
filibustieri trovarono gran copia d'oro e d'argento e di gemme.
Dopo quattro
settimane essi abbandonavano definitivamente le sponde dell'Oceano con un
convoglio di seicento e quindici bestie da soma, che portavano il frutto di
tanta impresa.
Il bottino fu
valutato a quattrocentoquarantatremila libbre d'argento.
Un mese dopo i
filibustieri, con Morgan, la signora di Ventimiglia, Carmaux e Wan Stiller
sbarcavano alla Tortue, senza essere stati molestati dalle squadre spagnole del
golfo del Messico, e otto giorni dopo si celebravano le nozze della figlia del
Corsaro Nero coll'ardito e fortunato filibustiere.
Avendo in
quell'epoca l'Inghilterra fatta la pace colla Spagna e mandato ordine al
governatore della Giamaica che vietasse a qualunque filibustiere di mettersi in
mare, i corsari si divisero in varie partite per corseggiare per loro conto ed
a loro rischio e pericolo.
Morgan si
ritirò alla Giamaica per vivere tranquillo colla giovane sposa che adorava. Fu
molto stimato dal conte di Carlisle, governatore allora di quell'importante
isola, che lo fece nominare vice-governatore; e il re Carlo II d'Inghilterra lo
nominò cavaliere.
Carmaux e Wan
Stiller, ormai invecchiati e stanchi di menare le mani, seguirono l'antico
luogotenente del orsaro Nero, godendosi in pace gli ultimi anni della loro
tribolata ed avventurosa esistenza.
F
I N E
Ricavato da: Jolanda, la figlia del Corsaro Nero
Di:
Emilio
Salgari
Antonio Vallardi
Editore, 1977
Diritti D'autore: no
Codice ISBN: ---
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