Erano trascorsi solamente quattro giorni dal duello fra Yanez e
Teotokris, quando un pomeriggio, nell'ora in cui gli indiani, dopo
la solita dormita, lasciano le loro stanze per recarsi a respirare
una boccata d'aria sulle terrazze, si presentava al palazzo di
Surama un bruttissimo individuo dinanzi al quale però tutti
s'inchinavano come se fosse stato un altissimo personaggio od un
essere più venerato ancora dei sacerdoti bramini.
Si trattava d'un fakiro appartenente alla rispettabilissima
classe dei gussain, ossia dei mendicanti religiosi d'una setta
tantrica.
Il suo aspetto era ben lungi dall'ispirare una qualche simpatia,
anzi nemmeno un po' di compassione. Un europeo sarebbe certamente
scappato nauseato.
Il suo viso era cinto da una barba lunghissima, incolta e che
terminava in una specie di pizzo arricciato come la coda d'un maiale
che gli scendeva fino ai piedi.
Sulle gote e sulla fronte aveva strani tatuaggi rossi, figuranti
come tanti minuscoli tridenti ed i suoi capelli erano riuniti sul
cranio in modo da formare come una mitra.
Il corpo, spaventosamente scarno, era quasi interamente nudo, non
avendo che una striscia di stoffa giallastra attorno ai fianchi.
Aveva però sul petto e sulle cosce un gran numero di macchie
grigiastre fatte certamente con sterco di vaccina bruciato.
Quello che lo rendeva però più spaventoso era il braccio destro,
completamente anchilosato ed incartapecorito, che ormai non poteva
più piegarsi e che stringeva fra la mano ben chiusa entro una
guaina di cuoio una pianticella di mirto sacro.
Quantunque l'aspetto di quel disgraziato fosse spaventevole, anzi
addirittura ripugnante, come abbiamo detto, tutti s'inchinavano sul
suo passaggio e s'affrettavano a fargli largo.
Nell'India un fakiro, a qualunque setta appartenga, è sempre
venerato. Da noi desterebbe solamente un po' d'ammirazione per la
sua forza d'animo di rimanere per interi anni con un braccio sempre
alzato finché l'articolazione si atrofizzi e immerso in una
contemplazione stupida, che nessuna emozione anche profondissima
può trarre, come nessun pericolo.
Può bruciare una pagoda, anche una città, ma il fakiro non
farà un passo per evitare le fiamme se è assorto nella sua
contemplazione. D'altronde che cosa rappresenta la morte per quei
fanatici? La fine delle loro pene e i godimenti supremi del
cailasson, ossia del paradiso indiano.
I due servi che vegliavano dinanzi al portone del palazzo,
masticando del betel per ingannare meglio il tempo, vedendo il
fakiro salire i quattro gradini si erano affrettati a muovergli
incontro, chiedendogli premurosamente che cosa desiderasse.
- Io so, - disse il fakiro, - che una persona ha gettato su
questa casa una cattiva occhiata e vengo a proporre alla tua padrona
di toglierla onde non le tocchi qualche grave disgrazia. -
I due servi si erano guardati l'un l'altro con spavento, poiché
gli indiani temono immensamente gli effetti del mal occhio.
- Ne sei ben sicuro gussain? - chiese uno dei due servi.
- Io stavo seduto poco fa sui gradini di quella pagoda, quando
vidi un vecchio fermarsi a poca distanza di qui e fare dei segni
misteriosi.
Te lo dico io: ha lanciato il mal occhio contro questo palazzo e
anche contro tutti coloro che lo abitano e tu sai quali conseguenze
fatali può produrre.
- Non sai chi è quel vecchio?
- Prima d'ora non l'ho mai veduto - rispose il fakiro. - Deve
essere però un nemico della tua padrona.
- Attendimi un istante gussain. -
Il servo si allontanò velocemente, mentre l'altro teneva
compagnia al fakiro il quale si era intanto seduto sull'ultimo
gradino, tenendo sempre alto il suo orribile braccio anchilosato e
disseccato. Qualche minuto dopo il primo servo ritornava con un viso
sgomentato dicendo:
- Entra subito gussain e giacché hai il potere togli subito alla
mia padrona ed a noi l'occhiata scagliata da quel vecchio.
- Sono pronto, - rispose il fakiro.
- Allora entra. -
Il gussain entrò nel palazzo a passi lenti, salendo lo scalone
che conduceva negli appartamenti di Surama.
La principessa lo aspettava sul pianerottolo. Indiana anch'ella,
aveva paura della terribile occhiata.
- Signora, - disse il fakiro, - la tua casa è stata maledetta,
ma io ho il potere di distruggere il mal occhio.
- Ed io saprò ricompensarti, - rispose la giovane indiana.
- Hai un bacino?
- Sì.
- Io ho la tinta rossa. Fammelo portare. -
Surama fece un cenno ad una delle sue serve e tosto un bacino
d'argento fu portato.
- Dammi anche un pezzo di tela - disse il fakiro.
Surama si levò la fascia di finissimo percallo a righe bianche e
azzurre che le serrava i fianchi e gliela porse.
- Dell'acqua ora, - disse il fakiro.
Una serva portò una bottiglia di cristallo rosso, racchiusa fino
a metà da una incrostazione di lapislazzuli.
Il fakiro empì il bacino, vi versò dentro una polvere rossastra,
poi servendosi della mano sinistra, lo fece passare per tre volte
dinanzi al viso di Surama; servi e serve si erano aggruppati dietro
alla padrona.
Solo i quattro malesi che Yanez aveva messo a disposizione di
Surama onde vegliassero su di lei, non subirono quella strana
cerimonia, essendosi probabilmente accorto che non erano indiani,
cosa d'altronde facilissima data la tinta olivastro-oscuro della
loro pelle.
Ciò fatto il fakiro prese la fascia di Surama coi denti e la
lacerò in due pezzi, gettando con forza l'uno a destra e l'altro a
sinistra.
- È fatto, - disse a Surama. - Tu signora sei liberata
dall'occhiata di quel sinistro vecchio e non correrai più alcun
pericolo.
- Che cosa vuoi pel tuo disturbo? - chiese la giovane.
- Che mi lasci un po' riposare, - rispose il fakiro. - Sono molte
notti che non dormo e che non mi nutrisco. Che cosa ne farei io del
denaro? Ad un fakiro bastano un banano e qualche crosta di pane.
- Riposati dunque, - disse Surama. - Qui vi sono dei divani dove
starai meglio che sui gradini della pagoda.
Quando uscirai dalla mia casa avrai un regalo. Intanto che cosa
posso offrirti?
- Fammi portare una tazza di toddy signora. È molto tempo che
non ne bevo.
- Sarai subito servito. Uscite tutti e lasciatelo dormire. -
Si ritirarono ed il fakiro si stese su un tappeto, cogli occhi
volti verso il soffitto come se l'estasi l'avesse sorpreso.
Un momento dopo entrava un servo portando su un vassoio d'argento
un fiasco pieno di quel dolce e leggermente inebriante vino che gli
indiani chiamano toddy e che somiglia al nostro vino bianco ed una
tazza.
- Prendi e bevi finché vuoi, gussain - gli disse, deponendo il
vassoio a terra. - E prendi anche questa borsa che contiene dieci
rupie.
- Che saranno tue se rispondi ad una mia domanda, - rispose il
fakiro.
- Che cosa vuoi sapere, gussain?
- La stanza della tua padrona dove si trova?
- È accanto a questa.
- A destra o a sinistra?
- A sinistra, - rispose il servo. - E perché mi hai fatto questa
domanda?
- Per indirizzare a lei le mie preghiere, - rispose il fakiro
gravemente.
Il servo uscì. Il fakiro stette alcuni minuti immobile, poi si
alzò senza far rumore e trasse di sotto al gonnellino che gli
cingeva i fianchi una fiala di leggerissimo cristallo, fatta in
forma d'una bolla di sapone, che conteneva nel suo interno un
mazzolino di fiori azzurri che rassomigliavano alle violette.
- Queste carma-joga produrranno il loro effetto, - mormorò. -
Chi può resistere al profumo che esalano questi piccoli fiori?
S'addormenterà di colpo, così potranno portarla via senza che
mandi nemmeno un lamento. -
S'avanzò cautamente verso la porta che si trovava a sinistra,
ascoltò attentamente per alcuni istanti trattenendo il respiro, poi
fece girare la maniglia senza produrre il menomo rumore e fece un
passo innanzi.
La stanza di Surama era tutta adorna di seta bianca, ricamata in
oro e argento. In mezzo stava il letto, completamente isolato,
coperto da un immenso drappo ricamato splendidamente, collocato
sotto la punka.
- Nessuno, - mormorò il fakiro. - È Siva o Brahma che mi
proteggono? L'uomo bianco sarà contento! -
S'avvicinò ad un piccolo mobile di ebano, intarsiato di
madreperla e coperto da un tappeto che cadeva fino al suolo, spezzò
il recipiente di vetro e vi gettò sotto il mazzolino.
- Dormirai anche se non avrai sonno, - disse poi, con un sorriso
ironico.
Uscì indietreggiando, rinchiuse la porta e tornò a sdraiarsi
sul tappeto come un uomo immensamente stanco.
Il sole era tramontato da qualche ora, quando il servo di Surama
entrò chiedendogli:
- Gussain vuoi cenare? La mia padrona ti offre da mangiare.
- Lasciami dormire - rispose il fakiro, socchiudendo gli occhi. -
Sono molto stanco.
La tua padrona mi permette?
- Un sant'uomo è padrone di dormire come e dove crede. Riposa in
pace e che Brahma, Siva e Visnù veglino su di te, - rispose il
servo. - La casa è tua! -
Il fakiro fece col capo un leggero movimento e rinchiuse gli
occhi.
Dormiva realmente? Era un po' difficile a saperlo.
La notte era scura. Tutti si erano coricati nel palazzo: la
padrona, i malesi, i servi e le serve.
Un uomo solo vegliava come una tigre in agguato: il fakiro.
Doveva essere quasi la mezzanotte quando un sibilo acuto tagliò
l'aria.
Il fakiro udendolo, si era prontamente alzato.
- Dorme, - mormorò.
Colla mano sinistra aprì la finestra e gettò sulla via
tenebrosa un rapido sguardo. Delle ombre umane stavano ferree in
mezzo alla strada.
Strinse le labbra e lasciò fuggire un debolissimo sibilo, che si
poteva scambiare con quello del velenosissimo cobra-capello.
Un segnale eguale subito rispose.
- Sono pronti, - mormorò; - allora tutto va bene. -
Si affacciò alla finestra e lanciò un secondo sibilo. Subito
dopo un colpo secco si fece udire contro una delle due imposte.
Il fakiro allungò la sinistra e afferrò una fune che era
attaccata ad una freccia molto lunga, che si era profondamente
infissa nel legno.
- Che demonio è quell'uomo bianco! - brontolò. - Mantiene le
promesse e pagherà anche a me le cento rupie che mi ha promesso.
Aspettate un momento e l'affare sarà finito senza che nessuno se
ne accorga. -
S'appressò alla porta, ascoltò ancora, poi risolutamente aprì.
La lampada che rischiarava la stanza di Surama, brillava ancora,
spandendo al di sotto una luce leggermente azzurrognola. Le serve
avevano abbassato il lucignolo in modo che la luce fosse debolissima.
Surama dormiva profondamente. Solo la sua respirazione era un po'
affannosa come se qualche cosa le gravitasse sul cuore.
Il fakiro contemplò per alcuni istanti il viso bellissimo e
roseo della giovane indiana, poi fece un gesto di dispetto.
- Maledetto sia il giorno che io ho disseccato il mio braccio -
disse. - Vile mestiere è quello del fakiro!... Ah! -
Tornò rapidamente nel salotto, assicurò la fune ad un gancio
delle imposte e mandò due sibili.
Un istante dopo un uomo scavalcava il davanzale, tenendo stretto
fra le labbra uno di quei terribili coltelli indiani chiamati tarwar.
- Che cosa vuoi gussain? - gli chiese, balzando agilmente nella
stanza.
- Che mi aiuti - rispose il fakiro. - Io non posso usare che un
solo braccio.
- Vuoi che uccida?
- No: il padrone non vuole. Nessun delitto per ora. Aiutami a
portare via la fanciulla.
- Guidami. -
Il fakiro rientrò nella stanza di Surama e gliela indicò
dicendogli:
- Fa' presto: i fiori della carma-joga addormentano. -
L'indiano strappò dal letto la coperta di seta bianca, levò con
un gesto brusco le lenzuola, avvolse Surama che pareva colpita da
una specie di catalessi e lasciò subito la stanza borbottando:
- Maledetti fiori! Un momento ancora e m'addormentavo anch'io!...
-
Afferrò Surama fra le braccia secche nervose, scavalcò il
davanzale, s'aggrappò con una mano sola alla fune e si lasciò
scivolare giù.
Il fakiro quantunque avesse la destra anchilosata e stringesse
sempre nella destra il ramoscello di mirto sacro, l'aveva subito
seguìto.
Dieci uomini armati di lunghe carabine e di scimitarre li
aspettavano in mezzo alla via.
- È fatto il colpo? - chiese uno.
- Sì.
- In marcia allora.
- Ed io? - chiese il fakiro.
- Seguici. -
Un palanchino sorretto da quattro hamali era pronto. Surama
sempre avvolta nella coperta di seta bianca vi fu adagiata, le
cortine furono abbassate, poi il drappello si mise rapidamente in
marcia preceduto da due mussalchi che portavano delle torce accese.
Nel palazzo nessuno si era accorto di quell'audace rapimento
compiuto nel colmo della notte e nel più profondo silenzio.
I rapitori percorsero diverse vie oscure e deserte, poi si
arrestarono dinanzi a un vasto caseggiato che rassomigliava nella
costruzione a quei comodi e graziosi bengalow che si fabbricano gli
inglesi che si stabiliscono nell'India.
La porta era aperta e la gradinata illuminata da una grossa
lampada.
Un chitmudgar, accompagnato da quattro servi, aspettava il
drappello.
- Fatto? - chiese.
- Sì, - rispose il fakiro. - Il tuo padrone sarà contento. -
Il chitmudgar sollevò una tenda del palanchino e gettò su
Surama, sempre addormentata, un rapido sguardo.
- Sì, - disse poi. - È la principessa misteriosa. -
Fece un segno ai servi. Questi presero il palanchino, l'alzarono
e salirono frettolosamente la scala.
- Potete andare, - disse allora il maggiordomo rivolgendosi alla
scorta, - e anche tu gussain. È meglio che non ti si veda in questa
casa.
Eccovi cento rupie che il mio padrone vi regala. Buona notte. -
Chiuse la porta e raggiunse i servi i quali avevano deposto il
palanchino in una bellissima e ampia stanza, il cui centro era
occupato da un letto incrostato di laminelle d'argento e di
madreperla con ricchissima coperta di seta azzurra a ricami gialli.
Il chitmudgar prese fra le robuste braccia la bella indiana che
pareva morta, svolse la coperta di seta bianca e la mise a letto,
coprendola per bene.
- Portate via il palanchino ora - disse ai servi.
Erano appena usciti quando un uomo entrò: era uno dei ministri
del rajah.
- Eccola signore - disse il maggiordomo, inchinandosi
profondamente. - Le guardie del favorito hanno agito rapidamente e
senza allarmare gli abitanti del palazzo. -
Il ministro sollevò la coperta e guardò Surama.
- È bellissima, - disse. - Il grande cacciatore è di buon
gusto.
- Devo svegliarla signore?
- Che cosa ha adoperato il fakiro per addormentarla?
- Gli ho dato tre fiorellini di carma-joga.
- Ah! - fece il ministro.
- Ne coltivo molti nel giardino.
- Come potremo farla parlare?
- Ho previsto tutto, signore.
- Colla youma?
- Ho qualche cosa di meglio - rispose il maggiordomo con un'
sottile sorriso. - Fino da ieri ho preparato una infusione di
bâng10 e di benafuli11.
- Non s'addormenterà di più invece?
- No, signore: la renderà furibonda e parlerà. Il benafuli
modera l'azione dell'oppio.
- Che si possa tentare la prova?
- Quando tu vorrai, signore.
- Tu mi assicuri che la principessa non soffrirà.
- Rispondo io pienamente.
- Agisci allora. -
Il chitmudgar prese da una mensola una fiala di cristallo che
conteneva un liquido giallastro, un piccolo coltello d'argento e
s'avvicinò a Surama.
- Bada di non farle male, - disse il ministro. - Noi non sappiamo
ancora chi sia, ed il rajah desidera che si usi la più grande
prudenza.
- Non temere, signore - rispose il maggiordomo.
Aprì le labbra di Surama, introdusse leggermente, con somma
precauzione, la punta del coltello fra gli splendidi dentini che
erano strettamente chiusi, poi facendo un piccolo sforzo li aprì.
Subito un lungo sospiro sfuggì alla fanciulla; però gli occhi
rimasero chiusi.
Il chitmudgar prese la fiala e versò parecchie gocce nella gola
della bella dormente.
- Dieci - contò. - Bastano. -
Aveva appena terminato di parlare, quando un fremito scosse il
corpo di Surama. Pareva che fosse stata toccata da una scarica
elettrica.
- Si sveglia, signore - disse il chitmudgar. - Fra poco tu saprai
tutto quello che vorrai. -
Un secondo fremito, più intenso del primo, aveva fatto
sussultare la giovane indiana.
- Odi come respira più libera, signore? - disse il maggiordomo
che non staccava gli sguardi da Surama - È segno che il suo sonno
sta per finire. -
D'un tratto Surama s'alzò di colpo a sedere, aprendo gli occhi.
Il suo viso, sotto l'influenza di quella strana pozione
somministratale dal chitmudgar era alterato e le sue pupille
apparivano straordinariamente dilatate.
Si guardò intorno con vivo stupore, fermando poi lo sguardo sui
due uomini che le stavano presso, muti ed immobili.
- Dove sono io? - chiese. - Questa non è la mia stanza! -
Parve però che quel lampo di lucidità subito si spegnesse,
poiché si portò una mano alla fronte, come se cercasse di
risvegliare dei lontani ricordi.
- Yanez! Mio sahib bianco! - esclamò dopo alcuni istanti. -
Perché non ti vedo presso di me? Il rajah ha sempre bisogno di te?
- Yanez! - mormorò il ministro, guardando il chitmudgar. - Chi
sarà?
- Taci signore e lasciala parlare per ora - rispose il
maggiordomo. - La interrogherai più tardi. -
Surama continuava a passarsi e ripassarsi la destra sulla fronte.
I suoi occhi parevano seguissero qualche visione, perché li teneva
sempre fissi dinanzi a sé.
- Yanez, - riprese dopo un nuovo e più lungo silenzio. - Perché
non vieni? Ho fatto un triste sogno l'altra notte, mio adorato sahib
bianco.
Un brutto uomo, un fakiro, è entrato nella mia casa e mi ha
guardato a lungo. Diceva che un nemico aveva lanciato su di me il
mal occhio! Che sia vero? Vieni amico, io ho paura, molta paura.
La pietra di Salagraman e la kala bâgh non ti saranno fatali? Le
corone costano troppo care!
- Le corone! - mormorò il ministro aggrottando la fronte. - Di
quali intende parlare questa fanciulla? Chitmudgar apri bene gli
orecchi.
- Non perdo una sillaba. -
Surama aveva avuto in quel momento un improvviso accesso di
collera.
- Maledetto fakiro! - aveva gridato tendendo le pugna. - Non era
vero che quel vecchio sconosciuto aveva gettato sulla mia casa il
mal occhio! Tu eri stato pagato dal rajah o dall'avventuriero che
cerca la rovina del mio sahib bianco!
- Odi? - chiese il ministro.
- Sì, - rispose il chitmudgar.
- L'avventuriero deve essere il favorito.
- Certo, signore. Taci, lasciala parlare. -
Surama continuava a passarsi la destra sulla fronte che appariva
imperlata di sudore. Il bâng operava, esaltandola a poco a poco.
Vi fu un altro lungo silenzio, poi la giovane ravviandosi con una
mossa nervosa i lunghi capelli neri continuò, guardando sempre
dinanzi a sé:
- Perché la Tigre della Malesia e Tremal-Naik non vengono in mio
aiuto? Sono uomini forti che hanno vinta e uccisa la Tigre
dell'India, il terribile Suyodhana che faceva tremare anche il
governo del Bengala! Uscite dal tempio sotterraneo, venite, uccidete,
distruggete! Yanez vuole la corona dell'Assam per darla a me! Chi
vincerà voi che avete fatto tremare l'intero Borneo? Il Re del Mare
è stato vinto, ma a quale prezzo? Voi siete degli eroi della Sonda!
- Riesci a comprendere qualche cosa tu, chitmudgar? - chiese il
ministro del rajah che cadeva di sorpresa in sorpresa.
- No, signore.
- Che il tuo bâng l'abbia fatta impazzire?
- È impossibile.
- Che cosa dice dunque questa fanciulla?
- Aspettiamo.
- Parla d'una corona però.
- E di quella dell'Assam.
- Che mistero è questo?
- Abbi pazienza, signore. Forse si spiegherà meglio. -
Surama si era nuovamente alzata ed i suoi sguardi si erano
fissati, per la seconda volta, sul ministro.
- Tu non sei il sahib bianco - gli disse. - Che cosa fai qui? -
Il chitmudgar fece un segno come per dire:
- Interroga pure.
- No, - disse il ministro - io non sono il sahib bianco, però
sono un suo fedelissimo amico.
- Perché non vai allora ad avvertire la Tigre della Malesia?
- Chi è?
- Il più formidabile uomo delle isole della Sonda, - rispose
Surama.
- Le isole della Sonda! Dove si trovano quelle terre?
- Là dove il sole nasce.
- Quell'uomo viene dunque da lontano.
- Molto da lontano: il Borneo non è vicino all'India.
- E che cosa faceva quell'uomo laggiù?
- Combatteva sempre.
- Col sahib bianco?
- No, contro gli inglesi ed i thugs di Rajmangal. -
Il ministro che non comprendeva nulla, non essendo gli indiani
troppo forti in geografia, guardò il chitmudgar, ma questi gli fece
un segno imperioso che voleva dire "continua".
- Rajmangal? - proseguì il ministro. - Dov'è?
- Nel Bengala - rispose Surama.
- Ed il sahib bianco ha ucciso il capo dei thugs?
- Non lui: è stata la Tigre della Malesia.
- E dov'è questa Tigre? Io non l'ho veduta alla corte del rajah.
- Oh no! È nella pagoda sotterranea coi suoi malesi.
- Dov'è questa pagoda?
- Di fronte all'isola... a quell'isola dove hanno rubata la
pietra di Salagraman.
- Chi l'ha rubata?
- Yanez.
- Ancora questo nome misterioso, - mormorò il ministro. - Chi
sono dunque quegli uomini? -
Poi alzando la voce proseguì:
- Sai il nome di quella pagoda?
- No: so solo che è scavata in una collina che strapiomba nel
fiume.
- Di fronte alla pagoda di Karia, è vero?
- Sì, sì, così mi hanno detto.
- Chi l'abita?
- Degli uomini che non sono indiani.
- Molti?
- Non lo so, - rispose Surama.
- Perché sono venuti qui?
- Per la corona.
- Quale corona?
- Dell'Assam. -
Il ministro ed il chitmudgar si guardarono l'un l'altro con
spavento.
- Una qualche congiura si sta certamente tramando contro il rajah
- disse il primo.
- Continua a interrogarla, signore - rispose il secondo.
- Ho paura di saper troppe cose.
- Si tratta forse della vita del rajah. -
Il ministro si rivolse verso Surama la quale non cessava di
guardare dinanzi a sé.
- Signora, - le disse, - chi guida quegli uomini? -
Questa volta Surama non rispose.
- Mi hai udito? - chiese il ministro.
La giovane agitò le labbra come se volesse parlare, poi ricadde
pesantemente sul letto, chiudendo gli occhi.
- Il sonno l'ha ripresa, - disse il chitmudgar. - Non potrai
sapere più nulla, signore.
- E domani?
- Bisognerebbe somministrarle una nuova dose di bâng e di
benafuli, ma io non oserò.
- Perché?
- Potrebbe non risvegliarsi più mai. Non si può scherzare
impunemente coll'oppio.
- Ne so abbastanza d'altronde, - mormorò il ministro. - Andiamo
ad avvertire subito il favorito e prendiamo le nostre misure per
sorprendere quei misteriosi congiurati.
Fortunatamente abbiamo i seikki e quelli sono guerrieri che non
hanno paura di nessuno.
- Date prima i vostri ordini, signore - disse il maggiordomo.
- Lasciala riposare tranquilla e se si sveglia trattala coi
dovuti riguardi. Può essere sotto la protezione del governatore del
Bengala ed il rajah non ha alcun desiderio di far entrare gli
inglesi in questa faccenda.
Domani puoi venire alla corte?
- Sì, mio signore. Ho un fratello che fa il chitmudgar.
- Veglia attentamente.
- Tutti i servi sono stati armati. -
Il ministro uscì accompagnato dal maggiordomo e scese nel
giardino che si estendeva dietro alla casa.
Otto uomini, tutti armati, stavano intorno ad uno di quei
palanchini chiamati dâk con due portatori di torce.
- Al palazzo del rajah, - comandò il ministro. - Presto: ho
molta fretta. - |