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I PIRATI DELLA MALESIA
di: Emilio Salgari
PARTE PRIMA
LA TIGRE DELLA
MALESIA

2. I pirati della Malesia.
Per il disgraziato
tre-alberi era suonata l'ultima ora. Incastrato fra due rocce, che sporgevano
appena appena le loro punte nere, dentellate in mille guise dall'eterno
movimento delle acque, con le coste rotte e la chiglia frantumata, non era più
che un rottame impossibile a ripararsi, che presto o tardi il mare avrebbe
indubbiamente ridotto in frantumi e disperso. Lo spettacolo era grandioso e
insieme spaventevole. All'intorno il mare spumeggiava furiosamente con mille
boati, frangendosi e rifrangendosi sulle scogliere, trascinando seco frammenti
di murate, di madieri, di corbetti e di imbarcazioni che si urtavano con mille
scricchiolii. Sul tre-alberi i superstiti, quasi tutti pazzi di terrore,
correvano da prua a poppa mandando mille urla, mille bestemmie, mille
invocazioni. Uno s'arrampicava sulle griselle, un altro si spingeva fino alle
coffe, un terzo più su, fino alle crocette. Un quarto invece saltellava come se
fosse sui carboni ardenti chiamando Dio e la Madonna chi s'affannava a passarsi
attraverso al corpo un salva-gente, e chi a preparare un galleggiante per
montarvici su, appena la nave si fosse sfasciata. Il capitano Mac Clintock e
mastro Bill, che ne avevano viste di peggio, erano i soli che conservassero un
po' di calma. Visto che il tre-alberi rimaneva immobile, come se fosse stato
inchiodato sulle scogliere, si affrettarono a scendere nella stiva. Videro
subito che non v'era più speranza di rimetterlo a galla, poiché era già zeppo
d'acqua. - Orsù - disse mastro Bill con voce commossa, - la poveretta ha
esalato l'ultimo respiro! - Hai ragione, Bill - rispose il capitano ancor più
commosso. Questa è la tomba della valorosa Young-India. - E che cosa
faremo? - Bisogna aspettare l'alba. - Resisterà ai colpi di mare? - Lo
spero. Le scogliere sono penetrate nel ventre come un cuneo nel tronco di un
albero. Mi sembra irremovibile. - Andiamo a incoraggiare quelli che sono sul
ponte. Sono mezzi morti di paura. I due lupi di mare risalirono sul ponte. I
marinai ed i passeggeri, coi visi sconvolti dal terrore, si precipitarono loro
incontro interrogandoli con viva ansietà. - Siamo perduti? - chiedevano gli
uni. - Andiamo a picco? - chiedevano gli altri. - C'è speranza di
salvarsi? - Dove siamo? - Calma, ragazzi - disse il capitano. - Non
corriamo per ora pericolo alcuno. L'indiano Kammamuri, che aveva mostrato di
aver tanta fretta d'arrivare a Sarawak, si avvicinò al comandante. - Capitano
- chiese con voce tranquilla, - andremo a Sarawak? Vedi bene che non è
possibile, Kammamuri. - Ma io devo andarci. - Non so cosa dirti. Il
vascello è immobile come uno scoglio. - Ho il padrone laggiù, capitano. -
Aspetterà. Lo sguardo vivo e scintillante dell'indiano si fece cupo e la sua
faccia, che aveva un non so che di feroce, divenne tetra. - Kalì li protegge
- mormorò. - Tutto non è ancora perduto, Kammamuri - disse il capitano. -
Non affonderemo dunque? - Ho detto di no. Orsù, calma, ragazzi. Domani
sapremo su quale isola o scogliera abbiamo naufragato e vedremo che cosa si
potrà fare. Io garantisco le vostre vite. Le parole del capitano fecero buon
effetto sugli animi dei marinai, i quali cominciarono a sperare di potersi
salvare. Coloro che lavoravano alle zattere abbandonarono il lavoro; quelli
inerpicati sugli alberi dopo un po' d'esitazione si lasciarono scivolare giù. La
calma non tardò a regnare sul ponte del vascello naufragato. Del resto la
burrasca, dopo d'aver raggiunta la massima intensità, cominciava a scemare. I
nuvoloni, qua e là squarciati, lasciavano intravvedere di quando in quando il
tremulo luccichìo degli astri. Il vento, dopo d'aver fischiato, urlato, ruggito,
si calmava a poco a poco. Tuttavia il mare continuava a mantenersi assai
agitato. Gigantesche ondate correvano in tutte le direzioni investendo con furia
estrema le scogliere e sfasciandovisi sopra con spaventevole fracasso. Il
vascello scosso, sbattuto a prua e a poppa, gemeva come un moribondo,
lasciandosi portar via pezzi di murate e frammenti della chiglia infranta.
Talvolta, anzi, oscillava da prua a poppa così fortemente, da temere che venisse
strappato dal banco madreporico e travolto in mezzo ai marosi. Per fortuna
stette saldo, ed i marinai, malgrado l'imminente pericolo e le ondate che si
rovesciavano in coperta, poterono gustare anche qualche ora di sonno. Alle
quattro del mattino, verso oriente, il cielo cominciò a schiarirsi. Il sole
sorgeva con la rapidità che è propria delle regioni tropicali, annunciato da una
tinta rossa magnifica. Il capitano, ritto sulla coffa dell'albero di maestra,
con mastro Bill vicino, teneva gli occhi fissi al nord, dove sorgeva, a meno di
due miglia, una massa oscura, che doveva essere una terra. - Ebbene, capitano
- chiese il nostromo che masticava rabbiosamente un pezzo di tabacco, - la
conoscete quella terra? - Credo di sì. Fa scuro ancora, ma le scogliere che
la cingono da tutte le parti mi fanno sospettare che quell'isola sia Mompracem. -
By God! - mormorò l'americano facendo una smorfia. - Ci
siamo rotte le gambe in un brutto luogo. - Lo temo purtroppo, Bill. L'isola
non gode buon nome. - Dite che è un nido di pirati. È tornata la Tigre della
Malesia, capitano. - Che? - esclamò Mac Clintock, mentre si sentiva correre
per le ossa un brivido. - La Tigre della Malesia tornata a Mompracem? -
Sì. - È impossibile, Bill! Sono parecchi anni che quel terribile individuo è
scomparso. - Ma vi dico che è tornato. Quattro mesi or sono egli assalì
l'Arghilah di Calcutta, il quale non gli sfuggì che con gran fatica. Un
marinaio che aveva conosciuto il sanguinario pirata mi narrò di averlo scorto a
prua di un praho. - Allora siamo perduti. Non tarderà ad
assalirci. - By God! - urlò il mastro, divenendo di colpo
pallidissimo. - Che cos'hai? - Guardate capitano! Guardate laggiù!... -
Dei prahos, dei prahos! - gridò una voce dal ponte. Il
capitano, non meno pallido del mastro, guardò verso l'isola e scorse quattro
legni che doppiavano un capo, lontano appena tre miglia. Erano quattro grandi
prahos malesi, bassi di scafo, leggerissimi, snelli, con vele di forme
allungate sostenute da alberi triangolari. Questi legni, che filano con una
sorprendente rapidità e che, grazie al bilanciere che hanno sottovento e al
sostegno che portano sopravento, sfidano i più tremendi uragani, sono
generalmente usati dai pirati malesi, i quali non temono di assalire con essi i
più grossi vascelli che s'avventurano nei mari della Malesia. Il capitano non
lo ignorava, sicché appena li ebbe scorti, s'affrettò a discendere sul ponte. In
poche parole informò l'equipaggio del pericolo che li minacciava. Solo
un'accanita resistenza poteva salvarli. L'armeria di bordo, per disgrazia,
non era troppo ben fornita. I cannoni mancavano totalmente, i fucili erano
appena sufficienti per armare l'equipaggio e in gran parte assai malandati.
V'erano però delle sciabole d'arrembaggio, arrugginite sì, ma ancora in buono
stato, qualche pistolone, qualche rivoltella e un buon numero di scuri. I
marinai e i passeggeri, armatisi alla meglio, si precipitarono verso poppa, la
quale trovandosi immersa, poteva offrire una buona scalata. La bandiera degli
Stati Uniti salì maestosamente sul picco della randa e mastro Bill la
inchiodò. Era tempo. I quattro prahos malesi che filavano come uccelli
non erano più che a sette od ottocento passi e si preparavano ad assalire
vigorosamente il povero tre-alberi. Il sole si alzava allora sull'orizzonte e
permetteva di vedere chiaramente coloro che li montavano. Erano ottanta o
novanta uomini, semi-nudi, armati di stupende carabine incrostate di madreperla
e di laminette d'argento, di grandi parangs di acciaio finissimo, di
scimitarre, di kriss serpeggianti con la punta senza dubbio avvelenata
nel succo d'upas, e di clave smisurate, dette kampilang, che essi
maneggiavano come fossero semplici bastoncini. Alcuni erano malesi dalla
tinta olivastra, membruti e di lineamenti feroci; altri erano bellissimi dayaki
di alta statura, con le gambe e le braccia coperte di anelli di rame. C'erano
pure alcuni cinesi, riconoscibili per i loro crani pelati e lucenti come avorio,
alcuni bughisi, macassaresi e giavanesi. Tutti quegli uomini tenevano gli occhi
fissi sul vascello e agitavano furiosamente le armi, emettendo urla feroci che
facevano fremere. Pareva che volessero spaventare i naufraghi prima di venire
alle mani. A quattrocento passi di distanza un colpo di cannone rimbombò sul
primo praho. La palla, di calibro considerevole, andò a fracassare
l'albero di bompresso, il quale si piegò, tuffando la punta in mare. - Animo,
ragazzi! - urlò il capitano Mac Clintock. - Se il cannone parla, è segno che la
danza è cominciata. Fuoco di bordata! Alcuni colpi di fucile seguirono il
comando. Urla atroci scoppiarono a bordo dei prahos, segno che non tutto
il piombo era andato perduto. - Così va bene, ragazzi! - urlò mastro Bill. - Quei brutti musi là non avranno tanto coraggio da spingersi fino a
noi. Ohé! Fuoco! La sua voce fu coperta da una serie di formidabili
detonazioni che venivano dal largo. Erano i pirati che cominciavano
l'attacco. I quattro prahos parevano crateri infiammati, eruttavano
tremende grandinate di ferro. Tiravano i cannoni, tiravano le spingarde,
tiravano le carabine, schiantando, atterrando, distruggendo tutto con una
precisione matematica. In men che non si dica quattro naufraghi giacevano
sulla tolda senza vita. L'albero di trinchetto, schiantato sotto la coffa,
precipitò sul ponte ingombrando di pennoni, di vele, di cavi. Alle urla di
trionfo erano succedute urla di spavento e di dolore, gemiti e rantoli
d'agonia. Era impossibile resistere a quell'uragano di ferro che arrivava con
rapidità spaventosa facendo saltare alberi, murate, madieri. I naufraghi,
vistisi perduti, dopo aver scaricato sette od otto volte i loro moschettoni,
malgrado i sagrati del capitano e di mastro Bill, abbandonarono il posto
fuggendo a tribordo, riparandosi dietro i rottami dell'attrezzatura e delle
imbarcazioni. Alcuni di loro perdevano sangue e gettavano grida
strazianti. I pirati, protetti dai loro cannoni, in capo a un quarto d'ora
giunsero sotto la poppa del vascello tentando di issarsi a bordo. Il capitano
Mac Clintock si gettò da quella parte per ribattere l'abbordaggio, ma una
scarica di mitraglia lo freddò assieme con tre uomini. Un urlo terribile
echeggiò per l'aria: - Viva la Tigre della Malesia! I pirati gettano le
carabine, impugnano le scimitarre, le scuri, le mazze, i kriss e danno
intrepidamente l'abbordaggio aggrappandosi alle murate, ai paterazzi e alle
griselle. Alcuni si slanciano sulla cima degli alberi dei prahos, corrono
come scimmie lungo i pennoni e piombano sull'attrezzatura del tre-alberi
lasciandosi scivolare in coperta. In un attimo i pochi difensori, sopraffatti
dal numero, cadono a prua, a poppa, sul cassero e sul castello. Presso
l'albero di maestra un solo uomo, armato di una pesante e larga sciabola
d'abbordaggio, rimaneva ancora... Quest'uomo, l'ultimo della Young-India, era l'indiano Kammamuri, il quale si difende come un leone,
smussando le armi del nemico incalzante e percuotendo a destra e a
sinistra. - Aiuto! aiuto!... - urlò il poveretto con voce strozzata. -
Ferma! - tuonò d'improvviso una voce. - Quell'indiano è un
prode!...
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