Il Mar dei Sargassi, come ognuno sa, non è altro che un
ammasso immenso di alghe, radunate colà dal gioco diretto
ed indiretto delle correnti marine e soprattutto dalla
grande corrente del Gulf-Stream. Ha una superficie di
260.000 miglia quadrate, con una lunghezza di 1.200 e una
larghezza cha varia dalle 50 alle 160 miglia.
Quelle alghe della specie sargassum bacciferum, si
presentano a ciuffi staccati che hanno una lunghezza da
trenta a ottanta centimetri, e si vedono ora sparsi ed ora
agglomerati, formando ora delle strisce ed ora dei veri
campi, talvolta così fitti da arrestare i velieri che hanno
la disgrazia di venire spinti là dentro.
Si crede che là sotto esista quella famosa Atlantide,
così misteriosamente scomparsa coi suoi milioni e milioni
di abitanti, e può darsi benissimo che quell'isola serva di
fondo a quello sterminato ammasso di vegetali.
La città galleggiante, spinta in mezzo alle alghe dal
possente urto delle onde, vi si era così ben incastrata da
rimanere quasi di colpo immobile, come se si fosse arenata
sopra un banco di sabbia.
L'enorme massa d'acciaio, investendo i sargassi con uno
dei suoi lati, vi si era incastrata come un immane cuneo
dentro un tronco d'albero ancora più immane.
Le onde, che si rovesciavano al di sopra degli sterminati
campi di alghe, tentando invano di scompaginarli,
l'assalivano ancora, investendo specialmente la cupola, con
poco divertimento dei sei uomini, i quali correvano il
pericolo di venire portati via; però le ondate non
riuscivano più a scuoterla.
"È finito il nostro viaggio, capitano?" disse
Brandok, che si teneva aggrappato disperatamente al margine
del pozzo.
"Purtroppo" rispose il comandante del Centauro.
"Siamo peggio che arenati, e non saprei chi potrebbe
trarre dal mezzo di queste alghe questo gigantesco cassone
di metallo. Nemmeno una flotta intera vi riuscirebbe."
"Saremo dunque costretti a vivere eternamente qui, o
a morire di fame?"
"Di fame no, poiché il Mar dei Sargassi è ricco di
pesci minuscoli, sì, però non meno eccellenti né meno
nutritivi degli altri, e che si possono prendere senza
l'aiuto delle reti. Troveremo, anzi, anche dei voracissimi e
grossi granchi, che ci forniranno dei piatti squisiti."
"Preferirei però trovarmi lontano da qui."
"Ed io non meno di voi."
"Verrà qualche nave a levarci da questa
imbarazzante situazione?"
"È possibile che qualche legno volante, per
accorciare il cammino, passi sopra questo mare d'erbe, ma
quando?"
Un tumulto spaventevole scoppiò in quel momento nelle
profondità della città galleggiante.
"Si sono risvegliati" disse Toby. "Signor
Jao, cercate di calmare quelle furie, se potete, e di
spiegare loro quanto è avvenuto durante la loro sbornia
fenomenale."
"Sarà un affare un po' serio. Sarebbe meglio per
noi che finissero di scannarsi tutti."
Si curvarono tutti sull'orlo del pozzo e videro sotto di
loro, radunati sulla piazza, che era ingombra di cadaveri,
cinquanta o sessanta uomini che guardavano per aria, urlando
come belve feroci.
"L'ascensore! Calate l'ascensore! Vogliamo
fuggire!"
"Furfanti!" gridò Jao. "Che cosa avete
fatto?"
"Signor Jao!" gridò un uomo di statura quasi
gigantesca "perdonateci, eravamo diventati come pazzi e
non sapevamo più quello che facevamo. Tutta la colpa è
dell'alcool al quale non eravamo più abituati."
"E vi siete scannati, banditi."
"Se eravamo come pazzi!..."
"E avete distrutte perfino le case e rovinati tutti
gli attrezzi da pesca."
"È colpa dell'alcool!" gridò un altro.
"Se quel maledetto capitano non l'avesse portato, oggi
non piangeremmo tanti camerati."
"Sì, è lui il birbante!" urlarono trenta o
quaranta voci.
"E voi siete dei ladri!" gridò il capitano del
Centauro, mostrandosi.
Un immenso clamore scoppiò, un clamore che parve il
ruggito di cento leoni riuniti.
"Miserabile!"
"Canaglia!"
"Ci hai avvelenati apposta!"
"Qualche infame governo ti aveva mandato qui per
farci diventare pazzi e poi ammazzarci l'un l'altro."
"A morte! A morte!"
"Toby!" esclamò Brandok. "Hanno ancora
ragione loro."
"Va bene" gridò Jao. "Ne riparleremo,
quando sarete diventati più ragionevoli ed i fumi
dell'alcool non vi guasteranno più il cervello."
"Ah! Cane d'un governatore!" vociò il gigante.
"Non morrò contento se prima non avrò la tua
pelle."
"Vieni a prenderla" rispose Jao. "Ti
sfido."
"Non mi scapperai, te lo giuro."
"Sì, accoppiamoli tutti!" urlarono in coro gli
altri.
"Lasciamoli gridare e occupiamoci dei nostri
affari" disse il capitano. "Già non potranno mai
salire fino a noi, se non caliamo l'ascensore; e per
togliere loro ogni speranza lo getto in mare."
Così dicendo il comandante, prima che gli altri avessero
il tempo di opporsi, con una spinta formidabile lo rovesciò
giù dalla cupola.
Le alghe, che in quel luogo non erano troppo fitte,
s'aprirono e lo inghiottirono.
"Avete condannato a una morte certa quegli
sciagurati" disse Toby.
"Se domani una nave approdasse qui, sapete che cosa
farebbe?" chiese il capitano.
"No."
"Farebbe senz'altro saltare questa città con una
buona bomba ad aria liquida, insieme a tutti quelli che
contiene, morti e vivi. È vero Jao?"
"Così hanno decretato i governi dell'Europa e
dell'America, per tenere a freno i rifiuti della
società" rispose il vecchio.
"Non sono ancora tre mesi che una nave aerea,
mandata dal governo americano, ha colato a fondo la città
sottomarina di Fortawa, perché i cinquecento forzati che
l'abitavano si erano ribellati, uccidendo il capitano di una
nave e tutti i passeggeri per saccheggiare poi il
carico."
"Queste sono leggi inumane" disse Brandok.
"La società vuole vivere e lavorare
tranquillamente," rispose il capitano. "Tanto
peggio per i furfanti. Bah! Lasciamo questi poco
interessanti discorsi e facciamo colazione, giacché
l'oceano ci lascia un po' di tregua."
"Io non potrò mangiare tranquillamente pensando che
sotto di me vi sono forse cento persone che cominciano a
soffrire la fame."
"I viveri non mancheranno loro per parecchi
giorni" disse Jao. "Se poi verranno a più miti
consigli li sbarazzeremo dei cadaveri perché non scoppi
qualche terribile epidemia che sarebbe indubbiamente fatale
anche a noi, col calore spaventevole che regna in questa
regione, e permetteremo loro di venire a respirare una
boccata d'aria. Che cosa ne dite, capitano?"
"Io li lascerei crepare" rispose il comandante
del Centauro.
"No, ciò sarebbe inumano" dissero Toby e
Holker.
"Io sono convinto che finiranno per calmarsi"
disse Brandok. "Quando i cadaveri cominceranno a
corrompersi, saranno costretti ad arrendersi."
"Cerchiamo la nostra colazione" ripeté il
capitano. "Non ci conviene consumare il nostro pesce
secco, che potremmo più tardi rimpiangere. Scendiamo sui
sargassi, signori; i pesci, i granchi grossi ed i
granchiolini, come vi ho detto, abbondano fra queste
alghe."
Si lasciarono scivolare lungo le invetriate della cupola,
tenendosi con una mano alle traverse di metallo e si
calarono sul campo di sargassi che era in quel luogo così
folto da poter reggere benissimo un uomo.
Il capitano aveva detto il vero assicurando che la
colazione non sarebbe mancata.
In mezzo alle alghe, formate da fronde brune, molto
ramificate, con corti peduncoli forniti di foglie
lanceolate, guizzavano miriadi di piccoli pesci, piatti,
deformi, con una bocca molto larga, lunghi appena un
centimetro, del genere degli antennarius, di octopus
purpurei, e saltellavano dei piccoli cefalopodi e dei grossi
granchi, occupati a fare delle vere stragi dei loro
sfortunati vicini.
"Che disgrazia non possedere una buona padella ed
una bottiglia d'olio" mormorava Brandok che non perdeva
però il suo tempo. "Che ottima frittura si potrebbe
mangiare!"
La caccia, poiché si trattava d'una vera caccia,
anziché d'una pesca, durò una buona mezz'ora e fu
abbondantissima.
Non potendo cucinare tutti quei piccoli pesci, poiché i
fornelli a radium si trovavano in fondo alla città
galleggiante, i tre americani ed i loro compagni furono
costretti a mangiare quella squisita frittura... viva!
L'uragano intanto a poco a poco si calmava. Le nuvole si
erano finalmente spezzate, il vento aveva terminato di
lanciare i suoi poderosi soffi e l'Atlantico, come se si
fosse stancato di quella gigantesca battaglia che durava da
quarantotto ore, si spianava rapidamente.
Non accennava invece a calmarsi la rabbia dei forzati. Le
troppo copiose libazioni dovevano aver sconvolto
completamente quei cervelli che forse non erano mai stati
equilibrati.
Resi maggiormente furiosi dal rifiuto di Jao di calare
l'ascensore, avevano saccheggiato i magazzini gettando tutto
sottosopra, poi avevano ripresa la demolizione delle
casupole che ancora rimanevano, tutto fracassando e tutto
disperdendo.
Salivano di quando in quando dal pozzo urla feroci, che
commuovevano non poco Toby e Brandok, ma che lasciavano
assolutamente indifferenti il capitano, Jao, il pilota e
perfino Holker, i quattro uomini moderni ormai abituati a
considerare i malviventi come belve pericolose per la
società!
Alla sera però tutto quel baccano cessò. I forzati,
stanchi di distruggere e di urlare, si erano finalmente
decisi a riposarsi, malgrado il tanfo insopportabile che
cominciava ad espandersi al di sotto della immensa cupola; i
cadaveri cominciavano a decomporsi.
I tre americani ed i loro compagni, seduti sull'orlo del
pozzo, un po' tristi, guardavano il cielo che era tornato ad
oscurarsi, chiedendosi quale altro malanno stava per
coglierli.
Si sarebbe detto che un nuovo uragano stava per
scatenarsi sull'irrequieto oceano. Un'afa pesante,
soffocante, regnava negli alti e nei bassi strati, satura di
elettricità.
Il sole, qualche ora prima, si era tuffato più rosso del
solito, dentro una nuvolaccia nera che era apparsa verso
ponente.
"Ancora cattivo tempo, è vero, capitano?"
chiese Brandok.
"Sì" rispose il comandante del Centauro, che
appariva più preoccupato del solito. "Avremo una
seconda burrasca signori miei, che getterà completamente
fuori di rotta le navi volanti che potrebbero trovarsi in
questi paraggi. Ho però una speranza."
"Quale?" chiese Toby.
"Che questo uragano che verrà da ponente ci tragga
dai sargassi e ci spinga nuovamente al largo."
"Sarebbe una vera fortuna, capitano."
"Adagio, signore. Se il vento ci spingesse questa
volta verso le Canarie? Ecco quello che temo."
"Vi rincrescerebbe approdare a quelle isole?"
chiese Brandok con sorpresa.
Il capitano del Centauro guardò a sua volta l'americano
con profonda sorpresa.
"Ma da dove venite voi?" gli chiese.
"Dall'America, signore."
"Un paese che non è poi molto lontano dalle
Canarie."
"Non so che cosa vogliate dire con ciò,
capitano" disse Brandok sempre più stupito.
"Disgraziata la nave marina od aerea che cadesse su
quelle isole" rispose il capitano. "Nessun uomo
dell'equipaggio uscirebbe certamente vivo."
"Che cosa è successo dunque su quelle isole?"
chiese Toby, che non era meno sorpreso di Brandok.
"Diamine! I governi dell'America, dell'Europa,
dell'Asia e dell'Africa hanno popolato quelle isole di tutti
gli animali che un tempo esistevano su tutti i cinque
continenti."
"Perché?" chiese Brandok.
"Per conservare le razze. Là vi sono tigri, leoni,
elefanti, pantere, giaguari, coguari, bisonti, serpenti e
tante altre bestie delle quali io non conosco nemmeno il
nome" rispose il capitano. "Come ben sapete,
ormai, tutti i continenti sono fittamente popolati, quindi
quegli animali non avrebbero più trovato né rifugio, né
scampo. Gli zoologi di tutto il mondo, prima della
distruzione completa di tutte le belve, hanno pensato di
conservare almeno le ultime razze."
"Trasportandole alle Canarie?"
"Sì, signor Brandok" rispose il capitano.
"E gli abitanti di quelle isole non vengono
divorati?"
"Quali abitanti?"
"Non ve ne sono più? Scusate la mia ignoranza,
capitano, ma noi veniamo dalle parti più remote del
continente americano, dove non giungono notizie di tutti gli
avvenimenti del mondo" disse Toby, che non desiderava
affatto far conoscere la storia della loro risurrezione.
"Credevo che gli americani fossero più innanzi di
noi europei" disse il capitano. "Dunque voi avete
sempre ignorato la terribile catastrofe che ha colpito
quelle disgraziate isole cinquant'anni or sono?"
"Non ne abbiamo mai udito parlare" rispose
Brandok.
"Già si sapeva che tutte quelle isole erano
d'origine vulcanica" rispose il capitano. "Non
erano altro che le punte estreme d'immense montagne o meglio
di vulcani, inghiottiti forse durante il gigantesco
cataclisma che fece sprofondare l'antica Atlantide. Un
brutto giorno il Tenerifa, dopo chi sa quante migliaia
d'anni di sonno, cominciò a svegliarsi, vomitando lave in
quantità prodigiosa e tanta cenere da coprire tutte le
isole del gruppo. Ancora si fosse limitato a questo; vomitò
invece, anche una tale massa di gas asfissiante da
distruggere completamente la popolazione."
"Non ne scampò nemmeno uno?" chiese Brandok.
"Appena quindici o venti, i quali recarono in Europa
la terribile notizia" rispose il capitano.
"Quell'eruzione spaventevole durò vent'anni, facendo
scomparire parecchie isole, poi cessò bruscamente. I
governi europei ed americani, dopo aver invano cercato di
ripopolare quelle terre, hanno allora pensato di relegarvi
tutti gli animali, feroci o no, che ancora sussistevano sui
cinque continenti, per impedirne la totale
distruzione."
"Sicché quelle isole sono diventate tanti
serragli" disse Toby.
"Sì, signore. Di quando in quando dei coraggiosi
cacciatori si recano là a fare delle battute, onde
provvedere i musei ed impedire che quegli animali diventino
troppo numerosi."
"Quante cose hanno fatto questi uomini in
cent'anni!" mormorò Brandok, che era diventato
pensieroso. "Se potessimo ripetere l'esperimento, che
cosa vedremmo fra un altro secolo? Forse noi, uomini d'altri
tempi, non potremmo più vivere."
L'uragano che il capitano aveva annunciato si avanzava,
con un crescendo orribile di tuoni e di lampi così intensi
che Brandok e Toby si sentivano accecare.
Pareva che la grande elettricità sviluppata dalle
infinite macchine elettriche funzionanti sulla crosta
terrestre, avesse avuto una ripercussione anche negli alti
strati aerei, perché i due americani non avevano mai
veduto, ai loro tempi, lampi così abbaglianti e di così
lunga durata.
L'uragano questa volta veniva da ponente. Era quindi
probabile che il Mare dei Sargassi, scompaginato dai furiosi
assalti dell'Atlantico, allargasse le sue mille e mille
braccia, lasciando libera la città galleggiante.
Alla mezzanotte, l'oceano sollevato da un vento
impetuosissimo, diede i primi cozzi ai campi dei sargassi. I
suoi cavalloni piombavano sulle masse erbose con furia
estrema, rodendo o sfondando qua e là i margini.
La città galleggiante, investita per di sotto, si
agitava in tutti i sensi. Pareva che dei marosi, d'una
potenza incalcolabile, la urtassero nella sua parte
inferiore, poiché di quando in quando subiva dei
soprassalti violentissimi che mettevano a dura prova i
muscoli dei tre americani e dei loro compagni.
I forzati, svegliati dal rombare incessante dei tuoni,
dai bagliori intensissimi dei lampi e dal rumoreggiare delle
onde, avevano ricominciato a urlare, mescolando le loro voci
a quella possente della tempesta.
Spaventati da tutto quel fracasso, non sapendo che cosa
succedeva all'esterno, chiedevano che si calasse
l'ascensore, che ormai non c'era più, minacciando di
sfondare le pareti della città galleggiante e di annegare
tutti.
"Non ci mancherebbe altro!" esclamò il
capitano, un po' inquieto. "Se mettono in esecuzione la
loro minaccia, buona sera a tutti. Non sarà il campo dei
sargassi che ci salverà, con questo indiavolato ondulamento.
Caro Jao, bisogna cercare di calmarli."
"Bisognerebbe farli salire e allora ci accopperanno
tutti" rispose il vecchio che cominciava a tremare.
"Cercate di rassicurarli."
"Non mi ascolteranno. Vogliono uscire da quella
bolgia infernale dove soffocano. Non sentite che puzza
orrenda comincia a sprigionarsi da tutti quei
cadaveri?"
"Non siamo stati noi a commettere la strage"
disse il capitano. "Ne sopportino le conseguenze ora.
Noi non possiamo, in così piccolo numero e senza ascensore,
far salire fino a noi quattrocento e più cadaveri. Ci
vorrebbe una settimana di lavoro."
"E forse non basterebbe" disse il pilota.
"Eppure bisogna fare qualche cosa per quei
disgraziati," disse Toby.
"Che stupido sono!" esclamò in quel momento
Jao. "E più stupidi di me sono anche loro."
"Perché, amico?" chiese il capitano.
"Noi possiamo tramutare la città galleggiante in
una immensa ghiacciaia. E nessuno prima ci aveva pensato!
Tre volte bestia con cento corna!"
"In qual modo?" chiesero Brandok e Toby.
"Abbiamo più di venti serbatoi pieni d'aria liquida
per la conservazione del pesce. Dieci si trovano sotto la
cupola e gli altri nei quattro angoli della città. Fra
cinque minuti i cadaveri geleranno o poco meno, e la loro
putrefazione sarà immediatamente arrestata."
"E gelerete anche i vivi" disse Brandok.
"Hanno delle coperte; che si coprano" disse il
capitano.
"Cercate almeno prima di calmarli ed
avvertirli" disse Toby. "Non udite come picchiano
contro le pareti della città? Non dubito che siano
robustissime, però potrebbero cedere in qualche
punto."
"Avete ragione" rispose Jao.
Per essere meglio udito dai forzati, si calò fino sulle
traverse d'acciaio che avevano servito di sostegno
all'ascensore, comparendo fra i potenti fasci di luce
proiettati dalle lampade a radium che non erano state più
spente.
Fu subito scorto dagli abitanti i quali non cessavano di
guardare in alto, sempre colla speranza di veder scendere
l'ascensore, ed un coro d'invettive salì su pel pozzo con
un frastuono indiavolato.
"Eccolo, il brigante!"
"Eccolo, il traditore!"
"Linciamo quell'avanzo di galera che ha giurato da
sempre la nostra distruzione."
"Scendi cane!... Scendi!..."
Jao li lasciò sfogare, ricevendo filosoficamente, senza
turbarsi, quell'uragano d'ingiurie e di minacce, e quando
vide che non avevano più fiato, fece loro un gesto
amichevole, gridando:
"Ma finitela, pazzi! Volete ascoltarmi sì o no? Se
continuate, risalgo e non mi rivedrete più mai".
"Sì, sì, lasciamolo parlare!" gridarono
parecchie voci.
"Parla dunque, vecchio" disse una voce.
"La nostra città si è staccata dallo scoglio e la
tempesta ci ha portati fra i sargassi."
"Tu menti!"
"Che uno di voi, ma uno solo, salga per accertarsi
se io ho detto la verità."
"Cala l'ascensore!"
"Il mare l'ha portato via."
"Manda giù una fune allora."
"Sì" rispose Jao. "Vi avverto però che
se sale più d'uno la taglieremo. La cupola è avariata e
crollerebbe sotto il vostro peso."
"E vuoi che crepiamo qui, fra tutti questi cadaveri
che puzzano orrendamente?" gridò un altro.
"Aprite i serbatoi dell'aria liquida e geleranno
presto." Aveva appena terminato di parlare che tutti
quegli uomini si precipitavano verso i quattro angoli della
città galleggiante, dove si vedevano degli enormi tubi
d'acciaio.
Si udirono tosto dei fischi acutissimi, poi una corrente
d'aria gelida eruppe dal pozzo, mentre le lastre di vetro si
coprivano per di sotto d'uno strato di ghiaccioli.
Intanto Brandok, il capitano ed il pilota avevano
attaccato le funi che una volta servivano per sospendere le
reti e che le onde in parte avevano risparmiate, e le
avevano annodate.
"Caliamole nella ghiacciaia" disse Brandok, che
respirava a pieni polmoni l'aria fredda che usciva sempre a
folate dal pozzo. "Siamo quasi sotto l'equatore e
battiamo già i denti. Che cosa non hanno dunque inventato
questi meravigliosi uomini del Duemila? Io finirò per
impazzire davvero, te lo assicuro!"
I forzati, aperte le valvole, erano corsi a chiudersi
nelle case che ancora si mantenevano, bene o male, in piedi,
impadronendosi di tutte le coperte che trovavano.
Se sotto la cupola andava formandosi il ghiaccio, quale
freddo doveva regnare laggiù con quei quattro serbatoi che
soffiavano fuori gradi e gradi di gelo?
La fune finalmente, solidamente trattenuta dal capitano,
dal pilota e da Jao toccò il suolo; ma allora un altro e
più spaventevole tumulto scoppiò fra quei furibondi.
Venti mani l'avevano afferrata e non volevano più
lasciarla. Quelli che non avevano potuto farsi innanzi a
tempo, si erano messi a percuotere spietatamente i compagni
che pei primi l'avevano presa.
Il capitano ed i suoi compagni, nauseati da quelle scene,
invano si erano provati a ritirare la fune. Sarebbe stato
necessario un argano.
Già il primo stava per proporre di tagliarla, quando un
giovine galeotto più lesto degli altri, con un salto degno
d'un clown, balzò sopra le teste dei rissanti,
aggrappandovisi e troncandola, con un colpo di coltello,
sotto i propri piedi.
"Su! Su!" gridò il capitano.
Il giovine montava rapidamente, poiché anche gli
americani prestavano man forte al capitano.
I forzati, vedendo salire il compagno, lo coprivano
d'ingiurie, minacciando di sventrarlo appena fosse disceso.
"Noi non potremo mai andare d'accordo con quelle
canaglie" mormorò Brandok. "Il galeotto di
cent'anni fa mi pare che si sia mantenuto eguale. La scienza
tutto ha perfezionato fuorché la razza, e l'uomo malvagio
è rimasto malvagio. Passeranno secoli e secoli, ma, levato
lo strato di vernice datogli dalla civiltà, sotto si
troverà sempre l'uomo primitivo dagli istinti
sanguinari."
La fune, vigorosamente tirata dal capitano e dai suoi
compagni, era giunta presso i margini del pozzo.
Il galeotto che vi si era aggrappato, un giovinotto quasi
ancora imberbe, biondo, allampanato, tutto braccia e gambe,
appena si vide a buon punto, lasciò la fune balzando
agilmente sulla cupola.
"Guarda dunque e va a riferire ai tuoi compagni
quello che hai veduto" gli disse Jao.
"Che siamo sul mare o all'inferno poco
m'importa" rispose il galeotto, respirando a lungo.
"Sono uscito da quel macello e mi basta. Accoppatemi,
se volete, ma io non ritornerò mai più laggiù. Mi
farebbero a brani."
"Rimani adunque, però t'avverto" disse il
capitano "che se tenterai qualche cosa contro di noi,
avrai da aggiustare i conti colla mia rivoltella
elettrica."
"Non vi darò alcun impiccio, ve lo giuro,
signore." Sotto, i forzati urlavano a squarciagola. La
gran voce della tempesta però non tardò a soffocare tutti
quei clamori.
L'uragano sconvolgeva per la seconda volta l'Atlantico.
"Dove andremo?" si chiese il capitano, che
guardava con inquietudine le onde che si rovesciavano, con
furia estrema sui campi dei sargassi.
Ad un tratto la città galleggiante che si trovava un po'
sbandata, si raddrizzò di colpo, emergendo bruscamente di
parecchi metri.
"Aggrappatevi alle traverse!" aveva gridato Jao.
Un'onda mostruosa, passando attraverso il campo dei
sargassi contro cui s'appoggiava la città galleggiante,
avanzava con mille muggiti spingendo innanzi a sé delle
fitte cortine d'acqua polverizzata che velavano perfino la
luce dei lampi.
"Andiamo dunque?" chiese Brandok, che col
robusto braccio destro teneva fermo Toby, affinché non
venisse portato via dal cavallone.
Una tromba, una vera tromba d'acqua passò su di loro,
coprendoli ed inzuppandoli dalla testa ai piedi, poi la
città galleggiante si spostò e fece un salto immenso. Era
nuovamente libera. |