1. Una spedizione notturna
- Signor Yanez, vedo un lume brillare laggiù, entro
quell'apertura.
- L'ho veduto, Sambigliong.
- Che vi sia un praho ancorato nella rada?
- Io credo invece che si tratti di una scialuppa a
vapore, di quelli che ha condotto qui Tremal-Naik e
Darma.
- Che si vegli all'entrata della rada?
- È possibile, amico, - rispose tranquillamente il
portoghese, gettando via la sigaretta che stava fumando.
- Potremo passare inosservati?
- Chi vuoi che si aspetti un colpo di mano da parte
nostra? Redjang è troppo lontana da Labuan e poi
scommetterei che nemmeno a Sarawak sanno che noi siamo
già giunti. Chissà se la nostra dichiarazione di
guerra al leopardo inglese e al nipote di James Brooke
è giunta qui. E poi non siamo noi vestiti da cipai
indostani? Forse che le truppe del rajah portano dei
vestiti diversi dai nostri?
- Tuttavia, signor Yanez, preferirei che quella
scialuppa o quel praho non si trovasse qui.
- Devono dormire della grossa a bordo, mio caro
Sambigliong, e noi li sorprenderemo.
- Come! Assaliremo quei marinai? - chiese Sambigliong.
- Non amo lasciarmi alle spalle dei nemici che
potrebbero molestarci nella ritirata. Ci sbarazzeremo il
terreno senza che la Perla di Labuan venga in nostro
aiuto e avvicinandosi alla costa urti contro qualche
scogliera. Suppongo che non saranno in molti su quella
scialuppa o praho che sia e noi siamo lesti di mano. Non
fate uso delle armi da fuoco: solo i parangs ed i kriss
devono lavorare. Mi avete capito?
- Sì, signor Yanez, - risposero parecchie voci.
- Avanti adunque e silenzio.
Questa conversazione avveniva su una grossa
scialuppa, manovrata da sei paia di remi e montata da
quattordici persone che indossavano il pittoresco
costume dei cipai sarawakini: giacca di panno rosso,
calzoni bianchi di tela, turbantino in testa pure bianco
e scarpe colla punta rialzata.
Dodici avevano la pelle di colore molto oscuro, che
li faceva rassomigliare a malesi o per lo meno a dayaki:
e gli altri due invece erano di razza caucasica ed
indossavano la divisa di ufficiali.
Erano tutti uomini robusti, alti e muscolosi e
tenevano presso i loro rispettivi banchi delle lunghe
carabine di fabbrica indiana, delle pesanti sciabole
colla lama molto larga e dei pugnali a lama
serpeggiante, i famosi, e terribili kriss malesi.
La scialuppa, che manovrava silenziosamente e
velocemente, sotto la direzione di Yanez che stava a
poppa, alla barra del timone, muoveva verso una profonda
baia che s'apriva sulla costa occidentale dell'isola del
Borneo, in quella porzione che è bagnata dalle acque
del grande golfo di Sarawak.
Quantunque la notte fosse oscurissima, essendo le
stelle coperte da un velo di vapori che la brezza di
ponente spingeva verso la costa, la scialuppa s'avanzava
senza mai esitare, scivolando fra le scogliere
corallifere che aprivano vagamente a babordo ed a
tribordo e contro cui rompevasi la risacca con dei
muggiti prolungati.
Si dirigeva verso un piccolo punto luminoso che si
scorgeva in fondo alla rada e che ora s'alzava ed ora
s'abbassava, come se subisse delle scosse improvvise.
Si era già molto inoltrata entro quel profondo
squarcio della costa, quando l'uomo bianco che stava
seduto presso Yanez, un bel giovane di venticinque o
vent'otto anni, di forme massicce, con una barbetta
tagliata all'americana e che indossava la divisa di
luogotenente, chiese:
- Capitano Yanez, se ci interrogano, che cosa diremo?
- Che andiamo a portare viveri al fortino di Macrae,
- rispose il portoghese, che aveva accesa una seconda
sigaretta. - Forse che la nostra scialuppa non è carica
d'ogni ben di Dio?
- E appena saremo bordo contro bordo daremo addosso?
- Sì, signor Horward. Noi pirati non esitiamo mai e
andiamo sempre a fondo. Se sarà una scialuppa a vapore,
v'incaricherete voi di metterla subito sotto pressione,
così ci rimorchierete subito al largo dopo fatto il
colpo.
- Avete fiducia che riesca?
- Piena, completa, signor Horward. Fra due ore
Tremal-Naik e Darma saranno a bordo del Re del Mare, ve
lo dico io.
- Siete ammirabili voi altri, signor Yanez.
- Siamo abituati a correre tutti i rischi, - rispose
il portoghese. - D'altronde anche voi americani avete
nelle vene del buon sangue.
- Oh!
Una voce che era partita dal praho o dalla scialuppa,
poichè l'oscurità non permetteva ancora di ben
distinguere che cosa fosse, aveva gridato:
- Chi vive?...
- Amici che vanno a rifornire di viveri il forte di
Macrae, - rispose Yanez.
- Abbiamo l'ordine di proibire lo sbarco a tutti fino
all'alba.
- Chi ha dato quest'ordine?
- Il capitano Moreland, che si trova nel fortino in
attesa che la sua nave si sia rifornita di carbone.
- Aspetteremo l'alba presso di voi, - rispose Yanez.
Poi, volgendosi verso il macchinista americano ed a
Sambigliong che gli stava presso, disse a mezza-voce:
- Non sapevo che vi fosse una nave in queste acque.
Il capitano Moreland! Chi sarà costui?
- Qualche inglese ai servigi del rajah di Sarawak,
senza dubbio, - rispose l'americano.
- Priveremo la nave del suo capo, - disse Sambigliong.
- Lo faremo prigioniero assieme alla guarnigione del
fortino.
- Adagio, mio caro, - disse Yanez. - Vi possono
essere in quel fortino più uomini di quello che
crediamo e noi dobbiamo giuocare d'astuzia. D'altronde
nulla sospetteranno, ora che abbiamo fermata la
scialuppa che era incaricata di approvvigionarlo.
- Una vera fortuna, signor Yanez, - disse
l'americano.
- Non dico il contrario... Là, vedete se mi ero
ingannato? È una scialuppa a vapore e non già un praho.
Ragazzi, tenetevi pronti.
- Accosta! - gridò in quel momento una voce rauca, -
o vi scarico addosso un po' di mitraglia.
- E assassinereste dei camerati, - rispose Yanez. -
Vi avverto intanto che io sono un ufficiale del rajah e
non un dayako.
L'uomo che aveva formulata quella minaccia brontolò
qualche parola che non giunse fino a Yanez. La scialuppa
a vapore era ormai tanto vicina da distinguerla
benissimo, essendo illuminata da un grosso fanale di
marina appeso sulla cima del fumaiolo.
Era una barcaccia lunga una decina di metri, larga di
fianchi, fornita di ponte, con un piccolo pezzo di
cannone collocato a prora. Alcuni uomini erano
appoggiati alla murata di babordo, vestiti di bianco e
sembravano indiani dai turbantini che portavano in
testa.
- Gettate una gomena, - disse Yanez, mentre i suoi
malesi alzavano i remi e afferravano i parangs tenendoli
nascosti sotto i banchi.
Una fune fu gettata dalla barcaccia e venne subito
afferrata da Sambigliong che era passato a prora.
- Pronti, - sussurrò Yanez ai suoi uomini. - Quando
udrete il mio comando, balzate sopra il bordo.
Con poche bracciate la scialuppa si trovò addosso
alla barcaccia. Yanez e l'americano in un momento
passarono a bordo della seconda.
- Chi è che comanda qui? - chiese il portoghese, con
voce imperiosa.
- Sono io, signore - rispose un indiano che portava
sulle maniche i galloni di sergente, salutando. -
Perdonate, signor tenente, di avere minacciato di
mitragliarvi ma il capitano Moreland ha dato ordini
severissimi e non posso permettervi d'approdare.
- Dov'è il capitano?
- Nel fortino.
- E la sua nave?
- Alla foce del Redjang, dinnanzi la bocca
settentrionale.
- I prigionieri sono sempre nel fortino?
- Quell'indiano e quella fanciulla?
- Sì, - disse Yanez.
- Ieri vi erano ancora, ma credo che appena la nave
del capitano avrà compiuta la sua provvista di carbone,
li trasporterà a Sarawak.
- Che cosa si teme?
- Un colpo di mano da parte delle Tigri di Mompracem.
Corre voce che si siano messi in mare contro
l'Inghilterra e il rajah.
- Baie, - disse Yanez. - Sono tutti fuggiti al
settentrione di Borneo. Quanti uomini hai qui?
- Otto, signor tenente.
- Arrenditi!
Prima che il sergente si fosse rimesso dallo stupore,
il portoghese con una mossa fulminea l'aveva afferrato
colla destra per la gola, mentre colla sinistra gli
aveva puntato al petto una delle due pistole che teneva
alla cintura.
Vedendo quell'atto, i dodici tigrotti che formavano
l'equipaggio della scialuppa, avevano scavalcata
rapidamente la murata scagliandosi contro gli altri
indiani coi parangs alzati.
- Chi oppone resistenza è uomo morto! - tuonò Yanez.
Il sergente, che doveva essere un uomo di fegato, con
una brusca mossa cercò di sottrarsi alla stretta del
portoghese e di estrarre la sciabola, mentre gridava ai
suoi uomini:
- Prendete le carabine!
L'americano Horward che gli si era posto dietro, fu
pronto ad afferrarlo a mezzo corpo ed a farlo ruzzolare
sul ponte con uno sgambetto dato a tempo.
Vedendo il loro sergente a cadere e che i pirati
stavano per far uso dei parangs, l'equipaggio non osò
muoversi.
- Sambigliong, lega il sergente e voi altri disarmate
tutti e calateli sotto il ponte bene assicurati.
L'ordine fu subito eseguito senza che gli indiani
opponessero resistenza.
- Ora, - continuò il portoghese, sedendosi presso il
sergente che era stato legato solidamente alla murata, -
se ti preme salvare la pelle, discorriamo un po'.
Sarebbe inutile che tu ti ostinassi a tacere, conoscendo
noi il modo di far urlare anche i muti. Quanti uomini vi
sono nel fortino di Macrae?
- Cinquanta, compreso il capitano ed un tenente del
rajah.
- Chi è quel sir Moreland?
- Si dice che prima fosse un tenente della marina
anglo-indiana.
- Che cosa è venuto a far qui?
- Non lo so, signore; pare che siasi unito al rajah
di Sarawak e che goda anche la protezione del
governatore di Labuan. So che comanda una bella nave a
vapore, formidabilmente armata.
- È un inglese dunque?
- Così si dice, - rispose il sergente, - quantunque
sia di carnagione molto bruna.
- Che bandiera batte la sua nave?
- Quella del rajah di Sarawak.
- Quale distanza corre da qui al fortino?
- Appena un miglio.
- Tu avrai salva la vita e dieci sterline di regalo.
Signor Horward, voi rimarrete qui con due dei nostri e
nel frattempo accenderete la macchina. Ne avremo bisogno
fra alcune ore. Gli altri s'imbarchino con me.
Poi, rivolgendosi nuovamente al sergente:
- Si trova su un'altura il fortino, è vero?
- Di fronte a noi, - rispose l'indiano. - È la sola
altura che vi sia su questa costa.
- Benissimo: voi rimarrete prigionieri fino al nostro
ritorno e, se rimarrete tranquilli, vi lasceremo poi
liberi. Signor Horward buona notte e buona guardia.
- Buona fortuna, capitano Yanez, - rispose
l'americano.
Il portoghese ridiscese nella scialuppa con
Sambigliong e nove uomini, lasciandone due all'americano
e diede il segnale della partenza.
L'imbarcazione si staccò dalla barcaccia e filò
verso la spiaggia che si trovava a tre o quattrocento
passi e contro cui rompevasi, con cupo fragore, la
risacca, risalendo per un buon tratto la spiaggia.
Gli undici uomini sbarcarono senza alcun
inconveniente, tirarono in secco la scialuppa, poi
deposero i parangs, armandosi invece delle carabine e
caricandosi di ampie ceste che parevano piuttosto
pesanti.
- Siete pronti? - chiese Yanez.
- Sì, capitano, - risposero tutti.
- Lasciate parlare me solo e tenetevi pronti a tutto.
- Saremo muti.
- Avanti, miei prodi. Le tigri di Mompracem non
temono i mammalucchi del rajah di Sarawak.
Essendosi in quel frattempo diradato un po' il velo
nebbioso che nascondeva le stelle, Yanez aveva subito
scorta l'altura su cui trovavasi il fortino, essendo il
paese circostante tutto piano. Il drappello si mise in
marcia nel più profondo silenzio. Yanez rischiarava la
via con una grossa lanterna, che aveva tolta dalla
scialuppa e che dovevasi scorgere a una grande distanza
fra l'oscurità della notte.
Scoperto al di là delle dune una specie di sentiero
che serpeggiava fra delle piantagioni d'indaco e che
pareva si dirigesse verso l'altura, gli undici uomini vi
s'inoltrarono camminando in fila indiana.
Non avevano scelto male la direzione, perchè venti
minuti dopo si trovavano alla base della minuscola
collina, alta appena duecento metri, sulla cui cima
scorgevasi confusamente una specie di torricella con
intorno delle case e delle cinte.
- Se non dormono o non sono ciechi devono aver scorta
la mia lampada, - disse Yanez. - Mio caro signor
Moreland, vedrai come ti giuocheranno le tigri di
Mompracem! Poi Sandokan si occuperà della tua nave,
giacchè ne hai una.
Un sentieruzzo che s'innalzava a zig-zag conduceva al
fortino.
Yanez, dopo d'aver accordato ai suoi uomini un
momento di riposo, essendo quelle ampie ceste assai
pesanti, cominciò a salire, tenendo la sciabola
sguainata.
Il drappello era giunto già a metà costa, quando da
uno spalto del fortino si udì una voce a gridare:
- Chi va là?
- Il tenente Farshon con cipai di Sarawak che portano
viveri pel fortino e ordini pel capitano Moreland.
- Attendete.
Si udirono delle voci, poi si videro parecchi lumi
brillare sulle palizzate e finalmente tre uomini che
parevano dayaki, quantunque indossassero il costume
indiano e armati di carabine, mossero incontro al
drappello. Uno di essi portava una torcia.
- Da dove venite, signor tenente? - chiese uno dei
tre.
- Da Kohong, - rispose Yanez. - È ancora sveglio il
capitano Moreland?
- Ha finito or ora di cenare assieme ai prigionieri.
- Si mangia molto tardi a Macrae.
- Il capitano è tornato dopo il tramonto, questa
sera.
- Conducetemi subito da lui; ho delle gravi notizie
da comunicargli.
- Seguitemi, signor tenente.
Yanez gli si mise dietro, mormorando fra i denti:
- Ecco una cosa che non avevo prevista. Se
Tremal-Naik o Darma, vedendomi comparire
improvvisamente, mandassero un grido di sorpresa? Mio
caro Yanez sta' in guardia. La carta che stai giuocando
è terribile.
Il drappello varcò un ponte levatoio, attraversò
due cinte e un vasto cortile e giunse dinanzi ad un
fabbricato piuttosto vasto, costruito in muratura e
sormontato da una torricella. Dalle finestre del
pianterreno uscivano due sprazzi di luce, essendo le
imposte ancora aperte.
- Venite, tenente: il capitano è là, - disse uno
dei tre dayaki. - Devo dare ricovero ai vostri uomini?
- No, per ora: lasciateli qui nel cortile.
Ringuainò la sciabola, si assicurò le pistole
dentro la fascia, scambiò con Sambigliong un rapido
cenno e affettando una grande calma entrò in una
saletta illuminata da una lanterna cinese, di carta
oliata, dove dinanzi ad una tavola riccamente imbandita
si trovavano tre persone: un capitano di marina,
Tremal-Naik e Darma.
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