Yanez, appena gettatosi in acqua, si era messo a nuotare
vigorosamente, seguendo la corrente, immaginandosi che solamente in
quel modo avrebbe potuto trovare il canale di sfogo e rimontare alla
superficie.
Prima d'abbandonarsi non si era dimenticato di riempirsi per bene
i polmoni d'aria, ignorando quanto avrebbe potuto durare
quell'immersione sotto le ultime volte del tempio.
Il cofano che portava legato al dorso, gli dava non poco fastidio,
tuttavia non disperava di ritornare alla superficie, essendo sicuro
delle proprie forze e della propria abilità come nuotatore.
Credendosi ormai fuori dalle volte, aveva tentato di spingersi in
alto, e non senza provare un brivido di terrore, aveva urtato sempre
il capo contro una massa resistente.
- Mi pare che la faccenda diventi un po' seria, - aveva pensato,
raddoppiando le battute delle mani e dei piedi.
Percorsi altri quindici o venti passi, sempre assordato dai
muggiti della corrente che cercava travolgerlo, e sentendosi ormai i
polmoni esausti, ritentò l'ascensione, appoggiandola con due
vigorosi colpi di tallone.
La sua testa emerse senza trovare più alcun ostacolo. Le volte
non esistevano più e si trovava quasi in mezzo all'immenso fiume, a
più di duecento passi dall'isolotto.
Aspirò una gran boccata d'aria e si rovesciò sul dorso per
prendere un po' di riposo.
Il sole non era ancora sorto, però le tenebre cominciavano a
diradarsi. L'alba non doveva essere lontana.
- Cerchiamo di raggiungere subito la riva, - disse. - Prima che
il giorno sorga è meglio trovarci al sicuro nel tempio sotterraneo.
I malesi e i dayachi ci saranno forse già, se non hanno preferito
aspettarci nella bangle. Spero che non avranno commessa l'imprudenza
d'aspettarci.
Orsù! Quattro buoni colpi e attraversiamo il fiume prima che il
cielo si rischiari e che i sacerdoti della pagoda mi scorgano. -
Si era rivoltato e stava per scivolare silenziosamente fra due
acque, quando sentì un urto che lo fece indietreggiare di qualche
passo.
- Chi mi assale? - si chiese. - Qualche coccodrillo? -
Levò precipitosamente il kriss e cercò di rimanere immobile.
Quasi subito vide ergersi dinanzi a lui una brutta testa piatta,
di dimensioni simili press'a poco a quella d'un pesce-cane, con una
bocca larghissima, armata d'un gran numero di denti acutissimi,
fornita agli angoli di certi baffi lunghi quasi due piedi, che
davano uno strano aspetto.
- Per Giove! - esclamò il portoghese. - Io conosco queste brutte
bestie e non ignoro quanto siano voraci. Non sapevo che anche nei
fiumi dell'India vi fossero delle balene d'acqua dolce! In guardia,
amico Yanez: valgono i coccodrilli. -
Non si trattava veramente d'una balena, quantunque a quei pesci
abbiano dato quel nome che nulla giustifica, bensì d'uno squalo
d'acqua dolce e meglio ancora d'un siluros glanis.
Balena, squalo, o siluro, l'avversario era terribile, poiché
quei pesci che si trovano solamente nei grossi fiumi, sono d'una
voracità incredibile e non esitano ad assalire l'uomo e anche a
divorarselo.
Sono brutti mostri che misurano dai due ai tre metri, col corpo
molto allungato che li fa rassomigliare un po' alle anguille, che
come abbiamo detto hanno una bocca larghissima e poderosamente
armata, guernita ai lati di sei peli lunghissimi, che pare siano
destinati ad attirare i pesci.
Forti e audaci, costituiscono un vero pericolo anche per gli
esseri umani. Che un ragazzo si bagni ed il siluro abbandonerà
subito la melma, dove abitualmente si riposa, per assalirlo e
divorarlo talvolta intero.
Nemmeno gli animali sono risparmiati. Che sopravvenga una piena
ed ecco lo squalo d'acqua dolce dare la caccia alle bestie che
avranno trovato rifugio sulle piante e a gran colpi di coda farle
cadere nella sua terribile bocca.
Yanez, che aveva conosciuto quei pericolosi abitanti dei fiumi
nei grandi corsi del Borneo, si era subito posto in guardia per non
perdere qualche braccio, o ricevere qualche tremendo colpo di coda.
Il siluro dopo aver mostrata la sua testa, coperta da una viscida
pelle di colore verdastro, erasi subito rituffato ma non aveva
tardato a ricomparire, muovendo contro il portoghese.
Essendo però tali squali piuttosto lenti nelle loro mosse, Yanez
aveva avuto il tempo di lasciarsi calare a picco per evitare
l'attacco.
Il siluro non aveva tardato a seguirlo. Aveva però di fronte un
avversario degno di lui. Si era appena immerso che il portoghese lo
assalì piantandogli il kriss fra le pinne pettorali.
Fatto il colpo, Yanez chiuse le gambe lasciandosi portare dalla
corrente per parecchi metri, tenendosi sempre sott'acqua; poi con
due bracciate rimontò a galla e con non poca sorpresa, urtò contro
un corpo duro che lo obbligò ad immergersi di nuovo.
- Un altro squalo d'acqua dolce? - si era chiesto. - Ed io che ho
lasciato il mio pugnale nel petto dell'altro!... -
Si spinse più innanzi rattenendo il respiro, poi risalì ancora.
Tornò a urtare, non già colla testa, bensì con una spalla e finì
per emergere.
- Ah! Diavolo! - esclamò. - Che cos'è questo? Una lampada, per
Giove! Che odore! -
Quattro o cinque uccellacci, che avevano le penne nere e becchi
immensi, si erano alzati volandosene via.
- I marabù! - aveva esclamato Yanez. - Allora qui vi è un
cadavere! -
Solo in quel momento si era accorto di aver presso di sé una
tavola lunga un paio di metri e larga uno, ad una delle cui
estremità bruciava una piccola lampada d'argilla.
- Questo è un feretro abbandonato alla corrente, - mormorò. -
Che incontro poco allegro! Dopo tutto mi aiuterà a reggermi a galla.
-
Allungò le mani e s'aggrappò a quella strana bara che la
corrente trasportava. Uno sternuto vigoroso lo colse.
- Ah! Per Giove! Vi è un morto! Dannati indiani! Col loro sacro
Gange cominciano ad annoiarmi. -
Infatti, steso su quella funebre tavola, destinata a raggiungere
il Gange, si trovava il cadavere di un vecchio indiano, quasi nudo,
con una lunga barba bianca, ridotto però in uno stato orribile.
I marabù gli avevano strappati gli occhi, divorata la lingua,
squarciato il ventre per divorargli gl'intestini e da quelle ferite
usciva un odore nauseante che rivoltava lo stomaco.
- Puoi andare a finire nel Gange anche senza questa tavola che è
più necessaria a me che a te - disse Yanez. - E poi il tuo profumo
non mi piace affatto. Va' e buon viaggio! -
Con una spinta vigorosa gettò il cadavere in acqua assieme alla
lampadina e si issò sulla tavola.
- Cerchiamo ora di orientarci, - mormorò. - Gli altri penseranno
a mettersi in salvo come potranno.
Già, di Sandokan, di Tremal-Naik e dei miei uomini sono sicuro.
-
Si,guardò intorno e gli parve di riconoscere la riva destra.
- È là che devo sbarcare, - disse.
Si gettò bocconi sulla tavola e servendosi delle mani come di
remi, guidò il galleggiante funebre attraverso il fiume.
La corrente non era forte, avendo quasi tutti i corsi d'acqua
dell'India pochissima pendenza, sicché gli riuscì facile
raggiungere la riva.
Abbandonò la tavola e prese terra. In quel luogo non vi erano
che delle risaie: capanne, nemmeno una.
- Rimontando verso levante giungerò al tempio sotterraneo, -
mormorò. - Non deve essere molto lontano.
Affrettiamoci, o desterò una pericolosa curiosità io, uomo
bianco, senza giacca e senza stivali e con un bagaglio sulle spalle.
-
Si mise rapidamente in marcia, seguendo sempre la riva, che era
fiancheggiata da grossi alberi fra i cui rami cominciavano già a
volteggiare delle singalika, quelle magrissime scimmie che sono
così numerose in India, alte quasi un metro, con una specie di
barba, che dà a loro uno strano aspetto e che sono lo spavento dei
poveri contadini, ai quali distruggono senza misericordia i raccolti.
Yanez, che vedeva, non senza inquietudine, approssimarsi l'alba,
affrettava il passo. Aveva già oltrepassata l'isola su cui sorgeva
la pagoda di Karia, non doveva quindi essere molto lontano dal
tempio sotterraneo.
Di quando in quando s'arrestava un momento sperando di scorgere
la bangle e non vedeva invece altro che delle lunghe file di
grotteschi uccellacci, d'aspetto decrepito, semi-spelati, col becco
lunghissimo e robusto.
Erano i marabù che attendevano pazientemente il passaggio di
qualche cadavere, umano o animale, poco importava, per dargli
addosso ed in quattro e quattro otto farlo scomparire nei loro mai
pieni stomachi.
Il sole dardeggiava i suoi primi raggi sulle acque del
Brahmaputra, quando Yanez giunse dinanzi al tempio sotterraneo,
sulla cui porta vegliava un uomo, che aveva l'aspetto d'un fakiro.
- Ah! Signor Yanez! - esclamò quell'uomo alzandosi.
- Kammamuri! - aveva esclamato il portoghese.
- Nella pelle d'un biscnub, signore, - rispose il maharatto
ridendo - che non ha però rinunciato né alle ricchezze, né ai
piaceri della vita, né ai beni di questo mondo come i miei
correligionari.
- Sono tornati?
- Il signor Sandokan ed il mio padrone? Vi aspettano a colazione
da una buona mezz'ora.
- E gli altri?
- Vi sono tutti. Sono giunti su una bangle.
- Ed il ministro?
- È sempre al sicuro, ma ho paura che quel povero diavolo muoia
di spavento.
- I tuoi compatriotti hanno la pelle troppo dura per andarsene
così presto in grembo a Siva o a Brahma. -
S'aprì il passo fra i cespugli che nascondevano l'entrata e si
cacciò nei corridoi del tempio, che erano guardati da malesi e da
dayachi armati di carabine e di scimitarre.
Quando giunse nell'ultima stanza, che già abbiamo descritta e
che era sempre illuminata dalla lampada non avendo alcuna finestra,
trovò seduti dinanzi alla tavola Sandokan, Tremal-Naik ed il
ministro.
- Finalmente! - esclamò il primo. - Stavo per mandare alcuni
uomini a cercarti, quantunque io non dubitassi che ci avresti
raggiunti.
- Non ho potuto raggiungere la bangle. Di ciò parleremo più
tardi. Lascia che mi cambi, ché gocciolo da tutte le parti e fa'
portare la colazione.
Quel bagno mi ha messo indosso un appetito da tigre.
- E metti al sicuro la tua famosa conchiglia, - disse Tremal-Naik.
- Dopo: bisogna che il signor ministro la veda. -
Passò in una stanza attigua e si cambiò rapidamente, indossando
un vestito di flanellina bianca, assai leggera.
Quando rientrò, la tiffine, o colazione fredda all'inglese, era
pronta: carne, birra, biscotti. Il cuoco però aveva aggiunta una
terrina di carri per S. E. il ministro, non mangiando carne di bue
gli indiani.
- Mangiamo per ora, - disse Yanez - e voi, Eccellenza,
rasserenate un po' il vostro viso e bevete pure la nostra birra.
Vi do la mia parola che non contiene, questa, nessun pezzetto di
grasso di mucca. -
Invece di rasserenarsi, il ministro si fece ancor più oscuro in
viso, nondimeno non respinse il carri che Yanez gli offriva, né una
tazza di birra.
Mentre mangiavano con un appetito invidiabile, i due pirati della
Malesia e Tremal-Naik, si raccontavano le avventure a loro toccate
durante la perigliosa evasione.
Anche Sandokan e l'indiano avevano avuto da fare non poco a
uscire dalle volte sommerse, ma più fortunati del portoghese non
avevano incontrata nessuna balena d'acqua dolce ed avevano potuto
raggiungere felicemente la bangle dove avevano già trovati i
dayachi ed i malesi.
Temendo di venire da un momento all'altro sorpresi dai sacerdoti,
non avevano indugiato a prendere il largo, convinti che Yanez se la
sarebbe facilmente cavata da sé.
Quando la colazione fu terminata Yanez accese, come di consueto,
l'eterna sigaretta, mise il cofano dinanzi al ministro e l'aprì
levando la preziosa conchiglia.
- È questa, proprio questa la famosa pietra di Salagraman? -
chiese al ministro che la guardava sbigottito. - Rispondetemi
Eccellenza. -
Kaksa Pharaum fece col capo un cenno affermativo.
- Uditemi ora e badate di non rispondermi con dei soli cenni.
Esigo da voi delle importanti dichiarazioni.
- Ancora? - brontolò il ministro, che sembrava di pessimo umore.
- Ci tiene molto il re a possedere questa pietra di Salagraman?
- Più di voi certo, - rispose Kaksa Pharaum. - Come si
potrebbero fare le processioni senza quella preziosa reliquia, che
tutti i gurum c'invidiano?
- Qual è la prossima processione che si farà in pubblico? Voi
indiani ne eseguite molte durante l'anno.
- Quella del maddupongol.
- Che cos'è?
- È la festa delle vacche, - disse Tremal-Naik - che si
solennizza nel decimo mese di tai, ossia del vostro gennaio, per
festeggiare il ritorno del sole nel settentrione e che fa seguito al
gran-pongol ossia alla festa del riso bollito nel latte.
- È vero, - disse il ministro.
- Quando deve scadere? - chiese Yanez.
- Fra quattro giorni.
- Benissimo: per quel giorno il rajah avrà la sua pietra di
Salagraman. -
Il ministro aveva fatto un soprassalto, guardando Yanez cogli
occhi dilatati dal più intenso stupore.
- Volete scherzare, mylord? - chiese.
- Niente affatto, Eccellenza - rispose Yanez. - Vi do la mia
parola d'onore che la pietra ritornerà, per mezzo del principe,
nella pagoda di Karia.
- Io non comprendo più nulla, - disse Kaksa Pharaum.
- Ed io meno di voi, - aggiunse Sandokan che fumava il suo cibuc
senza aver, fino allora, preso parte alla conversazione.
- Abbi un po' di pazienza, fratellino - disse Yanez. - Ditemi ora
Eccellenza, faranno delle ricerche per scoprire gli autori del
furto?
- Metteranno a soqquadro la città intera e lanceranno nelle
campagne tutta la cavalleria, - rispose Kaksa Pharaum.
- Allora possiamo essere sicuri di non venire disturbati, - disse
il portoghese sorridendo. - Sono già le otto: possiamo andare a
trovar Surama e fare un giro per la città.
Vedremo così l'effetto che avrà prodotto il furto della famosa
pietra. -
Staccò dalla parete un altro paio di pistole, che si mise nella
larga fascia rossa, si mise in testa un elmo di tela bianca adorno
d'un velo azzurro, che gli dava l'aspetto d'un vero inglese in
viaggio attraverso il mondo e fece atto d'uscire insieme a Sandokan
ed a Tremal-Naik che si erano pure provveduti d'armi.
- Mylord, - disse il ministro, - ed io?
- Voi, Eccellenza, rimarrete qui sotto buona guardia. Non abbiamo
ancora terminato le nostre faccende, e poi se vi mettessimo in
libertà, correreste subito dal principe.
- Io mi annoio qui ed ho molti affari importanti da sbrigare.
Sono il primo ministro dell'Assam.
- Lo sappiamo, Eccellenza. D'altronde se volete cacciare la noia,
fumate, bevete, e mangiate. Non avete altro che da ordinare. -
Il povero ministro, comprendendo che avrebbe perduto inutilmente
il suo tempo, si lasciò ricadere sulla sedia mandando un sospiro
così lungo che avrebbe commossa perfino una tigre, ma che non ebbe
nessun effetto sull'animo di quel diavolo di portoghese.
Quando furono fuori del tempio, trovarono Kammamuri sempre seduto
dinanzi ad un cespuglio, col suo berretto rosso ed azzurro sul capo,
il corpo avvolto in un semplice pezzo di tela, con una corona ed un
bastone in mano: era il costume dei fakiri biscnub, specie di
pellegrini erranti che sono però tenuti in molta considerazione
nell'India, avendo quasi tutti appartenuto a classi agiate.
- Nulla di nuovo, amico? - gli chiese Yanez.
- Non ho udito che le urla stonate d'un paio di sciacalli i quali
si sono divertiti a offrirmi, senza richiesta, una noiosissima
serenata.
- Seguici a distanza e raccogli le dicerie che udrai. Se non
potrai seguire il nostro mail-cart non importa. Ci rivedremo più
tardi.
- Sì, signor Yanez. -
Il portoghese ed i suoi due amici si diressero verso un gruppo di
palme dinanzi a cui stava fermo uno di quei leggeri veicoli chiamati
dagli anglo-indiani mail-cart, che vengono usati per lo più nei
servizi postali.
Era però di dimensioni più vaste degli ordinari, e sulla cassa
posteriore vi potevano stare comodamente anche tre persone invece
d'una.
Era tirato da tre bellissimi cavalli che pareva avessero il fuoco
nelle vene e che un malese penava a frenare.
Yanez salì al posto del cocchiere, Sandokan e Tremal-Naik di
dietro e la leggera vettura partì rapida come il vento, avviandosi
verso le parti centrali della città.
I mail-cart vanno sempre a corsa sfrenata come le troike russe e
tanto peggio per chi non è lesto a evitarle.
Attraversano le pianure come uragani, salgono le più aspre
montagne, le discendono con eguale velocità, specialmente quelle
adibite al servizio della posta. Sono guidate da un solo indiano,
munito d'una frusta a manico corto, che non lascia un momento in
riposo, perché non deve arrestarsi per nessun motivo.
Quelle corse però non sono scevre di pericoli. Avendo quelle
vetture le ruote alte e la cassa senza molle, subiscono dei trabalzi
terribili e se uno volesse parlare correrebbe il rischio di
troncarsi, coi propri denti, la lingua. Yanez, come abbiamo detto,
aveva lanciato quella specie di birroccio a gran corsa, facendo
scoppiettare fortemente la frusta per avvertire i passanti a tenersi
in guardia.
I tre cavalli, che balzavano come se avessero le ali alle zampe,
divoravano lo spazio come saette, nitrendo rumorosamente.
Bastarono dieci minuti perché il mail-cart si trovasse nelle vie
centrali di Gauhati.
Yanez ed i suoi compagni notarono subito un'animazione insolita:
gruppi di persone si formavano qua e là discutendo animatamente,
con larghi gesti e anche sulle porte dei negozi era un bisbigliare
incessante fra i proprietari ed i loro avventori.
Si leggeva sul viso di tutta quella gente impresso un vero
sgomento.
Yanez, che aveva frenati i cavalli onde non storpiare qualche
passante, si era voltato verso i suoi due amici strizzando loro
l'occhio.
- La terribile notizia si è già sparsa, - rispose la Tigre
della Malesia, sorridendo. - Dove ci conduci?
- Da Surama per ora.
- E poi?
- Vorrei vedere quel maledetto favorito del rajah, se mi si
presentasse l'occasione.
- Uhm! Sai che il principe non vuol vedere nessun inglese alla
sua corte.
- Eppure dovrà ricevermi e con grandi onori, - disse Yanez.
- Ed in quale maniera?
- Non ho forse la pietra in mia mano?
- Che diventi un talismano?
- Fors'anche di più, mio caro Sandokan. Oh! Che cosa c'è? -
Due indiani s'avanzavano fra la folla, l'uno lanciando di quando
in quando delle note rumorose che ricavava da una lunghissima tromba
di rame e l'altro che scuoteva furiosamente una gautha, ossia uno di
quei campanelli di bronzo ornati con una testa che ha due ali e che
vengono adoperati nelle cerimonie religiose per convocare i fedeli.
Li seguiva un soldato del rajah, con ampi calzoni bianchi, la
casacca rossa con alamari gialli e che portava una bandiera bianca
con nel mezzo dipinto un elefante a due teste.
- Questi sono araldi del principe, - disse Tremal-Naik. - Che
cosa annunceranno?
- Io lo indovino di già, - disse Yanez, fermando la vettura. -
È una cosa che riguarda noi. -
I tre araldi, dopo aver assordato i vicini che si erano radunati
in gran numero attorno a loro, si erano pure fermati ed il soldato
che doveva avere dei polmoni di ferro, si era messo a urlare:
"S. M. il principe Sindhia, signore dell'Assam, avverte il
suo fedele popolo che offrirà onori e ricchezze a chi saprà dare
indicazioni sui miserabili che hanno rubata la pietra di Salagraman
dalla pagoda di Karia. Ho parlato per la bocca del potentissimo
rajah".
- Onori e ricchezze, - mormorò Yanez. - A me basteranno i primi
per ora. Il resto verrà più tardi, te lo assicuro, mio caro
Sindhia.
Quelle però saranno per la mia futura moglie. -
Lasciò passare i banditori che avevano ripresa la loro musica
infernale e lanciò i cavalli a piccolo trotto, percorrendo
successivamente parecchie vie molto larghe, cosa piuttosto rara
nelle città indiane che hanno stradicciuole tortuose come quelle
delle città arabe e anche poco pulite.
- Ci siamo, - disse ad un tratto, fermando con uno strappo
violento i tre ardenti corsieri.
Si era fermato dinanzi ad una casa di bella apparenza, che
sorgeva, come un gran dado bianco, fra otto o dieci colossali tara
che l'ombreggiavano da tutte le parti.
Solo a vederla si capiva che era un'abitazione veramente
signorile, essendo perfettamente isolata ed avendo porticati, logge
e terrazze per poter dormire all'aperto durante i grandi calori.
Tutte le abitazioni dei ricchi indù sono bellissime e tenute
anche con molta cura. Devono avere cortili, giardini, cisterne
d'acqua e fontane non solo nelle stanze bensì anche all'entrata e
grandi ventole mosse a mano dai servi onde regni una continua
frescura.
Devono anche avere intorno delle piccole kas khanays ossia
casette di paglia o piuttosto di radici odorose, costruite nel mezzo
d'un tratto di terra erbosa e sempre in prossimità d'una tank ossia
fontana onde la servitù possa comodamente lavarsi.
Udendo il fracasso prodotto dai tre cavalli, due uomini vestiti
come gl'indiani che però dalla tinta della loro pelle e dai tratti
del viso, duri e angolosi si riconoscevano anche di primo acchito
per malesi, erano subito usciti dalla casa salutando con un goffo
inchino Yanez ed i suoi due compagni.
- Surama? - chiese brevemente il portoghese saltando a terra.
- È nella sala azzurra, capitano Yanez, - rispose uno dei due
malesi.
- Occupatevi dei cavalli.
- Sì, capitano. -
Salì i quattro gradini seguito da Tremal-Naik e da Sandokan e
attraversato un corridoio si trovò in un vasto cortile, circondato
da eleganti porticati sorretti da esili colonne.
Nel mezzo, da una grande coppa di pietra, zampillava altissimo un
getto d'acqua.
Yanez passò sotto il porticato di destra e si fermò dinanzi ad
una porta dove stavano raggruppate delle ragazze indiane.
- Avvertite la padrona, - disse loro.
Una giovane aprì invece senz'altro la porta, dicendo:
- Entra, sahib: ti aspetta. -
Yanez ed i suoi compagni si trovarono in un elegantissimo salotto
che aveva le pareti tappezzate di seta azzurra ed il pavimento
coperto da un sottile materasso che si estendeva fino ai quattro
angoli.
Tutto all'intorno vi erano dei divanetti di seta, con ricami
d'oro e d'argento di squisita fattura, e larghi guanciali di raso
fiorato appoggiati contro le pareti onde i visitatori potessero
sdraiarvisi comodamente.
All'altezza d'un metro, s'aprivano nelle muraglie parecchie
nicchie dove si vedevano dei vasi cinesi pieni di fiori che
esalavano acuti profumi.
Mobili nessuno, eccettuato uno sgabello collocato proprio nel
mezzo della stanza su cui stavano dei bicchieri ed un fiasco di
vetro rosso racchiuso entro un'armatura d'oro cesellata, e col collo
lunghissimo.
Una bellissima giovane, dalla pelle leggermente abbronzata, dai
lineamenti dolci e fini, cogli occhi nerissimi ed i capelli lunghi
intrecciati con fiori di mussenda e gruppettini di perle, si era
prontamente alzata.
Uno splendido costume tutto di seta rosa, con ricami azzurri,
copriva il suo corpo sottile come un giunco, pur essendo
squisitamente modellato, lasciando vedere l'estremità dei
calzoncini di seta bianca che s'allargavano su due graziose babbucce
di pelle rossa con ricami d'argento e la punta rialzata.
- Ah! Miei cari amici! - aveva esclamato, muovendo a loro
incontro colle mani tese.
- Anche tu, Tremal-Naik! Come sono felice di rivederti! Lo sapevo
già che non saresti rimasto sordo all'appello dei tuoi vecchi
compagni!
- Quando si tratta di dare un trono a Surama, Tremal-Naik non
rimane inoperoso, - rispose il bengalese stringendo calorosamente la
piccola mano della bella indiana. - Se Moreland e Darma non fossero
in viaggio per l'Europa sarebbero qui anche loro.
- Come l'avrei veduta volentieri tua figlia Darma!
- La riceverai alla tua corte, quando tornerà, - disse Yanez. -
Orsù, Surama, da' da bere agli amici.
Le vie di Gauhati sono molto polverose e la gola si secca presto.
- A te, mio dolce signore, il tuo liquore favorito - disse la
giovane indiana prendendo il fiasco ed empiendo i bicchieri di
cristallo rosa d'un liquore color dell'ambra.
- Alla salute della futura principessa dell'Assam, - disse
Sandokan.
- Non così presto, - rispose Surama, ridendo.
- E che! Vorresti tu, piccina, che noi avessimo lasciato il
Borneo ed i nostri prahos e gli amici per venire a vedere solamente
le bellezze poco interessanti della tua futura capitale?
Quando noi ci muoviamo facciamo sempre qualche grosso guasto, è
vero Yanez?
- Non siamo sempre noi le vecchie tigri di Mompracem? - rispose
il portoghese. - Dove piantiamo le unghie la preda non scappa più.
Ne vuoi una prova? Abbiamo già nelle nostre mani la famosa
pietra di Salagraman.
- Quella del capello di Visnù?
- Sì, Surama.
- Di già?
- Diamine! Mi era necessaria per introdurmi a corte.
- Ed il merito è tutto del tuo fidanzato, - disse Sandokan. -
Yanez invecchia ma la sua straordinaria fantasia rimane sempre
giovane.
- E potremo finalmente conoscere i tuoi famosi disegni? - chiese
Tremal-Naik. - Io continuo a rompermi inutilmente la testa e
guastarmi il cervello senza riuscire a trovare alcuna relazione fra
quella dannata conchiglia e la caduta del rajah.
- Non è ancora tempo, - rispose Yanez. - Domani però saprai
qualche cosa di più.
- È inutile che tu lo tenti, amico Tremal-Naik, - disse
Sandokan. - Noi ne sapremo qualche cosa quando sarà giunto il
momento di rovesciare contro le guardie reali i nostri trenta uomini
e di sguainare le nostre scimitarre. È vero, Yanez?
- Sì - rispose il portoghese, sorridendo. - Quel giorno non
sarà però molto vicino.
Con quel Sindhia dovremo procedere molto cautamente. Non dobbiamo
dimenticarci che siamo soli qui e che non possiamo contare
sull'appoggio del governo inglese.
Non dubitiamo però sull'esito finale. O Surama riavrà la corona
o noi non saremo più le terribili tigri di Mompracem.
- Ah mio signore! - esclamò la giovine indiana fissando sul
portoghese i suoi profondi e dolcissimi occhi. - Tu la dividerai con
me, è vero?
- Io! Sarai tu, fanciulla, che me ne darai un pezzo.
- Tutta insieme al mio cuore, Yanez.
- Sta bene, aspettiamo però di levarla, dalla testa di quel
briccone. Pagherà ben cara la cattiva azione che ti ha usata.
Lui ti ha venduta come una miserabile schiava ai thugs per fare
di te, principessa, una bajadera; un giorno venderemo anche lui.
- Purché non faccia la fine della Tigre dell'India, - disse
Sandokan con accento quasi feroce. - Ci sarò anch'io quel giorno! - |